domenica 27 gennaio 2019

Internazionale - 27 gennaio 2019


Una carrellata intorno al globo, passando tre continenti. Un Giappone che ha visto prove migliori che più mi hanno coinvolto. Una buona Europa, con un libro italiano non spiacevole (forse il migliore del lotto), ed un’America, tra il Nord e il Sud, dove il Trono di Spade la fa sicuramente da padrone rispetto ad una dimessa argentina.
Haruki Murakami “La fine del mondo e il paese delle meraviglie” Einaudi s.p. (prestito di Fako)
[A: 02/05/2017 – I: 14/09/2018 – T: 24/09/2018] - & +   
[tit. or.: 世界の終りとハードボイルド・ワンダーランド Sekai no owari to Hādo-boirudo Wandārando; ling. or.: giapponese; pagine: 509; anno 1985]
Continuo ad essere molto ondivago nei confronti del grande giapponese, un altro dei Premi Nobel in pectore. Anche se quest’anno per le note vicende legate al #MeToo, il premio non sarà assegnato. Ci sono passaggi della sua scrittura che avvincono, legano alla pagina, e si ha voglia di sapere subito cosa succederà dopo, chi farà cosa, come avverrà quell’avvenimento. Poi ci sono momenti di stanca, dove vien voglia di prendere tutto, rimetterlo sullo scaffale e dirsi: ok, sarà per un’altra volta. Comunque, leggendo questo libro che è del 1985 si capisce molto della genesi e della struttura di “1Q84”, scritto circa 25 anni dopo. Qui ci sono elementi in bozza, possibili sviluppi, e pensieri che vagano, con la scrittura doppia che caratterizzerà quello che viene considerato una delle sue massime espressioni (anche se, per me, “Norwegian Wood – Tokyo Blues” rimane insuperato). In questo romanzo, non avendo ancora trovato la cifra di caratterizzare meglio i due mondi, li lascia così come li nomina, lasciandone anche il doppio nome nel titolo. Abbiamo quindi il racconto che si svolge nel paese chiamato “La fine del mondo” ed il racconto nel paese chiamato “Il paese delle meraviglie”. Rispetto alla sua opera più matura, la differenza, qui, è che entrambi i mondi hanno un protagonista maschile, che si capisce ben presto è la stessa persona. Ci si potrebbe incuriosire cercando di capire il passaggio tra uno scenario e l’altro, l’evoluzione temporale sottesa. Ma le due storie sono talmente pallose che più che altro si aspetta un qualche colpo di coda, qualcosa che possa far virare tutto il libro in altro, in un emblema, in un punto di riferimento per ricordarci qualcos’altro. Invece, seppur pieno di eventi, niente sconvolge la flemmatica inutilità del tutto. Arrivando così ad una fine, scontata da un lato, e senza nessuna particolare attrazione dall’altro (tipo, come finirà male questo mondo, cosa ci sarà dopo, e via elucubrando). Perché, da un lato, nel violento e molto attuale (per il tempo dello scritto) paese delle meraviglie, si fa una piccola estrapolazione del mondo presente, e, sulle onde di una mini-fantascienza di maniera, si ipotizza cosa possa essere da qui a qualche anno. Peccato che, letto trenta anni dopo, i piccoli “passi verso il futuro” sono stati talmente sorpassati che sembra quasi di leggere un racconto manieristico dell’Ottocento. In Murakami non ci sono cellulari (i telefoni hanno fili, e senza telefoni è difficile raggiungere persone in pericolo), non ci sono TV digitali, satelliti, GPS, insomma c’è poca fantasia (e pensate che cinque anni prima Douglas Adams aveva scritto la insuperabile “Guida galattica”). Purtroppo, Murakami usa come personaggio centrale e cardine un esperto di computer, un “cibermatico”, che usa connessioni neuronali per criptare i dati, ed una tecnica tipo ipnosi per “mescolarli”, cioè per avviare una seconda fase di crittografia che permetta di non poterli più utilizzare, se non conoscendo una chiave che è solo nel cervello del protagonista. Il tutto avviato da uno scienziato (pazzo?) che aveva con questi dati costruito un “altro mondo”. Tutto quindi deve passare nella testa del tipo, cosa che avviene, anche se ci sono molti passaggi per evitarlo, cattivi che entrano in scena e poi spariscono, una giovane di 17 anni vergine, una bibliotecaria bulimica, ed altre invenzioni catastrofiche. Una volta avviato, e non sarà possibile altrimenti, tutto si trasferirà nell’altro racconto, dove la vita è rinchiusa in una città contornata da un muro invalicabile, dove vivono gli unicorni, dove, per poter restare nella città e continuare a “vivere” bisogna essere separati dalla propria ombra. Dove ci sono figure emblematiche, un Guardiano cattivo, un Generale che gioca a scacchi, persone che, senza costrutto, fanno delle buche in un prato (ricordandomi il famoso “Io fo buchi nella sabbia…”). Anche qui c’è solo una persona positiva, e guarda caso fa anch’essa la bibliotecaria. Sarà un caso? Sarà un segnale? Il nostro inutile protagonista sembra voler fare una ribellione, sembra voler fuggire. Ma alla fine, come nel paese delle meraviglie accetta il suo “destino”, anche qui pare piegarsi alla volontà ineluttabile del fato. Così, dopo 500 pagine in cui aspettiamo qualche scatto in avanti, il tutto si chiude senza, appunto, nessuno scatto. E seppur in altre prove (tipo “Kafka sulla spiaggia”) almeno ci si incuriosiva in alcuni passaggi, qui l’unica curiosità che mi è venuta riguarda i motivi per cui il libro è stato scritto. Il messaggio? La necessità di mettere su carte le proprie circonvoluzioni mentali? Altro che io non ho capito? Non so. Certo, il prossimo Murakami dovrà essermi spiegato bene prima che se ne possa leggere. Con tutta la benignità che voglio al mio amico Fako.
“Col passare degli anni aumentano le cose che non riusciamo più ad aggiustare.” (226)
“Se qualcuno … mi avesse gridato ‘La tua vita è un fallimento’ non avrei auto nessuna prova per negarlo.” (433)
“Vuoi che ti dica una cosa? Adoro sentirmi fare dei complimenti.” (477)
“Chissà se avevo davvero la capacità di far felice qualcuno?” (504)
Alberto Rollo “Un’educazione milanese” Manni editore euro 16
[A: 23/06/2017 – I: 01/10/2018 – T: 10/10/2018] &&&  +
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 317; anno: 2016]
Non meravigliatevi se ogni tanto anche il vostro ragno preferito che tesse trame e reti sottili, decide di investire in un libro a prezzo pieno. Ma questo era un finalista del Premio Strega 2017, e mi aveva incuriosito il premio, l’autore, nonché l’editore di cui credo avere poco o nulla. Non meravigliatevi anche del lungo tempo di lettura, che, come orami sapete, quest’ottobre sta diventando il mio mese da badante ben referenziato. Non mi dispiace, ma di necessità questo sottrae tempo a tutte le altre amene attività che compongono il puzzle della mia vita. Allora, per prima cosa il Premio. Non che io straveda per i premi letterari, ma la vincita o la nomina nelle cinquine finali portano interesse a libri nuovi, magari aprendo panorami che non ci si aspettava di vedere (pardon, di leggere). Avendo quindi dato una scorsa ai finalisti, ho deciso che questo mi attirava più degli altri, anche se poi non vinse, ma prevalse il montanaro Cognetti. Saltando l’autore, dedico alcune note alla casa editrice, piccola ma sempre foriera di una sua linea di coerenza. Nascosta nelle pieghe del barocco leccese, ha sempre avuto un suo interesse in alcuni ambiti, diciamo anche di nicchia, di letteratura e saggistica. Nonché, ricordo, la speciale attenzione alla poesia, con Alda Merini e Giorgio Caproni in testa. Infine, Rollo, uno dei grandi operatori culturali, anche se non sempre noto al grande pubblico, ed anche non sempre uscito dalla cerchia milanese. Dopo un suo percorso personale, di cui questo libro dona una traccia esauriente, alla fine degli anni Settanta (più o meno lì dove finisce l’educazione del titolo) inizia a lavorare nell’editoria. Prima con Editori Riuniti, poi per vent’anni alla Feltrinelli, diventandone nell’ultimo periodo Direttore Letterario, quindi una breve stagione da Baldini+Castoldi, per diventare nell’ultimo anno consulente narrativo alla Mondadori. Nelle sue lunghe stagioni, di lavoro e di formazione, è inserito intrinsecamente nella vita culturale e politica (ma una volta questi erano anche sinonimi) milanese. E se ora può parlare di Testori o di Fo, di Caproni o di Rostagno, in questa sua prova letteraria, esordio narrativo, dopo aver fatto da curatore e saggista per decenni, prova a mettere in fila i pensieri spettinati che lo hanno portato dalle “case di ringhiera” al suo stato attuale, di Alberto Rollo a tutto tondo. Con un andamento narrativo che non sempre mi è stato di aiuto, che troppe volte andar per ponti e viali mi ha distolto da uno scorrimento lineare delle vicissitudini di Rollo, l’autore cerca di dare sensi e nomi al modo in cui ha costruito sé stesso. Tolte le sovrastrutture, al fine vedo disegnarsi a poco a poco il personaggio. Figlio di immigrati pugliesi, con il padre operaio meccanico in una “fabbrichetta” come direbbe un milanese doc, e madre ex-sarta, ora sposata e dedicatasi tutta alla famiglia (ci sarebbe anche da riflettere sulla possibilità di mantenere una famiglia di 4 persone con un solo stipendio, ma forse è un discorso lungo). Padre operaio, dicevo, e comunista. Di quel comunismo di adesione piena che nasceva nel dopoguerra, e che si è sviluppato come filo rosso fino alla fine degli anni Sessanta. Alberto a scuola alle elementari, Alberto con i parenti, i sodalizi amicali della gioventù, la sorella maggiore ma di troppo più grande per essere un sodalizio vero. Poi il liceo, nel pieno del ’68, visto che Rollo è del ’51. Con gli amici, i compagni veri, che segneranno la sua vita. Le manifestazioni, la morte di Pasolini e quella di Feltrinelli. Insomma, tutta l’Italia che ho vissuto anch’io, seppur di poco più giovane di Alberto. Mescolate alle pieghe narrative, questi intarsi miei e suoi mi hanno suonato a fondo (anche perché sono anche fresco della lettura dello speciale di MicroMega sul ’68). Meno altro, meno l’espediente narrativo centrale, di tirar fuori tutto il corpo centrale della sua narrazione mentre, ora, “carico d’anni”, ma forse non di sventura, aspetta forse inutilmente l’ultima metropolitana per tornare a casa. Lì sulle panchine deserte, come bolle affiorano questi ricordi, ritornano i pensieri di cosa sarebbe potuto essere, e non è stato. Ritorna l’incidente mortale dell’amico Marco, ed in sottofondo, ma non scordato, la morte per overdose dell’amico Franco. Il tutto condito con Milano, una città che in gioventù rifiutavo, non capivo, ma che, andata a vedere in tempi maturi, mi ha lasciato impressioni diverse e contrastanti. Capisco cosa sia potuto nascere lì, come capisci, quando li vedi, i luoghi dove nascono le cose. Se non vedi Milano non capisci, tanto per dire una battuta, “Avanguardia Operaia”, come se non passeggi per il Ladakh non capisci Milarepa. Pur con tutta la buona volontà, alla fine, tuttavia, il libro è rimasto distante da me. Che sono abituato ad essere coinvolto direttamente, di pancia, quando ce n’è bisogno. Mentre pensare anche in modo profondo attraversando il Ponte della Ghisolfa lo capisco con la testa ma non con il cuore. Qualcuno meno romantico di me (o del mio essere attuale) ne sarà entusiasta. Io l’ho trovato un libro che, seppur a fatica, non mi è dispiaciuto leggere.
George R.R. Martin “Il trono di Spade” Mondadori euro 12
[A: 05/07/2016 – I: 17/10/2018 – T: 20/10/2018] - &&& e ½
[tit. or.: A Game of Thrones; ling. or.: inglese; pagine: 423; anno 1996]
Ci sono voluti più di 20 anni per arrivare a leggere in maniera critica ed analitica il primo libro de “Il Gioco dei Troni”, così come appunto nel 1996 l’immaginifico George Raymond Richard Martin decideva di chiamare l’inizio di una delle saghe più lette, più viste e più amate. Purtroppo, oltre a scontrarci con i titoli italiani (ma ormai “Il trono di spade” è diventato un marchio), ci si imbatte anche nella pervicacia delle edizioni, dove i cinque romanzi di Martin dedicati alle “Cronache del ghiaccio e del fuoco” vengono spezzettati in circa una dozzina di volumi. Per cui questo, in realtà, è metà del primo libro della serie, dove appunto “A Game of Thrones” viene diviso in questo e nel successivo “Il grande inverno”. Comunque, dopo averne letto qualcosa quando fantasy e fantascienza erano più presenti nel mio orizzonte letterario, e dopo averne parlato con gli appassionati, e dopo aver visto almeno la Croazia e la Scozia, due dei luoghi must dove è stata girata la serie TV (manca la Nuova Zelanda, un po’ lontana forse), non potevo esimermi di includere anche questo esempio, ormai classico, di letteratura. Sicuramente la scrittura è di buon livello (anche se qualcuno si è lamentato delle traduzioni mondadoriane non sempre accurate), ed accompagna una saga che ha il sapore di un classico, pur essendo farcita di elementi nuovi ed interessanti. Martin ambienta la sua epopea in un mondo altro, forse futuro, ma di sicuro regredito ad un Medioevo europeo di stampo classico. Tornei di cavalieri, strutture feudali ed altro ne sono un chiaro esempio. Su questo si innestano tre elementi “diversi”: il lato fantasy, rappresentato da animali fantastici (i meta-lupi), uova di drago dormienti per millenni, e zombie (o simili creature) che vengono a minare i fragili equilibri del mondo conosciuto; il lato “guerresco”, con una struttura che sembra ricalcare la Guerra dei Cento Anni di britannica memoria, con alleanze, tradimenti ed altre tipologie ben presenti in Europa negli anni bui; il lato “osé”, che c’è sesso, normale e straordinario, etero ed omo, incestuoso perfino, tanto per solleticare il lettore di quando in quando a non distrarsi dalle vicende. Che sono poi vicende corali, che si svolgono in un mondo diviso tra due grandi continenti: Westeros (riportato in italiano come “Il grande Nord”), luogo freddo e dove è difficile vivere, dove arrivano stagioni senza cadenze e durate predeterminate, diviso in Sette Regni, che rispondono ad un unico re, ed Essos (“Il libero Sud”), dove scorrazzano popoli nomadi e sorgono e prosperano città libere. Tra l’altro, all’estremo Nord c’è una Barriera, un gigantesco muro di ghiaccio, mutuato dal Vallo d’Adriano in Inghilterra, controllato dalla confraternita dei Guardiani della Notte, per tener fuori dal mondo civile i Bruti e gli Esterni. Non ho molta intenzione di addentrarmi nei meandri del primo volume, che, pur tipicizzanti, andrebbero corredati da tutti i restanti altri 11 tomi italici, cosa che per il momento non è nelle mie intenzioni. Per chi si incuriosisce, vorrei invece delineare quanto succede prima dell’inizio della saga. Infatti, quindici anni prima del primo romanzo, i Sette Regni sono sconvolti da una prima Guerra Civile. Il figlio del Re Folle, Aerys II Targaryen, Rhaegar, rapisce Lyanna Stark, a scopi sessualmente comprensibili, suscitando, com’è ovvio, le ire del promesso sposo di Lyanna, Robert Baratheon. Ma quando la famiglia Stark ne chiede la liberazione, il Re Folle uccide i capi della famiglia. Eddard Stark, capo del più grande regno del Nord, “Grande Inverno”, si unisce a Robert e Jon Arryn, dichiarando guerra ai Targaryen. Nel gioco delle alleanze, Eddard e Jon sposano le sorelle Tully, Catelyn e Lysa, rinsaldando i legami tra loro. Il culmine della contesa si avrà nella famosa “Battaglia del tridente”, dove Robert uccide Rhaegar (che aveva già fatto fuori Lyanna), e Jaime Lannister, di una casata un tempo fedele ai Targaryen, li tradisce, uccide a tradimento il Re Folle, concedendo a Robert di farsi nominare Re dei Sette Regni, suggellando l’accordo tra le famiglie con il matrimonio tra lo stesso Robert e Cersei Lannister, la sorella gemella di Jaime. Pur essendo sconfitti, i due ultimi Targaryen, il giovane Viserys e la neonata Daenerys si salvano fuggendo al di là del Mare Stretto, verso i regni del Sud. Avete già capito quanto e come si possa sviluppare la trama. L’ultima invenzione di Martin, molto efficace dal punto di vista narrativo, è permettere ad ogni personaggio di narrare in prima persona una sequenza di avvenimenti, così che ogni capito è esposto dal Punto di Vista di uno di questi. In questo inizio, ne parlano Eddard Stark e la moglie Catelyn Tully, il primo perché il re Robert lo vuole come suo secondo, essendo improvvisamente morto il terzo sodale, Jon Arryn, la seconda perché cerca di capire chi ha attentato la vita del suo secondogenito, Bran. Poi abbiamo tre dei figli Stark: Bran, dalla cui voce capiamo come siano stati Jaime e Cersei a cercare di ucciderlo, avendone lui scoperto le tresche amorose, Sansa, la quattordicenne figlia maggiore degli Stark, promessa sposa al figlio di Robert, e Arya, la minore degli Stark, dodicenne irrequieta, più dedita a cercare di imparare la scherma che a giocare alle bambole. C’è poi Jon Snow, il figlio bastardo di Eddard, di cui non si consce la madre, e che entra, per sfuggire alle ire della famiglia, nei Guardiani della Notte. Altre due voci sono poi importanti: Daenerys, ormai anche lei quindicenne, che va in sposa con il re dei Dothraki, Drogo, cercando di portarlo sul sentiero di guerra contro i Sette Regni, e Tyrion Lannister, il cadetto della famiglia, chiamato il Folletto (in inglese “Imp” che propriamente sarebbe “Diavoletto”), per le capacità verbali, le intemperie sessuali, nonché il fatto che è affatto da nanismo (inoltre ha gli occhi di due colori diversi!). Non so esattamente come si è andata sviluppando l’intera saga, ma da questo primo assaggio, direi che 4 sono i personaggi che più mi vengono in mente ed in simpatia: Bran e Arya Stark, Jon Snow e Tyrion il Folletto. Concludo ribadendo la poca voglia, attuale, di seguirne le vicende letterarie, ma l’idea, quando se ne ha tempo, di vederne i vecchi episodi della Serie TV (di cui ho visto il primo che ritengo in ogni caso ben fatto).
“Le storie … non sono mie. … Le storie esistono prima di me e dopo di me.” (252)
Ernesto Sabato “Il tunnel” Repubblica Duemila euro 9,90
[A: 28/05/2018 – I: 06/11/2018 – T: 10/11/2018] - && --  
[tit. or.: El Tùnel; ling. or.: spagnolo; pagine: 127; anno 1948]
Di certo Ernesto Sabato è stato un personaggio molto particolare della vita culturale (e non) dell’Argentina. Figlio di immigrati calabresi (tanto che in vecchiaia prenderà la doppia nazionalità italo-argentina), inizia la sua vita pubblica appassionandosi alla letteratura ma laureandosi in fisico-matematica. Inoltre per alcuni anni, dal ’33 al ’36, è segretario giovanile del Partito Comunista. Emigrato in Europa alla fine degli anni ’30, frequenta gli intellettuali parigini mentre collabora agli studi sulle radiazioni atomiche nei laboratori dei coniugi Curie. Tornato nel ’40 in patria, per alcuni anni insegna all’Università, per poi, dal 1945 (a 34 anni) dedicarsi solo alla letteratura. Ma come intellettuale, come saggista, per lo più, che di romanzi ne scrive solo 3. Questo è il primo pubblicato in patria, e ci si torna. Chiudiamo solo per dire che Sabato muore nel 2011, 55 giorni prima di compiere 100 anni. Veniamo quindi a questo suo primo scritto. Niente da dire sulla forma, è una scrittura meditata, forse anche troppo. Si sente che ogni frase non è messa lì a caso, è frutto di scrittura, di pensiero, di meditazione, di riscrittura. Per approdare ad un testo che si legge in tanti modi diversi. La storia, pura, lineare, della confessione dell’assassino Juan Pablo Castel. La storia di ogni possibile interpretazione del reale, che cambia faccia, ad ogni cambio di prospettiva. La storia della critica sottesa al mondo fatuo di intellettuali che non sanno di cosa parlano, ma con le loro parole pensano di governare il mondo. Il risvolto finale, di quell’ultima pagina, aggiunta quaranta anni dopo la scrittura, con l’accenno alla morte di Allende, che capovolge i giudizi, seppur ce n’erano stati, e ci porta a pensare che tutto si possa leggere come una accusa a tutte le dittature che interpretando a proprio modo il reale, se ne costruiscano una visione totalmente altra. E terribile. Ma io non ho tutte queste capacità, e torno mestamente alla prima storia, all’ossessione di Castel, ed al suo percorso, al tunnel che imbocca dal primo istante della sua consapevolezza del mondo al di fuori di sé, e che non può che percorrere fino in fondo, fino alle logiche conclusioni. Non ‘è via d’uscita, se si entra nel tunnel. Si può solo andare avanti. Sino alla morte. Oppure sino a qualcosa peggiore della morte, al rimanere in vita ripercorrendo per sempre tutte le azioni che ci hanno portato alla fine del tunnel. Castel era un degno pittore, parte dell’élite del proprio paese, osannato dalla critica. Ma intimamente insoddisfatto. Nessuno, in realtà, penetrava veramente il senso dei suoi dipinti. Pensa di trovare questo qualcuno che lo capisce, vedendo una donna guardare un suo dipinto, e fossilizzarsi su di un particolare, che tutti ignorano, ma che per Castel è il vero senso della sua pittura. Da questo sguardo Castel costruisce il suo mondo. Decide che Maria è la persona che lo può capire. La cerca, casualmente la trova. Irrompe con brutalità psicologica nel suo mondo. Non si domanda mai chi sia Maria, cosa abbia fatto prima, cosa faccia ora, quali siano le aspirazioni vitali di Maria. Pensa solo a Maria rispetto a sé stesso, ai suoi quadri, alla sua vita. Così cerca di intrufolarsi nella vita di lei, senza curarsi se sia sposata, se abbia una famiglia. La travolge con la propria, indubbia, vitalità interiore. Con il mondo che solo lui conosce, cristallizzato in quei particolari che solo lui e forse Maria vedono nel quadro. Ma Maria è una persona, non un suo alter ego. Fa, dice, agisce. Ma ogni sua azione, ogni suo pensiero, vengono letti in mille modi dalla mente sempre più turbata di Castel. Maria va a trovare il cugino o l’amante? Maria ha capito il suo quadro o è la sua immaginazione che vuole che Maria abbia compreso? In un delirio che si approfondisce pagina dopo pagina, Castel analizza tutto, e ne fornisce interpretazioni sempre diverse. Come tutti gli alienati, ha anche momenti di grande lucidità, in cui si prende in giro, in cui potrebbe, seguendo l’istinto, cambiare le carte. Non diventare un torturatore. Non calarsi nei panni di un torturatore, come saranno i militari argentini o quelli cileni, anni ed anni dopo, ma come sono stati da poco i nazisti, ed anche gli stalinisti. Un ragionamento che si collega a quell’ultima lezione di Bauman che ho da poco letto sulla memoria degli omicidi categoriali. Tutto non potrà che finire così come annunciato nelle prime righe: “sono Juan Pablo Castel, il pittore che uccise Maria Iribarne”. Dopo seguono le poco più di cento pagine, dure, inflessibili, terribilmente conseguenti. Eppur tuttavia, non mi è pienamente piaciuto, perché non dà sbocchi, perché ci costringe a pensare che il nostro destino sia segnato, e che la fine sia ineluttabile e predeterminata. Ma qui mi fermo, che, nonostante tutto, ritengo un libro che è degno di una lettura, forse migliore della mia. Che però, per Sabato, per l’uomo Sabato, ho tanta personale simpatia, che sono contento di aver letto questo (ed anche il suo secondo libro “Sopra eroi e tombe”). Non sempre mi piace quello che leggo, ma mi piace leggerne.
“Perché tutto deve avere una risposta?” (56)
“Il romano poliziesco rappresenta nel XX secolo ciò che rappresentava il romanzo cavalleresco all’epoca di Cervantes. [pensando a Chisciotte] immaginate uno … che si mette a cercare di risolvere delitti e ad agire nella vita reale come il detective di un romanzo … Perché non lo scrivi? Per due ragioni: non son Cervantes e sono un gran pigro.” (87)
Sebbene l’India non si sicura, è sicura la partenza, che sto preparando un back-up di modo che, volenti o nolenti, il 9 febbraio si sia su di un aereo. Per ora comunque un po’ di riposo, dopo aver passato un bel pomeriggio a passeggio in una villa eclettica che volevo da tempo visitare a fondo. Un saluto a tutti da Villa Blanc.

domenica 20 gennaio 2019

Perryana - 20 gennaio 2019


Ecco, dopo una settimana dedicata ad un grande, un’altra settimana monotematica. Questa volta è solo una onesta scrittrice, dalla vita abbastanza contorta. Per chi non ricordasse le mie prime trame, ricordo che Anne Perry, da minorenne, fu condannata in Nuova Zelanda per omicidio. Dopo alcuni anni di carcere, uscita e girellante per il mondo in cerca di sé, trova questa sua dimensione di scrittrice di gialli ambientati nell’Inghilterra vittoriana. Dove segue le vicende dell’ispettore Pitt verso la fine del secolo e della guardia fluviale Monk a metà dello stesso. Oggi parliamo di quattro episodi di Thomas Pitt (ho messo per ognuno il numero dell’episodio).
Anne Perry “Assassinio a Brunswick Gardens” Mondadori euro 5,90
[A: 12/04/2017 – I: 13/09/2018 – T: 14/09/2018] && e ½
[titolo: Brunswick Gardens; lingua: inglese; pagine: 285; anno: 1998]
PITT 18
Riprendiamo dopo un lungo lasso di tempo le letture della serie maggiore di Anne Perry, dedicata alla gesta dell’ispettore Thomas Pitt, della sua famiglia, e di quanto gira intorno alla Londra del 1890. Non torno ancora sulla scrittrice, che tanto di lei ho scritto, e forse un giorno anche di lei si farà un sunto. Comunque, qui si torna indietro nella cronologia, come vedete nel sotto titoletto. Siamo infatti alla 18^ avventura, dove ormai siamo arrivati a più di 30 episodi. Ma soprattutto siamo tornati indietro nel tempo. ricordo che il primo romanzo che lessi, circa sei anni fa, era il 16° della serie. Ed allora, piombiamo di nuovo agli inizi della carriera dell’ispettore Pitt. Che qui è ancora di sede vicino al Covent Garden, a Bow Street, con un capo che gli dà piena fiducia, e con la famiglia intorno: la moglie Charlotte, i figli Jasmina e Daniel, la tuttofare Gracie. Nonché il sergente Tellman, suo unico e vero aiutante. La vicenda è imperniata sulla morte di una giovane signorina, impiegata come aiutante presso un reverendo che sta effettuando studi storici. Ricordo che nella Chiesa Anglicana i preti si possono sposare, come fa il rev. Parmenter, che sposò la ancora piacente Vita, ed ha due figlie tra i venti ed i venticinque anni, Clarice e Tryphena, ed un figlio di poco più grande, Mallory. Parmenter si occupa di studi storici su antichi testi biblici e la giovane Unity entra nella sua casa come esperta appunti di lingue antiche. La composizione della casa è completata da Dominic, già cognato della famiglia Pitt, in quanto vedovo di Sharon, morta tragicamente in uno dei primi episodi. Qui, lo scatenarsi del giallo è dato appunto dall’inspiegabile morto di Unity, dopo un suo alterco con Parmenter su questioni religiose. E pare proprio che qualcuno l’abbia spinta giù dalle scale, facendole rompere l’osso del collo. La situazione viene affidata a Pitt proprio per la delicatezza del caso. Dato che tutti gli indizi fanno ritenere proprio il reverendo come sia il colpevole della vicenda. Qui si svelano tutte le arti di intreccio di Anne Perry, nonché la sua capacità di annodare le vicende e le inchieste non solo dell’ispettore Pitt, ma anche della moglie Charlotte, sempre pronta a dargli una mano. Anche perché c’è la presenza inquietante di Dominic, a suo tempo malvisto dalla famiglia Pitt, ma che ora, dietro i buoni uffici proprio di Parmenter, sembra redento a nuova vita. L’inchiesta è discretamente lineare, Pitt è sul pezzo, anche se deve scontrarsi con una serie di complicazioni dovute alla posizione del reverendo ed agli incroci che si verificano nella casa. Intanto Unity non solo era un’attiva suffragetta, non solo non si capisce come sia potuta cadere dalle scale, ma era anche incinta. Nella casa, poi c’è Tryphena che la difende a spada tratta, scontrandosi con tutta la famiglia. Ma c’è la posizione dei tre maschi di casa. Il reverendo sembra troppo anziano per essere l’amante di Unity. Dominic, dati i suoi trascorsi, è un papabile candidato, anche se Charlotte ora lo difende contro tutti. Mallory, infine, è in lizza per trasferirsi a Roma, in quanto abbandona la Chiesa Anglicana per passare in quella Cattolica Romana, dove non sono previsti preti sposati. Il secondo intoppo è il fatto che nell’intermezzo tra le bravate giovanile ed il suo incontro con Parmenter, Dominic ha vissuto in modo sregolato, in case quasi comuni ante litteram, dove aveva già conosciuto, anche carnalmente, la bella Unity. Ma tutto, anche il racconto delle grida che si sono sentite prima della caduta di Unity, continuano a far pendere la bilancia verso il povero reverendo. Stranamente, poi, sembra che anche Vita, pur difendendolo nominalmente, lascia aperti spiragli consistenti di dubbi. La svolta? Quando Dominic si dichiara a Clarice, e Vita non la prende bene. Quando Charlotte scopre che le scarpe che indossa Unity non sono le sue. Quando Vita, sostenendo che lo ha assalito in un momento di folle rabbia, uccide per difendersi lo stesso reverendo. Sarà ovviamente Pitt che, collegando i vari puntini, farà uscire fuori il quadro completo del come e del perché della morte della povera Unity. Noi, astuti lettori, da alcuni indizi seminati bravamente dalla Perry nei primi capitoli, avevamo già intuito dove si stava andando a parare. Quindi, al solito, come ho già detto in altre trame della scrittrice, un impianto giallo matura ma non avvincente, e di contro una bella ricostruzione degli anni londinesi verso la fine dell’Ottocento.
“[vai avanti] un giorno alla volta, aggrappati alla fiducia che nutri nel tuo valore e costruisci su quella, senza fretta, un piccolo passo dopo l’altro.” (58)
“[La teologia] non è una materia per donne, sono costituzionalmente inadatte.” (96)
“Cosa vuol saperne lei della vecchiaia, del corpo che non funziona più, delle persone care morte e del non vedere davanti a sé più niente, se non la morte stessa?” (118)
“La marmellata d’arance gli piace troppo.” (130)
Anne Perry “Il complotto di Whitechapel” Mondadori euro 4,05 (in realtà scontato a 1,50 euro)
[A: 05/10/2017 – I: 15/09/2018 – T: 17/09/2018] && --
[titolo: The Whitechapel Conspiracy; lingua: inglese; pagine: 297; anno: 2001]
PITT 21
Avendo deciso i dare fondo a tutti i libri che Anne Perry ha dedicato alle vicende di Thomas Pitt, che sono presenti nella mia biblioteca, eccoci ora che affrontiamo un libro nodale nelle sue storie. Certo, abbiamo saltato due episodi, ma, a quanto ne so, erano due episodi del Pitt così detto classico, con morti strane ed inchieste ben condotte dal nostro. Qui entriamo subito in un ambito nuovo. Dove il nostro sovraintendente non sa bene come muoversi. C’è una morte poco spiegabile, di Fetters, un signorotto locale, molto dedito agli studi e con qualche velleità repubblicana, di certo poco consona in un ambiente monarchico come quello inglese. Le indagini di Pitt, che però non sono parte del racconto, dimostrano che è un omicidio e che solo un amico del defunto, John Adinett, può essere stato l’assassino. Sebbene siano solo prove indiziarie, e sebbene si tenti in tutti i modi di screditare Pitt, le giurie di primo e secondo grado condannano Adinett, che sarà in poco tempo giustiziato. Certo, Pitt non è contento di non aver trovato un movente. Ma quello che più importa è che la sua presa di posizione ha scatenato una non meglio identificata Confraternita, ben legata ai poteri forti. Così, di punto in bianco, Pitt si trova sollevato dai suoi incarichi, e scaraventato nei Reparti Speciali, comandati da Victor Narraway. Certo, noi che abbiamo già letto puntate successive, sappiamo che tra i due nascerà un forte sodalizio, ma al momento assistiamo ai primi approcci, dove nessuno dei due si fida dell’altro. Fatto sta, che i Reparti Speciali devono controllare facinorosi ed altre frange “estremiste”, così che Pitt si ritrova a dover vivere in posti malfamati di Londra, specialmente a Whitechapel, e sotto copertura. Il tutto mentre scorre il 1892, e Londra è anche attraversata da aneliti strani. La monarchia, non ben guidata dall’anziana Regina Vittoria, spende e spande, e comincia ad essere malvista dalle classi lavoratrici. Che basano, in quei quartieri malfamati, la loro esistenza, sulla produzione dello zucchero. Si avvicina quindi una miscela esplosiva: lì, ci sono ebrei rifugiati, ci sono repubblicani esaltati, ci sono anarchici, ci sono irredentisti irlandesi. Basta poco per far nascere tumulti e rivolte. Anche perché, mentre Pitt si addentra in questi luoghi, non si fanno passi avanti nella vicenda “Adinett”. Benché Charlotte, la pugnace moglie di Pitt, cerchi, parlando con la moglie del defunto e cercando tra i libri della biblioteca, motivi e spiegazioni. Il tutto ben complicato dalla presenza di un giornalista che sta scavando in una sordida relazione tra vari elementi, che coinvolgono le strane uccisioni che il famigerato “Jack lo Squartatore” aveva perpetrato proprio 4 anni prima sempre lì a Whitechapel. Qui si inserisce tutta una digressione della storia nella storia, dove si cerca di “raccordare” sacro e profano. Poiché tutto si svolge proprio a Whitechapel. Ed allora, la nostra scrittrice, sposando la tesi del complotto reale, cerca di far quadrare il cerchio. Ora, né io né nessun altro ha mai risolto i dubbi su chi sia stato e perché siano stati commessi i famosi delitti imputati a Jack lo Squartatore. L’idea che ci ripropone la nostra storica scrittrice è lineare, anche se ben complicata. Alberto Vittorio di Sassonia-Coburgo-Gotha, duca di Clarence (1864-1892), nipote della regina Vittoria, è un erede al trono, con molte pecche al suo arco. Frequenta Whitechapel e sposa una prostituta cattolica, cosa ben grave nella rigida monarchia anglicana. I ministri del regno, attraverso collegamenti con la massoneria e la malavita locale, usano tale Jack perché uccide tutte le testimoni della relazione tra il rampollo della famiglia regnante e l'ex prostituta. Quindi, se qualcuno, ad esempio il giornalista di cui sopra, trovasse delle prove del complotto, ben grave sarebbe la posizione della monarchia inglese. Quindi, è sempre a Whitechapel che girano i ribelli repubblicani, in cerca di notizie e cospirazioni. Adinett è uno di questi, così come Marco Corona, repubblicano italiano un tempo sodale della zia di Charlotte Pitt. Fetters, pur anelando riforme sociali, rifugge i metodi violenti. Per questo, alla fine, Adinett, pur suo sodale, non può che ucciderlo. Mentre Corona tenta un ultimo colpo, per inguaiare la monarchia con attentati nella zona calda degli zuccherifici. Sarà Pitt che troverà il bandolo della matassa, facendo acquisire le industrie direttamente dal Principe di Galles, dopo che sia il giornalista che Corona trovano repentine morti. Tutto risolto, ovviamente. Ma il tentativo di mescolare Storia e storia non risulta particolarmente coinvolgente. Unico punto, è la spiegazione del passaggio di Pitt da un ruolo ad un altro. Ne vedremo l’evoluzione, anche se già sappiamo che sarà tutto a vantaggio suo, della sua famiglia, e dei suoi sodali.
“Gli uomini che non sanno ridere di sé stessi mi spaventano più di quelli che ridono di tutto.” (229)
Anne Perry “L’amante egiziana” Mondadori euro 3,60 (in realtà scontato a 1,50 euro)
[A: 28/01/2017 – I: 18/09/2018 – T: 20/09/2018] &&
[titolo: Seven Dials; lingua: inglese; pagine: 280; anno: 2003]
PITT 23
Qui saltiamo un solo episodio, dove credo non ci sia molto da aggiungere, tanto che in questa nuova storia non sembra ce ne siano strascichi. Certo, gli editor italiani non hanno invece risparmiato sull’idea di usare un titolo “acchiappino”, puntando sull’esotico e sull’erotico, quando il titolo originale, come quasi sempre nelle storie di Thomas Pitt, si riferiva ad un luogo di Londra. Nella fattispecie, “Seven Dials”, che si trova come al solito vicino a Covent Garden, una delle zone più a rischio all’epoca dei fatti (ricordo che siamo sempre intorno al1892), ed altrettanto vicino a Keppel Street, la strada dove abita la famiglia Pitt. Per quanto riguarda la storia, invece, siamo nelle punte più basse della scrittura e del coinvolgimento che ci offre Anne Perry. Si batte e ribatte su argomenti ripetuti, su situazioni similari, senza darci più quegli spunti che ci offrivano i primi volumi. Sarà che il passaggio di Pitt dalla Polizia ai Reparti Speciali, frena molto le ricerche poliziesche, spostandosi sempre più su intrighi, complotti ed altre amenità. Tenta la Perry di mescolare indagini poliziesche, come nel primo Pitt, con il suo incarico attuale, molto più sul versante diplomatico relazionale. Ma il romanzo procede a rilento, senza prendere mai una sua andatura coinvolgente. C’è un morto, il tenente Lovat, ex-ufficiale ora diplomatico, trovato morto nel giardino della bella egiziana Ayesha Zakhari, che ha ancora in mano la pistola. Ma l’omicida pare essere il di lei amante, il ministro del governo Gladstone, Saville Ryerson. Per questo lo stesso primo ministro chiede l’intervento dei Progetti Speciali. Il comandante Narraway, che ancora non entra in intimità con la famiglia Pitt, decide quindi di affidare tutto a Thomas. Che indaga, ma sia l’egiziana che il ministro tacciono. Mentre gossip mirati escono sui giornali. Anche perché Ryerson è deputato in Manchester, grosso centro del commercio del cotone. Dove ci sarebbero grossi problemi se venisse a mancare la materia prima che, guarda caso, viene proprio dall’Egitto. Al fine di togliere veli alla vicenda, Pitt va anche ad Alessandria per indagare su Ayesha. Scoprendo che è copta e non islamica, che ci sono torbide vicende alle spalle, avvenuti proprio durante l’occupazione inglese. Sembra che ci sia stata una carneficina innescata da ufficiali britannici. Ma Pitt scopre poco altro, se non l’ambiguo comportamento di un console britannico. Nel frattempo, sulla vicenda principale si innesca la storia della scomparsa di Martin, fratello di un’amica di Gracie, la tata dei Pitt. Che coinvolge il vecchio (temporalmente non anagraficamente) sottoposto di Pitt, nella ricerca. Ricerca che si complica dato che anche il principale del detto fratello è scomparso. Come ci si immagina, noi astuti lettori delle opere della scrittrice già pensiamo di sapere che ci sia una possibile convergenza tra le due storie. Tutto si snoderà nel momento del processo. Qualcuno vuole creare lo scandalo per vendicarsi della carneficina, coinvolgendo il servitore di Ayesha, lui sì mussulmano, e colpendo Lovat e il padrone di Martin. Ma cercando anche di scatenare una guerra commerciale sul cotone, come aveva previsto Narraway. Quindi Ayesha, copta, viene mandata dall’Egitto in Inghilterra per “affascinare” Ryerson, diventandone amante, dato che sono comunque cristiani, e cercando di convincerlo ad aumentare i soldi inviati in Egitto per il cotone. Come servitore, qualcuno le appioppa il mussulmano Tariq, la cui famiglia fu sterminata in un incendio doloso provocato da Lovat e compagni. Tutte queste “pedine” poi erano manovrate da un personaggio, che vediamo alla fine palesarsi, ma che si poteva suppore un po’ prima. La fine, come spesso accadde nei romanzi della Perry, è sempre un po’ frettolosa. Condensata in poche pagine, si arriva a sistemare tutti puntini sulle “i” ed a sventare tutte le possibili minacce, in un crescendo, dove inizia Charlotte, la moglie di Pitt, a risolvere il mistero di Martin, a collegarlo agli egiziani, e Pitt, mettendo sotto torchio Ayesha, scopre gli intenti di Tariq. Ma anche del vendicatore di cui sopra. Tuttavia, la storia decolla poco, come detto ampiamente. Anche perché, questa mescolanza tra storia e Storia, è poco congeniale alle corde della scrittura di Anne Perry. Che meglio si trova nel narrare l’ambiente vittoriano, i suoi orpelli, le sue formalità, i suoi personaggi vacui, ma che ha anche un buon tocco quando scende sul versante opposto, dei poveri e degli oppressi (come meglio gli riesce però nella serie di Monk). Rimane sempre sospesa tra questi due versanti, il patrizio ed il plebeo. Dove qui si privilegia il primo, e dove io continuo a pensare che, invece, alla fine, sia più interessante e meglio descritto, il secondo. Speriamo torni presto anche Monk.
Anne Perry “Mezzanotte a Marble Arch” Mondadori euro 5,90
[A: 24/06/2016 – I: 21/09/2018 – T: 22/09/2018] &&--
[titolo: Midnight at Marble Arch; lingua: inglese; pagine: 273; anno: 2012]
PITT 28
Ed invece, eccoci ad un nuovo capitolo delle vicende di Thomas Pitt. C’è un salto di ben cinque libri, che però io ho già letto e tramato. Motivo per cui sappiamo come si sia evoluta la storia di Pitt, come sia diventato a sua volta il capo dei Progetti Speciali, mentre il suo vecchio capo, “promoveatur ut amoveatur”, diviene membro della Camera dei Lord. Dopo tutte le vicende che hanno portato a questi cambiamenti, che coinvolgevano da vicino anche l’Irlanda ed i movimenti irredentisti locali, in questa nuova avventura, pur toccata da elementi diplomatici, torniamo quasi a vedere le movenze del vecchio sovraintendente. Ovviamente, anche l’entourage di Pitt è cambiato, essendo la tata Gracie finalmente andata in sposa al sergente Tellman. Fortunatamente rimane ad aiutare i nostri con le sue conoscenze aristocratiche, la prozia lady Vespasia Cumming-Gould. Temporalmente, intanto, siamo arrivati al 1896, data importante per uno degli aspetti del romanzo. Non per il principale, che qui la nostra scrittrice affronta un argomento delicato, in tutte le età: lo stupro. Dopo aver fatto morire molte donne in molti modi nei precedenti 27 romanzi, qui, pur mantenendo un linguaggio raffinato, la scrittrice si cala nella descrizione della brutalità sessuale tra le classi superiori. Le donne violate (nei romanzi, nella vita, sempre) dicono in modo sincero e crudele che le loro vite sono rovinate. Ancor più nell’era vittoriana, anche se le parole del patologo della polizia che esegue l’autopsia su di una di queste donne possono venir ripetute in ogni età: "Molte donne non superano mai lo stupro. Non possono sopportarne la vergogna e l'orrore". Non solo le vittime si sentono danneggiate irreparabilmente, ma assistiamo spesso a come siano i mariti stessi che incolpano le loro mogli di comportamenti provocatori. Ma non voglio entrare in una disamina morale degli accaduti, per cui ritorno alla finzione. Laddove, a mano a mano che si svolge il romanzo, scopriamo diversi stupri e diversi comportamenti seguenti alla triste vicende. C’è Angeles Castelbranco, la figlia sedicenne dell'ambasciatore portoghese, che si ritrae quando viene avvicinata dal perfido Neville, tanto da buttarsi coscientemente oltre la finestra. C’è una prostituta che lo stupratore uccide. C’è Alice, che riesce a fuggire benché violata. C’è Catherine Quixwood, che muore bevendo del laudano dopo essere stata violentata da qualcuno di cui si fidava, non essendoci traccia di scasso in casa. Poiché alcune morti sono in ambienti aristocratici, Pitt comincia ad indagare, ma deve lasciare il compito al suo vecchio capo, Narraway, essendo lui invece convolto in questioni delicate di sicurezza a fronte di una possibile guerra con i boeri nell'Africa meridionale. L’abilità della Perry è nel cercare di portare avanti i due filoni, di collegarsi a fatti storici reali (uno dei nodi centrali della parte economica e storica del romanzo è la spedizione Jameson, che, sostenuta dal magnate Cecil Rhodes, quello della Rhodesia appunto, doveva scacciare i boeri e permettere agli inglesi di sfruttare oro e diamanti sudafricani; spedizione che appunto nel 1896 fallì, anche se poi l’Inghilterra meno di dieci anni dopo avrebbe avuto la meglio), e nel trovare il modo di risolvere il tutto, in modo che i cattivi siano puniti.  Il castello che Narraway deve affrontare e smantellare è complesso: c’è un banchiere violento che, anni prima, uccide la moglie che stava per fuggire con il suo amante. Il quale cerca il modo di vendicarsi, inducendo il banchiere, con carte falsificate, ad investire nella spedizione Jameson. Tuttavia la moglie del banchiere, subodorando le malefatte del marito, e volendo invece fermarlo, si lega di forte amicizia ad un impiegato di alto livello del Tesoro, che le fornisce prove di quanto sta accadendo. Ma il banchiere se ne accorge, e fa una contromossa che rischia di essere fatale: convince l’altrettanto violento figlio del banchiere, già autore di diversi stupri, a violentare la moglie, avendo nel frattempo avvelenato il vino presente nel suo salone, sicuro che, dopo lo stupro, la donna avrebbe bevuto per poter reagire allo shock. Inoltre il banchiere fa in modo che tutti i sospetti possano cadere sul misero impiegato di cui sopra. Alla fine, Pitt, una volta circoscritto il pericolo di una guerra anglo-boera (che scoppierà solo da lì a tre anni), viene in aiuto a Narraway, fornendo le prove bancarie dell’accaduto. La fine, come ho già detto nella precedente trama, è di una velocità spasmodica, tanto che tutto si risolve nelle cinque pagine finali. Con un respiro affannoso, dove vediamo coinvolti, nella scena madre che serve a salvare l’impiegato dalla forca, ed a portare la giusta punizione i cattivi, Pitt, Narraway e pesino Lady Vespasia. Ed è con il fiato corto che arriviamo all’ultima riga, dove ancora alcune cose vengono lasciate in sospeso. Come ad esempio uno sguardo strano tra Narraway e Lady Vespasia. Ne sapremo forse di più in altre puntate. Certo è che il punto di svolta è stato il coinvolgimento dell’unica vittima sopravvissuta, Alice, con una forzatura, che non credo sia credibile il suo atteggiamento proprio in quel mondo vittoriano che tanto bene la Perry andava descrivendo. Alla fine, queste storie recenti di Pitt sembrano veleggiare un po’ troppo verso momenti rarefatti, lasciandoci il ricordo del buon sapore delle prime storie di Thomas e Charlotte. Vedremo cosa ci riserverà il futuro.
“Io mi ricordo di essermi innamorata una buona dozzina di volte di uomini che, se li avessi sposati, bè… non oso immaginare il disastro.” (46)
Dopo un allegato di cura, vi propongo anche uno dedicato ai guasti dell’amore, in cui vi farò trovare un’altra sventagliata libri: tutto Bridget Jones, per chi ha il coraggio di seguirmi.
Continuiamo intanto a seguire con il fiato sospeso la possibilità del viaggio indiano che tarda a maturare. Ma non ci mancano attività da seguire e momenti tristi-allegri da ricordare. 

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
GENNAIO 2019
Iniziamo quest’anno di splendida felicità, riprendendo il percorso terapeutico per risollevare il cuore dai suoi poveri acciacchi.

TERAPIE D’AMORE (VIII)

IL DIARIO DI BRIDGET JONES di HELEN FIELDING (1996)

Pillole di trama
È il diario schietto e sincero di un anno vissuto comicamente da una trentenne pasticciona e inguaribilmente romantica, tra buoni propositi mai mantenuti (mettersi a dieta, smettere di bere, di fumare e di spendere più di quello che guadagna...), un lavoro insoddisfacente, amici insostituibili, una madre oppressiva con l’ansia di sistemarla e, soprattutto, la ricerca incessante dell’uomo dei sogni. Anzi di un uomo e basta, una persona «normale» con cui avere una relazione «adulta». Quando finalmente non uno, ma ben due uomini irrompono nella goffa vita di Bridget, nessuno dei due assomiglia neanche lontanamente all’immagine del principe azzurro. Uno è il suo capo, un donnaiolo impenitente e poco raccomandabile dal fascino irresistibile, l’altro è un noioso, rigido, borioso e presuntuoso avvocato che indossa improbabili golf regalati da mammà che da soli basterebbero a tenerlo alla larga. Quale sarà quello giusto? Ovviamente il più sbagliato. Vi dico, però che l’avvocato si chiama Mark Darcy (in caso non coglieste il richiamo, rimando a “Orgoglio e pregiudizio”. Se non lo avete mai letto, rimediate al più presto).
Supposta-saggezza
Bridget Jones è l’eroina di tutte le donne che si sentono piene di difetti. Bridget è l’Indiana Jones delle single irrequiete e inquiete, alla perenne e instancabile ricerca dell’Arca dell’Alleanza tra i sessi (includendo anche il sesso, se possibile) e del Tempio Maledetto delle relazioni stabili. È il cavaliere in gonnella (corta, cortissima) in missione per l’Ultima Crociata del Terzo Millennio: trovare un fidanzato, ovvero il Sacro Graal.
Impossibile che una qualsiasi donna dotata di senso dell’umorismo e di una forte dose di autoironia non s’innamori di Bridget all’istante, immedesimandosi anche solo in minima parte in questo disastroso e disastrato personaggio che è la summa di quasi tutte le insicurezze e debolezze femminili. In perenne lotta con la bilancia, in guerra costante con i bilanci (di vita e di soldi), alla continua ricerca della realizzazione personale, che quasi mai coincide con quella professionale ma sempre con quella sentimentale (e in tempi precari come questi non si sa quale sia più difficile da raggiungere), è piena di nevrosi, vizi e difetti in eccesso: mangia, beve e fuma troppo, parla anche di più e ha una fantasia straordinariamente fervida... in una parola è smisuratamente umana e quindi irresistibilmente simpatica. Lontana dallo stereotipo della single sfigata ma anche dall’immagine della virago emancipata e aggressiva con tutti i difetti degli uomini ma in equilibrio sui tacchi a spillo, Bridget segna la rivincita della donna insicura di sé e sicura delle proprie insicurezze che, con le ciccette barocche, i capelli spettinati, i mutandoni della nonna e l’unica abilità sportiva di accumulare figuracce, riesce a tranquillizzare la stragrande maggioranza delle sue consimili (quelle che sui tacchi traballano e per le quali il tanga è un retaggio degli strumenti di tortura dell’Inquisizione). Bridget è l’Indiana Jones della vita imperfetta e dell’amore perfettibile, un’eroina cosi improbabile da essere diventata un’icona di stile. Di free style, ovviamente.
Nella scrittura del suo best seller, Helen Fielding si è dichiaratamente ispirata a quel cult della letteratura inglese che è “Orgoglio e pregiudizio”. Nonostante alcune dinamiche emozionali non cambino mai (la ricerca di un uomo è sempre al centro della vita di una donna, sia essa una figlia che sogna il principe azzurro o una madre che mira al buon partito), “Il diario di Bridget Jones” ha messo in luce alcuni cambiamenti epocali. Se la mamma è sempre la mamma e il suo unico scopo continua a essere la sistemazione della progenie (la signora Jones ha la stessa mania ossessivo compulsiva di Mrs Bennet con in più timidi slanci adulteri da “Madame Bovary”), la povera Bridget è costretta dalla società a impegnarsi in nuovi calcoli, ancor più frustranti e complicati. Non si trova tanto a dover soppesare la rendita dell’ipotetico spasimante, ma le calorie che minacciano la sua linea, una linea di condotta imposta dai media che è una forma addolcita (con l’edulcorante perché lo zucchero ingrassa) di repressione sociale. Ma Bridget Jones si ribella alle convenzioni rivendicando il diritto al piacere dissociato dal senso di colpa. Bridget sceglie di essere emancipata e non emaciata. Altro cambiamento sociale è il passaggio dalla famiglia tradizionale a quella allargata. Se Elizabeth ha quattro sorelle, Bridget, figlia unica e single incallita, può contare su quella che definisce una “famiglia metropolitana”, composta da amici sgangherati che, rispetto ai familiari, non toccano in sorte ma presentano il vantaggio di poter essere scelti. E per questo non sarà mai zitella ma sempre in allegra compagnia, desiderosa di un uomo come dell’ossigeno ma autosufficiente con le bombole dell’amicizia (fino a esaurimento scorte).
Posologia
Grazie alla sua composizione che lo rende uno dei più efficaci esempi di “chick lit” (letteratura post femminista e post Liala per ragazze spigliate, ironiche ed emancipate), il romanzo di Helen Fielding è un antibiotico ad ampio spettro per contrastare un vasto assortimento di dolori femminili. Risulta fondamentale, per esempio, quando si ha il morale a terra per travagli sentimentali e/o professionali e/o familiari e/o legati ai chili di troppo. Utile anche come antidepressivo, la lettura di qualche pagina riporta immediatamente il buonumore. Scritto come un diario, è perfetto se si ha poco tempo per leggere: non è necessario divorare il romanzo d’un fiato, può essere tranquillamente assunto a piccole dosi senza perdere il filo della trama né diminuirne i benefici.
“Il diario di Bridget Jones” è un’efficace cardioaspirina per contrastare gli stati infiammatori e dolorosi del cuore malconcio delle single quasi arrese alla speranza di trovare l’uomo giusto, terrorizzate all’idea di restare sole (e divorate dai cani alsaziani) e nelle quali si è insinuato questo malefico, ossessivo e comune pensiero: «Ma sarò io a essere sbagliata? Sono troppo grassa, non abbastanza bella, poco brillante, insipida, oppure, Dio ce ne scampi, sono “un tipo”?». Consiglio, in questi casi, di massaggiare dolcemente sul petto fino al graduale assorbimento la sincera dichiarazione d’amore che Mark Darcy fa a Bridget: «Mi piaci così come sei», un balsamo più efficace del tradizionale “ti amo”. Si dice che l’amore è cieco, ma è sempre augurabile trovare qualcuno che veda i nostri difetti e ci apprezzi comunque.
Avvertenza: l’allegria di Bridget è contagiosa. Il suo diario garantisce abbondanti dosi di risate terapeutiche e liberatorie, utili sempre per affrontare la vita con lo spirito giusto e non solo per curare gli acciacchi del cuore.
Effetti collaterali
Rivedere alcuni dei propri difetti in un personaggio innegabilmente simpatico come Bridget potrebbe causare un’eccessiva indulgenza nei confronti delle proprie debolezze, portando a usarle come una scusa per adagiarsi e crogiolarsi con compiacimento in quelle imperfezioni che rischiano di diventare vizi insopportabili. Nell’attesa di trovare qualcuno che ci apprezzi per come siamo, conviene lavorare un po’ sul carattere per evitare di mettere in fuga tutti i possibili pretendenti, anche i più volenterosi.
Potreste essere contagiati dall’idea di scrivere un diario. In questo caso, raccomando di fare attenzione perché annotare i propri pensieri può essere una pratica terapeutica liberatoria che consente di far esplodere sulla carta le emozioni ma può rivelarsi anche devastante qualora si scrivessero solo sciocchezze con il pericolo di vergognarsi rileggendole a distanza di tempo. A volte è meglio non lasciare traccia dei propri pasticci.
Consigli
Suggerisco di rendere la cura ancora più efficace leggendo il secondo capitolo delle vicende della nostra eroina, “Che pasticcio Bridget Jones!”, in cui la protagonista è alle prese con la vita di coppia, difficile e insidiosa quanto quella da single.
Se avete superato da un pezzo i trent’anni, potreste trovare beneficio nel terzo capitolo della saga: “Bridget Jones. Un amore di ragazzo”. Immancabilmente pasticciona, sempre in lotta con i chili di troppo, ma anche con le rughe, Bridget è una madre single ancora alla ricerca dell’amore. E Mark Darcy? Vi avviso: pena la vanificazione della terapia del buonumore, è meglio che le più romantiche non leggano il libro.
Terapia cinematografica sostitutiva
Nel 2001 l’irruenza spumeggiante di Bridget è arrivata al cinema. “Il Diario di Bridget Jones”, diretto da Sharon Maguire, è un successo di pubblico a cui segue nel 2004 “Che pasticcio, Bridget Jones!” di Beeban Kidron. Nonostante alcune differenze, i film non deludono le aspettative (soprattutto il primo) ma aggiungono ulteriore divertimento e spensieratezza alla terapia. Se ne raccomanda pertanto la visione. Renée Zellweger nei panni larghi di Bridget, Colin Firth in quelli ingessati di Mark Darcy e Hugh Grant in quelli del bastardo Daniel sono irresistibili.

Commenti

Ho aspettato del tempo prima di comporre questa scrittura, di modo che sono riuscito a leggere (ma non a farmi piacere) i tre libri di Helen Fielding. Dove il primo ha un suo perché, anche storico forse. Ma gli altri vanno in un calando direi disastroso.
Helen Fielding “Il diario di Bridget Jones” Rizzoli euro 12
[pubblicato il 27 maggio 2018]
Certo riparleremo a lungo di questo libro nell’ambito delle terapie d’amore per essere felici. Intanto, l’ho ripreso in mano dopo tanti anni (credo di averlo letto, ma ne ricordavo poco, almeno nei dettagli, se non nella struttura). Ovviamente poi, il ricordo è stato corroborato dal fatto di averne inseguito visto il film. Che devo dire mi aveva anche fatto sorridere. Nonché incuriosire con quell’ottimo tris d’attori dei tre protagonisti. Ricordate certamente Renée Zellweger nella parte di Bridget Jones, Colin Firth in quella di Mark Darcy e Hugh Grant che interpretava Daniel Cleaver. Ma non è questo il luogo di critiche cinematografiche, bensì di parlare del testo. Che, spero sappiate, deriva dalla trasposizione in romanzo di una rubrica fissa che Helen Fielding teneva sul giornale “The Indipendent”, dove cercava ogni settimana di parlare di una donna trentenne single. Tutti questi elzeviri, dato il successo della rubrica, vennero quindi rimaneggiati, amalgamati e fatti diventare un diario, questo, in cui seguiamo la “povera” Bridget in un fondamentale anno della sua vita. Con tutti i passaggi ed i trabocchetti che le diverse esperienze di single avevano avuto nel giornale. Bridget diventa quindi una specie di summa di piccoli comportamenti, che, partendo da buone intenzioni, si rivelano disastri, più o meno grandi. A cominciare dal tentativo, sempre abortito, di controllare il peso (durante tutto l’anno oscilla tra i 55 ed i 59 e qualcosa), di smettere di fumare, di bere poco. E tanti altri buoni propositi che si perdono lungo la via. Da single incallita, cerca di trovare l’amore in ogni luogo, cerca di farsi voler bene (e gli amici gliene vogliono, anche se lei a volte non lo capisce), cerca di vestirsi appropriatamente, cerca di cucinare cene deliziose ed elaborate. Tutti tentativi miseramente falliti. Ricordo solo un inciso che mi ha fatto sorridere: il brodo fatto con ossa ed altri pezzi animali, legati da uno spago, che, non avendone altri, è uno spago blu. A cena gli amici si sorbiranno una minestra blu. Ottimo. Bridget lavora in una casa editrice, è perdutamente, ed erroneamente innamorata del suo capo Daniel, che invece pensa solo al sesso, con lei e con tutte le donne che gli capitano a tiro. Ha una corte di amici single (o quasi): Sharon, femminista sputa sentenze, Jude, che si prende e si lascia con il “Perfido Richard” ogni venti pagine, e Tom, omosessuale e pieno di attenzioni (e consigli) verso la sua più cara amica. Bridget ha anche una famiglia: una madre Pamela, che scopre di essere stata troppo legata al marito Colin, per cui se ne va di casa, comincia a fare l’intervistatrice per una TV, imperversa per tutto il libro con le sue pazzie (di vestiario, di comportamento), fugge con il suo amante portoghese, che si rivela essere uno sfruttatore, per poi finire, il Natale del redde rationem, nel tornare con l’opaco Colin. Dopo le delusioni con Daniel, Bridget decide anche di cambiare vita, si licenzia, passa anche lei in una televisione, dove viene strapazzata anche dal nuovo capo, ma ottiene, con la sua aria innocente con cui passa attraverso tutte le disgrazie, anche dei buoni successi, ed un’intervista clamorosa. In questo aiutata dal timido Mark. Che incontriamo già nelle prime pagine, al Natale che avvia il libro, con in dosso un terrificante maglione a rombi. Mark entra ed esce dalle scene, mettendo sempre qualche parola buona verso Bridget, che ovviamente non se ne accorge. Tipica la scena dell’appuntamento dove Bridget aspetta Mark e non lo sente suonare il campanello perché si sta asciugando i capelli con un phon super-galattico. Ma alla fine il timido Mark, così come il Darcy di “Orgoglio e Pregiudizio” da cui è venuta l’ispirazione, avrà la sua rivincita, nonché l’attenzione e le cure, e probabilmente l’amore di Bridget. Il seguito alla prossima puntata (ce ne sono almeno due). Il problema però con il libro è che i venti anni passati hanno lasciato molta polvere sull’ironia di Helen-Bridget. Se il tentativo era di concentrarsi sulle abitudini sessuali attraverso la narrazione dei conflitti (di coppia, di rivalità, di amicizia), ebbene il tempo è corso molto più veloce di quanto Bridget riesca a dimagrire. Certo sorridiamo alle intemperanze della madre Pam, ma è un sorriso un po’ forzato, per nascondere l’imbarazzo. Come sorridiamo ai tentativi di Bridget di autoregolarsi, di darsi un codice di comportamento che sappiamo già (noi e lei) che non seguirà. Come rimangano molto datati molti comportamenti “da buona società borghese”. Mi ha solo colpito quella frase che riporto, dove già allora, quando cellulari e social non avevano ancora stravolto molte nostre abitudini, come la cultura dell’attenzione fosse già in declino. Rilevo solo in finale, un piccolo cammeo letterario, a pagina 249, quando viene citato Nick Hornby come guru del football, ovviamente per quel suo magistrale “Febbre a 90°”. Che forse venti anni fa non avrei colto, e che ora suona quasi una presa in giro del ben altrimenti noto scrittore. Rimaniamo alla finestra a guardare, magari mangiando un gelato. Di certo non ingurgitando tutti gli intrugli alcolici di Bridget & soci.
“Siamo nella cultura dei tre minuti. Abbiamo tutti un’attenzione di durata limitata.” (192)
Helen Fielding “Che pasticcio, Bridget Jones!” BUR euro 9,90
[pubblicato il 23 dicembre 2018]
Tre anni dopo il successo planetario del “Diario”, Helen prova a rinverdire la sua fama con questo secondo capitolo della saga. Un tentativo veramente poco riuscito ed alquanto prevedibile. Se nel primo romanzo c’era la freschezza della novità, l’ingenuità delle situazioni (con Bridget sempre leggermente fuori fase rispetto a quanto le capita intorno), questo secondo romanzo, non variando molto lo stile, risulta ripetitivo ed anche un po’ noioso. La maggior parte dei protagonisti del primo si ripresentano qui con immutato stile, ripercorrendo senza troppe variazioni quanto di scellerato (dl punto di vista dell’attività umana quotidiana) facevano nel primo. Fortunatamente sparisce quasi del tutto “il bastardo Daniel”, con una puntatina dimenticabile. Dispiace invece la quasi totale assenza del “gay” Tom, troppo preso dai suoi amori americani. Invece le pagine sono piene di Jude e Shaz, con le loro improbabili ricette derivate dai libri di auto-aiuto (che la quarta di copertina lascia nell’inglese self-help). Sempre pronte a dare il consiglio sbagliato nel momento giusto. Precipitando sempre più in basso la stima e l’autocomprensione di Bridget. Grande spazio, invece, prende l’odiosa Rebecca, subito pronta a cercare di soffiare il buon Mark alla nostra. Organizzando cene, viaggi, e quant’altro riesca a mettere in difficoltà la nostra eroina. Ma prima di passare a Mark, c’è la solita tirata sui genitori di Bridget. Con la madre con non vuole crescere, e questa volta passa dall’improbabile indiano al fasullo keniota. Fortunatamente non viene ripreso a lungo, anche perché ripercorrerebbe la stessa solfa del primo. Wellington invece appare, fa delle stupidate, dice cose sagge inascoltate e se ne torna tranquillo e felice nella sua Africa. Lasciando mamma Jones alle prese con l’alcolismo di papà Jones. Unico momento esilarante: il rifiuto di rinnovare il passaporto da parte di mamma Jones, perché dovrebbe mettere una foto aggiornata, quindi “più matura”. Mark, per riprendere il filo, sembra sempre uguale a sé stesso. Molto imbranato, molto innamorato, ma incapace a) di mostrare a Bridget quanto la ami e b) altrettanto incapace di capire il modo di comportarsi di Bridget. Ma se ami qualcuno, non puoi stare solo lì sulla porta a vedere passare quello che succede, senza mai una volta intervenire, dire, fare qualche cosa. Solo quando Bridget passa un bruto momento sembra rinsavire e capisce che sia bene fare qualcosa. E facendolo, tira finalmente fuori dai guai la nostra eroina. In tutto questo Bridget prende al solito il centro della scena, ma continua a ripetere i suoi stereotipi: ingrassare/dimagrire, fumare/smettere di fumare, ubriacarsi, avere una fiducia cieca dell’altro che la porta ai tre momenti topici del libro. Il primo, unico, positivo ed esilarante, è l’intervista romana con il “vero” Colin Firth (e suggerisco di tornare ai film che ne sono tratti, con il momento double face: intervista con Colin e rapporti con Mark interpretato da Colin; gustoso). Il secondo è il conflitto con Gary il muratore, con la ristrutturazione di casa, con i soldi che mancano, e con la finale scoperta che Gary non è altro che un piccolo topo d’appartamenti, che ha l’unico intento di rubacchiare dove può (anche poco, vista l’imbranataggine palesata). Il terzo, e punto forte del libro, è invece il viaggio in Thailandia. Con tutto lo sballo di alcolici e funghi “eccitanti”, con la comparsa del perfido Jed, e con l’incastro che questi le procura nascondendo droga nel trolley di Bridget. Qui Helen fa un’operazione che vorrebbe essere ridanciana, ma che, per chi legge giornali e sa del mondo, risulta quanto meno improbabile. Il possesso di droga in Thailandia è perseguito con una durezza estrema. E le descrizioni della settimana nelle carceri thailandesi sono una discreta presa in giro, per chi sa che, una volta finito in quel girone, difficilmente se ne esce prima di un congruo lasso di tempo (anni!). E non se ne esce mai bene. Visto che siamo (almeno nello scorrere temporale) nel 1997, non poteva mancare l’accenno alla morte di Diana. Che tuttavia avrei omesso per rispetto del personaggio. Il tutto finisce poi come cominciato con Mark e Bridget che tornano insieme. Un po’ scontato. E non capsico, ne leggerò poi, perché i miei libri guida continuano a citare la Fielding nelle loro terapie. Un’ultima considerazione: il titolo. Perché modificare l’originale “limite della ragione” con questo “pasticcio”? Certo, Bridget continua a non combinarne una buona, come abbiamo visto, ma credo che l’idea dell’autrice sia stata invece di procedere su quel solco fra razionale ed irrazionale, per continuare a sostenere la sua idea di fondo. Tutti siamo un po’ sbalestrati in questo mondo, ed è difficile procedere perseguendo una razionalità che non ci è propria. Così come non è propria per la nostra povera Bridget. Ne vedremo ancora, di sue avventure? Ai postumi l’ardua sentenza.
Helen Fielding “Bridget Jones: Un amore di ragazzo” BUR euro 9,90
[pubblicato il 23 dicembre 2018]
Ed ecco che dopo quasi quindici anni la creatrice del “fenomeno” Bridget cerca di reinventarsi proponendo una nuova tappa della saga. Super-scontata! Non nel senso che costa poco, ma le situazioni, l’impianto e tutto il resto è visto, rivisto e senza nessuna innovazione. Certo, gli anni passano per tutti: per Helen, per Bridget e per Renée che continua ad interpretarla sullo schermo. Ma la formula del diario-verità, inaugurata venti anni or sono sul Telegraph e su Indipendent era vincente. Quindi, eccoci di nuovo ad un anno vissuto spericolatamente. Dall’inizio però abbiamo subito l’impatto con le novità. Come ci si aspettava dalla fine del precedente libro (sottolineo qui, che da un certo punto in poi libri e film divergono in modo marcatissimo), Bridget e Mark si sposano. Ed hanno due figli: William detto Billy e Mabel. Poi, con Mabel di pochi mesi, Mark muore in una missione di pace in Afghanistan. Per quattro anni Bridget fa la vedova inconsolabile, cercando di portare ordine alla sua vita: tata per i figli, impeccabile e molto simpatica, lavoro di sceneggiatrice (anche se non riesce a far uscire neanche una produzione), e solita routine con gli amici storici (in particolare Tom il gay, Shaz e Jude). Visto che sono passati un botto di anni, sono morti anche il padre di Bridget ed il suo amico Geoffrey. Così mamma Jones con l’amica Una sono a riposo in una casa che si prende cura di loro, e dove loro cercano di portare avanti l’invenzione di una giovane vecchiaia. La zeppa in tutto il meccanismo è l’introduzione dei social network, così come nei primi Bridget c’era il telefono con annessa segreteria. Qui si fa un uso sproposito e malaccorto di Twitter. Ma solo perché, usando frasi corte, è più gestibile sia degli SMS (che sono in parte presenti) sia di Facebook (che invece è praticamente assente). Però non c’è sugo, non c’è ironia, non c’è comicità in questo uso dei nuovi media. Jude e Shaz continuano ad entrare ed uscire da siti di incontri altamente improbabili, riuscendo a coinvolgere Bridget in alcune loro uscite. In una di queste, Bridget si imbatte in Roxter, giovane quasi trentenne, spigliato e con un grande bisogno di sicurezze, che Bridget, con la sua età matura riesce a dargli. Bridget, in realtà, si avvia ai cinquanta. Questo, anche se non in modo esplicito, lo deduciamo incrociando il film “Bridget Jones’s Baby” dove partorisce Billy a 43 anni, e qui dove Billy di anni ne ha sei. Lunghi sproloqui sull’ansietà di Bridget di aver un rapporto con un ragazzo così giovane, tanto che le amiche le parlano di “toy boy” (da Devoto-Oli: “uomo giovane, spesso molto attraente, che ha una relazione con una donna più avanti di lui negli anni”), altrettanto lunghi giri di pagine su Roxter e sulla sua gioventù (ma anche sulla freschezza di ridere, cosa che Bridget è sempre disposta a fare). Giri di frasi sui bambini di Bridget (anche se Helen non sembra saper gestire l’età infantile, sia nei due bimbi sia nei rapporti con gli altri bimbi coevi). Alcuni momenti di finta ilarità si avranno nei momenti scolastici, con l’introduzione di un nuovo personaggio, Mr. Wallaker. Che capiamo ben presto avrà un peso ed un ruolo determinante. Perché sembra serio, determinato, maturo. Insomma quello che poteva essere Mark se Mark non fosse morto. Ma con alcuni punti in più: più ironia, più atletismo, più sicurezza. Bridget e Roxter faranno un piccolo percorso insieme, tanto per uscire ognuno dalle proprie paranoie. Poi, ognuno per la sua strada. Dove quella di Bridget incontrerà … Vi lascio aperta l’ultima parte del libro, con l’unica avvertenza che, finalmente, mamma Jones deciderà di diventare nonna Jones. Senza neanche lamentarsi troppo. Allora, tra i vari libri di suggerimenti, mi erano arrivati questi tre tomi di Helen Fielding. Li ho letti, diligentemente. E diligentemente li metto da parte. Se volete vedere i film, tanto per rilassare la mente, ben venga. Ma credo che non sia il caso di insistere su questo filone. Come si dice, una lettura veloce, e poi in libreria a prendere la polvere.

Finalino

Ripeto un po’ quanto detto nelle pieghe delle trame. Se il primo diario ha un qualche divertimento esistenziale (anche per come inizia una parodia intelligente su “Orgoglio e pregiudizio”), gli altri non solo non sono all’altezza, ma probabilmente provano serie crisi di rigetto. Quindi astenetevi, soprattutto dall’ultimo.

domenica 13 gennaio 2019

Maigret 13 - 13 gennaio 2019


In genere, la terza trama del mese contiene allegati su come rendersi felici con i libri. Tuttavia, questa settimana abbiamo anche un denso volume di Maigret, per cui rimando la felicità alla settimana prossima. Tra l’altro è il 13° volume, ed oggi è il 13 di gennaio. Non ci si può tirare indietro… Anche perché è uno degli ultimi regali di mia madre.
[A: 10/05/2016 – I: 02/09/2018 – T: 09/09/2018] - &&&&+
[tit. or.: vedi singoli libri; ling. or.: francese; pagine: 733; anno 2016]
Questo volume segna due tappe fondamentali per Simenon: il trasloco da Échandens a Épalinges e l’entrata in scena definitiva della donna dell’ultima parte della sua vita, Teresa Sburelin. Ma mentre i primi quattro titoli si mantengono su di un tono alto, con soluzioni interessanti, anche per gli interessi di Simenon in questa parte della sua vita intorno ai suoi sessanta anni (rapporto con il potere, con i giudici, con gli avvocati, domande sulla verità e sulla giustizia), il quinto cala un po’. Si nota stanchezza e forse poca lucidità per storie nuove. Tanto che ormai mancano solo 10 romanzi per terminare il ciclo, romanzi che scriverà nei prossimi sei anni, poi…
Titolo
Scritto
Uscito
Data
Luogo
Maigret perde le staffe
13 – 19 giugno 1962
Scritto a Noland, Échandens (canton de Vaud) (Svizzera)
quarto trimestre 1963
Maigret e il fantasma
17 – 23 giugno 1963
Scritto a Noland, Échandens (canton de Vaud) (Svizzera)
luglio 1964
Maigret si difende
21 – 28 luglio 1964
Scritto a Épalinges (canton de Vaud) (Svizzera)
novembre 1964
La pazienza di Maigret
25 febbraio – 9 marzo 1965
Scritto a Épalinges (canton de Vaud) (Svizzera)
15 novembre 1965
Maigret e il caso Nahour
2 – 8 febbraio 1966
Scritto a Épalinges (canton de Vaud) (Svizzera)
10 dicembre 1966
[tit. or.: La Colère de Maigret; ling. or.: francese; pagine: 11 – 135 (125); anno 1963]
Comincio a scrivere queste note proprio nel ventinovesimo anniversario della morte di Simenon. Siamo in questo 1962 che tanto problematico diventa sul piano personale per il nostro scrittore. Da un lato, cominciano i piani e le commissioni per la costruzione della sua nuova e, nel suo intento, definitiva casa a Épalinges. Intanto però si aggravano le condizioni di Denyse che proprio in giugno verrà ricoverata a lungo presso la clinica di “Rives de Prangins” per la prima di una lunga serie di cure disintossicanti. Dall’altro lato infine, entra sempre silenziosamente, ma sempre più nella calma che riesce a dare a Simenon, la governante Teresa, colei che gli sarà vicino, silenziosamente, sino alla morte del nostro. Proprio per questo, quasi a scacciare i brutti pensieri, poco più di un mese dopo il precedente, mette mano a questo 61° romanzo. Con una trama che si avvolge su sé stessa per gradi, sino ad arrivare al finale che noi ci si aspettava, ma che è punteggiato appunto dalla collera di Maigret. Che ovviamente ha sempre avuto anche momenti collerici, ma spesso interiorizzati, sfogati con una bevuta in birreria. Qui, invece, Maigret batte i pugni sul tavolo, alza la voce, e si disinteressa di cosa succederà al colpevole dopo che lo ha smascherato. Perché viene punto sul vivo, e sia lui che Simenon sono rigidissimi sul rispetto di alcune convenzioni sociali, su cosa si possa fare e cosa no. In fondo prende anche molto del luteranesimo svizzero, laddove da anni orami vive e che è congeniale al suo temperamento. Come spesso, quando mette mano ad un nuovo romanzo, di cui ha chiare alcune direttrici di fondo, ma che fa un po’ fatica ad organizzare, si sentono fin dall’inizio alcune reminiscenze di altri romanzi ed altre avventure. Di modo che a Simenon riesce più facile mettere in moto il suo diesel Maigret. Intanto, come spesso accade nell’ultimo periodo c’è una stretta coincidenza tra tempo della scrittura e tempo del romanzo. Il testo viene scritto dal 13 al 19 giugno. Il romanzo si svolge dal 12 al 18 dello stesso mese. Sottolineiamo un altro fatto inusuale, la lunghezza dell’indagine. In genere, la quasi totalità dei romanzi si esaurisce in pochi giorni, da 2 a 4. Oppure, se i tempi si allungano, si dilatano enormemente verso anche più mesi. Qui, tutto in 7 giorni. Fa caldo a Parigi, si avvicinano le ferie, Maigret è sballottato tra il ventilatore e le carte da firmare. Con qualche punta di perplessità sulla salute (da poco il suo medico gli ha detto di stare attento agli stravizi). Ciò non toglie che ci si può permettere un pernod, con il fido Lucas alla brasserie Dauphine. Dove ascolta le confidenze di Antonio Farano, un italiano gestore di night per conto del cognato Émile Boulay. Che da 12 ore sembra essere scomparso (siamo nella mattina di mercoledì, notando come coincidenza che il 13 giugno 1962 è proprio un mercoledì, oltre ad essere il compleanno di mio padre). Boulay è un uomo tranquillo, gestore di alcuni locali di cabaret e striptease in quel di Pigalle. È sposato con Marina, la sorella di Antonio. Hanno due figli. Con loro vive la cognata Ada, più giovane e carina che gli fa da segretaria. È talmente tranquillo che nell’ambiente viene soprannominato il “Bottegaio”. Ha in orrore mettersi in mostra ed avere pubblicità. Per questo, era discretamente seccato di essere stato coinvolto nella morte del corso Mazotti. Un malavitoso che cercava di emergere a Pigalle chiedendo tangenti ai locali. Ma Boulay chiama i suoi amici di Le Havre (da dove viene, e da dove nasce come cameriere sulle navi, con discrete conoscenze tra i marinai) che danno una sonora lezione a Mazotti, che la stessa notte viene ucciso. Boulay è convocato varie volte in commissariato, fatto che lo sta innervosendo. Tre giorni dopo la scomparsa, il cadavere di Boulay viene ritrovato ai confini del cimitero del Père-Lachaise (ah, quanti bei ricordi in quel cimitero fantastico!). Strangolato. Morto da tre giorni, cioè appena scomparso. Due fatti che lasciano perplesso Maigret. Lo strangolamento è altamente inusuale nella malavita, che preferisce colpire con armi da fuoco o con coltelli. Piccola digressione: nell’insieme dei romanzi di Maigret ci sono 85 uccisioni. Ebbene il 50% avviene con armi da fuoco o con coltelli. Solo 15 invece (pari al 18% circa) per strangolamento. E nessuno di questi 15 avviene negli ambenti malavitosi. Sarà questo il primo? Maigret si pone la questione sin dal primo capitolo. Prima di sguinzagliare i suoi uomini sulle tracce della vita di Boulay. Con l’aiuto del buttafuori di uno dei locali, soprannominato “Topolino” ricostruisce le ultime ore di Boulay, che nel pomeriggio aveva ritirato mezzo milione di franchi e che la sera si avvia in direzione della casa del suo avvocato. Forse perché il giorno dopo deve ancora recarsi al commissariato? Maigret, capito che dall’ambiente di Pigalle poco può ricavare, si concentra allor sull’avvocato, Jean-Charles Gaillard. Un avvocato da poche cause, ma da un alto giro economico. Con una bella macchina, che però dal martedì al giovedì sera era in riparazione. Maigret si concentra allora sulle cause che segue Gaillard. I suoi clienti vengono sempre assolti, o se la cavano con poco. Un avvocato molto bravo o molto oculato. Scavando in uno di quei casi di poco conto, scopre che il ladruncolo aveva versato fior di tangente a Gaillard che millantava entrature in polizia. Quando Maigret scopre che una di queste era proprio lui scoppia la sua collera. Che travolgerà Gaillard, i suoi trucchi, e tutta la vita dell’avvocato. Lasciando comunque Maigret (e Simenon) insoddisfatto della pur felice soluzione. Non è così che ci si comporta. Così si infanga, senza possibilità di replica, il buon nome del commissario. E Maigret non lo può tollerare. Dicevo all’inizio che Simenon, per velocizzare e non pensare, si concede ripescaggi vari. Non è un caso che tutta l’aria di Montmartre che si respira andando a zonzo tra i locali è ben ripreso da “Maigret al Picratt's” del 1951. Inchiesta dove incontra un nano procacciatore di affari che fa pendant con il qui presente “Topolino” del Lotus. Inoltre, la domenica Maigret e signora vanno a riposarsi al “Vieux-Garçon” di Meung, locale che Maigret dice aver scoperto in una vecchia inchiesta. Si tratta infatti dell’alberghetto di Mademoiselle Rolly del romanzo “Firmato Picpus”, già presente pure nel precedente “La balera da due soldi”. Insomma, niente di nuovo sotto il sole estivo. Come non nuovo, né ultimo, l’astio generalizzato di Maigret verso gli avvocati. Astio presente in quasi tutte le apparizioni degli avvocati nei romanzi di Simenon.
Dove
Protagonista
Altri interpreti
Durata
Tempo
Parigi (Pigalle)
Émile Boulay, padrone di cabaret a Pigalle, sposato, due figli di 3 anni e 10 mesi, vittima
Antonio Farano, italiano, cognato di Boulay, gestore di uno dei suoi locali, sposato
Marina Farano, circa 25 anni, moglie di Émile
Ada Farano, 22 anni, sorella di Marina, segretaria di Émile
Jean-Charles Gaillard, circa 45 anni, avvocato e consulente fiscale
Gaston Mauan, 20 anni, ladro di automobili
Louis Boubée, detto Topolino, buttafuori e informatore della polizia
Jules Raison, ragioniere di Émile
Ispettore Lucas
Ispettore Torrence
7 giorni
12 – 18 giugno
[tit. or.: Maigret et le fantôme; ling. or.: francese; pagine: 139 – 280 (142); anno 1964]
Quasi un anno passa dalla scrittura del precedente Maigret. Come mai? Cosa succede al nostro prolifico scrittore? Tra l’altro, non scrive neanche romanzi diversi, anzi ne scrive uno solo in questo 1963 (“La stanza blu” in maggio). Forse anche la svolta dei 60 anni colpisce il nostro, che si sente invecchiare. Sente gli acciacchi aumentare. Sente Denyse precipitare sempre più nelle sue alterazioni. Mette sempre più mano alla casa – mostro che sta costruendo a Épalinges. Si rintana sempre più nelle tenerezze nascoste di Teresa. Ha cercato di rimanere ancorato alle abitudini che confortano questi periodi di anzianità, come la solita vacanza estiva nella spa di Bürgenstock. Ed ora, avvicinandosi di nuovo l’estate, si butta in una nuova avventura del commissario. E come per gli affetti familiari, anche qui sembra volerci tirare dentro i suoi affetti, costruendo un romanzo tutto pieno di rimandi ad altri momenti, ad altri episodi. Quasi a voler riaffermare la propria identità, facendo rivivere a noi lettori molti momenti dei 60 precedenti romanzi. Un romanzo per altro anche per altri motivi atipico: uno dei più corti (in numero di pagine ed in numero di capitoli), uno in cui c’è una vittima, ma non è centrale al corpo del romanzo, tanto che non è un personaggio che agisce direttamente durante lo svolgimento della trama. Compare, appunto come un fantasma. E morirà, quasi in modo inavvertito dal lettore, nelle ultime tre pagine del romanzo, quando ormai i giochi sono fatti, capiamo, con Maigret lo svolgersi della trama stessa, e vediamo (anzi è Simenon che stranamente ce lo comunica) cosa succede ai vari personaggi comparsi durante le poco più che cento pagine del testo. Tutto comincia in modo banale ed uggioso, in un giorno di metà novembre, Maigret ha appena concluso un’inchiesta su dei ladri di gioielli (e ne racconta alla moglie prima di dormire), quando al mattino presto è svegliato da Lapointe: hanno sparato a Lognon, in fin di vita. Siamo in Avenue Junot, a pochi passi dal cimitero di Montmartre. Lognon, il solitario e sfortunato, seguiva una pista, appostandosi notte tempo nella casa della giovane Marinette. Nessuno sa nulla. Lognon è in coma. L’indagine comincia molto a rilento (nelle prime ore, che in meno di 36 ore sarà tutto risolto). Ricerca nello stabile, interrogatorio con la portiera, Marinette che scompare. Ma dalla postazione di Lognon, Maigret vede la casa di fronte. Abitata dal sessantenne ricco olandese Norris Jonker. E dalla di lui moglie Mirella, già sposa del ricco inglese Muir. Mentre Lucas si dedica alla ricerca di Marinette, Maigret si concentra su Jonker. Chi è quest’olandese? Perché la portinaia dice che la sera continuano ad entrare in casa signorine di dubbia provenienza? Qui si insatura uno dei soliti grandi duelli verbali di Maigret. Addirittura in trasferta, che non convoca Jonker in Questura, ma va lui nella bella casa. L’olandese è un collezionista ben noto, la casa è piena della sua collazione (un momento di pura invidia, quando dice di collezionare da Van Gogh al primo Modigliani; lo possiamo uccidere?). C’è anche un grande atelier, dove Mirella fa finta di dipingere quadri astratti. Come Jonker fa finta di essere maniaco del sesso. Ma Maigret non è convinto. Come può essere che un atelier sia vuoto? Cosa c’è nella stanza chiusa a chiave? Cosa sono quei dipinti “osé”? Quanti punti interrogativi che Jonker e Mirella non riescono a dissipare. Grazie a Lapointe, e ad una telefonata al suo amico, il commissario Bastiani di Nizza, qualche velo si comincia a squarciare. Intanto Mirella nasce Marcelle Mailland, a Nizza si accompagnava con un ladro di gioielli di nome Stan Hobson. Riesce a farsi sposare dall’industriale Muir, che, trovatala in compagnia di Stan, divorzia immediatamente. La ritroviamo a Parigi, con una buona dote dal divorzio, che fa perdere la testa a Jonker. E lo sposa. Qui, sobillata da Hobson che torna da strani giri tra il mondo ed il carcere, e coadiuvata dal sodale Gillon, un americano tra il truffatore ed il procacciatore d’affari, Mirella mette in piedi un ben congeniata truffa. Gillon scopre un pittore italiano un po’ fuori di testa, Federico Palestri, con una innata abilità nel falsificare quadri. E con una passione sfrenata per il sesso. Data la fama di collezionista di Jonker, Mirella lo convince a far transitare nelle sue gallerie alcuni falsi di Palestri, che poi Gillon provvederà a collocare presso qualche miliardario sudamericano di poca cultura. Sembra tutto andar bene, ma Lognon subodora lo strano traffico. Hobson ed i suoi accoliti pensano sia di una banda rivale, che lo “sfortunato” lavora sempre da solo, al contrario dello standard poliziesco. E pensano di farlo fuori, innescando la girandola di eventi che porterà alla loro rovina. Lognon si salverà, mentre l’unico morto sarà proprio Palestri che verrà trovato impiccato, non si sa se dalla gang di Hobson o suicida. Ma non è quello che interessa Maigret: lui vuole e riesce ad incastrare Jonker. Rovinandogli la reputazione, anche se l’olandese non farà un giorno di carcere. Come vedete, proprio atipico, che l’unico motivo per cui Maigret indaga è per rendere omaggio a Lognon ed alla sua sfortuna. Entrano in gioco quei rimandi, quegli occhiolini che Simenon ci lancia dalle sue pagine. C’è infatti il ritorno di Lognon, dopo la breve apparizione in “Maigret e il ladro indolente”. Sarà l’ultima apparizione di Lognon, che, tuttavia avrà il suo momento di gloria: alla fine dell’inchiesta sarà sua la foto che apparirà sui giornali. Interessante seguire il modo indolente ed a prima vista senza metodo con cui Maigret si aggira nell’appartamento di Marinette. Aspettando che un dettaglio, un oggetto gli diano una indicazione. Un capitolo da prendere come esempio del “metodo di Maigret”, che, come dice lui stesso, non esiste. Perché lui, al contrario di Sherlock Holmes, “non fa mai deduzioni”. Nel piccolo giro di telefonate tra Londra e l’utilizzo del suo inglese stentato, nonché la rinnovata amicizia con l’ispettore capo Pyke di Scotland Yard, Simenon vede bene, in poche pagine, di citare: “Il mio amico Maigret” del ’49, “Maigret si mette in viaggio” del ’57, “Maigret a New York” del ’46 e “Maigret va dal coroner” sempre del ’49. Altra notazione: visti i suoi propri disordini sentimentali, nel capitolo 6 c’è un momento di apertura sul suo ideale amoroso, che non avrà mai in vita. Maigret e signora camminano, e Simenon ci dice che non si chiameranno mai “tesoro” a vicenda. Per quale motivo, se, in qualche modo, si sentivano come un’unica persona? Prima di chiudere, oltre a ribadire che, non solo è uno dei romanzi più corti, ma è anche l’inchiesta più veloce: 36 ore, appunto, volevo citare una frase che illustra fino in fondo cosa è Maigret pe Simenon. Non è, come Holmes, come Poirot, uno “scopritore di enigmi”, è uno “scopritore di uomini”. A Jonker che gli dice, poiché Maigret sembra non capirne il percorso umano, “Voi non siete un collezionista di quadri”, Maigret risponde “Io colleziono gli uomini”.
“È strano quanto la suscettibilità delle persone ci complichi la vita più dei loro reali difetti o delle loro menzogne.” (179)
Dove
Protagonista
Altri interpreti
Durata
Tempo
Parigi (avenue Junot)
Norris Jonker, 64 anni, olandese, collezionista d'opere d'arte, sposato, senza figli
Ispettore Charles Lognon, detto "il Lagnoso"
Marinette Augier, 25 anni, estetista
Mirella Jonker, 34 anni, moglie di Norris, originaria di Nizza, il suo vero nome è Marcelle Mailland, divorziata da Herbert Muir, industriale inglese, ex-amante di Stanley Hobson, ladro di gioielli
Federico Palestri, 23 anni, pittore falsario di talento, vittima
Ed Gollan, 38 anni, americano, critico ed esperto d'arte, all'occorrenza truffatore
Mario de Lucia, delinquente collegato con Hobson
2 giorni
metà novembre
[tit. or.: Maigret se défend; ling. or.: francese; pagine: 283 – 424 (142); anno 1964]
Tra il ’63 ed il ’64, Simenon si dedica poco alla scrittura, tutto preso da altri e più pressanti problemi, anche se non disdegna di dedicarsi a piccoli periodi di vacanze. In luglio, solito passaggio nella spa di Bürgenstock. Ad ottobre, c’è invece il battesimo di Serge, che ha come madrina la zia Marie-Jo. Finalmente, il 9 dicembre, il grande avvenimento. La nuova casa è finita, e la famiglia Simenon trasloca da Échandens a Épalinges, la 31^ casa in cui viene ad abitare Simenon e la sola che ha fatto costruire secondo le sue indicazioni. La villa è situata sulle colline prospicenti il Lago Léman, non lontano da Losanna. Le manie di grandezza di Simenon gli hanno consigliato di costruire un numero impressionante di stanze, tant’è che la casa si rivelerà un mostro. E sebbene vi abiterà per nove anni, non sarà mai felice entro le sue mura. All’inizio del nuovo anno, poi, ci sono le prime vacanze separate: Denyse e Marie-Jo, in febbraio, vanno a Villars-sur-Ollon, mentre a fine marzo lui e suo figlio John passano due settimane a Barcellona. Il 21 aprile, infine, ci sarà l’altro elemento dirompente del periodo. Denyse già per tre volte nel ’63 è stata ricoverata nella clinica di Rives de Prangins. Ora ci torna nuovamente, e non tornerà più a Épalinges. Con tutto questo bagaglio di tristezza inespressa, in luglio, più di un anno dopo l’ultimo Maigret, pone mano ad un nuovo episodio. Che risente del clima, dello stato d’animo, riuscendo uno dei più dolenti, anche se meno cruenti in fin dei conti. In realtà, non ci sono vittime palesi, né uccisioni su cui scatenare un’inchiesta. C’è invece un attacco allo stesso Maigret che viene accusato di comportamento poco lineare (tipo semi-aggressione sessuale) da parte di una giovane signorina. Con tutto l’establishment giudiziario che, data la posizione “signorile” della giovane Nicole, sembra dar ragione a lei e torto a Maigret. Come dice il commissario al Questore, si tratta di due parole contrastanti di avvenimenti interpretabili in vario modo. L’abilità di Simenon, nella prima parte, è di fornire la versione di Maigret e quella di Nicole quasi in contrappasso, facendo vedere come la giovane abbia agito in modo che le innocenti mosse del commissario possano essere interpretate in modo fraudolento. La delusione di Maigret è ovvio quella che il questore ed il suo capo lasciano una sospensiva di giudizio, come se non ci si potesse fidare del Commissario. L’altro elemento che soggiace al romanzo è il riempire le pagine, da parte di Simenon, di ricordi e di elementi biografici del commissario, quasi che sentisse il bisogno di chiudere con Maigret, di mettere un punto fermo (anche se poi scriverà altri 12 romanzi su di lui). Si parla spesso dell’età di Maigret e dei suoi inizi da poliziotto. Riassumendone il contenuto, Maigret dice a più riprese di avere 52 anni, che quindi, secondo le leggi francesi dell’epoca è a tre anni dalla pensione, che lavora da 30 anni nella polizia giudiziaria e che sono inoltre 10 anni che è a capo della Sezione Criminale. Un calcolo incrociato ci permette di fare una piccola tirata d‘orecchie a Simenon. Nel testo si narra di una vicenda che coinvolge il dr. Melan, quattordicenne, durante l’occupazione tedesca di Parigi che avvenne nel 1940. Ora, poiché il dottore ha 38 anni, si deduce che la vicenda stessa qui narrata si svolge nel 1964. Datando quindi la nascita di Maigret nel 1912. Ma nel romanzo “La prima inchiesta di Maigret” si parla dell’azione come se si svolgesse nel 1913 (con il commissario che quindi ha … 1 anno!). C’è poi il solito teatrino con il dr. Pardon, sempre più presente negli ultimi romanzi, che rimprovera a Maigret gli stravizi, ricordandogli i problemi di salute di chi sta invecchiando (ed è come se Simenon scriva perché Simenon intenda…). Ultimo elemento, e di grosso contrasto con il questore, è il modo “vecchia maniera” di condurre le indagini. Girando per i quartieri, entrando nei pub, parlando un po’ con tutti, ascoltando gli informatori. Peccato che il nostro “pescatore di uomini” in questo modo risolva i suoi casi. Entrando nella psicologia dei cattivi, o presunti tali. Qui, il tutto si risolve in un piccolo equivoco, non di Maigret, ma del cattivo di turno. Il dentista, triste e solitario, dr. Melan, che nascostamente pratica anche aborti illegali e che, probabilmente, ha fatto morire qualche paziente sotto i suoi ferri. Melan vede Maigret bazzicare i suoi luoghi, in particolare rue des Acacias, una strada situata dietro l’Arc de Triomphe (piccolo inciso volante: la via più citata in tutto il corpo dei romanzi di Maigret è proprio l’Avenue des Champs-Elysées, nominata in 34 dei 75 romanzi). Maigret è lì per tampinare il mafioso Manuel Palmari, mentre il Melan pensa che abbia avuto sentore delle sue poco chiare attività. Per questo, convince la sua amica Nicole (dove in un piccolo gioco di rinvii, Maigret riesce a capire i collegamenti tra Nicole, Melan e Aline) a prestarsi al trucco di infangare l’onore del commissario. Una volta trovata la chiave di lettura, sarà facile a Maigret smantellare il castello d’accuse, e ricevere le scuse dei suoi capi. Altri piccoli assaggi di collegamento, sono ad esempio, l’uso della pipa come elemento per ribadire il suo scontento verso il questore, ci rimanda alla scena simile che si svolge presso il giudice Coméliau in “Maigret e il corpo senza testa”. E nella deposizione di Nicole nel primo capitolo, quando descrive Maigret come “un uomo grande… dalle spalle larghe e dalla faccia massiccia” ci si ricorda la descrizione che ne viene data trenta anni prima ne “La danzatrice del Gai-Moulin”: “l’uomo dalle grandi spalle”. Avendone scritto a lettura ultimata, faccio notare, anticipatamente, che l’ultima particolarità del romanzo è di essere strettamente legato al successivo, e debolmente al precedente. Il debole legame con il precedente è duplice: in entrambi c’è un’inchiesta parallela alla principale. Ne “Il fantasma” c’è la banda di giovinastri debellata nelle prime pagine, e dove un membro della gang dei motociclisti si chiama Jean Bauche. Qui, mentre difende il proprio onore, indaga anche sui furti nelle gioiellerie che è convinto siano organizzati dal falsario Manuel Palmari, la cui giovane compagna si chiama Aline Bauche. Il legame stretto con il successivo è che la vicenda di Palmari troverà l’epilogo proprio ne “La pazienza di Maigret”.
Dove
Protagonista
Altri interpreti
Durata
Tempo
Parigi (rue des Acacias, Avenue de la Grande-Armée)
François Mélan, 38 anni, dentista, celibe
Nicole Prieur, 17 anni, studentessa, nipote di un alto funzionario statale
Mlle Motte, assistente di Mélan
Manuel Palmari, circa 60 anni, ex-falsario, mafioso
Aline Bauche, 22 anni, amante di Palmari
Dr. Pardon, medico amico dei Maigret
2 giorni
giugno
[tit. or.: La Patience de Maigret; ling. or.: francese; pagine: 427 – 571 (145); anno 1965]
Continua il periodo sterile di Simenon, che cerca di pensare ad altro, anche portando per Natale tutta la famiglia ad una vacanza sulla neve a Crans-sur-Sierre. Ma niente. Scrive poco, e tanto gli succede intorno. Si, è vero, in ottobre diventa ancora nonno per la nascita di Diane Marie Yannick, figlia di Marc e Francette. Però ad inizio anno cade nella toilette della nuova casa di Épalinges e si frattura diverse costole. Dovrà stare più di un mese a riposo (e si sa che le costole sono brutte bestie).  Così dovrà aspettare quasi la fine di febbraio per mettere mano ad un nuovo episodio della saga di Maigret. Questo, oltre ad essere il solo Maigret del ’65, ha anche la particolarità di essere l’unico che Simenon interrompe e riprende. Infatti dopo 6 giorni di lavoro, il 2 marzo è colpito da un’influenza che lo blocca a letto sino al 7. In altre situazioni, avrebbe abbandonato tutto. Qui, per la prima e unica volta, riprende e conclude. Come se facesse un pendant con la storia stessa, dato che lo stesso Maigret confessa che sono venti anni che segue, abbandonandolo e riprendendolo, il caso dei furti di gioielli. Di cui è certo essere responsabile il mafioso corso Manuel Palmari. Eppur tuttavia non riesce ad incastrarlo. Sa benissimo tutti i meccanismi dei furti: qualcuno si accorge di gioielli di valore in qualche vetrina, il mandante avverte qualche suo sodale sparso per la Francia che gli invia qualche ragazzotto per effettuare il colpo, con il bottino che si spartiscono in diverse tranche il mandante, il mandato ed i ragazzotti. I quali a volte vengono arrestati, ma non sanno nulla della catena di controllo, e Maigret si ritrova sempre con un pugno di mosche. Ma Maigret è paziente ed aspetta. Dando vita, in questo romanzo, ad un’altra novità: come le moderne serie televisive, questo romanzo chiude alcune parentesi aperte dal precedente. Lì, cercando di incastrare Palmari, scopre le nefandezze del dr. Mélan. Ed entra più in consapevolezza della presenza e dei possibili ruoli ricoperti dall’amante di Manuel, la giovane Aline. Come riporto sotto, Manuel è “sessantino”, Aline è “ventina”. La svolta di tutta la vicenda arriva quando Palmari viene ucciso, nonostante la sua abitazione sia sorvegliata giorno e notte, nonostante Aline sia pedinata ogni volta che si muove di casa. Pur pieno di piccoli elementi e di micro-episodi, la parte centrale della storia prosegue diritta, sui binari di quello che dovrebbe essere il “metodo Maigret”. Cioè nessun metodo, solo star lì, guardare, vedere le persone agire nel proprio contesto, interrogare. Farsi ronzare in testa mille pensieri, anche altri. Magari andando a mangiare con il giudice in una brasserie alsaziana. Magari scrivendo pizzini ai suoi sottoposti (spero che Simenon mi perdoni queste “camillerate”), e come Ale, solo a matita e mai con stilografiche (niente biro negli anni ’60). Magari bevendo l’immancabile birra. O mangiando alcuni dei pochi dessert che disseminano i suoi romanzi (e se ho tempo ci tornerò sopra). La prima zeppa che dà da pensare a Maigret è che il palazzo di rue des Acacias è intestato ad Aline. Il secondo pensiero è quando sa che il ristorante di Manuel, dal quale il corso era partito per realizzare la sua “nefanda” carriera, è stato venduto da Aline al nuovo direttore. La terza, quando vede un cliente del ristorante troppo spesso, e, fattolo seguire da uno dei suoi, scopre che questi telefona a Fernand, un inquilino dello stabile di Manuel e Aline. A questo punto, il metodo di seguire tutti e di vedere cosa fanno e dove e perché, dà i suoi frutti quando si scopre che: Fernand è un rappresentante di gioielli, Aline è proprietaria anche di un albergo vicino al ristorante, dove spesso si incontra ma si avete capito proprio con Fernand. Se ve lo siete scordati, Manuel, come avevo detto nel libro precedente, è da tre anni su di una sedia a rotelle dopo essere sfuggito ad un attentato. Ce la fate anche voi a fare due più due? Quello che manca a Maigret è però l’ultimo anello: i gioielli non vengono venduti ai ricettatori, quindi qualcuno deve lavorarli. Mentre si arrovella su questo punto, una serie di coincidenze lo porteranno a sbrogliare tutta la matassa, a trovare l’intagliatore, a trovare il collegamento tra lui e Fernand, a smascherare il gioco di Fernand e Aline. Poi, è materia del giudice e del tribunale. Il “cacciatore di uomini” ha fatto il suo percorso, ha trovato come, quando e perché. Ora sono di altri i problemi. Come ho detto all’inizio, è un’inchiesta che in realtà dura venti anni. Così che Maigret e Simenon percorrono le pagine anche sull’ala dei ricordi: l’inizio in polizia come Segretario del Commissario di quartiere (“La prima inchiesta di Maigret”), il ricordo del suo più lungo interrogatorio (27 ore) alla banda dei polacchi, ripreso già in diversi romanzi (“Cécile è morta”, “Il morto di Maigret”, ed altri ancora), i cattivi in coppia, qui come ne “Maigret e il cliente del sabato”, le scaramucce con l’antipatico giudice Coméliau rispetto all’attuale giudice Alencin. Il grosso colpo di Simenon è però l’inserire alcuni suoi ricordi personali, spesso legati alla guerra, come in molta parte della sua ultima produzione. Il bombardamento nel 1940 della stazione ferroviaria piena di rifugiati belgi, ad esempio. O lo stupore con cui Maigret ricorda sé stesso ai primi tempi in Parigi, che riecheggia lo stesso stupore, lo stesso atteggiamento di Simenon che passa dalla piccola e provinciale Liegi alla grande città. Per finire si diceva dei dolci di Maigret. Non è che siano tanti, per cui ricordiamo senz’altro: un "piccolo pezzo di torta di mandorle" mangiato presso l'Hotel de la Loire (“Il defunto signor Gallet”), la torta guarnita con tre tipi di crema alla fine del pranzo a casa Van Hasselt (“Un delitto in Olanda”), la torta di riso di Anna (“La casa dei fiamminghi”) e la torta di riso della signora Pardon (“Maigret si confida”), la torta al caffè di Melanie (“Cécile è morta”) dove mangia anche una crema la caramello, la torta di prugne insieme al giudice Ancelin (“La pazienza di Maigret”) e la torta di mele della sorella del Dr. Bresselles (“Maigret a scuola”), i profiterole di Mme Chabot (“Maigret ha paura”) e le Crepes suzette, assaggiate a Les Halles con Mr. Pyke (“Il mio amico Maigret”). Infine, due capolavori della signora Maigret: la crema di limone (“Il pazzo di Bergerac”) e le uova con latte (“Maigret e il corpo senza testa”). Un armagnac per digerire?
Dove
Protagonista
Altri interpreti
Durata
Tempo
Parigi (rue des Acacias, rue Fontaine)
Manuel Palmari, circa 60 anni, mafioso, all'occorrenza informatore, celibe, vittima
Aline Bauche, 22 anni, amante di Palmari, già prostituta
Fernand Barillard, circa 40 anni, rappresentante di commercio, amante di Aline
Mina Claes, circa 30 anni, belga, moglie di Barillard
Victor Krulak, conosciuto come Jef Claes, anziano ebreo lettone, tagliatore di diamanti in Belgio, sordomuto
Jean-Loup Pernelle, proprietario di un locale (che una volta apparteneva a Palmari)
Ispettore Lapointe
2 giorni
7 – 8 luglio
[tit. or.: Maigret et l'Affaire Nahour; ling. or.: francese; pagine: 575 – 733 (159); anno 1966]
Siamo sempre nell’era della scrittura rarefatta, dove Simenon passa praticamente quasi un anno prima di scrivere un nuovo capitolo di Maigret. Seppur allungando il testo (che risulta tra i più lunghi dell’ultimo periodo) si trova in realtà a rigirare intorno allo stesso tema che lo attanaglia in questa fase della vita. Rapporti umani, incapacità (non volontà, forse) di giudicare, e poco altro. Aveva intanto cercato, in questo anno di fare altro. Non di scrivere, ma in aprile del ’65, porta Marie-Jo a Firenze. Visto che Denyse è in clinica, lo accompagna Teresa (e non diciamo altro). In maggio fa un breve giro in Olanda, dove prenderà appunti che riverserà in questo libro. Un nuovo lutto si presenta in giugno, quando muore la zia paterna Marie Jeanne Louise Simenon, fattasi suora con il nome di madre Maria Maddalena. Con tutta la famiglia, poi in estate si concede una crociera tra il Mediterraneo ed il mar Nero sulla nave da crociera “Franca C”, ovviamente del Gruppo Costa. Napoli, la Sicilia, Venezia, Atene, Istanbul, Odessa e Soci sono le tappe di una delle prime crociere “all inclusive” del tempo. Continua a non produrre una riga su Maigret, ed intanto riceve in novembre la visita della madre, Henriette che ormai ha compito 85 anni. Finalmente la penna freme sulla carta e nella prima settimana di febbraio si butta a corpo morto sull’avventura del libanese. In effetti, come rilevato, due sono le componenti che ha ritenuto di questo anno vacanziero: uno spirito mediterraneo, adombrato dalla vittima Felix Nahour, dalla sua famiglia libanese e dal suo tuttofare Fouad Ouéni, libanese anche lui, ma mente i Nahour sono maroniti, Felix è mussulmano. L’altro è un tocco di Olanda, dato dalla moglie di Felix, Lina Wiemers, dalla sua amica Anna Keegel e dalla cameriera Nelly Velthuis. L’inizio è intrigante, perché si collega all’unica grande amicizia di Maigret. Il dr. Pardon lo chiama dicendo di aver curato una ferita da arma da fuoco. Ma la donna è poi fuggita. Per pura coincidenza, poi, la mattina dopo Maigret è chiamato per cominciare ad affrontare il caso della morte per arma da fuoco del libanese, giocatore d’azzardo Félix. La cui sposa, Lina, risulta essere la donna curata dal dr. Pardon, rifugiatasi in Olanda, sua terra natale, accompagnata dal suo amante il colombiano Vicente Alvaredo. Maigret deve affrontare la solita cortina di silenzi, dove nessuno dice la verità, anche se nessuno mente spudoratamente. I coniugi Nahour non erano certo una coppia felice, nonostante i due figli di 5 e 2 anni (che vivono con la tata in Costa Azzurra). Una famiglia benestante, che i Nahour sono una potenza economica e bancaria nel Libano che ancora non è travolto dalla guerra civile. In più Félix è un giocatore professionista, dotato e vincente. Come lo è il factotum Fouad, che vive con la coppia. In casa c’è anche Nelly, la cameriera di Lina, e Louise, la donna delle pulizie, che però non dorme in casa. E che si scopre essere l’unica che conosceva il dr. Pardon. Ma questa parte è un riempitivo, che Maigret deve capire come si possono essere svolti i fatti. Di sicuro, c’è un’ama di piccolo calibro con le impronte di Félix e che è quella che colpisce Lina. Ma chi era presente sulla scena, in cui Lina comunica a Félix che vuole il divorzio e va a vivere con Vicente in Olanda? Alla fine si scopre che c’erano tutti e quattro gli attori principali. Si scopre che Fouad aveva una cotta per Lina ed era pieno di risentimento per Félix. Maigret “sa” che Félix non vuole il divorzio, che Félix spara a Lina, e che l’unico che può sparare a Félix è Fouad. Ma sapere la fine non vuol dire avere tutte le prove. E Fouad accusa Vicente dell’accaduto. La storia non prende molto, se non nel piccolo duello verbale tra Maigret e Fouad. Tuttavia non è gran che per risollevare il più debole dei cinque romanzi del volume. Che ha alcuni altri punti, minuscoli ma importanti. In questo, come nel precedente (ed anche in altri romanzi, ma non ci allarghiamo troppo), Maigret si imbatte nelle “donne delle pulizie” di famiglie benestanti. Donne che sono sempre arcigne, scontrose, poco ben disposte. Un contraltare mentale con la dolcezza della “sua” Teresa. Nel primo capitolo, poi, la signora Maigret chiama il marito per nome. Tutti sappiamo che il nostro si chiama Jules (per l’esattezza Jules Amédée François Maigret). Tuttavia la moglie lo chiama sempre “Maigret!”, utilizzando Jules solo qui e in “Maigret e il corpo senza testa”. La seconda è una riflessione sul “metodo Maigret”, quando il giudice, i giornalisti, ed anche i suoi ispettori, lo incalzano chiedendogli cosa ne pensa del caso, e con Maigret che continua a ripetere di non pensare. Anzi, come in “Maigret e l’uomo della panchina” ribadisce lui stesso: “Io non penso a niente. Io cerco”. Una chiosa stupenda.
Dove
Protagonista
Altri interpreti
Durata
Tempo
Paris (principalmente avenue du Parc-Montsouris, boulevard Voltaire, rue de Rivoli, boulevard de Montparnasse). Amsterdam. Accenni al Libano, a Ginevra e a Mougins.
Fouad Ouéni, 51 anni, libanese, segretario e factotum di Félix
Félix Nahour, 42 anni, sposato, due figli, senza professione ufficiale, ma giocatore d'azzardo, vittima
Évelina Nahour, nata Wiemers, detta Lina, 27 anni, olandese, moglie di Félix, già miss di bellezza
Vicente Alvaredo, 26 anni, studente colombiano, amante di Lina
Louise Boudin, domestica di Félix
Nelly Velthuis, 24 anni, olandese, cameriera di Lina
Pierre Nahour, 47 anni, libanese, fratello di Félix, banchiere a Ginevra
Maurice Nahour, 75 anni, libanese, padre di Félix e Pierre, banchiere a Beirut
Dr. Pardon, amico medico di Maigret
3 giorni
15 – 17 gennaio

Manca poco a terminare tutte le grandi storie di Maigret, ma intanto potrebbe mancare poco anche ad un nuovo viaggio. Dopo ben 41 assegnazioni ad altri, abbiamo un piccolo spiraglio per febbraio, che speriamo si allarghi abbastanza per fare entrare qualcuno. Io non mi illudo, rimango con piedi per terra (ma non con le pied-à-terre) nella speranza di vedervi viaggiare di nuovo con me.