domenica 29 gennaio 2023

E allora Musso - 29 gennaio 2023

Ultima trama di gennaio, e siamo ancora all’analisi di un singolo autore. Dopo tre classici, ora ci siamo messi alla lettura di un francese, moderno (e come direbbe Moretti, vivente). In pandemia lessi due libri di Guillaume Musso che mi fecero una buona e più che sufficiente impressione. Poi, per varie ed opposte ragioni, lo trascurai per un anno, ma la ripresa non fu così interessante come le prime letture. Solo ora, al ritorno da Parigi con in regalo la sua prima uscita, ancora inedita in Italia, riprende un po’ dello slancio. Si vedrà in futuro…   

Guillaume Musso “Central Park” Bompiani euro 12

[A: 18/09/2019 – I: 05/07/2021 – T: 07/07/2021] - &&& e ½

[tit. or.: Central Park; ling. or.: francese; pagine: 310; anno 2014]

Secondo libro delle veloci scritture di Musso, e, forse anche più del primo libro che ho letto, poco incasellabile in uno schema, in un percorso dato. Devo anche sottolineare che è un libro di scrittura precedente a quello letto lo scorso anno, e, forse, questo solco che qui inaugura lo porta all’altra scrittura e non viceversa.

Comunque, Musso sa tenere sul filo il lettore, lo coinvolge in un caleidoscopio di possibilità e di situazioni, portandolo in giro (non prendendolo, ovvio) a credere prima una cosa, poi un’altra, per poi, alla fine, disvelare molto altro, anche inaspettato.

Qui, i colpi di scena di certo non mancano. Personaggio centrale, Alice, poliziotta francese, che si sveglia una mattina su di una panchina, ammanettata ad una persona che non conosce. Non solo, ma Alice ricorda solo che la sera prima si era ubriacata con delle amiche. La prima sorpresa, oltre alle manette, è che il tizio si chiama Gabriel e sostiene che la sera prima stava suonando al Temple Bar di Dublino. Già questo spiazza la nostra poliziotta. Ma entrambi cadono dal pero, quando scoprono che la panchina su cui sono seduti si trova nel Central park di New York. Come hanno fatto ad arrivarci? E come fanno ad avere una pistola cui mancano dei colpi? Come possono fare per liberarsi? Una trama avvincente.

Ma che diventa sempre più forte e tenace con il passare delle pagine. Intanto scopriamo la vita di Alice. Polizotto durissimo che non molla mai, due anni prima si sposa con Paul e rimane incinta. Non solo ma segue con grande trasporto una vicenda di serial killer molto intricata. Sta per trovare il bandolo e l’assassino, ma si fa trovare impreparata, e da lì il baratro. Il killer la pugnala quasi a morte, uccidendo il bambino, lasciandola in fin di vita, e per correre all’ospedale per starle accanto, Paul sbanda, finisce nella Senna e muore. Terribile.

Ma ora Alice sembra trovare tracce del killer di cui sopra. E nonostante sia a New York, riesce a farsi aiutare dal suo secondo, Seymour, che sta a Parigi. Dopo una serie di colpi di scena che vi lascio leggere con calma, Gabriel si palesa: non è un jazzista, ma un agente dell’FBI che sta seguendo una pista di serial killer analoga a quella di Alice, come se il killer francese o si fosse spostato in America, o avesse un emulo, o, addirittura, un complice.

Anche qui, tralascio i passaggi intermedi, che servono a Musso ad incatenarci alla pagina. Si gira per New York, poi si trovano tracce che portano a Boston. Non solo, ma dalla pistola e dal sangue, sembra addirittura facile risalire ad un infermiere di uno sperduto ospedale nell’entroterra americano. Ma ci sono ulteriori elementi che destabilizzano Alice. Seymour le dice di non trovare traccia di come sia finita in America, e che, invece, trova un’altra vittima dove avrebbe dovuto esserci il corpo del killer (non vi dico perché). Ma Alice è un poliziotto pieno di risorse: si fa mandare il filmato della telecamera dove aveva lasciato la macchina. Ed alla guida c’è proprio Seymour. Non solo, le impronte digitali del killer, che lei aveva preso due anni prima, sono esattamente le stesse di Gabriel. È forse lui il killer che ha montato tutta la messa in scena, solo per trovare la sua vendetta definitiva?

L’abilità di Musso è di fornirci l’ultima parte del libro che ribalta tutte le certezze, che ci fa rileggere tutte le prime duecento pagine in un’ottica diversa. E non in un’ottica brutta. Anzi, la parte finale, pur con qualche caduta (forse è la più debole, anche se sempre di buon livello), ci dice che non possiamo mollare l’osso prima di capire chi sia Alice, chi sia Seymour, chi sia Gabriel, e cosa è successo in tutto il romanzo.

La caduta finale, verso un possibile, ma non scontato, avvicinamento tra alcuni personaggi del libro, è appunto già prevista da tempo. Forse non banale, ma non è detto che ci stia bene al 100%. Ma il libro va preso nel suo complesso. Ed è un complesso decente e gradevole.

Non solo, ma in questi tempi di chiusure e di pochi viaggi, vedere New York, alcune passeggiate ed alcuni ponti, è un balsamo per i nostri cuori feriti.

Comunque, la chiave di tutto il giallo, che poi giallo forse non è, o forse non lo è tutto, da buon conoscitore di come vanno serviti i mix letterari, Musso la fornisce ad un certo punto, in un oscuro negozio newyorchese. E se siete attenti, vi darà la chiave per anticipare quello che poi inevitabilmente succede. Ben fatto, autore.

E ben fatti non solo gli incipit dei capitoli, ma la leggenda finale che ne spiega la provenienza. Se dico che avrei fatto così anch’io spero di non essere troppo presuntuoso.

Guillaume Musso “Un appartamento a Parigi” Repubblica Passione Noir 1 euro 7,90

[A: 18/06/2018 – I: 05/08/2021 – T: 08/08/2021] - &&& e ½

[tit. or.: Un appartement à Paris; ling. or.: francese; pagine: 380; anno 2017]

Al terzo libro di Musso che leggo, confermo di ritenerlo un autore interessante. Forse non sempre coglie tutti i bersagli, ed a volte si incarta troppo nel compiacersi di essere bravo. Tuttavia, ad ora, le idee alla base delle trame sono interessanti  stimolanti.

Come quella da cui parte questo libro, dal titolo variamente ammiccante, quasi fosse un libro della Casati Modignani. Invece, Parigi c’entra come scenario, non come luogo da “luci, cuore, amore”. Ed è la Parigi che amo, quella normale, di cui mi innamorai qualche decina di anni fa. Tra cui questa Rue du Cherche-Midi, strada tranquilla in Montparnasse, dietro i giardini del Lussemburgo, dove talvolta passeggiai, dopo un pranzo in uno dei miei locali preferiti, il ristorante Polidor in rue Monsieur-le-Prince, opposta alla precedente con i giardini in mezzo.

Per un disguido, in un appartamento della via di cui sopra capitano contemporaneamente i due protagonisti del libro. Uno, Gaspard Coutances è uno scrittore che in realtà odia Parigi, ma vi ritorna saltuariamente perché pare l’unico posto dove riesce a scrivere i suoi drammi teatrali. Lei, Madeline Greene, invece, è una poliziotta, specializzata nel trattamento dei problemi verso i minori, che ha deciso di prendersi un periodo di riposo a Parigi, prima di volare in Spagna per sottoporsi ad un intervento di fecondazione assistita, visto che vuole figli ma non ha partner.

La prima parte si gioca molto sul filo dell’ironia, contrapponendo la bella ed astuta Madeleine, pur dolente di un burrascoso recente passato, al tenebroso e solitario Gaspard, che odia la compagnia di chicchessia, tanto che sceglie queste case isolate al centro di Parigi, per isolarsi ancora di più. Ed ho trovato divertente il modo di Musso di porre in essere questo gioco delle parti.

Ovvio però che ci dev’essere qualcosa in più. Ed è così che i due nostri eroi scoprono che questo appartamento a Parigi era stata l’ultima dimora di un rinomato pittore, Sean Lorenz. Questi la usava come studio, e le luci ed i colori del posto sembrano fatti a posta per un amante delle belle arti. Lorenz è morto l’anno precedente, dopo una specie di discesa all’inferno. Il tutto era cominciato con il rapimento, a New York, della moglie e del loro figlio. Poi, dopo una serie di avvenimenti che vi consiglio di seguire, la moglie viene liberata ed il figlio non viene più trovato. Già questo basterebbe per stuzzicare la curiosità dei nostri.

Ma c’è di più. Pare che Lorenz, prima di morire, e non sappiamo se per suicidio, omicidio o consunzione, abbia confidato al suo agente di aver lasciato tre dipinti, che ora risultano misteriosamente scomparsi. Un mistero che stuzzica i nostri due eroi, che iniziano ad indagare. Gaspard perché lo ritiene un momento di vita affascinante, Madeline perché è nel suo DNA. Anche se lei, ad un certo punto, confessa di non farcela, di volersi tirare indietro.

Sarà Gaspard a farle rinascere la voglia di cercare, dopo che riescono a trovare i quadri perduti, molto più belli della precedente produzione di Lorenz, e con un messaggio criptico nascosto. Dalla ricerca dei quadri, Gaspard e Madeline iniziano allora a cercare di capire: i motivi del rapimento, i motivi della ricomparsa della sola moglie, se il figlio di Lorenz sia ancora vivo, quale sia in finale il messaggio dei quadri.

Tutta una serie di interrogativi che, ora, i nostri affronteranno insieme, recandosi anche a New York, teatro iniziale del dramma. Dove i fili si annodano, tutto viene spiegato (ma non vi dico come e perché). Comunque, e si può dire, ci sarà anche una sorta di lieto fine in un isola greca. Ma anche qui, che tipo, come, perché, quando, meglio leggerlo, che vale la pena.

Perché certo, non è un romanzo impegnativo e cerebrale, piuttosto direi ricreativo. Ma laddove c’è l’intelligenza, qualcosa salta fuori. Alcuni temi interessanti (la misoginia, la voglia di maternità, e qualche altro), ed un excursus nel mondo dell’arte. Nonché (e l’ho trovato bello perché rispecchia un mio sentire) l’incipit dei capitoli, con citazioni mirate (e già questo è un buon segno), ma soprattutto, spiegate nella loro provenienza in un riferimento bibliografico finale, che ho trovato di un’eleganza sontuosa.

Vi cito solo quella che ritengo migliore, pronunciata da Audrey Hepburn (bellissima) nel film “Sabrina”: “Parigi è sempre una buona idea”. Che dire? Concordo.

Quindi, un thriller nel thriller, una buon caratterizzazione umana, uno sguardo non banale sull’arte, un grande giro a Parigi, un assaggio americano, una scrittura gradevole. Insomma, un buon prodotto.

Guillaume Musso “E poi …” La nave di Teseo euro 12,50

[A: 22/08/2021 – I: 09/07/2022 – T: 10/07/2022] - && e ½

[tit. or.: Et après … ; ling. or.: francese; pagine: 388; anno 2003]

A quasi un anno dall’ultima lettura, torno ai libri di Musso. Anzi a quello che è stato il secondo  e che, per la critica e per il pubblico, viene ritenuto il suo miglior libro. Anche perché il primo libro che ha scritto non è mai arrivato in Italia, ed è introvabile anche in Francia.

Personalmente, l’ho trovato invece un po’ datato (scritto venti anni fa, e si sente in alcune parti poco scorrevoli), e con elementi di trama a volte troppo sopra le righe, e fuori da quel contesto del vivere che ho trovato gradevole e stimolante in altri libri.

Inseriamo intanto il libro nel contesto del suo concepimento. Nel 1999 Musso, da poco insegnante in un liceo di Montpellier, per ragioni di cuore si reca sovente a Nizza. Una sera, perde il controllo dell’auto, si sfracella in un incidente che poteva essere mortale, ma ne esce, con le ossa rotte ma vivo. Da lì comincia ad interrogarsi sulla vita e sulla morte, concependo e quindi delineando nel corso di qualche anno una storia che proprio su quegli interrogativi fonda la sua base narrativa.

Eccoci allora a questo “e poi…”, come giustamente i tipi di Teseo hanno ricondotto il titolo rispetto alla prima uscita italiana di cui parlerò in finale. La storia, rispetto alle successive di Musso, è poco noir, pur essendoci una domanda, inquietante, che insegue la trama per tutto il suo svolgimento. Ah, secondo elemento tipico di Musso (e non solo del primo) è l’ambientazione americana. Musso, a 18 anni, prima dell’Università, si trasferisce a New York affascinato dalla Grande Mela, e spesso e volentieri in America ambienta tutte o in parte le sue trame. Come questa, massimamente newyorchese con alcune punte nel Nord dei facoltosi, sopra il New Jersey.

Il protagonista, come l’autore, è di origini italiane, Nathan Del Amico (infelice scelta che non è di facile pronuncia né in italiano né in francese). Viene da una famiglia povera, con madre single, che trova la svolta nella vita andando a lavorare presso la famiglia Wexler. Facoltosi, lui grande avvocato, con una figlia Mallory più o meno coetanea di Nat. I due, solitari nella campagna dei Wexler, ovviamente si frequentano. Il momento clou è quando Mallory cade in acqua nel lago, Nat si tuffa per salvarla, come succede con successo, ma la fatica lo strema che affonda e praticamente annega. Ripescato, rimane a lungo in coma, per poi uscirne sotto le cure di un giovane medico.

Com’è come non è, Nat e Mallory si perdono di vista, si ritrovano, si frequentano, si amano, si sposano, mettono al mondo una figlia che chiameranno Bonnie. Dopo qualche anno, nasce anche un maschio, che però muore in culla una notte che Nat era solo in casa a lavorare. Perché Nat è diventato anche lui avvocato, di grande successo, tanto che sfiderà in una causa il suocero (che non lo ha mai accettato), vincendola e mettendo ancora più sul filo del rasoio i rapporti familiari. Che sono incrinati da quella morte, tanto che Mallory si trasferisce con Bonnie in California, e Nat rimane solo e pensoso a lavorare ed accumulare tristemente soldi.

Tutto ciò è un prologo ed un contorno, che l’elemento scatenante è la visita del misterioso dottor Garrett, che coinvolge Nat in una serie di scene dove, chi prima chi dopo, molte persone muoiono. Qui comincia anche la parte “favolistica”. Garrett confessa di essere un “Messaggero”, dotato del potere di vedere un aureola sulla testa delle persone che si avviano alla morte.

La vicinanza di Garrett, e gli episodi che si susseguono, fanno andare fuori di testa Nat, che, convinto di morire, comincia a raddrizzare le non molte storture che ha combinato nella vita. Un approccio più etico alla professione, un aiuto agli altri, lui sempre un po’ egotista, un riavvicinamento con il suocero (anche in base ad una serie di avvenimenti che non vi anticipo). Ma soprattutto, cerca con insistente tenacia, di riavvicinarsi a Mallory. Il loro era un allontanamento molto dovuto all’elaborazione del lutto. Ma nel profondo, si amano, si sono sempre amati.

Nat riuscirà a ricucire molto, sempre aiutato da Garrett che, ed era facile prevederlo, era il giovane medico che lo aiutò ad uscire dal coma. E che da quel giorno, Nat di 8 anni e Garrett di 26, cerca di rispondere alla domanda: per quale motivo Nat è tornato indietro da quella che sembrava una morte irreversibile?

Di certo, a voler essere buoni, è un libro che induce a riflettere sulla morte, traguardo che tutti, chi prima, chi poi, raggiungeremo. Quindi a ridar valore ad ogni attimo che si vive, laddove, qui forse l’autore un po’ semplicisticamente, ci dice che solo gli affetti contano nella vita. Certo, l’amore dà pienezza al nostro esistere, ma è un collante di tanti piccoli pezzi di puzzle che saranno il nostro io.

Nel 2008 ne è stato tratto un film, che non mi pare di molto successo, anche se aveva un buon John Malkovich nella parte del dottor Garrett.

Infine, per tornare all’accenno sui titoli, la prima traduzione italiana, di Sonzogno, nel 2005, portava l’infelice titolo “L'uomo che credeva di non avere più tempo”. Grazie ad Elisabetta Sgarbi di aver riportato il libro all’origine (ed agli scaffali).

Guillaume Musso “Salvami” La nave di Teseo euro 12,50

[A: 27/07/2021 – I: 14/01/2023 – T: 16/01/2023] - && e ½

[tit. or.: Sauve-moi; ling. or.: francese; pagine: 376; anno 2005]

Dopo un inizio senza troppa metodicità, ecco che, anche sotto la spinta di Ale cui sono piaciuti, mi sono dedicato ad una lettura più organica dei romanzi di Musso. Quindi, rimanendo sempre in attesa del primo, non ancora tradotto in italiano, eccoci ora ad affrontare il terzo libro pubblicato. Sempre con la sua scrittura che discretamente cattura, anche se la trama lascia un po’ a desiderare, come si evince dal mio giudizio globale.

Inoltre, sembra pure mantenersi molto nel solco precedente, per quanto riguarda presenze strane, anche se qui passiamo da protagonisti qualificati come “messaggeri” a co-protagonisti etichettati come “emissari”, e probabilmente il cambio è in peggio.

La storia, pur variata e diversa, risente comunque molto delle problematiche di Musso in questo suo primo periodo di scrittura. Innanzi tutto, il grande amore dell’autore per gli States, dove aveva vissuto più di un anno, con la relativa ambientazione newyorchese molto presente nelle sue storie. La seconda è il ricordo del grave incidente automobilistico da cui esce illuso ma molto provato psicologicamente, tanto, appunto, che questi suoi primi romanzi sono molto legati alla tematica della morte.

L’apparente protagonista sembra all’inizio Juliette, un’intrepida francese sbarcata negli USA con ambizione d’attrice, ma che finisce nel fare la cameriera, e quindi (quasi) per tornare a casa, finito il tempo del visto. Per una serie di casualità incontro Sam, un dottore con molti problemi alle spalle (e ne parleremo). Ovvia la nascita dell’amore, ma anche il conseguente perdersi e ritrovarsi, ed imbastire una possibile storia. Fin qui sembra tutto banalotto, ma dobbiamo entrare nel personaggio Sam, che ben presto diventa lui il centro dell’attenzione.

Veniamo allora alla sua storia. Sam nasce a Bed-Stuy (nome complete Bedford-Stuyvesant, considerato l’Harlem di Brooklyn, dove hanno avuto i natali grandi rapper come Notorious B.I.G. e Jay-Z), un quartiere violento dove lui, bianco, deve lottare per sopravvivere. Si crea così un trio con una donna, Federica, ed un nero, Shake. Si barcamenano sul filo tra legale e illegale, poi devono comunque darsi allo spaccio per sopravvivere. Per salvare Federica da una difficile situazione, Sam uccide una persona, aiutato da Shake che ne uccide una seconda. Risultato: Sam riesce a studiare con una borsa di studio ed a sposare Federica, Shake si fa prete, Federica sembra riprendersi, ma dopo qualche anno si suicida.

Ecco che Sam, ad un anno dalla morte, ancora senza riprendersi, incontra Juliette di cui sopra. Con un subitaneo peggioramento della trama: Juliette non sale su di un aereo che precipita, ed ecco che compare Grace, una poliziotta morta dieci anni prima, che si qualifica come “emissaria” dell’al di là, e che convince Sam che Juliette doveva morire sull’aereo e lei deve “raddrizzare la situazione”.

Ecco che Musso comincia ad intrecciare le storie, dove quelle terrene, pur non sempre originali, si seguono bene. La presenza ed il ruolo di Grace invece rimane molto deficitario per essere compreso. Prima di tutto, fatto salvo il bagno di irrealtà che comporta, un emissario dovrebbe non interferire nelle vicende terrene, che sarebbe uno sconquasso fisico-temporale. Al massimo dovrebbe posizionarsi prima dell’evento. A meno che le sue parole non siano altro che fumo negli occhi di Sam e la sua mira di diverso obiettivo.

Intanto, sempre come “emissario” non dovrebbe intervenire, come invece fa, nella vita della figlia squinternata. Né mettersi a rinvangare il passato con il suo non amante Mark Rutelli (nome omen). Insomma, l’unica cosa che riesce, realmente, a fare Grace, con Sam, Shake e Mark, è farci ricostruire esattamente le circostanze della sua morte.

Ovvio che ci si avvia verso la scena finale. Verso la teleferica che unisce Manhattan a Roosevelt Island (posta sul fiume all’altezza dei Queens) convergono tutti i protagonisti della storia (Grace, Mark, Sam e Juliette). Chi salirà sulla cabina? E la cabina riuscirà ad attraversare il fiume nella tormenta o precipiterà? Domande interessanti da lasciare al lettore.

Noi torniamo a Musso, ed alla sua scrittura. Il libro sarebbe pur interessante, se non utilizzasse questo espediente degli “emissari” che non solo risulta poco credibile (ci vuole poco), ma che fa rivestire il tutto di un alone poco coinvolgente. Peccato per Musso, che aspettiamo nei successivi libri prodotti.

Notiamo anche che ci sono anche piccole incongruenze o mancanze. Per un capitolo (una decina di pagine) entra in scena la madre di Juliette che aspetta la figlia a Parigi, poi per il resto del libro non se ne ha traccia. Ancora peggio con un personaggio che sembra minore, ma che forse è solo stato lasciato senza un perché. Nel suo ultimo giorno di lavoro Juliette prende un caffè con un signore che pensa (ma rimane sul vago) di aver servito varie volte nel bar dove lavorava. Vero o meno, fatto sta che il tizio l’ammonisce di riflettere prima di partire e possibilmente di non prendere l’aereo che sta per prendere. Potrebbe essere un emissario buono, un angelo, o solo uno che butta parole a caso. Fatto sta che quell’aereo (con o senza Juliette) precipita. Ma del tizio, dopo i caffè, non se ne sa più nulla. Non si lasciano così i personaggi.

Si vede che il trentenne Musso ancora non ha preso in mano tutti i ferri del mestiere, cosa che farà presto, diventando uno dei “best seller maker” francese.

Finiamo con una piccola tirata d’orecchi al primo editore italiano del libro, l’editore Sonzogno, che nel 2005 lo pubblicò con il titolo “La donna che non poteva essere qui”. Grazie a “La Nave di Teseo” per aver riportato il titolo all’originale.

“La vita va vissuta guardando avanti, ma si comprende solo guardando indietro (Søren Kierkegaard).” (213)

Guillaume Musso “Skidamarink” Le Livre de Poche s.p. (regalo di Alessandra)

[A: 22/01/2023 – I: 22/01/2023 – T: 23/01/2023] - &&& --

[tit. or.: Skidamarink; ling. or.: francese; pagine: 569; anno 2001]

In occasione di un week-end ricorrenza a Parigi, ricevo, tra altro che non dico, anche un paio di libri presi alla grande libreria FNAC delle Halles. Questo in particolare gradito, che, finalmente, dopo circa venti anni, Musso decide di mettere mano, anche senza riscriverlo, al suo primo romanzo. Che infatti aveva visto la luce il 9 maggio 2001, in soli 3000 esemplari, in pochi anni esauriti e mai ristampato.

Tra l’altro, per analoghi motivi, è forse l’unico libro dell’autore che ancora non è stato tradotto in italiano. Per cui, gradito il regalo, che o si legge così o niente.

La lettura è al fine un po’ filologica, che fa vedere la nascita della scrittura di Musso, all’epoca ventiseienne, con ancora alcune ingenuità, e, per fortuna, senza quell’indulgenza dei primi libri letti, di cui ho parlato da poco, un po’ troppo pieni di riferimenti ad entità “non-naturali” che ne limitano l’adesione intellettuale. Ma su questi punti torneremo più avanti.

La storia è una specie di gioco dell’oca dove, per andare avanti, bisogna risolvere misteri, indovinelli, e tranelli vari. Il gioco coinvolge quattro personaggi che, ricevute quattro parti di un dipinto, su questa base e su altri input, devono arrivare alla ricostruzione completa del puzzle pensato dall’autore.

I quattro sono discretamente eterogenei: Theo, un avvocato che, pur giovane, decide di ritirarsi dall’arena competitiva dei tribunali, Magnus, un professore di genetica, Barbara, una lobbista rampante, e Vittorio, un prete. Tutti ricevono un pezzo del dipinto di Leonardo da Vinci, la famosa Gioconda (o meglio Monna Lisa Gherardini moglie di Francesco del Giocondo), corredato ognuno da una citazione.

Saranno queste citazioni il faro guida delle loro indagini, citazioni di Victor Hugo sul liberalismo economico, di John Donne sull’individualismo, di Rabelais sulla scienza e di Tocqueville sulla democrazia. Il tutto condito appunto dal furto, probabilmente perpetrato dal potente Steiner, leader indiscusso della tecnologia avanzata con la sua impresa MicroGlobal, che tuttavia è stato appena rapito.

Oltre ai pezzi del dipinto, i quattro ricevono altri input parziali. Non risolvono il primo, che vedrà la morte di Steiner come risultato. Risolvono invece gli altri, poco prima che questi possano innescare altre catastrofi. I nostri, poi, all’inizio sono molto combattuti tra loro, ma ad un certo punto, anche per altri fattori esterni che minacciano, anche, la loro vita, fanno squadra.

E come squadra, avranno successo. In particolare, quando capiscono che non è un caso che qualcuno li abbia coinvolti. Sarà il momento in cui trovano questo filo rosso che darà la svolta alla loro ricerca. È una donna che li unisce. Una donna che ha fatto una figlia con Magnus, che era (è) innamorata (platonicamente) di Theo, che è stata l’amante di Barbara, che è la confidente di Vittorio. Risolti altri enigmi, finirà che ognuno dei personaggi riuscirà a fare quello per cui pensava di essere portato e che fin a questo momento di crisi globale non era riuscito ad esprimere.

Un finale un po’ troppo happy, ma ci sta data la gioventù dello scrittore. Che, come dirà in un’intervista, ha scritto il libro con due pensieri nella testa. Scrivere un libro che avrebbe avuto piacere di leggere, e questo spiega il forse troppo facile finale positivo. E scrivere un libro che tenga il lettore legato alla pagina e lo faccia pensare mentre va avanti pagina dopo pagina.

Questa seconda parte è quella un po’ forzata, laddove appunto le quattro citazioni sopra indicate, portano a piccole tirate morali sull’avanzare dell’individualismo nella società contemporanea, con una conseguente disattenzione verso la democrazia. Dovuta anche ad una mondializzazione sfrenata dell’economia ed all’uso della scienza senza una coscienza critica a corredo. Belle parole per un giovane che ha tutta la vita davanti, ma che, lette ora, non possono che riportarci con i piedi per terra ad un crudo pessimismo. Sarebbe stato bello se…, ma non è stato.

Questa è forse la pecca più evidente del libro. Poi abbiamo i misteri da risolvere. Qui, contravvenendo a tutte le regole auree del buon giallo, Musso li risolve (cioè li fa risolvere) ma sempre dai nostri, per delle loro conoscenze che a noi non è dato sapere. Un esempio su tutti viene proprio dal titolo.

Ora, Skidamarink è una filastrocca infantile molto popolare in America, poco in Francia, ed assolutamente ignota in Italia (a meno che qualcuno non ne ricordi il ritornello cantato da un coro di bambini ad un certo punto del film “La gatta sul tetto che scotta”). Ma il punto è che anche sapendolo non avremmo risolto nulla, perché il nome era stato dato da Celia, la figlia di Magnus, ad un suo pupazzo di peluche. Ecco, questo è quanto dico giocare sporco.

Altre piccole ingenuità giovanile vengono dal citare, eventualmente agire, ma poi dimenticarne l’esistenza di alcuni personaggi. Come la Celia di poco fa, chiamata al telefono, citata, e poi dimenticata. O come il cattivo di turno, quello che cerca a più riprese di uccidere i nostri, di cui ci viene fatta la storia, sottolineandone alcuni punti oscuri. Poi viene preso in carico da una specie di ordine monastico, e fatto sparire, senza che i punti di cui sopra vengano chiariti.

Infine, la cosa che più mi ha lasciato perplesso è l’idea di dividere in quattro Monna Lisa, che sarà pure un quadro a olio dipinto su una tavola di pioppo, ma non credo che la tavola, se segata, possa mai tornare come l’originale. Certo che scrivere della Gioconda quattro anni prima di Dan Brown è comunque una buona prova di preveggenza. O citare le torri gemelli in un libro uscito 4 mesi prima dell’11 settembre.

Una menzione personale comunque viene da me rivolta all’autore per tre motivi. Due li trovate nelle citazioni sottoelencate. La terza viene dal fatto che ad un certo punto l’azione di sposta in Islanda, dove uno dei protagonisti non solo percorre il Ring, ma si ferma a lungo, ed anche con sentimenti di ammirazione che condivido, sulle vicinanze dello Jökulsárlón. Per uno che come me ritiene l’Islanda una terra magica è stato un momento di grande partecipazione.

Insomma, una buona prova, se vista con l’occhio di un lettore di venti anni fa, ed un discreto raccordo con la scrittura globale di Musso se letta al giorno d’oggi.

“Noi non potremo avere perfetta vita senza amici (Dante).” (186) [in italiano nel testo]

“Rien ne vaut un bon ‘panettone’ … arrosé de sauce au mascarpone.” (552) [“Non c'è niente di meglio di un buon panettone... innaffiato di salsa al mascarpone” … specialmente se la salsa è quella di Ale] 

Sapendo che il mese dei pesci è pieno di ricorrenze, non vi tedio con i compleanni della settimana (che ci sono), ma, in omaggio al mio amico di Grecia patito, ripenso ad una non molto nota scrittrice ellenica,  Mara Meimaridi, ed al suo interessante seppur non imperdibile “Le streghe di Smirne”. Da cui estraggo due belle frasi, la prima dedicata ai miei amici attori e cantori: “A. aveva un libro con le figure. In ogni pagina c’era anche una storia. Sulla prima c’era Il corvo e la volpe; la storia finiva a fondo pagina. Girata pagina, cominciava un’altra storia, La lepre che voleva tutto. Anche questa finiva. Che dobbiamo fare? Tutto finisce a un certo punto, le cose belle e le cose brutte. A noi è finita una cosa bella. Peccato. Se ne fosse finita una brutta avremmo detto ‘Fortunatamente è finita.’ Dimmi tu, se tutto il libro avesse parlato solo del corvo, A. che cosa avrebbe imparato? E dimmi ancora, è più saggio chi legge molte storie, o chi ne conosce una sola?” (249).

La seconda a tutti quelli che come me pensano che le canzoni siano dirette ad ogni ascoltatore in particolare, e non a tutti in generale: “La vita dura quanto una canzone, anzi la vita è come una canzone. Ogni canzone parla di cose diverse, come è diversa la vita di ogni essere umano. La maggior parte delle canzoni parlano d’amore, che nella vita è indispensabile. Se la canzone non è buona, non piace a nessuno e nessuno la canterà più, se invece è bella la gente se la ricorda per molti, molti anni.” (569)

Siamo alla fine del primo mese di un anno eponimo, che tante iniziative vede in cantiere, ma di cui si parlerà a suo tempo. Ora è tempo di mettere a frutto il pregresso, prima di pensare al futuro. La cripticità è uno dei nostri punti forti. Per cui mando ad ognuno di voi lettori un saluto ed un abbraccio.

domenica 22 gennaio 2023

Per non dimenticare Simenon - 22 gennaio 2023

Pare fatto a posta, m questo 2023 inizia con la terza monografia. Dopo Sciascia e Calvino, torno sul grande scrittore belga, proseguendo la lettura dei romanzi non del ciclo Maigret. Cinque libri tutti ben scritti e ben sufficienti, ma che sono illuminati da uno dei più belli scritti da Simenon: “Tre camere a Manhattan”. Un libro che dovete assolutamente leggere.

Georges Simenon “Il clan dei Mahé” Repubblica Simenon 12 euro 9,90

[A: 13/12/2019 – I: 07/09/2022 – T: 09/09/2022] - &&&

[tit. or.: Le cercle des Mahé; ling. or.: francese; pagine: 149; anno 1946]

Come forse anche troppe volte ricordato, siamo in tempo di guerra, Simenon è confinato in Vandea, dove scrive a rilento, e viene pubblicato ancora più a rilento da Gallimard. Ha preso accordi con Sven Nielsen per le uscite dopo la fine del contratto, ma alcune opere sono legate a Gallimard, così che questa, scritta sempre a Saint-Mesmin-le-Vieux in Vandea, e terminata due giorni dopo la firma della resa dell’esercito tedesco, vedrà la luce solo l’anno successivo, quando la famiglia Simenon si è già trasferita in America.

Sul lungo soggiorno-esilio americano torneremo in seguito, qui passiamo a vedere un aspetto complesso, che dà anche una visione più articolato dello scritto e delle sue motivazioni. Infatti, cosa non usuale per Simenon, il libro comincia con una dedica: “A Tigy, in ricordo di Saint-Mesmin”. Ed il libro si svolge per la maggior parte del tempo a Porquerolles, una delle stelle fisse di Simenon. L’isola di fronte a Marsiglia, l’avevano scoperta nel ’28, prima che Simenon potesse aspirare ad essere Simenon. Approfittando dei soldi derivati dalla vendita di un quadro dipinto da Tigy, i due si regalano una vacanza nell’allora poco nota isola di Porquerolles. Di cui si innamorano e dove torneranno spesso e volentieri durante molti anni.

Ma se l’ambientazione isolana dovrebbe essere positiva verso Tigy, la dedica, indicando il tempo presente della scrittura e l’esilio vandeano, serve anche a sottolineare il distacco che sta avvenendo tra i due. A Saint-Mesmin, Tigy scopre Georges a letto con Boule, la domestica. E Simenon le dice che non solo lui va a letto con Boule, ma che l’ha tradita centinaia di volte, confessando quello che ben sappiamo, essere lui un “addicted” non solo della scrittura ma anche del sesso. Con quelle parole, sottolinea a Tigy: io sono così, qui in Vandea e lì sull’isola. Prendere o lasciare!

C’è un altro, e forse meno sottile messaggio, in questo romanzo. Simenon sembra dirci che anche lui si sente soffocato da una cerchia di personaggi (madre, moglie, figlio) che lo fanno agire come una marionetta in mani altrui. Lui, come Mahé, vuole rompere il cerchio soffocante. E di sicuro, dal tempo americano, per seguire con il ritorno in Europa, sino al finale esilio svizzero, Simenon agisce molto più come se avesse rotto il cerchio. Peccato, che tra i cocci finiscano molte persone, in generale quasi tutte le donne con cui ha contatto, mogli, amanti, figlie. Solo chi ha una remissione attiva verso di lui, alla fine, ne uscirà in maniera positiva.

Ma ora è meglio tornare al romanzo.

Incentrato, fin dal suo inizio, sulla figura del dottor Mahé. Poco più che trentenne, sposato con Hélène, da cui ha avuto due figli. Vive a Saint-Hilaire in Vandea con l’anziana madre. Un estate, invece di recarsi in montagna nel Giura, decide di affrontare il caldo sud della Francia, e sbarca, con moglie, figli e tata, nell’isola di Porquerolles.

Qui sperimenta una sua libertà che non pensava di avere. Anche se si sente sempre estraneo ai locali, ne cerca il contatto. Va a pesca di ombrine, senza mai pescarne una. Si inserisce nelle locali squadre di petanque (le bocce francesi). Tanto che quando c’è da certificare una morta, in mancanza del medico locale, è lui che viene convocato. Ed è lì, nella fatiscente casa della famiglia Klamm, che fa il primo incontro con l’adolescente Elisabeth.

Una ragazza che incarna tutto quello che lui non è mai stato. Ragazza che si fa carico della famiglia, dovendo badare ad un padre ubriacone ed a due fratelli più piccoli. Ragazza che non sentiremo mai parlare direttamente per tutto il romanzo ma che con la sua presenza nei pensieri e nei sogni di François incarna l’altro cui il dottore aspira. Quasi fossero i treni del famoso Popinga.

Senza capirne realmente i motivi, anno dopo anno, François riporta la famiglia a Porquerolles. Perché? Perché la moglie non ne è contenta. Perché la madre sembra volergli indicare altre mete. Lui torna, ogni anno più integrato. Ogni anno alla ricerca di un contatto con Elisabeth che non avverrà mai. Anzi avverrà per interposta persona, quando suo nipote Fred, da lui istigato, avrà con la ragazza un momento di “forte intimità”.

Passano altri anni, mamma Mahé muore di cancro (e noi notiamo come puntigliosamente abbia predisposto tutto per i suoi funerali, sottintendendo che il figlio non ne sarebbe stato capace), i Mahé tornano a Porquerolles, ogni volta più integrati. Anche se Elisabeth ora cresciuta si è spostata a Hyeres (l’isola vicina). E ragionando su questa vita, diversa, altra, François matura l’idea di lasciare la terraferma e stabilirsi sull’isola, comprando il posto del medico locale.

I sogni di François sono molto più forti della realtà. Non arriverà mai ad incontrare Elisabeth. Non saprà mai cosa succederà alla sua famiglia, dopo il trasferimento a Porquerolles. Che una notte, solitario, in barca, finalmente riuscirà a pescare le ombrine che inseguiva dalla prima pagina. Il cerchio si chiude. Certo, Mahé lo ha spezzato. Ma a che prezzo?

François, alla fine, si rende cosciente di aver vissuto una vita che gli hanno imposto, facendogli credere di essere lui a prendere le decisioni che altri avevano già scelto per lui. Vittima di un complotto ordito dalla sua cerchia familiare, dalla cerchia del proprio cognome. Termine che avrei mantenuto, laddove “clan” sembra rivolgersi più ad ambienti malavitosi (il clan dei marsigliesi). Ma quando si ribella, François scopre di essere inadeguato ad una vita diversa.

È come detto, un romanzo molto emblematico, che Simenon scrive perché ha voglia di urlare. Ma proprio per questo, perché è in fondo un romanzo a tema, la sua forza risulta minore di altre uscite del nostro. Aspettiamo che si sistemi in America per capirlo meglio.

Dove

Protagonista

Altri interpreti

Durata

Tempo

Porquerolles. Saint-Hilaire (Vandea). Hyères.

François Mahé, medico, sposato, due figli, 32 anni all’inizio del romanzo

Hélène Mahé, moglie di François

Mme Mahé, madre di François

Elisabeth, primogenita di Frans Klamm, adolescente ad inizio romanzo

Cinque anni

Epoca contemporanea

Georges Simenon “Tre camere a Manhattan” Repubblica Simenon 5 s.p. (duplicato)

[A: 21/11/2019 – I: 04/09/2022 – T: 05/09/2022] - &&&&

[tit. or.: Trois chambres à Manhattan; ling. or.: francese; pagine: 188; anno 1946]

Avevo letto questo mirabile libro qualche anno fa, nei tipi delle edizioni Adelphi. Ora che sto seguendo il percorso di Simenon attraverso un po’ meno della metà dei libri “non Maigret”, lo riprendo nelle edizioni di Repubblica e ne completo alcune parti.

Avevamo lasciato Simenon a Londra, pronto a lasciare l’Europa. Solo nel settembre del ’45 ottiene il visto, e subito si imbarca a Southampton su di un cargo svedese della compagnia “Cunard Line”. Il 5 ottobre, con Tigy ed il figlio Marc sbarca a New York e si installa in un hotel di Park Avenue. Sebbene affascinato dalla Grande Mela, i ritmi non sono i suoi, così che in novembre si sposta in Canada nel Québec a Sainte-Marguerite-du-Lac-Masson, in una casa di legno vicino al lago di cui sopra.

Per contatti di lavoro, ovvio che sia spesso a New York. Ed ovvio che abbia bisogno di aiuto nella lingua, motivo per cui ingaggia come segretaria bilingue Denyse Ouimet (nata il 14 maggio 1920, quindi un toro, e di 17 anni più giovane dello scrittore). Un incontro che sarà, come sappiamo, decisivo nella vita di Simenon.

Ben presto (come spesso accade a quasi tutte le donne che incrociano la sua via) diverrà la sua amante, poi la sua compagnia, nel 1949 gli darà un altro figlio (Jean) e l’anno seguente, per non incorrere nelle severe leggi americane sulle relazioni matrimoniali, divorzia da Tigy e sposa Denyse. Che, come sappiamo, nel 1953 partorisce Marie-Jo, che tornerà in Europa con lui, che nel 1959 partorisce il terzo figlio con lui, Pierre.

Intanto, l’incontro per lui sembra fatato. Non tanto per tutto quanto succederà dopo, che nel ’46 ancora non può prevedere. Ma per quell’aura di novità e di magia che Denyse porta nella sua vita. Laddove, il rapporto con Tigy si consumava quasi nell’indifferenza. Come spesso accade ai grandi scrittori, ecco che, dalla sua vicenda privata, nasce un libro, un’ode quasi, a New York, a Denyse, ma anche, e qui non possiamo mai sottovalutare lo smisurato ego di Simenon, a sé stesso ed al suo modo di vivere. Non solo, ma saranno ben 9 i libri che riuscirà a terminare nel prolifico 1946.

Con gli occhi di chi ha letto della “Grande Mela” e che la sta conoscendo a poco a poco, Simenon si traveste nei panni di François Combe, attore spiantato, lasciato dalla moglie per un giovane gigolò, e che sta tentando di riciclarsi oltre oceano, con quella rete di contatti che un attore, un dì famoso, non può non avere. Ma l’abbondono della moglie lascia François senza voglia di lottare, tanto che si accontenta di piccole parti radiofoniche e vive in una camera di Manhattan, addirittura senza telefono. Si abbandona a lunghe passeggiate notturne, entrando e uscendo dai tutti quei locali, aperti 24/7, bevendo e fumando.

In uno di questi, casualmente, quasi senza volerlo, comincia a parlare con una signorina, Kay, spiantata, lasciata fuori casa da una coinquilina altrettanto “fuori di testa”. Ma Kay ha una storia, dietro di sé. E mentre François racconta la sua, con una discreta dose di onestà, Kay ci lascia brandelli della sua vita, un po’ reali ed un po’ fantastici. Ha vissuto qua e là per l’Europa, è stata sposata all’ambasciatore ungherese a Parigi, con cui ha una figlia, è andata via (ma come? Perché? Non ne sapremo mai realmente abbastanza). Ha vissuto (e forse vive) di espedienti. Ma (e qui, oltre ad altro che forse non sappiamo e non ci interessa) conosce bene le due lingue, come Denyse. Seppur giovane ha una sensualità che colpisce François, come Denyse colpisce Georges. In questo clima che qualcuno ha giustamente definito “hopperiano” si consuma lo srotolamento del loro rapporto.

Dopo poco Kay va a vivere da François, tanto che lui comincia a non poterne fare a meno. Tanto che è la stessa Kay che gli dà la forza di riprendere a combattere per tirarsi fuori dalle secche inaridite della non realizzazione. Ma Kay è sempre sfuggente, non si capisce se ami François o voglia solo sfruttarlo. La prova decisiva, per entrambi, avviene quando Kay è chiamata dal suo ex per una malattia della figlia e lascia solo François per un periodo. Tornerà? Era anche questa una nuova bugia del “personaggio Kay”? François, nelle more, decide di scopare di nuovo con altre donne. Georges non si smentisce mai.

Ma sarà proprio il ritorno di Kay, che consente a Simenon di fare la sua dichiarazione d’amore alla bella, ma anche di affermare, sulla carta e per sempre nella vita: “non mi tirerò indietro mai di fronte ad una notte d’amore, anche se ti amo e ti amerò sempre”. Certo quel sempre è un po’ ballerino, ma in effetti Georges amerà a lungo Denyse. Pur continuando a scopare a destra e a manca.

È un bellissimo libro, forse in alcune parti irrisolto, ma che ci dà la piena misura dell’aderenza, se ce ne fosse una controprova, dell’opera alla vita di Simenon. E ci dà una descrizione della New York notturna, che solo un francese appena arrivato ci poteva dare: bar fumosi, caffè lenti, alcool a profusione, tanto da ubriacarsi. Con Kay che si accende sigarette in continuazione. Con un plot che sembra già un film, anche se il film sarà realizzato solo venti anni dopo, con la regia di Marcel Carné, il ruolo di Kay interpretato da Annie Girardot ed una stupenda colonna sonora scritta ed interpretata da Mal Waldron e Martial Solal. Una chicca per i miei cugini cinefili: in questo film compare per la prima volta come figurante un giovane Robert De Niro.

Comunque, erano molti i registi che avevano pensato ad un film, senza concretizzarsi. Tutti centrati alla ricerca della giusta “Kay”. Che prima della Girardot, si pensò a Simone Signoret, a Jeanne Moreau. Renoir sognava Leslie Caron, mentre Melville scommetteva su Monica Vitti.

Infine, per tornare al libro, queste camere segnano anche l’esordio di Simenon con le “Presses de la Citè”, e con un successo da best-seller immediato. Per quanto riguarda le citazioni, rimando alla prima lettura, delle edizioni Adelphi.

Dove

Protagonista

Altri interpreti

Durata

Tempo

Manhattan, Messico

François Combe, chiamato Franck, attore di teatro, temporaneamente disoccupato, sposato e separato, 48 anni

Kathleen Miller, chiamata Kay, austriaca, divorziata con una figlia, 32 anni

Una settimana ed un appendice

Epoca contemporanea

Georges Simenon “Lettera al mio giudice” Repubblica Simenon 2 euro 9,90

[A: 04/10/2018 – I: 10/09/2022 – T: 13/09/2022] - &&&

[tit. or.: Lettre à mon juge; ling. or.: francese; pagine: 204; anno 1947]

Ormai siamo in pieno nel Nuovo Mondo, all’inizio di quella che Simenon respira come aria nuova, per i posti, ma soprattutto per le persone, in particolare Denyse, la sua nuova segretaria e non solo. Ma si sa che il nostro scrittore non è mai contento di dove si ferma.

Così, intanto, si sposta da Sainte-Marguerite-du-Lac-Masson (Québec, vicino a Montreal) a Saint Andrews nel New Brunswick, attaccato al Maine, così da poter andare velocemente a New York. Lì nella sua nuova casa, Glengary House, riprende la scrittura, finendo due nuovi romanzi, e terminando così il contratto con Gallimard.

Ma non è soddisfatto del freddo Nord, ed allora, ecco la grande avventura. Prende due auto, una Chevrolet, in cui viaggiano lui, Denyse ed il figlio Marc, ed una Oldsmobile, con Tigy, Boule e la tata di Marc. Partono in settembre per quello che diventerà uno dei suoi più interessanti reportage sugli Stati Uniti: “L’America in auto”. Parte dal Maine ed attraversa Massachusetts, Connecticut, New Jersey, Pennsylvania, Maryland, Virginia, Carolina Nord e Sud, Georgia e dopo 5.000 km arriva in Florida a Miami. Ed in novembre è in Florida, al caldo di Bradenton Beach che si fermano in un bungalow di legno chiamato “Coral Sands”. Qui, pur oppresso dal caldo, in dieci giorni, ai primi di dicembre, scrive forsennatamente questo libro. Il secondo grido di dolore e d’amore americano. Che al solito, verrà pubblicato da Sven solo nel luglio del 1947.

Per cominciare, è uno scritto atipico che tra i 193 romanzi, tra Maigret e non Maigret, solo questo ed un successivo “Le memorie di Maigret” sono scritti in prima persona. Inoltre, questo rappresenta uno sforzo titanico di scrittura, che, appunto, sono duecento pagine di una lettera che il dottor Charles Alavoine, detenuto, scrive al magistrato che ha istituito il suo processo, giudice Ernest Coméliau. Torneremo poi in finale sulla genesi di nomi e personaggi.

È un testo al tempo stesso semplice e complesso. Charles vuole spiegare i motivi ed il susseguirsi di azioni temporali che lo hanno portato lì, davanti al giudice. Vuole far comprendere, al giudice, ed a tutti, che il suo non è stato un gesto improvviso di un povero pazzo, ma la conseguenza, secondo lui inevitabile, di tutta una serie di avvenimenti che hanno costellato la sua vita. Così Simenon, andando anche avanti ed indietro nella scale temporale, ma sempre utilizzando la voce di Charles, arriva a descriverci la su vita, le sue gesta, nonché il processo.

Vediamo così uscire dalla penna di Charles la descrizione della vita di un dottore suo malgrado, sposatosi senza passione per volere della madre. Rimasto vedovo con due figli, si risposa con Armande, donna volitiva, che pian pianino prende possesso della sua vita, dell’affetto delle figlie, mettendo anche in secondo piano la madre di Charles.

E lui si sente compresso in una vita che non sente sua. Fino a che (salto molto ma andiamo al sodo) incontra Martine Englebert, belga di Liegi, con alle spalle una vita molto al limite, e spesso oltre la decenza (non dico prostituta, ma escort di media lega sì). In lei trova l’amore, la passione, la forza di uscire da un mondo che non sente più suo. La prende come assistente, la istalla in casa. Ma ben presto si accorge che il ménage a tre non può reggere a lungo. Allora, abbandona moglie, madre, figlie, dalla provincia si sposta a Parigi, ricomincia il percorso di medico di base dal basso.

Soprattutto, ha un rapporto sempre più morboso con Martine. Anche se riesce a tirar fuori dalla ragazza che si stava perdendo, quella Martine della giovinezza, fresca, immediata, solare. Charles è anche conscio delle proprie paure, della sofferenza che avrebbe con la Martine “escort”, momenti che esorcizza con sfoghi di violenza improvvisi.

Tutto questo, non poteva essere detto al processo, Charles non avrebbe potuto trovare le parole giuste, quelle che ora usa con il giudice per arrivare al punto cruciale. L’amore assoluto, il bisogno che Martine non torni più ad essere la “seconda” Martine, non può che portarlo al delitto finale. Martine non cambierà più. Sarà sempre con lui. Morti.

È un saggio sull’ossessione sessuale e sulla gelosia in cui, neanche tanto velatamente, Simenon si sfoga. Non è più soddisfatto del rapporto con Armande-Tigy, si vuole allontanare dalla madre, trova la sua liberazione personale e sessuale in Martine-Denyse.

Tutte cose che anche il suo entourage capirà. Da lì a poco tempo ci sarà il divorzio da Tigy, ci sarà il matrimonio con Denyse. Ma Simenon sa che anche lui ha alzato le mani su Denyse. Sa che non smetterà mai di essere geloso, ossessivamente. Sa che non smetterà mai di andare a letto con tante altre donne. Qui esorcizza i suoi temi portando Charles oltre un limite che lui non oltrepasserà mai. Anzi, lo scrivere di Charles fa sì che Simenon capisca i suoi di limiti. Frenandoli. Anche se, e lo sappiamo, la sua vita familiare non sarà mai serena. Verranno nel futuro le crisi depressive di Denyse, fino al suo ricovero psichiatrico. Verranno gli anaffettivi rapporti con i figli, fino al suicidio della figlia Marie-Jo. Vedremo Tigy che sarà sempre nell’ombra accettando tutto quello che è stato Simenon, e non chiedendo altro.

Ma qui parliamo del testo. Del modo magistrale di raccontarsi di Charles, che io ritengo pazzo, e che si esprime con grande lucidità. Vediamo come meticolosa sia anche la descrizione sghemba del processo. Non ne parla mai direttamente, ma ne abbiamo una pittura viva e presente, con gli interrogatori, le arringhe, la folla, gli avvocati.

Poi ci sono anche i nominalismi e le riprese, che si sa Simenon, scrivendo velocemente ed a getto continuo, a volte, anche inconsciamente, riprende ad orecchio cose di altri scritti, o di altra vita. Un solo esempio: a pagina 31 il ricordo che Charles fa del padre mescola tratti del padre di Maigret (fattore) e del padre di Mahé del romanzo precedente. Per non parlare dei luoghi e dei nomi: Martine è di Liegi, come Simenon, e quando vanno a visitare la cittadina belga, facili sono i ricordi personali che vengono fuori. Inoltre, Martine fa di cognome Englebert, così come lo zio paterno di Simenon. Per non dimenticare che il giudice Ernest Coméliau è il grande antagonista di Maigret, quello integerrimo che ostacola tutte le iniziative fuori dalle righe del commissario. Un’insalata mista di fatti da solleticare i palati più fini.

Un ultima considerazione “Lettera al mio giudice” e “Tre camere a Manhattan” formano un duo librario quasi inscindibile, un grido d’amore di Simenon per Denyse. Con i due possibili finali: positivo a Manhattan, nero e cupo a Parigi. Di questo duo si accorge il pubblico francese, dove i due libri nel biennio ’46-’47 vendono più di un milione di copie. Una follia molto redditizia.

“Come potevo spiegarle che si poteva essere felici e soffrire? … io non avevo mai sofferto prima che Martine mi rivelasse la felicità” (192)

Dove

Protagonista

Altri interpreti

Durata

Tempo

Prigione di La-Roche-sur-Yon

Charles Alavoine, medico, sposato, due figli

Armande Alavoine, seconda moglie di Charles

Martine Englebert, amante di Charles

Ernest Coméliau, giudice

Un giorno (anche se la vicenda narrata spazia su più anni)

Epoca contemporanea

Georges Simenon “Il destino dei Malou” Repubblica Simenon 27 euro 9,90

[A: 06/05/2020 – I: 07/10/2022 – T: 08/10/2022] - &&&

[tit. or.: Le destin des Malou; ling. or.: francese; pagine: 203; anno 1947]

Simenon è ormai ben deciso a restare in America, patria secondo lui della “vera narrativa”. Certo è sempre insofferente, ma per alcuni mesi (anzi più o meno un anno) resta di base in Florida. Come detto nella precedente trama, a fine ’46 aveva fatto un lungo viaggio per le strade americane, quasi a ricaricare le sue pile interiori dopo i dieci anni passati in Vandea, compresi quelli della guerra. Il ’47 invece inizia con un viaggio in gennaio a Cuba, per poi dedicarsi, anima e corpo, alla scrittura (tanto che saranno ben otto i libri che vedranno la luce in questo anno), nella sperduta Anna Maria Island, in quel bungalow di legno chiamato “Coral Sand”. Isola legata alla terra ferma di Bradenton Beach da un lungo ponte.

Comincia già da febbraio, dove, non più in sette giorni, ma in dieci, dal 12 al 22 febbraio, imbastisce la trama di un nuovo viaggio del suo protagonista verso una presa di coscienza, che ben vedremo sviluppata. Inoltre, grazie al sodalizio da poco intrapreso ma assai fruttuoso con l’amico Sven, i suoi libri prendono ad uscire poco dopo la redazione. Così che questa saga della famiglia Malou esce in Francia nello stesso anno, sebbene dopo l’estate.

In questo, forse più che in altre prove, emergono ben delineati due dei concetti che Simenon persegue in tutta la sua opera: la ricerca dell’essere uomo e la concezione del destino che inferisce sulle sorti umane. È anche una lunga battaglia fra un giovane, il diciassettenne protagonista Alain, e la presenza o lo spettro dei suoi genitori. Qualcuno adombrava un velato rapporto incrociato con le vicende personali di Simenon. Ma lui aveva sempre avuto un buon rapporto con il padre (che muore d’infarto a 44 anni, quando Georges ne ha diciotto) e sempre un gran conflitto con la madre, che da sempre gli preferiva il fratello Christian.

Il romanzo, in sé, è una lunga escalation interiore di Alain, che inizia dalle prime pagine quando, all’uscita del liceo, assiste al suicidio del padre. Eugène Malou è all’epoca un imprenditore edile, sempre in lotta con finanziamenti e povertà, che ha avuto l’idea visionaria di costruire un nuovo quartiere vicino alla cittadina in cui vivono (di cui non viene mai fatto il nome) e di chiamarlo Malouville. Una cittadina all’avanguardia, nelle concezioni urbanistiche. Peccato che non sia collegata con la città, e che questi collegamenti, un tempo promessi, non vengano mai realizzati. Così Malou senior si trova sommerso di debiti, costretto a chiedere prestiti. Ed è al conte d’Estier cui ancora una volta si rivolge, ed al suo rifiuto, si toglie la vita.

È l’ultimo atto dei Malou così come erano sempre noti, un atto che disgrega in un attimo tutta la famiglia. La moglie, attaccata al denaro (in realtà seconda moglie), ha forse nascosto gioielli e piccoli beni, così che, a morte avvenuta, si dilegua dalla cittadina per veleggiare con la sorella verso Parigi. Lasciando i tre giovani Malou.

Edgard, il primogenito, è figlio della prima moglie di Eugène, donna del popolo presto abbandonata. Un trentenne senza polso, sposato, pecora mal riuscita in un mondo di lupi, con il solo intento di far dimenticare le sue origini. Corine, ventenne senza arte né parte, che ha per solo sostegno il proprio corpo, che ben usa cercando di accalappiare un medico purtroppo sposato. Corine senza pudore, ma che non riuscirà a gestire la pretesa libertà.

Rimane Alain, catapultato nel mondo una volta sparito lo scudo paterno. Ma che da quella morte inizia un percorso di conoscenza verso le sue radici. Chi era il padre che non c’è più? Un truffatore? Un sognatore? Un ricattatore? Sarà l’incontro con Joseph, l’amico di gioventù del padre, che comincerà a fornirgli spunti di riflessione. Seguiamo il racconto di Joseph e con Alain capiamo anche noi cose su Eugène che non ci si aspettava. L’ascendenza familiare, che forse i Malou venivano da qualche sperduta landa polacca. La gioventù di Eugène a Marsiglia, con i suoi aneliti libertari. L’aiuto a Joseph quando viene inviato ai lavori forzati. L’idea illuministica di una città a misura d’uomo come nasce dai colloqui con François, un altro amico del padre. Per fare tutto ciò, lui senza basi, ricatta i potenti, fa azioni poco onorevoli. Insomma, alla fine per Alain esce fuori un padre assai diverso da quello che lui teneva nella mente. Scoprendo anche la vera ragione dell’insensato gesto paterno.

Arrivato al bivio, se seguire le orme paterne di lotta e di ricatti, Alain decide di essere altro, abbandona tutto, si avvia ad attraversare la sua linea d’ombra in una via tutta sua e tutta inesplorata. Come Simenon nella sua mente, e come Maigret esplicitamente in alcune pagine, pensa al suo futuro perché no, come medico, come una persona che accomoda, senza eroismo, i destini altrui.

Simenon ci porta ad una feroce riflessione sulle nostre radici. Abbiamo mai realmente pensato da chi veniamo, cosa ce ne portiamo dietro, cosa vorremmo aver fatto, ed i tempi e le paure forse ce ne hanno impedito? È sempre un bel leggere, è sempre un bel modo di riflettere seguendo una scrittura di sicuro ben fatta.

E quando alla fine di un libro si continua a pensare, credo ci sia poco da dire. Solo applaudire.

 

Dove

Protagonista

Altri interpreti

Durata

Tempo

Una imprecisata cittadina francese di provincia

Alain Malou, figlio di Eugène Malou, liceale, 17 anni

Eugène Malou, promotore di una società urbanistica, sposato, 57 anni

Corine Malou, figlia di Eugène e sorella di Alain, celibe, poco più che ventenne

François Foucret, capomastro, pensionato sui sessant’anni

Joseph Bourges, amico di Eugène Malou ed ex-forzato, 58 anni

Un paio di settimane

Epoca contemporanea

 

Georges Simenon “Il fondo della bottiglia” Repubblica Simenon 35 euro 9,90

[A: 28/05/2020 – I: 11/10/2022 – T: 13/10/2022] - &&& e ½

[tit. or.: Le fond de la bouteille; ling. or.: francese; pagine: 174; anno 1949]

Dopo il periodo solatio in Florida, già durante il ’47 Simenon è ripreso dall’ansia di trovare posti migliori e più adatti a dargli la serenità di scrivere i suoi romanzi. Specie quelli “duri”, anche se non può disdegnare di produrre alcuni “Maigret”, dovendo pur assicurarsi basi economiche solide. Ecco allora che, lasciando la moglie in Florida, con la segretaria amante ed il figlio Marc, carica armi e bagagli su di una Packard, e si appresta a lasciare la Florida dove non farà più ritorno. Attraversa tutti gli stati di confine (Alabama, Mississippi, Luisiana, Texas, Nuovo Messico), fino a trovare una base in Arizona, a Tucson dove vi si stabilisce dall’agosto ’47 al giugno ’48. Lì, in un quartiere alla moda come Snobs’Hollow scrive quattro romanzi, tra cui uno considerato tra i migliori (“La neve era sporca”).

Lì a Tucson, riceve anche una ferale notizia: in una imboscata in Vietnam muore il caporale Christian Renaud, che altri non è che suo fratello Christian Simenon di 41 anni. Christian era stato coinvolto in una spedizione punitiva condotta insieme ad una pattuglia di SS verso degli ebrei, cosa che lo aveva condannato a morte in contumacia. Si era ancora in Francia, e Georges convince ed aiuta il fratello a scappare ed arruolarsi nella Legione Straniera. Da lì, sotto falso nome, il fratello passa nell’esercito regolare francese, viene inviato in Vietnam, dove, appunto, muore in un conflitto a fuoco tra That Khe e Dong Kue, a nord-est di Hanoi. Una ferita che si riapre, che mai il loro rapporto era stato sereno. Aggravata dalla loro madre che accuserà sempre Georges della morte di Christian.

Per questo, anche se di poco, decide di cambiare aria, e dal giugno ’48, per altri dodici mesi, si sposta di poco a sud, nella villetta di Stud Barn nella città di Tumacacori, a meno di venti chilometri da Nogales, la prima cittadina messicana. In quest’anno quasi di confine, scrive altri tre romanzi, il primo dei quali è questo romanzo alcolico, “Il fondo della bottiglia”. Dove tre elementi forti, molto sentiti da Simenon in quel periodo, vengono fuori: la lotta dell’uomo venuto dal niente per essere accettato dalla buona società, il rapporto tra fratelli diversi, il rapporto con le donne, le mogli, l’altro sesso in genere.

Un libro forte, molto americano, tanto che tutto lì si svolge, uno dei più neri tra i suoi romanzi “duri”. Il primo elemento che abbiamo scritto sopra viene dalla descrizione della vita del protagonista, Patrick Martin Ashbridge, chiamato P.M. nella comunità locale. Venuto fuori da una piccola cittadina dell’Iowa, senza arte né parte, sposatosi senza convinzione, e presto divorziato, studia sodo, esce dal fondo in cui viveva, si laurea e diventa un discreto avvocato lì a Tucson. Dove trova il modo di sposare una ricca signora, Nora, giovane vedova con soldi, terreni e cavalli a disposizione. Vediamo così come il nostro descrive la tipica vita di rancheros locali, ricchi, annoiati, che si conoscono tutti, che, dopo la settimana dedicata alle cure dei possedimenti, nei fine settimana si dedicano a frequentarsi in massa, dando fondo a tutti i superalcolici possibili e immaginabili. Ne esce fuori uno spaccato americano molto duro, ma (e vi dico che l’ho visto anch’io cinquant’anni dopo) veritiero fino all’ultima goccia.

P.M. è molto preso da questa vita, e da Nora (che adombra in alcuni tratti la sua nuova vita con Denyse, che non è ancora sua moglie). P.M. che ha lasciato la prima moglie senza rimpianti (e Tigy è ancora a Coral Sand). Che vive con Nora una vita alcolica, ma dove Nora è pronta, nel momento del bisogno, a stargli vicino, a capirlo, a dargli forza. Sino a porre P.M. in una posizione di rispetto: è Nora che lo serve e lo accudisce, anche quando P.M. sbaglia.

Dopo una notte alcolica, P.M. tornando a casa trova il terzo elemento del quadro: lì si presenta suo fratello Donald. Che non si era mai sollevato dalle ristrettezze familiari, vissuto di lavoretti e piccole cose, sposatosi con Mildred, una donna della loro città con cui fa tre figli. Sempre scontento e ribelle, borderline, si dedica anche a piccole avventure ai bordi ed anche fuori della legge. In una di queste ferisce gravemente un poliziotto, viene arrestato e condannato. Ma dopo due anni fugge dal carcere, riesce a far riparare Mildred in Messico, e lui, attardato da altro, si ritrova lì a Tumacacori bloccato dal fiume Santa Cruz in piena, che vuole passare il confine, ma che non avendo i mezzi non può che chiedere aiuto al fratello.

Tutto il libro, a questo punto, prende una piega di lotta fratricida, in cui spesso bontà e cattiveria si alternano nei due. Donald rimprovera P.M. di essersi allontanato dalla famiglia, di averla scordata. P.M. ribatte con il pensiero che lui si è dato da fare per uscire dal fango, cosa che non vede nel fratello. Ma P.M. si sente anche colpevole di quelle dimenticanze. Ha pensato troppo a sé, senza entrare nel mondo del fratello.

È bello ed interessante seguire l’evolversi della vicenda tra i due, dove P.M. prima cerca di mettere in un angolo il fratello, per aspettare che la piena cali. Poi, dopo un lungo diverbio tra ubriachi, si rende conto che, in realtà, e comunque, vuole bene al fratello, e cerca di aiutarlo, anche andando contro i suoi principi, anche mettendo a rischi tutto quello che è riuscito ad ottenere nella vita. Una conversione che Donald probabilmente non riuscirà mai a comprendere sino in fondo.

Ci sarebbero spunti a iosa per andare ad analizzare le varie parti che compongono il romanzo, ma forse son troppo al di sopra delle mie corde, e forse vorrei solo spingervi a leggerle. Simenon imbastisce un grande affresco che ripercorre, in termini nuovi ma eterni, la sempre verde lotta tra Romolo e Remo, tra Caino e Abele, tra Giacobbe ed Esaù. Con la moderna capacità di farci vedere che non c’è una divisione netta tra bene e male. Tutti ne abbiamo una parte, si tratta di capirlo e di vincere con il bene la nostra mala parte. Come forse farà P.M., anche se sarà materia di discussione, se volete.

Otto anni dopo il libro, il grande regista Henry Hathaway ne trae un film (“The Bottom of the Battle”) con i due fratelli interpretati magistralmente da Van Johnson e Joseph Cotten (anche se poi imbastisce un diverso finale che, secondo me, non rispecchia i voleri di Simenon).

Dove

Protagonista

Altri interpreti

Durata

Tempo

Tumacacori (Arizona), villaggio di frontiera tra Stati Uniti e Messico, attraversato dal fiume Santa Cruz che lo spera dalla cittadina di Nogales

Patrick Martin Ashbridge, chiamato P.M (o Pat dal fratello), allevatore, avvocato e vicesceriffo onorario. Sposato con Nora dopo il divorzio da Peggy, 42 anni

Donald Ashbridge, fratello di P.M., condannato per tentato omicidio e fuggito dal carcere

Mildred, sposa di Donald, con cui ha tre figli

Nora, divorziata, possidente, sposa di P.M.

Lil Noland, sposa di un altro allevatore della valle e amica di Nora

Quattro giorni

Epoca contemporanea

 

Anche questa è stata una settimana di compleanni (Chicca, Ines, ed altre ricorrenze, alcune liete altre meno). Per tutti allora alcuni bei pensieri di una brava scrittrice sudamericana, Marcela Serrano, che nel suo libro “I quaderni del pianto” ci fa condividere alcuni bei pensieri: “Gli esseri umani possono essere buoni e cattivi insieme … forse la vita è così, due verità che scorrono insieme come due torrenti paralleli che sfociano nel medesimo fiume” (58); “Voglio che tu mi dica una bugia se questo mi aiuta a sopravvivere” (59); “Ad annoiarsi sono quasi sempre le persone incapaci di partorire un progetto anche minimo, insomma, le persone che non credono nel domani” (84).

Per celebrare una ricorrenza simpatica, siamo anche tornati dopo qualche anno a Parigi, con un freddo polare, ma con una città in fermento già proiettata verso le Olimpiadi. Noi si torna invece, contenti, ai nostri orticelli ed alle nostre pregevoli esistenze. Coronate da tante cose e da tanti affetti da condividere con tanti abbracci.