domenica 28 ottobre 2018

Repubblica vs Mondadori - 28 ottobre 2018


Non ho interesse ad entrare nel dibattito politico tra neo-scalfariani e vetero-berlusconiani, volevo solo rimarcare che questa settimana, le due letture della Biblioteca di Repubblica mi hanno, seppur di poco, coinvolto più delle letture della casa di Arcore. Dovendo anche rimarcare che Carrère, scrittore che non amo particolarmente, mi ha stregato con un libro magistrale, così come Gaiman, a torto considerato solo “per ragazzi” sforna un libro noir (non poliziesco ma cupo) che invece è discretamente interessante. Speravo invece molto di più sia in Bolaño che in Hollinghurst, ma sono rimasto un po’ deluso.
Emmanuel Carrère “L’avversario” Repubblica Duemila euro 9,90
[A: 21/02/2017 – I: 29/05/2018 – T: 31/05/2018] - &&&& - 
[tit. or.: L’adversaire; ling. or.: francese; pagine: 174; anno 2000]
Primo libro letto della collana dedicata ai libri del “Duemila” di Repubblica. Sarò un caso fortunato, ma finalmente una collana che inizio leggendo un libro interessante. Devo dire che, in generale, non è che sia un ammiratore di Carrère, di cui ho letto anni fa “Moustache” e ho visto il film da lui diretto, ed entrambi mi delusero. Ho seguito gli echi di altre sue scritture, senza essere convinto a riprenderlo in mano. Invece questo libro è stata una piacevole sorpresa. Con dei limiti, con dei punti in cui non sono convinto del modo di trattare la materia. Ma un complesso di parole che non ti fa staccare dalla pagina, e che ti costringe a pensare. E non è poco. Come spesso accade nei romanzi di parole il nucleo del romanzo stesso è breve e conciso: una persona, che sembra al di sopra di ogni sospetto, uccide la moglie, i due figli, poi i genitori, quindi torna a casa, cercando il suicidio ma facendo solo bruciare la casa stessa. E lui, l’omicida, Jean-Claude Romand, si salva. Intorno a questo nucleo, Carrère costruisce la sua storia. Sì, perché anche lui entra nella storia, sente del fattaccio, si interroga, decide di chiedere a Jean-Claude il permesso di scrivere un romanzo intorno a questa storia. Quindi vediamo la scrittura andare dal romanzesco al presente, dal personale dello scrittore alle trame costruite intorno alla decrittazione delle dinamiche del fatto. Si sente molto l’eco di “A sangue freddo” di Truman Capote, con quel piglio tra il narrativo ed il giornalistico. Ma seppur interessante il percorso che fa lo scrittore per arrivare al protagonista dei fatti, altrettanto interessante è lo svolgersi dei fatti stessi, il loro concatenarsi. Perché Jean-Luc, secondo gli amici e i conoscenti, è un medico stimato, che lavora a Ginevra presso l’OMS e vive in quel paesino della Francia abbastanza vicino al confine. Poi, velo dopo velo, si scopre la verità. O il susseguirsi dei fatti, che la verità la lascio a chi la sa interpretare ed a chi leggerà con piacere il romanzo. Che Jean-Claude, al secondo anno di medicina si blocca, non dà più esami. Ma continua a ronzare nell’Università, dove conosce e sposa Florence. Da cui avrà i due figli. Per una concatenazione di eventi fortuiti, grotteschi ed improbabili, dice di laurearsi e nessuno ne controlla la verità. Decide di avere un incarico importante a Ginevra, così che esce di casa la mattina e torna la sera. Ma non farà altro che girovagare per i boschi, che stare in macchina, magari fermarsi in qualche alberghetto fuori mano. Eppur tuttavia ha studiato, così che nelle sere conviviali può parlare di medicina con proprietà. Si aggiorna, rimane al passo con i tempi. Ma non dà a nessuno i telefoni per la sua reperibilità. Solo delle segreterie telefoniche, da cui richiama in caso di necessità. Il posto di prestigio, le millantate amicizie con banchieri svizzeri, fanno anche sì che parenti ed amici gli affidino delle somme per lucrosi investimenti. Somme che lui utilizza per vivere, non avendo nessuna entrata di altro genere. Fa salti mortali, utilizza somma in prestito per ridare soldi a chi glieli presta. Insomma, alta finanza senza rete. Peccato che questo meccanismo si inceppi perché il nostro si innamora di una bella signora. Che gli affida anche lei i suoi soldi. Con la quale vive momenti per lui pieni di significato, in mancanza di altro. Peccato che la signora gli chieda indietro i soldi. E Jean-Claude, in bancarotta completa, decide che la morte di tutti coloro che gli sono intorno è l’unica soluzione. Ma questa è la storia, che anche andando su Wikipedia si potrebbe leggere. La bellezza e la bravura della scrittura di Carrère è quel renderla viva, quel cercare inoltre non solo di descriverci il personaggio “Jean-Claude”, ma di capirne le motivazioni. Di discuterle con lui e con noi. Di capirne e decifrarne il problema morale che pone. Nonché, per me, la descrizione a tutto tondo della figura di un bugiardo, mentitore fino alla follia. A tuttora, comunque, Romand mi risulta sia ancora in carcere.
“Ho seguito nel cielo grigio il volo di uccelli di cui ignoro il nome (purtroppo non so riconoscere né gli uccelli né gli alberi).” (74) [ed in questo ti sono solidale, nonostante tutte le fatiche di mia madre]
Roberto Bolaño “Notturno cileno” Repubblica Duemila euro 7,90
[A: 13/06/2017 – I: 07/08/2018 – T: 08/08/2018] - && --  
[tit. or.: Nocturno de Chile; ling. or.: spagnolo; pagine: 125; anno 2000]
Una nuova lettura della collana di Repubblica dedicata ai romanzi di questo secolo. Una lettura che vi entra per poco, essendo come riportato scritta proprio nel 2000. Una lettura che continua a perpetuare il mio rapporto scostante con l’autore. Che generalmente trovo interessante, e pieno di spunti. A volte anche di lirismi inaspettati. A volte, pieno di cerebralismi che rendono la lettura un duro esercizio per il lettore, come in quel lavoro, che ho cordialmente odiato, intitolato “Anversa”. Qui il sentimento è vieppiù duplice. Che la materia del narrare è forte e dolorosa. Che il modo del narrare è farraginoso, e pieno di rimandi, di cose nascoste, di trappole per il lettore, che si fa fatica a procedere, pur nella brevità del testo. L’autore ha cercato, con dolorosa penna, di scavare dentro i suoi sentimenti ed i sentimenti di una intera nazione, utilizzando un lungo monologo di più di cento pagine senza una pausa di sospensione, per narrare le vicende del suo paese. Vicende dolorose e dolenti, che hanno visto passare dalle dittature degli anni ’60, con il grande Neruda in esilio, al ritorno del poeta, la vincita del Premio Nobel, la vittoria elettorale di Allende, il colpo di stato, gestito ed auspicato dagli americani, che porta al potere Pinochet, la fine della dittatura, il ritorno alla “vita normale”, con i conti che tutti quelli che avevano sostenuto o non osteggiato il regime devono fare i conti con la propria coscienza. Fino a dove un male poco noto (o ignorato) ricade come colpa su chi lo ignora? La sentenza finale di Bolaño è che, in fondo, siamo tutti colpevoli. Possiamo solo cercare di alleviare la sofferenza cercando (ma con quanta fatica e difficoltà) di rimediare al male fatto con la nostra connivenza. Questo lungo monologo, atto a rappresentare tutte le vicende cilene (oscure come dal titolo di “Notturno”), è posto in bocca simbolicamente ad un prete, Sebastian Urrutia Lacroix. Primo elemento simbolico: un prete, simbolo di poteri e connivenze da sempre osteggiate dall’autore, con un cognome non di origini puramente ispaniche, che Urrutia è basco e Lacroix palesemente francese. Su di un letto, forse in punto di morte, Sebastian ripercorre tutta la sua vita. La vocazione, forse scarsa, forse dettata da altri motivi. Il fatto di amare le lettere e lo scrivere (quasi fosse un riflesso speculare dell’autore stesso). L’entrata nel campo delle lettere, con la conoscenza del critico che gli rimarrà accanto tutta la vita, benché venga chiamato Farewell (cioè addio). I vari microracconti della vita del prete sono altrettanti momenti di pensamento e riflessione mascherata (il poeta guatemalteco che si perde in Europa, il calzolaio viennese e la sua “Collina degli Eroi”). Con delle punte che, segnando le tappe della vita di Sebastian segnano altrettanti pezzi della storia patria. Appunto la giovinezza felice dove, nella casa di campagna di Farewell, che si chiama Là-bas (cioè laggiù), incrocia la vita e l’opera di Pablo Neruda. E poi la missione in Europa per scoprire come conservare le chiese. Come un doppio mascheramento. Questa, ed altre missioni, gli vengono affidate da una coppia di loschi figuri, dal nome di signor Aruap e signor Oido (e non vi devo certo svelare l’arcano dei loro nomi). E come non vedere nel fatto che le chiese siano salvate dalla cacca dei piccioni utilizzando falconi ammaestrati, come un accenno, neanche troppo velato, alla Milizia del “Gruppo dei Falconi”, utilizzato in Cile dalla giunta militare per sterminare gli oppositori. E l’altra missione di Sebastian, questa volta in patria, dove deve insegnare l’ideologia marxista a Pinochet ed alla sua giunta assassina, così che possano conoscere le idee degli avversari. Mostrando la completa “illetterarietà” sia del dittatore che dei suoi accoliti. E come, infine, non vedere nella storia dell’intellettuale Maria Canales che organizza serata letterarie mentre il marito, americano, tortura oppositori del regime nelle cantine, la storia di Mariana Callejas e di suo marito Michael Townley, che fanno esattamente la stessa cosa (tra l’altro Townley è considerato l’autore materiale dell’assassinio di Orlando Letelier, avvenuto a Washington con la complicità di tutta la CIA). La stessa figura di Sebastian potrebbe ricalcare quella di José Miguel Ibáñez Langlois, sacerdote, membro dell’Opus Dei, poeta e critico letterario, figura centrale della letteratura cilena per tutto il periodo della dittatura. Tutta questa storia, in cui siamo tutti colpevoli e colpevolizzati, vede Sebastian interloquire con un misterioso “giovane invecchiato” che sembra volergli rimproverare tutte le storture della sua vita. Un interlocutore che potrebbe avere due facce: lo stesso Sebastian nel suo Io nascosto, lo stesso Bolaño come coscienza critica impotente del mondo cileno (appunta una coscienza invecchiata). Troppo simbolico per essere di facile lettura. Troppo simbolico per essere decrittato facilmente per chi di poco conosce il mondo sudamericano. Anche se devo riconoscere all’autore capacità letterarie interessanti. Ricordo per finire che il mio “sviscerato” comunque amore per Bolaño deriva anche dal fatto che era nato dieci giorni prima di me (e quindi pur sempre un toro seppur di aprile). E che muore a 50 anni, per un cancro al fegato, lasciando un vuoto per le immaginifiche storie pubblicate nei dieci anni di produzione letteraria.
Alan Hollinghurst “La biblioteca della piscina” Mondadori euro 10,50 (in realtà, scontato a 6,30 euro)
[A: 12/04/2016 – I: 12/08/2018 – T: 15/08/2018] - &&
[tit. or.: The Swimming Pool Library; ling. or.: inglese; pagine: 377; anno 1989]
Mi sembra abbastanza scontato dove le libropeute abbiano collocato la lettura di questo libro. Il più che sessantenne autore, da me fino ad ora ignorato, è invece ben presente e noto nel panorama letterario inglese, tra l’altro avendo vinto il Booker Prize nel 2004. Ed è ben noto per il suo essere dichiaratamente gay e per essere i suoi scritti sempre collocati all’interno del mondo omosessuale. Come in questo che, in quanto anche primo libro pubblicato sui 34 anni pone alcuni archetipi del suo modo di porre il romanzo che, leggendone a posteriori le critiche degli altri suoi scritti, rimarranno costanti. Comunque, almeno nella mia lettura del libro, ho la necessità di separare la scrittura dal testo. Non è certo un’operazione sempre corretta, che chi scrive ovviamente lo fa unificando i due elementi. Tuttavia, in questo testo di lenta lettura per me hanno due pesi diversi. La scrittura è quella di un buon artigiano della penna, che riesce ad intrecciare diversi livelli di scrittura, dal narrare in prima persona del protagonista Will ai brani di diario scritti da Lord Nantwich, ai brevi intarsi del tristo James. Inoltre, non si dimentica i personaggi, li lascia e li riprende, ed anche quando sono a margine, risultano sempre caratterizzati e funzionali alla trama. Ma poi la scrittura stessa scivola in un compiacimento alla Oscar Wilde che abbia seguito un corso accelerato presso il marchese de Sade. Le crude descrizioni delle latrine, delle docce, dei club esclusivi, dei ring di periferia, dell’atelier del fotografo che, con una patina di originalità, non fa altro che montare scene erotiche, sono pugni nello stomaco, in cui le prime comparse incuriosiscono, le seconde cominciano ad essere ridondanti, le ultime alla fine hanno solo un senso autoreferenziale inutile. La trama, invece, potrebbe essere svolta ed articolata in qualsiasi tempo e spazio, quasi fosse un archetipo universale. Il giovane Will Blankurst è ricco, spensierato e gay. Si aggira in una Londra di metà anni ’80 alla ricerca di qualche avventura, pronto ad innamorarsi per due begli occhi, o un bel corpo. Ma altrettanto pronto a subire delusioni, ed anche brutte avventure (non entro in particolari che non saprei rendere con la spontaneità dell’autore). Dalla sua storia passata che ci viene fornita spezzettata lungo tutto il romanzo, capiamo che è figlio di un alto magistrato, ora Lord nella Camera dei Pari, che ha studiato a Oxford, dove è diventato “Prefetto” (bisogna conoscere un po’ delle modalità organizzative dei college per capire meglio questa parte), e dove questi vengono chiamati (non si sa per quale motivo) “Librarian”, cioè Bibliotecario, e dove Will diventerà il Librarian della Piscina (da cui il titolo). Ed è dai tempi del college che sviluppa il suo modo di vivere, e lì nella piscina ha i suoi primi approcci sessuali. Che continuerà ad avere nella piscina del club che frequenta da ventenne. E dove incontra, conosce e sviluppa le sue amicizie, tra cui l’amore sempre presente, ma mai portato fino in fondo, con il suo coevo James. Si salvano a vicenda in situazioni drammatiche, si professano stima reciproca, in fondo si amano. Ma James non porta mai sino in fondo i suoi sentimenti, e Will è un farfallone sempre pronto a seguire gli occhi di un bel “coloured” o di un bel corpicino. Il tutto si intreccia con la storia di Lord Nantwich, anziano ottuagenario gay che Will salva in una situazione potenzialmente mortale (infarto), e dove, da quel momento in poi, tra i due si instaura un rapporto di amicizia (vera o falsa?) in cui il Lord chiede al giovane di scrivere la sua biografia. Da qui nascono quegli inserti di scritture diverse in cui Hollinghurst sembra sapersi ben destreggiare. Tra cene in club ricchi e favolosi, serate all’opera, ed ubriacature in sordidi bar, passa il tempo anche dell’amicizia tra i due. Dove Will, leggendo e studiando diari e manoscritti, scopre i motivi dell’attaccamento del Lord verso questo giovane poco noto. Non ve ne parlo, che sarà, forse, l’unica parte interessante, nonché di denuncia, che riesce a mettere ben in chiaro lo scrittore negli ultimi due capitoli. Il tutto, data la prova di prima scrittura del libro, pieno anche di riferimenti al mondo privato dello scrittore: lunghe citazioni di Ronald Firbank, scrittore gay protagonista della tesi di laurea di Hollinghurst, momenti trasversali tra Lord e altri scrittori e musicisti (Edward Morgan Forster ed i suoi libri, Benjamin Britten ed il “Billy Budd” tratto da Melville e poco velatamente gay). Ripeto allora i miei giudizi iniziali: una scrittura ben avviata non sorretta da una trama altrettanto all’altezza. Non mi hanno sconvolto le descrizioni pure crude, ne abbiamo visto e sentite tante. Ma non sempre si amalgamano scritto e testo, e questo non mi ha convinto fino in fondo. Una bella prova, e coraggiosa, ma non in linea con i miei gusti letterari.
“Ho avuto una vita molto interessante e ora è così maledettamente noiosa e sono tutti morti e non riesco a ricordare cosa stavo dicendo.” (57)
“Ti penso in continuazione e converso mentalmente con te e immagino che cosa diresti tu di varie cose.” (289)
“Non ero molto ben disposto verso le fotografie, ma … mi sentivo un po’ in ansia per loro, come mi capita quando vedo un amico sul palcoscenico.” (302)
“Quando ci si avvicina al termine della propria vita, ci si rende conto di averla sprecata quasi tutta.” (314)
Neil Gaiman “Il figlio del cimitero” Mondadori euro 10,50 (in realtà, scontato a 8,90 euro)
[A: 04/05/2016 – I: 20/08/2018 – T: 22/08/2018] - &&& +
[tit. or.: The Graveyard Book; ling. or.: inglese; pagine: 345; anno 2008]
Ero molto curioso di leggere qualcosa di questo complesso autore inglese: scrittore, giornalista, fumettista ed altro ancora. Ma in particolare ero curioso di un duplice aspetto di questo autore. Scrive libri per ragazzi, vincendo con questo la “Carnegie Medal for children book”. E nello stesso anno, con questo stesso libro, vince il Premio Hugo di fantascienza. Chi sa i miei trascorsi giovanili, non potrà che convenire con me nella curiosa coincidenza. Da adolescente, avevo praticamente tutti i libri vincitori dei Premi Hugo (in onore di Hugo Gernsback, fondatore nel 1926 della prima rivista di Sci-Fi al mondo). Parliamo ad esempio di Robert Heinlein, di Fritz Leiber, di Philip K. Dick, di Roger Zelazny ino a Ursula Le Guin, Philip Farmer e Isaac Asimov. Ma la spinta finale me la donò il libro sulle cure librarie, accostando questo a quell’altro da poco letto (“Corri” della Patchett). Devo dire che confermo la gradevolezza del testo, la sua scorrevolezza, nonché rimandi sapienti a classici della letteratura gotica (da “Il castello di Otranto” Horace Walpole a “L’incubo di Hill House” di Shirley Jackson). Ma anche lo stile un po’ troppo didattico: certo in un “educational book” ci può stare, seppur a volte troppo palese. Fidarsi delle persone, ma controllare. Non aver paura dei diversi. Studiare. Osteggiare i bulli. Insomma, tutta una serie di codici civili che qualcuno dovrebbe ricordare a M6S (vediamo se capite a chi mi riferisco!). La storia, in sé, è di quelle che si pongono sul limitar del vero, dove, facendo un piccolo sforzo, si entra nel gioco e non se ne esce. Come cento anni prima di Neil era stato fatto per l’operazione Peter Pan. Un bambino sfugge ad una strage (ed in questo c’è un ricalco palese dell’inizio di Harry Potter), e viene accolto dalla comunità dei morti in un cimitero. Sotto l’egida della Signora con la falce, i morti si palesano al bambino. Due ne diventano i genitori adottanti. Uno, Silas, il tutore. In quanto Silas non è né vivo né morto, quindi può uscire dal cimitero e procurare al bimbo almeno da mangiare. Non esseno noto a nessuno, così viene chiamato; cioè, in inglese, Nobody, che verrà usato solo con il diminutivo Bod. Nel corso dei capitoli, assistiamo alla crescita di Bod, su per l’infanzia, sino allo scoccare dei 16 anni, che sembra un limite “fisico” per continuare a vivere con i morti (ossimoro cercato a lungo). E Bod attraversa tutte le tappe dell’infanzia e dell’adolescenza, contando solo sui suoi amici “tombali”. Che escono, girano per il cimitero, e non invecchiano (questo il peccato maggior per Bod che invece cresce). Ci sono i teneri genitori Owens, l’antico romano, il poeta, lo scrittore, e tanti altri. Oltre a Silas, che accoglie le richieste di Bod, risponde alle sue domande, cerca di indirizzarlo, ed anche di proteggerlo. C’è Liza, una falsa strega, bruciata per invidia e sepolta in terra sconsacrata. Che tuttavia è gentile e molto innamorata di Bod (anche senza possibilità di futuro). E poi c’è Scarlett, una bimba reale che incontra Bod intorno ai cinque anni. E che poi, dopo una parentesi scozzese, ritrova dieci anni dopo. Con immutata gioia e forse con l’idea che possa nascere qualcosa in più. Ma dietro tutti i momenti di formazione e di cauto divertimento, incombe la storia cupa. Chi è che voleva uccidere Bod? Ed il pericolo esiste ancora? Qui vediamo la parte più gotica del libro, dove ci sono i “buoni”, chiamati anche “Mastini di Dio”, che cercano e riescono alla fine a sconfiggere i cattivi. I buoni che sono amici i Bod: Silas, ad esempio, che scopriamo essere un vampiro pentito, e la signorina Lupescu, un lupo mannaro molto materno. I cattivi fanno parte di una non meglio “Confraternita”, un “Deck of People” (vedrete meglio il perché dell’inglese), che gestisce un non meglio fantomatico potere. Se si sente minacciata, interviene uccidendo a più non posso. Per fare ciò utilizza “gente di basso livello”, diremo i fanti dei battaglioni. Qui c’è appunto la parte intraducibile del libro e del gioco di Gaiman. Il potere è gestito da quell’insieme di persone numericamente ristretto, che costituiscono il mazzo (“Deck”). I sicari sono i Fanti, che in inglese vengono chiamati “Jack”. E sono proprio quattro Jack (come dice il capitolo “Tutti i fanti del mazzo” cioè “All the Jack of the Deck”) che cercano di eliminare Bod. Soprattutto il primo, quello che aveva ucciso la famiglia di Bod. Primo che si mimetizza in ricercatore stralunato, facendosi chiamare Mr. Frost, che raggira Scarlett per usarla contro Bod, minaccia che Bod sventa, facendo uccidere il cattivo da un mostro delle tombe. Ovviamente la parte “ironica” di Gaiman si mostra anche in questo passo, dove il cattivo, alla fine, si presenta come Jack Frost. Che a noi italiani non dice nulla, ma che nella letteratura inglese, e nei racconti popolari, è il nomignolo di Mastro Inverno, quello che porta freddo e gelo, e fa morire campagne e persone. Tornando al romanzo, Scarlett, pur volendo bene a Bod, rimane sconvolta da questi fatti. Sarà Silas a farle dimenticare tutto e rimandarla in Scozia. Dove forse, in un futuro libro, incontrerà di nuovo Bod, e tutto potrà cambiare. Ma Bod deve lasciare il cimiero, ormai è grande, e deve percorrere le strade del mondo. Come gli canta mamma Owens nella ninnananna che lo segue per tutta la storia: “Face your life / Its pain, its pleasure / Leave no path untaken” (“Affronta la vita / Son gioie e dolori / Non lasciar cammini inesplorati”; dove purtroppo nella traduzione l’ultimo verso viene aggiustato con “Che non siano inesplorate / le strade di ieri”. Perché ieri? Misteri). Alla fine, certo, libro per adolescenti, ma ce ne vogliono come questi per farli crescere. Ben scritto, Neil.
“È come chi crede che se va a vivere da qualche altra parte sarà felice, ma poi scopre che non è così che funziona. Ovunque tu vada, porti te stesso con te.” (118)
Quale miglior viatico che chiudere l’anno “terribilis” cui accennavo la settimana scorsa, con un nuovo, intenso, difficile viaggio nel mondo. Questa volta proviamo finalmente a vedere il deserto del Kalahari, e ad addentrarci in Botswana. Vi saprò dire al ritorno, che per almeno quindici giorni sarete senza le mie trame (non siate troppo dispiaciuti, magari vi accorgerete che ne potete fare a meno, e mi manderete a quel paese). Intanto leggete (soprattutto Carrère) e siate allegri con tutti i miei abbracci.
Ps: un piccolo doppio poscritto, per sottolineare che anche se non mi è piaciuto, alcune frasi di Hollinghurst sono memorabili. Infine, per chi ha voglia, sottolineo la palindromicità anagrammatica della giornata di oggi. Per chi non ne ha di voglia, può chiedermi spiegazioni.

Ancora NUMA - 21 ottobre 2018


Nel senso che, nel bene e nel male, abbiamo una settimana tutta dedicata a Clive Cussler (come mi ricordava proprio due giorni fa Otto), ma senza i nuovi arrivi. Torniamo ai classici, con due avventure di Kurt Austin, una di Juan Cabrillo ed una della famiglia Pitt. L’unica po, che riesce a raggiungere la sufficienza.
Clive Cussler & Graham Brown “Terremoto” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 0,90 euro)
[A: 15/02/2016 – I: 20/07/2017 – T: 24/07/2017] - && +
[tit. or.: Zero Hour; ling. or.: inglese; pagine: 325; anno 2013]
Un buon compito svolto abbastanza bene, anche se c’è qualche confusione nei titoli. Quello italiano si riferisce ad una delle conseguenze dell’imbrigliamento sbagliato dell’energia, quello originale, sia al conto alla rovescia per un evento speciale, sia all’energia che è il motore scientifico del romanzo, l’energia a “punto zero” (vedremo poi di che si tratta). Altro elemento che lascia qualche punto in meno è un finale un po’ confusionario, che mescola troppi elementi. Comunque, come nelle più riuscite ed usuali storie della factory di Cussler, la storia comincia da lontano, raccontando un esperimento del 1906, in una caverna in California, dove si cerca di sperimentare qualche pratica applicazione delle scoperte del grande fisico Nikola Tesla. Il 2013 dev’essere un anno in cui Cussler è entrato in fissa con questo scienziato serbo-americano, che anche il precedente libro ne parlava a lungo. Qui siamo alle prese con una possibile applicazione della fisica quantistica, che sarebbe una conseguenza del principio di indeterminazione di Heisenberg, dove si descrive il vuoto come una coppia di particelle e antiparticelle che si annullano reciprocamente. Trovando il modo invece di separarle, secondo Tesla si creerebbe una riserva di energia potente ed a basso costo. Fuori dal libro (che non ne parla), Tesla riuscì a penetrare il segreto dell’etere e nel 1931 in collaborazione con la Westinghouse Electric (supportata dalle sue invenzioni) e con la Pierce-Arrow (nota casa automobilistica) costruì la prima automobile elettrica a corrente alternata alimentata da un convertitore costruito da Tesla stesso che prelevava l’energia contenuta nell’etere tramite un’antenna, convertendola in energia elettrica. Prototipo che non ebbe ovviamente seguito, per le pressioni insormontabili dell’industria petrolifera americana. Ma tornando al libro, l’esperimento in California non riesce e l’energia sprigionata e non imbrigliata produce un forte terremoto (siamo nel 1906, e tutti sanno del terremoto di San Francisco, sia per sentito dire sia per il famoso film con Clark Gable e Jeanette MacDonald). Ovviamente, se non che ci starebbe a fare Cussler, c’è qualcuno che a prezzo di costi spropositati riesce, forse, nell’impresa non riuscita alla squadra di Tesla ad inizio secolo. Si tratta di uno scienziato un po’ fuori di testa, Maximilian Thero, latente schizofrenico e sicuramente rimasto scosso dall’incidente che anni prima ha fermato le sue scoperte, e dove qualcuno della famiglia (un figlio? una figlia? entrambi?) muore. Per sostenere i costi Thero scopre un giacimento diamantifero, dove porta gente che rapisce in giro per il mondo e la costringe a lavorare come suoi schiavi. Per poi rivendere i diamanti. Uno degli schiavi, tuttavia, è più preparato degli altri. È un cipriota, Nikolas Panos che rapisce le carte con i calcoli di Thero. Rocambolescamente arriva nel porto di Sydney, dove muore praticamente tra le braccia di Kurt Austin. Ecco quindi che viene coinvolta la struttura della NUMA, quella diremmo di secondo livello. Kurt stava assistendo ad una pallosissima conferenza all’Opera House, da dove si allontana con una scusa, incontra la dott.ssa Hayley Anderson e con lei assiste alla scena della morte di Panos. Interviene la sicurezza australiana, nella persona di Cecil Bradshaw. Da qui comincia anche un ballo di competenze e di silenzi (non si sa se colpevoli o involontari). Come se tutti, Bradshaw, il governo australiano, Hayley sapessero più di quanto dicono. Tanto che Bradshaw ipotizza la possibilità che Panos sia un traditore, anche perché all’orizzonte si profilano anche i russi, a complicare la trama con qualche immissione da guerra fredda d’altri tempi. Intanto Austin scopre che Panos è ricoperto di terriccio comune nell’entroterra australiano, cosa che sembra poco compatibile perché sempre secondo Austin il morto deve essere venuto da sott’acqua, dato che mostra evidenti segni di cattiva decompressione. Comunque, a questo punto molte carte sono sul tavolo. Austin scopre che Hayley è uno scienziato di fama (con l’unico difetto, catastrofico, di aver paura di volare in aereo), che ha progettato dei geosensori in grado di recepire gli spostamenti sismico-tettonici che Thero potrebbe provocare. Ovvio che Austin da qui in poi faccia intervenire il corpo della NUMA nel suo completo: prima di tutti il suo partner Joe Zavala, con alcuni macchinari che consentono immersioni rapide, ed in secondo luogo i coniugi Gamay, che stavano testando un nuovo scansionatore del fondo marino. A questo punto Thero esce allo scoperto, minacciando di testare il suo generatore di “energia a punto zero” al largo delle coste australiane, con il rischio concreto di spostare le placche tettoniche e di creare terremoti incontrollabili in tutto il territorio dell’Oceania. Gli sforzi congiunti di Austin e Zavala in prima linea, con l’aiuto dei macchinari di Hayley e dei coniugi Gamay, nonché delle forze militari di Bradshaw, riescono a distruggere alcuni elementi di supporto (tipo la miniera di diamanti), ma non hanno modo di distruggere la macchina che crea l’energia. Ci vorrà un’invenzione, un’idea illuminante del gruppo NUMA, benedetta da lontano dal suo grande capo Dirk Pitt, per risolvere la situazione per il meglio. Piccola chicca finale, Kurt e Hayley si allontanano verso un concerto all’Opera House (cosa che Kurt voleva fare 314 pagine prima) con il mezzo più lento che il nostro dongiovanni poteva pensare per far colpo sulla bella: una carrozza a cavalli.
Clive & Dirk Cussler “Havana Storm” Longanesi euro 12,90 (in realtà, scontato a 7,74 euro)
[A: 23/11/2016 – I: 27/03/2018 – T: 29/03/2018] - &&& -
[tit. or.: Havana Storm; ling. or.: inglese; pagine: 362; anno 2014]
Dopo ben 8 mesi riprendiamo a leggere le avventure ecologico – ambientali – marine del maestro Cussler. Qui coadiuvato nella scrittura dal figlio Dirk e dediti entrambi alla scrittura della serie maggiore, quella appunto che ha per protagonista l’eponimo del figlio, il grande avventuriero Dirk Pitt. Tra l’altro con questa siamo alla 23 storia della serie. E benché si notino dei rallentamenti nelle tensioni, e nelle azioni, il risultato è sempre discreto e gradevole. Meglio in ogni caso del “Terremoto” dell’ultima lettura. Anche se non è del tutto riuscito. In parte credo perché non si è deciso, tra i due autori, che filone prendere. Se mantenersi sul “normale” Dirk Pitt, o se debordare sul vicino “Oregon file” (due delle tante serie di Cussler, la seconda con intenti a volte più “politici” che avventuroso-ecologici). C’è infatti, come nel classico “Dirk” la partenza da lontano. Anche se questa volta il lontano risale solo alla guerra ispano-americana del 1898 per l’indipendenza di Cuba e delle Filippine. Certo ricordare che gli USA (con un certo generale Teddy Roosevelt) lottarono e morirono per Cuba, e poi meno di settanta anni dopo avrebbero lottato ed ucciso per far morire Cuba è veramente spaesante. Ma questo ci porta fuori dal seminato. Che nel 1898, nel periodo delle tensioni pre-guerra, un archeologo americano trova reperti Aztechi indicanti un grande possibile tesoro. Inseguito da spagnoli cattivi, si rifugia sulla corrazzata Maine. Che i cattivi fanno saltare in aria, scatenando la guerra di cui sopra. Venendo ai tempi moderni, abbiamo da un lato i due figli di Dirk, Dirk jr. e Summer, che si occupano di archeologia, che ritrovano resti risalenti alla colonizzazione spagnola, tra cui una mezza ruota simile, anche se più piccola, a quella bellissima che si trova (e che ho ammirato) al Museo Antropologico di Città del Messico. I due seguono le tracce della seconda metà, trovandosi a fare immersione in un cenote (ci feci il bagno la prima volta in Messico, ora mi dicono sia più pericoloso), ad essere presi di mira da biechi assassini, per poi, con l’aiuto del grande esperto navale Perlmutter, capire che il bandolo della matassa si deve trovare proprio a Cuba. Anche perché vediamo fin da subito che il cattivo è proprio un cubano, dal fantasioso nome di Diaz. Sull’altro versante, quello ecologico, vediamo Dirk sr. ed i suoi imbattersi in piccoli (e poi grandi) disastri ecologici, causati da inquinamento di metilmercurio. Che, come ogni buon chimico sa (quindi non io) deriva spesso da fonti vulcaniche, in particolare sottomarine, dove viene emesso del mercurio inorganico che si sintetizza con l’ambiente marino. Pitt, oltre a salvare una nave che stava inabissandosi, con i suoi, ed in particolare con il fido Al Giordino ed i suoi robot subacquei, scopre che la causa scatenante sono esplosioni nei fondali tra Cuba e la Florida. Esplosioni che, ma questo si capisce un po’ dopo, servono a liberare da fonti idrogeologiche sottomarine, grandi quantità di materiale radioattivo inerte, che i cattivi cubani vogliono vendere alla Corea del Nord. In modo da utilizzare i soldi ricavati per fomentare una rivolta anticastrista a Cuba. A capo dei sabotatori marini c’è lo stesso Diaz che cerca tesori aztechi nascosti. A capo dei rivoltosi che seguiamo nel tentativo di uccidere niente di meno che Raul Castro, c’è il fratello di Diaz. L’ammiraglio ex-capo di Dirk ed ora vicepresidente (ma che succederà quando salirà sullo scranno l’improbabile Trump?), sventa tutto. Anche con l’aiuto di Pitt ed i suoi. Intanto, il fatto che sia sempre Diaz a capo della fazione nemica in entrambi i casi, permette ai Cussler di unificare le storie. Con le solite rocambolesche avventure: salvataggio sottomarini all’ultimo minuto, assalti di navi, sparatorie, agnizioni varie. Una delle scene più belle è la sostituzione di Castro con un sosia, ergastolano e malato terminale, che muore al posto suo. Ma che consente a Castro, una volta sconfitti i nemici, di prenderne uno e di rinchiuderlo all’ergastolo senza processo, solo facendo sostituirne il nome. Altra scena “madre” l’incontro tra Raul e Dirk, molto affiatati e molto in spirito “Barack”: libertà, democrazia, ed alter belle parole. Comunque, Pitt salva lo stretto della Florida dall’inquinamento. Ed il vicepresidente alla fine dirà ai nostri marinai – archeologi – ecologisti e quant’altro la vera storia della ruota misteriosa di Montezuma. Dove finalmente si ristabilisce una verità poco nota sul nome dell’imperatore azteco, che dovrebbe essere chiamato Moctezuma o ancora meglio in lingua Nahuatl come Motecuhzoma. Ricostruita infatti la ruota, i nostri capiscono che il tesoro azteco fuggito dal Messico deve essere a Cuba. Guardandone i disegni complessi ed ora completi capiscono che tipologia di terreno e di grotte devono cercare. Unendo tutti gli sforzi, arrivano a decifrare il sito come la Baia di Guantánamo, che ben conosciamo come campo di prigionia, ma che è anche un territorio americano di 111 km2 dato in affitto perpetuo dal 1903 agli Stati Uniti. Proprio nella base i nostri magicamente ritrovano il tesoro. Ma il vicepresidente li avverte che gli Stati Uniti ben sapevano delle grotte e del loro contenuto. Insomma, una vicenda improbabile, condotta con poco sugo. E con un finale altrettanto poco probabile. Certo, scrittura decente, situazioni che si intricano e che sono interessanti da decifrare. Ma le due vicende non diventano mai realmente il centro della narrazione, lasciandola un po’ sbilenca. Aspettiamo altre prove, Cussler. Dimenticavo: al solito c’è il piccolo cammeo alla Hitchcock del nostro scrittore, che fa sempre piacere scoprire nelle pieghe narrative.
Clive Cussler & Graham Brown “Naufragio” TEA euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,42 euro)
[A: 21/09/2016 – I: 06/10/2018 – T: 09/10/2018] - && e ½
[tit. or.: Ghost Ship; ling. or.: inglese; pagine: 371; anno 2013]
Torniamo ora, dopo sei mesi, alle avventure dei NUMA files, quelli che vedono in prima linea Kurt Austin, il capo dei Progetti Speciali, ed il suo aiutante Joe Zavala. Anche se qui si intrecciano abbastanza con la presenza del personaggio principe di Cussler, il grande Dirk Pitt. Ormai a capo della NUMA, essendo il precedente presidente ora diventato vicepresidente degli Stati Uniti. Ed essendo un’avventura che coinvolge le strutture della mitica organizzazione oceanografica, Pitt è presente, anche in modo non marginale. Lo stampo generale prevede i passi classici del marchio NUMA files: piccolo prologo, non tanto per mettere in moto qualche ricerca strampalata, quanto per spiegare alcuni avvenimenti (a volte anche tutta la messa in scena) del romanzo, una spinta che avvia la storia, la presenza di almeno una donna carina, meglio se libera, un cattivo che cerca di far volgere la vicenda a proprio favore (per tornaconto personale o per vendetta), uno scenario complesso dove, di volta in volta, si individua una nazione cattiva da stigmatizzare. Qui, ancora ben lontani dalle Trump-folies, quest’ultimo ruolo è riservato alla Corea del Nord, che cerca di comprare, legalmente o meno, il servizio di alcuni hackers per penetrare e sconvolgere il sistema informatico mondiale. Per questo compito, l’emissario nordcoreano utilizza i servizi di una strana famiglia di ladri, anzi di generazioni di ladri. Famiglia dal nome francesizzato Brévard, che vedete abbastanza presto come sia possibile una sua derivazione dall’inglese “Braveheart”. Proprio dalla famiglia, poi, nasce il prologo sopracitato. È il capostipite della casata che organizza una banda di ladri in Sudafrica, che riesce a fabbricare monete false praticamente indistinguibili, e che, poco prima di essere catturato, fugge su di una nave, inscenando la sua scomparsa. Questo il marchio “Brévard”: grande casino, ruberie, poi scomparsa. Ed in effetti la nave scompare, dando ragione al titolo originario (“Ghost Ship” cioè Nave Fantasma), migliore dell’italiano “Naufragio” che rimane vero in una serie di situazioni, ma che può portare fuori rotta. Perché in realtà proprio da un naufragio comincia la storia, di un battello con sopra una famiglia, dove la madre, Sienna, ha due caratteristiche: è stata amante di Kurt ed è un genio dell’informatica, tanto da aver inventato una rete di protezione invalicabile agli hackers, e che sta per essere adottata “sopra” internet e tutte le altre connessioni. Kurt non li salva, e da quel momento in poi, complice un trauma cranico, ha incubi ricorrenti. Sul salvataggio e sul fatto che invece sia tutto finto. Questo secondo filone è assecondato da Dirk, che gli dà carta bianca. Inizia allora una missione in giro per il mondo alla ricerca di Sienna, se salva o meno, e di chi ha ordito il tutto. Prima negli Emirati Arabi, temendo che ci sia di mezzo l’Iran. Anche per la presenza di un terzo intermediario, sulla cui nave si potrebbe svolgere uno scambio di prigionieri. Cosa che non avviene, anche per l’intervento di Calista, la piccola della famiglia Brévard, nonché anch’essa non proprio a digiuno di informatica. Questa parte mandata all’aria, sarà Calista a fuggire verso la Corea, inseguita da Kurt e Joe. Una lunga pippa su battaglie, situazioni al limite, fughe sotterranee e chi più ne ha più ne metta, portano alla fine alla scoperta di un chip nel cervello di Kurt che gli altera i ricordi e portano Calista a fuggire verso il rifugio della famiglia con tutti gli ostaggi in mano. In parallelo, Dirk autorizza la famiglia Gamay ad andare alla ricerca del relitto del naufragio iniziale. Dove i nostri, prima trovano la nave intatta, poi vengono assaliti, sottacqua, da un virus informatico che sconvolge i sottomarini utilizzati (dato che tutto è gestito da computer). Ovviamente, anche, se malconci, si salvano, e scoprono, casualmente un relitto galleggiante di più di 100 anni. È la nave del prologo, portata da una tempesta ad arenarsi in un fiume del Madagascar, lì dove la famiglia Brévard ha posto le sue basi. Nel lungo e concitato finale, pieno di sparatorie ed inseguimenti, alla fine veniamo a scoprire che: Sebastian, il cattivo, sapendo che la protezione di Sienna sarebbe stata invalicabile, ha organizzato tutto il casino per farla togliere, avendo predisposto una serie di società fantasma dove, una volta senza protezione, avrebbe riversato montagne di denaro, senza che nessun governo possa intervenire. Sebastian lavora sul filo del rasoio, perché vuole essere attaccato, prima di far finta di essere sconfitto, ma fuggire, così come fece il nonno nel 1909. Ma scopriamo anche che Calista non è una Brévard, ma bimba rapita e poi indottrinata. Kurt ne libera i fantasmi, e sarà lei a mettere in moto la valanga finale che travolgerà la famiglia Brévard. Come quando e perché magari ve li leggete anche voi, che alla fine il libro scorre gradevolmente, pur non raggiungendo una sufficienza che ormai, forse, solo i libri della serie maggiore sembrano poter raggiungere. Non c’è molta curiosità scientifica. Non ci sono invenzioni e/o scoperte. Solo un grido d’allarme, condivisibile ma sterile, sul possibile uso cattivo delle tecnologie avanzate. Ed una tirata d’orecchi alle potenze cattive, Iran e Corea del Nord in prima fila, ma con poco lontano Cina e Russia. Si annuncia alla grande l’arrivo di Donald, purtroppo.
Clive Cussler & Boyd Morrison “Piranha” Longanesi euro 13,90 (in realtà, scontato a 11,80 euro)
[A: 05/07/2016 – I: 14/10/2018 – T: 16/10/2018] - && 
[tit. or.: Piranha; ling. or.: inglese; pagine: 395; anno 2015]
Saltiamo da un mare all’altro, saltiamo da una serie all’altra. Ed eccoci allora tornata alla minore delle serie maggiori. Scusate un po’ il bisticcio, ma la premiata ditta Cussler&Co. ha prodotto tre serie maggiori: Dirk Pitt (25 titoli), Numa (16 titoli) e Oregon file (13 titoli) e due serie “minori” che però stanno crescendo, anche se con meno popolarità: Isaac Bell e Fargo (10 titoli ognuna). Vedete così con un rapido calcolo che dal 1973, sono stati pubblicati 74 romanzi. Non male! Ma se Pitt è ormai abbastanza noto, e degli archivi NUMA ho appena parlato, qui torniamo ad interessarci delle avventure della nave Oregon e del suo capitano Juan Cabrillo. Come i miei più assidui lettori sanno, questa serie non sempre mi convince, a volte troppo puntata più verso battaglie e complotti, piuttosto che verso scoperte scientifiche o altre diavolerie inventate o verosimili. Qui siamo in una piccola inversione di rotta, anche se battaglie, sparatorie ed agguati vari sono sempre ben presenti. La piccola inversione riguarda l’idea del congegno che mette in pericolo le sorti dell’umanità. Che non è come potreste pensare un discorso di internet e affini. Ma una applicazione del telescopio a neutrini. Ora i neutrini sono particelle così chiamate da Fermi nel ’30 essendo di carica nulla. Negli ultimi decenni vengono utilizzati per vari scopi, visto che possono attraversare i corpi senza modificarli. Ad esempio, tre anni fa un telescopio a neutrini è stato calato nel Mar di Sicilia per studiare i capodogli, o un altro, nel 2016, è utilizzato in Antartide per catturare i neutrini venuti dallo spazio profondo (cosa che lui, IceCube, ha appunto fatto). In questa meta finzione, Cussler (che la manina di Boyd serve più che altro ad imbastire le trame pensate dal grande) ipotizza l’esistenza di materiali compositi, che interagendo con i neutrini, consentano ad un ricettore di immagini di ottenere una ritrasmissione di qualsiasi cosa avvenga in qualsiasi punto della terra. Ovvio pensare al potere che ciò comporta, ed al suo uso distorto. Visto che il possessore di questa tecnologia risulta essere un discendente di tal Gerard Lutzen, tedesco studente berlinese nei primi anni del 1900, quando nel mondo scientifico c’era tutto un fermento (Einstein, Max Planck nonché Ernest Rutherford, il padre della teoria atomica orbitale). Il fittizio Lutzen, scoperti i neutrini, cerca quei materiali, trovandone una caverna in quel di Haiti. Peccato che sulla via del ritorno si imbatte nell’eruzione del vulcano Pelée nella Martinica (una delle eruzioni moderne più disastrose), lasciando però un documento ai suoi discendenti. Documento e caverna che arrivano nelle mani di tal Kensit che decide di usarlo per “salvare il mondo”. Ovvio che salvarlo significa ridurlo ai propri poteri, che Kensit solo sa quale sia il bene (una teoria che troppo spesso sentiamo, purtroppo). Kensit assolda banditi e narco-trafficanti haitiani agli ordini di Bazin, un ex-legionario, e coinvolge un governatore rampante americano con qualche scheletro nell’armadio per poterlo usare come uomo di paglia. Inoltre, Bazin deve coinvolgere la marina venezuelana, agli ordini di una donna spietata, per avere il materiale necessario alla costruzione ed al mantenimento del telescopio, materiale che può avere solo dai cattivissimi nord-coreani con scambi tecnologia-droga, anche questi spesso sentiti. Proprio il coinvolgimento dei coreani insospettisce la CIA, che coinvolge Cabrillo ed i suoi nella ricerca di prove. Poiché questa ricerca risulta positiva, e poiché i cattivi tentano (senza successo) di far male a Cabrillo ed ai suoi, i mercenari buoni della Oregon si mettono in caccia. Aiutati da forze della NUMA che agiscono fuori dalle tracce del romanzo (Pitt che mette a disposizione informazioni, Perlmutter ed i suoi file su tutte le navi del mondo, ed altro), si imbattono sul nodo della questione. Kensit vuole uccidere l’attuale vicepresidente degli USA, mettere il suo uomo al suo posto, e cominciare la scalata di cui sopra. Peccato che l’attuale numero due americano sia il precedente capo di Pitt, nonché fondatore della NUMA. Peccato che per attuare il suo piano, sia stato sviluppato un software che consente di prendere i comandi di droni automatizzati. Peccato che la seconda parte dell’uso di software e neutrini porti alla costruzione di droni sottomarini che, utilizzando getti d’acqua concentrati riescano a fare buchi minuscoli e multipli a navi da trasporto affondandole. Ora, è ovvio che Cabrillo capisce tutto, capisce le manovre di Kensit, sbaraglia gli assalti di Bazin, recupera parte della tesi di Lutzen a Berlino, per cui intuisce qualcosa. E via discorrendo. Con l’unico colpo di genio: visto che Kensit vede e sente tutto, l’unico modo di affrontarlo è usare un codice che solo Cabrillo ed i suoi conoscono senza che venga scritto: il riferimento a passate gesta degli Oregon man. Così Cabrillo ed i suoi vinceranno anche questa battaglia, distruggendo la caverna, di modo che sia difficile utilizzare distortamente i neutrini. Una sola fondamentale domanda: ma visto che Piranha è il nome dei droni sottomarini, che occupano sì e no 5 pagine su 400, è proprio il caso di chiamare così il libro? Magari facendo credere che si parli dei mitici pesci che ho visto all’opera nella penisola dello Yucatan. Si poteva fare di meglio, nel titolo e nella scrittura, che rimane un po’ al di sotto della media standard dei libri di Cussler.
Eccoci alla terza settimana, e facciamo uno sforzo in positivo godendoci almeno un libro “ghiotto”. Per il resto, aspettiamo tempi migliori.
Tempi migliori che siamo certi verranno dal 1° novembre, quando sarà scaduto l’anno “terribilis” che ci siamo trovati di fronte: la malattia e la morte di mia madre, le incomprensioni (spesso a me dovute) con cari amici, la mia macchina distrutta, i continui e ripetuti incidenti di Ale. Ma noi che siamo ottimisti diciamo, ecco che finisce.

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

OTTOBRE 2018
Visto che siamo nel solito periodo “nero” che conoscete, consoliamoci con rimedi per il palato.

RIMEDI GHIOTTI (I)

CHOCOLAT di JOANNE HARRIS (1999)

Pillole di trama       
Quando l’affascinate e misteriosa Vianne Rocher arriva con sua figlia Anouk a Lansquenet per aprire una cioccolateria, la sonnacchiosa vita del piccolo villaggio viene stravolta. Con le sue deliziose creazioni pasticcere Vianne prende per la gola gli abitanti, ricordando loro il piacere della vita. A ribadire a tutti che l’esistenza è fatta di privazioni e penitenze, ci pensa il rigido reverendo Reynaud che cerca di opporsi con forza a questo vento di novità e diversità che profuma di buono.
Supposta-saggezza
“Chocolat” ha il pregio fondamentale di essere una favola dolce ma non stucchevole al sapor di cioccolato (che rende il libro prelibato!). Il romanzo di Joanne Harris è soprattutto un gioioso inno al potere del cibo come ingrediente con cui addolcire la vita, per addentarla e gustarne con piacere ogni boccone, smorzando il suo retrogusto amaro con una pioggia di gocce di cioccolato. La vita, infatti, è un piatto che per quanto ci si impegni a cucinare nel migliore dei modi, usando i migliori ingredienti e facendo attenzione a mescolarli seguendo le indicazioni, non sempre riesce bene. Ma ogni ricetta mal riuscita si può aggiustare, basta osare un po’ e non avere paura delle novità. Si sa che molti succulenti piatti sono nati per errore. Novità, coraggio e dolcezza sono le armi con cui la protagonista affronta la dura lotta per far accettare la sua diversità agli abitanti del piccolo villaggio. In realtà a uno in particolare, ma il più influente, padre Reynaud, compreso in maniera ottusa nel suo ruolo di comando più che di guida, di controllo più che di conforto. Per lui la vita è sofferenza, rigore e obbedienza, mentre per Vianne è esperienza, condivisione e piacere, anche e soprattutto piacere del palato. Sono celestiali i dolci con cui solletica le papille gustative degli abitanti di Lansquenet, che a uno a uno capitolano davanti alle vetrine della peccaminosa cioccolateria ‘La céleste praline’. Vianne ha il dono di capire i gusti delle persone e a ciascuno consiglia la golosità più conforme alle esigenze emotive: che sia una tazza di spumoso cioccolato, una pralina ripiena o una fetta di torta, lei trasforma ogni assaggio in un piacevole rimedio per affrontare le piccole difficoltà quotidiane La giovane donna porta il disordine nel villaggio, impiastricciando di cioccolato tutte le false convinzioni e convenzioni che avevano intorpidito i paesani di monotonia, aiutandoli a guarire e usando la sua pasticceria come una piccola farmacia dei sentimenti. Mescola che ti rimescola, il prelibato cibo degli dèi fa miracoli e Vianne propone la sua ricetta alternativa alla vita noiosa e lugubre difesa con tenacia dal ministro di Dio, e “Chocolat” diventa un inno al piacere del cibo come capacità di godere ogni giorno con gioia, senza paura e sensi di colpa. Un elogio della felicità e della libertà, che possono nascondersi anche in un cioccolatino e nello stesso tempo un monito contro ogni forma di chiusura verso ciò che è diverso o nuovo, che sia una persona o un piatto sconosciuto.   
Il pregio maggiore del romanzo è di non ridursi a una favoletta banale della serie ‘mangia che ti passa’. E questo soprattutto grazie alla protagonista, un personaggio estremamente complesso: Vianne è bella, fiera, vivace, libera e indipendente ma anche inquieta, fragile, incapace di mettere radici e restia alle relazioni stabili nonostante la sua naturale socievolezza. È una nomade un po’ zingara, un po’ strega, ovvero capace di trasformare il malessere in buona fortuna, un po’ maga, un’alchimista casalinga che fa ‘magie caserecce’. Costretta dalla sua irrequietezza a spostarsi di luogo in luogo non appena cambia il vento, è una sorta di Mary Poppins che accorre in aiuto di chi ne ha bisogno, dalla borsa magica estrae dolci e poi riparte quando il suo compito è terminato. Se per la tata inglese basta un poco di zucchero, a Vianne basta un po’ cioccolato. Ogni goloso sa che una tazza di cioccolata calda per essere perfetta necessita della nuvoletta di panna galleggiante e cosi l’autrice non dimentica di circondare Vianne con personaggi altrettanto gustosi e saporiti, indimenticabili protagonisti di questa piccola ribellione all’ordine costituito da privazioni, penitenze e monotonia, raccontata con un pizzico di mistero e magia e l’ottima trovata di alternare il diario di Vianne a quello di Reynaud in modo da dare voce equamente agli opposti punti di vita-vista. Inneggiando alla golosità santificata come peccato veniale, anzi geniale, Joanne Harris mette in scena l’eterna lotta tra bigotti ben pensanti e bon viveur. Voi decidete da che parte stare ma ricordate che, come diceva Virginia Woolf, ‘non si può pensare bene, né amare bene, né dormire bene se non si è pranzato bene’. A digiuno si vive male e si pensa peggio. Fate indigestione di “Chocolat” e sorridete alla vita, con la bocca sporca di cioccolato.
P.S. sarà sicuramente una coincidenza, ma una coincidenza buffa, che il cognome di Vianne sia Rocher, come il celebre cioccolatino avvolto nella carta dorata.
Posologia
Indiscutibilmente il cioccolato è molto più di un semplice alimento. Probabilmente è il comfort food per eccellenza. È buono e fa bene. Non lo dico da ‘choco addicted’, perché ormai è scientificamente provato che si tratta di un alimento salutare. Ricco di magnesio, ferro e potassio è un potente antiossidante, abbassa il colesterolo, rende la pelle liscia (che faccia venire i brufoli è una balla per la quale qualcuno dovrà pagare) e migliora anche l’umore rivelandosi un alleato contro depressione e sindrome premestruale. “Chocolat” ha gli stessi benefici di una tavoletta fondente o di una tazza di fumante cioccolata alla can-nella. Se ne prescrive la lettura per contrastare momenti di sconforto, depressione, sindrome premestruale, delusioni amorose, debolezza sia fisica che mentale intesa anche come mancanza di coraggio e incapacità di affermare la propria diversità. La ribellione di Vianne è contagiosa e vaccina da pregiudizi, intolleranza e paura del diverso.
Suggerisco di propinarlo sotto forma di regalo a tutti quelli che hanno sempre additato il cioccolato come l’uomo nero da evitare come la peste. Il romanzo dimostra che l’uomo nero va affrontato e mai fuggito. È molto utile anche per fare pace con il cioccolato, sia mai per la moda delle diete abbiate litigato. I litigi portano sempre malumore e il malumore danneggia la salute.
La lettura di “Chocolat” favorisce il contagio di virus benefici che aiutano a sviluppare empatia, comprensione, abilità di intuire le necessità degli altri e soddisfarne il piacere, capacità di guardare oltre l’apparenza (anche del cibo) con gli occhi curiosi e golosi di un bambino. Il romanzo è portatore sano di magia, un potente antidoto contro ogni tipo di amarezza, perché il cioccolato è ‘l’amaro elisir della vita’. Alla fine sarete fermamente convinti che ‘essere felici sia l’unica cosa importante [...]’ e che la felicità sia ‘semplice come un bicchiere di cioccolata o tortuosa come il cuore. Amara. Dolce. Viva’.
Effetti collaterali
Sono stati segnalati i seguenti effetti indesiderati comuni: acquolina in bocca, papille gustative in agitazione, imbarazzante rivoletto di bava agli angoli della bocca, irrefrenabile voglia di cioccolato! Inebriante fin dalle prime righe, il romanzo è ben condito con appetitose descrizioni e profumi talmente evocativi che davanti agli occhi sognanti del lettore sfilano tutte le specialità de ‘La céleste praline’. Anche per gli amanti del salato non mancano gustose leccornie. Per evitare probabili episodi di ipoglicemia, è saggio premunirsi di qualche golosità cioccolatosa per rendere più piacevole la lettura e assimilarne meglio il messaggio. Fate attenzione a non esagerare, pena eventuali indigestioni, ma non provate neanche a resistere costringendovi a inutili privazioni altrimenti rischiate di fare la fine, poco dignitosa, di padre Reynaud.
Consigli dello chef
La cura può essere prolungata con il seguito del romanzo, Le scarpe rosse. Sono passati quattro anni e Vianne ha aperto una cioccolateria a Parigi. Ma una donna dalle scarpe rosse mette a dura prova la protagonista che deve cavarsela con le uniche armi a sua disposizione: il cioccolato e la magia. La trilogia di “Chocolat” si conclude con Il giardino delle pesche e delle rose in cui Vianne toma a Lansquenet dopo otto anni in seguito a una misteriosa lettera in cui si richiede il suo aiuto. Una comunità musulmana si è stabilita nel villaggio e solo lei può riportare la pace appianando le incomprensioni tra gli abitanti e i nuovi venuti. Il profumo di cioccolato si mescola a quello delle spezie, del caramello e dello zucchero in una storia dal sapore magico in cui il cibo diventa una medicina contro ogni forma di intolleranza e stupidità, rivendicando la dolcezza come l’unica arma per combattere le battaglie quotidiane.
La cura cioccolatosa a base di Joanne Harris può proseguire con Il piccolo libro di Chocolat. Nato come omaggio a Vianne, è un regalo per tutti i golosi trattandosi di un piccolo volume illustrato contente cinquanta ricette da tutto il mondo a base, ovviamente, di cioccolato, tra torte, biscotti, macaron, praline e mousse. Se non siete pasticceri provetti non temete perché l’autrice, coadiuvata dallo chef Fran Warde, illustra tutti i passaggi in modo chiaro. Una lettura piacevole e dal gustosissimo risvolto pratico.
Terapia cinematografica sostitutiva
Diretto da Lasse Hallstrom e interpretato da Juliette Binoche, Johnny Depp e Judi Dench, nonostante sostanziali differenze “Chocolat” è un riuscito adattamento di cui non si è mai sazi. Da vedere e rivedere al bisogno, conforta e gratifica con i suoi toni da commedia romantica e la sua atmosfera da fiaba. Come già per il libro, anche in questo caso suggerisco di tenere dolcetti vari a portata di mano: come minimo vorrete un cioccolatino da far scrocchiare sotto i denti, anche per compensare la voglia di Johnny Depp che qui è davvero fondente al cento per cento e da bava alla bocca come le sublimi creazioni di Vianne.

Commenti

Seppur convinto che la cioccolata sia il miglior rimedio per molte malattie, e abbastanza certo che il film venne ben fatto, il libro non mi piacque e continua a non piacermi.
Joanne Harris “Chocolat” Corriere della Sera Cucina 10 euro 7,90
[pubblicato il 28 agosto 2017]
Sinceramente mi aspettavo di più da un libro consigliato dall’ottima Giulia Fiore tra quelli che alleviano tristezze e portano felicità. Purtroppo, a me ha fatto l’effetto contrario, portandomi più che altro tristezze. Una storia strampalata, forse adatta ai lettori del primo libro di Harry Potter, che viene inserita tra le “Storie di Cucina” solo perché la protagonista apre un negozio di delizie di cioccolato. Non dico che avrei voluto qualche ricetta (già altrove lamentavo a volte in questa collana la preponderanza di ricettari piuttosto che di storie), ma almeno degli accenni che fossero meno episodici ed “appiccicati” alla fine in una sintetica quanto meglio sviluppabile appendice di Laura Grandi (un “Glossario goloso” dove gli appunti scarsi sulla bevanda degli dei andrebbero sviluppati in un discorso più ampio ed appetibile, se non edibile). Qui, abbiamo la storia di una “maga” che si aggira per il mondo, cercando di spargere, a suo modo, felicità. Maga figlia di maga che con la madre girovagava per tutte le terre, fino, purtroppo, a ritrovarsi sola e dover ricominciare. Con la piccola Anouk, figlia di sei anni. Non sappiamo, in questa famiglia senza uomini, dove e come e chi siano i padri (anche se ho il sospetto di un qualche strano rapimento zingaresco), ma questo è un universo femminile. Dove il solo uomo a far da contraltare è Padre Francis, il prete della cittadina dove le nostre eroine si fermano il giorno di Carnevale. La storia, scandita dai giorni del calendario, andrà avanti sino alla Pasqua, con molte pagine di Vianne (la nostra maga) in soggettiva ed alcune del prete (appunto per creare un contrasto anche fonetico di voci). Come se l’autrice volesse creare una rivalità tra le pulsioni libertarie delle donne e quelle repressive dei maschi, impersonati appunto dal truce prete. Ma le pagine del prete sono non soltanto cupe, ma di poco sviluppo: ha molte angosce, sembra essere stato tiranneggiato da piccolo, forse ha fatto scoppiare un incendio dove muoiono degli zingari. Ora fa solo opera di espiazione, reprimendo, in questa piccola città del centro della Francia, ogni impulso che possa portare a sani e corretti rapporti umani. Rifiutandosi di assaggiare i dolcetti di Vianne, fino, però, a soccombere il dì di Pasqua, quando, volendo farle uno sgarbo, penetra nel negozio, ma verrà sopraffatto dalla bontà. Del cioccolato, ovviamente. Nelle more, Vianne apre questa sua pasticceria, offre dolcetti, offre buone parole e conforto. A Guillaume, cui muore il cane. Ad Armande, l’anziana del villaggio, che sa delle magagne del prete, e che, per mezzo di Vianne, ritrova l’affetto del nipote Luc, per poi, diabetica ed impenitente, decidere (un po’ tipo “La grande abbuffata” di Ferreri) di godere sino in fondo questo suo stato. Visto che ormai ha fatto la vita che ha voluto ed ottenuto la maggior parte delle cose che voleva. A Josephine, cleptomane per vendetta rispetto ad un marito ottuso e manesco, cui dona la forza di ribellarsi, di andare via dalla casa dove veniva maltrattata, e di rifarsi una vita. Forse proprio nella cioccolateria, quando Vianne ed Anouk se ne andranno. E Josephine potrà, forse, trovare consolazione nello zingaro Roux, rosso di nome e di capelli. Ma tutta la prosa è poco coinvolgente. Vianne è una strega? E allora? Lo è anche Harry Potter! È una strega buona? Più che altro è una persona che sa leggere il carattere degli altri, e sa “appianare i conflitti”, se, ovviamente, gli si dà una mano. Altrimenti, è guerra aperta. Poco convincente, poi, è l’antagonismo con la Chiesa, tanto che nel film l’oppositore di Vianne viene spostato nella figura fittizia del sindaco. Ed è forse questo che ha creato aspettative, e poi vendite nel libro. Un film in cui si darà molto più spazio a Roux, interpretato da Johnny Deep (ed altrettanto ovviamente il film finirà con la storia d’amore tra lui e Juliette Binoche). Ma torniamo allo scritto. Ripeto, scrittura poca incisiva, quasi fosse solo rivolta ad un pubblico adolescente (ma allora, meglio Dahl e la sua “Fabbrica di cioccolato”). Situazioni poco coinvolgenti: certo, si accenna al maltrattamento di Josephine ed alla spinta (riuscita) a lasciare il marito manesco, si accenna al razzismo verso gli zingari (o vero i diversi in genere), ma sempre con un’aria di raccontare qualcosa di fiabesco e non di reale. Così come poco reale è la costruzione della figura del tenebroso prete, o quella del suo mentore, chiuso nel mutismo dell’anzianità e della malattia. Speravo veramente di meglio, mi aspettavo un libro di solare coinvolgimento. L’ho letto ma lo sto già dimenticando.
“I bambini nascono selvaggi, lo so. Il massimo che io possa sperare è un po’ di tenerezza.” (56)
“Mi piacerebbe … seguire il sole con nient’altro che una valigia e non avere la minima idea di dove sarò domani.” (195)
“Tornare in una città dove hai già vissuto è come tornare a casa da un vecchio amico.” (195)
“Alla mia età posso essere proprio come mi pare. Posso essere assurda, se mi va. Sono abbastanza vecchia per permettermi qualsiasi cosa.” (235)

Finalino

Non mi ripeto, ribadendo quanto sopra: cioccolato approvato, libro bocciato.


domenica 14 ottobre 2018

La Francia è avanti - 14 ottobre 2018


Almeno in questa settimana, ove un Simenon d’annata (e non di Maigret) sbaraglia il campo di gran lunga. C’è un libro di autore poco noto, Luke Rhinehart, che ha qualche velleità di buona riuscita, mentre, i classici, come David Grossman o Kazuo Ishiguro, si posizionano ben lontano nella lista dei miei gradimenti.
Luke Rhinehart “L’uomo dei dadi” Marcos y Marcos euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 02/09/2016 – I: 03/06/2018 – T: 07/06/2018] - &&&--
[tit. or.: The Dice Man; ling. or.: inglese; pagine: 682; anno 1971]
Un libro di culto della cultura “underground” americana degli anni Settanta, che non conoscevo, che mi ha sorpreso in alcune parti per la freschezza dell’inventiva, ma che, in altre, si guarda un po’ troppo l’ombelico, cercando sempre qualcosa per “épater le bourgeois” come direbbero i francesi. Intanto di culto è anche l’autore, il cui vero nome è George Cockcroft, scrittore americano di ormai 85 anni. Dopo la laurea a 24 anni, il matrimonio a 26, il PhD a 32, inizia ad insegnare alla Columbia University (a Manhattan). Anche nell’insegnamento dimostra uno spiccato ecclettismo, che oltre a parlare di scrittura americana, mescola i suoi corsi con puntate su altre culture. Noti i suoi corsi sullo Zen e sulla letteratura europea. Ed anche nei suoi corsi, a volte, decide l’andamento degli stessi, o i libri di cui parlare, con un tiro di dadi. Da questa idea bislacca, nasce un primo abbozzo di possibile romanzo basato proprio sui dadi, che porta con sé in una lunga vacanza a Majorca con la famiglia. Qui, entra in contatto con un editor londinese alle prime armi, che si innamora del manoscritto, spinge George a rifinirlo e completarlo, e, nei primi anni Settanta, lo pubblica. Dopo l’enorme successo, George, a 45 anni, si ritira in una fattoria nello stato di New York, dove vive da 40 anni. E da dove, in ogni caso continua saltuariamente a pubblicare. Ed a fare scherzi “stupidi”, come quando nel 2012, annunciò, falsamente, la propria morte. Prima di entrare nello spirito del denso librone, cito ancora che la BBC lo ha indicato come “Uno dei 50 libri più influenti del XX secolo” e “The Telegraph” lo ha collocato come uno dei “50 libri di culto degli ultimi cento anni”. Il libro, in realtà, non è riassumibile in una trama coerente, almeno non nel suo sviluppo complessivo. È scritto in maniera fiammeggiante, dove si passa dalla prima alla terza persona. Ci sono (finti) estratti di testi ritenuti autorevoli o sacri. Riproposizioni di registrazioni audio. Verbali di polizia e interventi in stile dottorale (da psichiatra, da avvocato). Insomma, un po’ un guazzabuglio. O meglio, un caleidoscopio. L’idea centrale, che il nostro riesce a sostenere per quasi tutte le quasi settecento pagine, è l’idea di far guidare le azioni umane dal lancio di uno o più dadi. Il libro nasce come autobiografia di Luke Rhinehart, stimato psichiatra newyorkese, al quale un giorno viene fuori l’idea fulminante. Elenca sei possibili azioni e decide quale eseguire in base al lancio di un dado. Dalla riflessione su questa prima iniziativa, nasce tutta la sua teoria della “Religione del Dado”, cioè del progredire del comportamento umano seguendo i capricci del Dio a sei facce. Certo che è sempre un uomo, quello che lancia il dado, che elenca le possibili varianti. Ma è anche vero che, quando si entra completamente nell’aleatoricismo, il decidente si fa più ardito, e comincia ad inserire anche possibilità che non sono al massimo del suo piacere o delle sue volontà positive. Come dire, quando il caso entra nella tua vita, è “il caso”, altrimenti sarebbe tutto deterministico. Da queste premesse George-Luke tira fuori questo suo mondo futuro casualmente determinato, dove una delle varianti più spesso prese in considerazioni è quella dei rapporti sessuali. Devo corteggiare quella donna? Stuprarla? Fare l’amore in 27 posizioni diverse del kamasutra? Essere sottomesso? Essere volgare? Andare con persone del mio stesso sesso? Gustose pagine rasenti la comicità riguardano gli andamenti apodittici di questi rapporti. Ma l’intento non è fare pornografia, ma rappresentare una possibile variante del mondo. Una variante in cui, pian pianino, l’uso del dado diventa una vera e propria religione, una setta, una variabile impazzita. Che mette in crisi i rapporti sociali. Che stravolge i rapporti personali. Quando una variante del dado ordina a Luke di tacere durante un’intervista si assiste ad un momento di estraniazione totale. Come quando il lanciatore di dadi decide di cambiare ogni dieci minuti la propria personalità. La finalità ultima dello scrittore è quella di mettere in crisi i “valori occidentali”, facendone uscire fuori tutta l’irragionevolezza. Una grossa fetta è poi dedicata, come ovvio, alla critica delle modalità psicoanalitiche tradizionali, tese ad uniformare l’uomo ad un comportamento ragionevole. Mentre il dado dà spazio a tutti gli “io” presenti nella molteplicità di ognuno. Sfaccettature che vengono represse dall’io benpensante, ma che sarebbe “rivoluzionario” far uscire allo scoperto. Dirompente, anche pericoloso. Con una china finale che potrebbe far rotolare Luke, i suoi sodali, e tutto il mondo in baratri che vedranno purtroppo la luce trenta anni dopo. La bellezza del libro, e della scrittura, è che riesce a far sembrare logica la scelta, e coerenti le conseguenze. Tipica americanata, quella di far diventare tutto una religione, di monetizzarla, di parlarne in televisione. La pecca è che alla fine si incarta un po’, come se non riuscisse più a tirarsi fuori … dai dadi. Ma d’altra parte, potrebbe essere stato un ulteriore lancio dei dadi che impone all’autore di finire la scrittura, senza una fine reale, magari scomparendo. Magari decidendo che per 30 anni non parlerà più in pubblico dei dadi. Anche se faticoso, capisco sia che ne è valsa la pena leggerne, sia come abbia fatto a diventare un libro di culto. Sia, infine, perché sia stato spesso messo all’indice, censurato, a volte completamente bandito. Eppure, ogni tanto, un bel lancio dei dadi non ci starebbe male…
“Credi di aver trovato la vetta assoluta … sei un caso classico … l’uomo che si gratifica non con quello che realizza ma con quello che sogna di realizzare.” (86)
“Successo e fallimento significano soltanto soddisfazione e frustrazione del desiderio.” (191)
Georges Simenon “Tre camere a Manhattan” Adelphi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 16/12/2016 – I: 08/06/2018 – T: 11/06/2018] - &&&& -
[tit. or.: Trois chambres a Manhattan; ling. or.: francese; pagine: 190; anno 1946]
Ho inframmezzato la lettura dell’opus maigrettiano con questo agile volume che mi aveva solleticato durante la lettura dei dati biografici di Simenon. Siamo nel 1946, Simenon è “fuggito” dalla Francia per il clima che lo circondava (sospetti e malumori), è riparato oltre oceano, dove vivrà 13 lunghi anni. L’anno prima è riparato in Canada, accompagnato dalla moglie Tigy, dal figlio Marc ed in seguito dalla sempre fedele cameriera-amante Boule. Pur dal rifugio quebecois, per contatti di lavoro, ovvio che sia spesso a New York. Ed ovvio che abbia bisogno di aiuto nella lingua, motivo per cui ingaggia come segretaria bilingue Denyse Ouimet (nata il 14 maggio 1920, quindi un toro, e di 17 anni più giovane dello scrittore). Un incontro che sarà, come sappiamo decisivo nella vita di Simenon. Ben presto (come spesso accade a quasi tutte le donne che incrociano la sua via) diverrà la sua amante, poi la sua compagnia, nel 1949 gli darà un altro figlio (Jean) e l’anno seguente, per non incorrere nelle severe leggi americane sulle relazioni matrimoniali, divorzia da Tigy e sposa Denyse. Che, come sappiamo, nel 1953 partorisce Marie-Jo, che tornerà in Europa con lui, che nel 1959 partorisce il terzo figlio con lui, Pierre, e che seguiremo poi nel resto dell’opera completa di Maigret. Intanto, l’incontro per lui, sembra fatato. Non tanto per tutto quanto succederà dopo, che nel ’46 ancora non può prevedere. Ma per quell’aura di novità e di magia che Denyse porta nella sua vita. Laddove, il rapporto con Tigy si consumava quasi nell’indifferenza. Come spesso accade ai grandi scrittori, ecco che, dalla sua vicenda privata, nasce un libro, un’ode quasi, a New York, a Denyse, ma anche, e qui non possiamo mai sottovalutare lo smisurato ego di Simenon, a sé stesso ed al suo modo di vivere. Con gli occhi di chi ha letto della “Grande Mela” e che la sta conoscendo a poco a poco, Simenon si traveste nei panni di François Combe, attore spiantato, lasciato dalla moglie per un giovane gigolò, e che sta tentando di riciclarsi oltre oceano, con quella rete di contatti che un attore, un dì famoso, non può non avere. Ma l’abbondono della moglie lascia François senza voglia di lottare, tanto che si accontenta di piccole parti radiofoniche, che vive in una camera di Manhattan, addirittura senza telefono. Che si abbandona a lunghe passeggiate notturne, entrando e uscendo dai tutti quei locali, aperti 24/7, bevendo e fumando. In uno di questi, casualmente, quasi senza volerlo, comincia a parlare con una signorina, Kay, spiantata, lasciata fuori casa da una coinquilina altrettanto “fuori di testa”. Ma Kay ha una storia, dietro di sé. E mentre François racconta la sua, con una discreta dose di onestà, Kay ci lascia brandelli della sua vita, un po’ reali ed un po’ fantastici. Ha vissuto qua e là per l’Europa, è stata sposata all’ambasciatore ungherese a Parigi, con cui ha una figlia, è andata via (ma come? Perché? Non ne sapremo mai realmente abbastanza). Ha vissuto (e forse vive) di espedienti. Ma (e qui, oltre ad altro che forse non sappiamo e non ci interessa) conosce bene le due lingue, come Denyse. Seppur giovane ha una sensualità che colpisce François, come Denyse colpisce Georges. In questo clima che qualcuno ha giustamente definito “hopperiano” si consuma lo srotolamento del loro rapporto. Dopo poco Kay va a vivere da François, tanto che lui comincia a non poterne fare a meno. Tanto che è la stessa Kay che gli dà la forza di riprendere a combattere per tirarsi fuori dalle secche inaridite della non realizzazione. Ma Kay è sempre sfuggente, non si capisce se ami François o voglia solo sfruttarlo. La prova decisiva, per entrambi, avviene quando Kay è chiamata dall’ex per una malattia della figlia e lascia solo François per un periodo. Tornerà? Era anche questa una nuova bugia del “personaggio Kay”? François, nelle more, decide di scopare di nuovo con altre donne. Georges non si smentisce mai. Ma sarà proprio il ritorno di Kay, che consente a Simenon di fare la sua dichiarazione d’amore alla bella, ma anche di affermare, sulla carta e per sempre nella vita: “non mi tirerò indietro mai di fronte ad una notte d’amore, anche se ti amo e ti amerò sempre”. Certo quel sempre è un po’ ballerino, ma in effetti Georges amerà a lungo Denyse. Pur continuando a scopare a destra e a manca. È un bellissimo libro, forse in alcune parti irrisolto, ma che ci dà la piena misura dell’aderenza, se ce ne fosse una controprova, dell’opera alla vita di Simenon. E ci dà una descrizione della New York notturna, che solo un francese appena arrivato ci poteva dare: bar fumosi, caffè lenti, alcool a profusione, tanto da ubriacarsi. Con Kay che si accende sigarette in continuazione. Con un plot che sembra già un film, anche se il film sarà realizzato solo venti anni dopo, con la regia di Marcel Carné, il ruolo di Kay interpretato da Annie Girardot ed una stupenda colonna sonora scritta ed interpretata da Mal Waldron e Martial Solal. Sono contento che le ricerche biografiche di Simenon mi hanno portato a questa lettura. Che sono pronto a consigliare.
“Se non capiva lei, chi altri avrebbe potuto capire?” (73)
“[salendo sul treno per andare via, Kay gli dice] questa non è una partenza, ma un arrivo.” (149)
“Invece di cercare, di brancolare, di irrigidirsi, … ora lui diceva… senza vergogna: ‘Accetto’. Accettava tutto. Il loro amore e ciò che da esso poteva venire. Accettava Kay così com’era.” (179)
David Grossman “Che tu sia per me il coltello” Mondadori euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 25/03/2016 – I: 10/07/2018 – T: 20/07/2018] - && --
[titolo: Shetehi Li HaSakin; lingua: ebraico; pagine: 330; anno: 1998]
Ho sempre una grossa difficoltà con Grossman, quasi un rapporto di amore e odio. Perché sono in sintonia con le sue prese politiche pubbliche (e mangiammo a Gerusalemme nel locale preferito da lui e Amos Oz, il Tmol Shilshom, dietro Ben Yehuda), ritengo che sappia di certo maneggiare la scrittura, ordendo trame complicate nella stesura e nella realizzazione, eppur tuttavia le sue opere non mi coinvolgono quasi mai (forse ad eccezione di “Qualcuno con cui correre”), anzi le trovo sempre di difficile lettura. Come questa, eccezionalmente lenta nel dipanarsi temporale, cosa per me inusuale. e con molte difficoltà ad andare avanti, a raggiungere la fine, ed a sentirmi in sintonia. Per cui il mio voto composito prende un libro per la scrittura, un libro per motivi altri di cui andrò narrando, ed un doppio meno per il piacere del testo e del suo sviluppo. Come sa chi di Grossman ha letto, già il titolo è un omaggio letterario ed un riferimento. Preso da una frase delle lettere che si scambiarono a suo tempo Kafka e Milena (sulla cui storia un giorno ci sarebbe da tornare). Dove il grande praghese chiede che l’amore di Milena sia il coltello con cui aprire e scarnificare tutte le complicanze del proprio animo. Partendo da qui, David costruisce il “suo” romanzo epistolare, tra Yair e Myriam. O forse tra Myriam e Myriam stessa, anche se tutta la prima parte è costruita sulle lettere di Yair. Che un giorno vede Myriam in una qualche manifestazione pubblica (credo di studenti e professori) e rimane incantato da un gesto della donna. Un gesto che nota lui solo, e che da quello parte per coinvolgere la donna in un rapporto epistolare “alla lontana”, dove ognuno ha il diritto-dovere di aprirsi, di confessare all’altro le sue più segrete cose. Leggendo le parole di Yair, queste illuminano la complessità del personaggio maschile (scusate il piccolo nascosto gioco di parole, dato che proprio Yair significa “luce, illuminazione”). Inciso: mi viene anche in mente ora che Yair era il nome di battaglia di un sionista che combatté negli anni Trenta nell’Irgun, per poi staccarsi e fondare una sua “banda”, cadendo a 35 anni sotto i colpi della polizia britannica. Un personaggio maschile, si diceva, che cerca di affascinare con le sue trame, con le sue pillole di vita l’altro polo del romanzo. Yair è un condensato di tutto quanto possa essere “maschile” nell’immaginario comune (introverso da giovane, solipsista, autoproclamatosi brutto e poco affascinante, sempre pronto a fare il cascamorto con le donne, senza spesso molto successo, sposato, padre non sempre felice, fedifrago, e fondamentalmente, molto pieno di sé). Leggiamo le sue confessioni, i modi con cui cerca di scardinare l’universo “Myriam”, e lo si fa con molta fatica, senza coinvolgimento. Io, anche, con un po’ di fastidio. Solo quando Myriam viene lei in prima persona, quando vediamo le sue lettere, capiamo il suo mondo, da come traspariva in controluce dalle parole di Yair, che il libro fa uno scatto in avanti. È Myriam invero il motore principe delle idee, mi verrebbe da dire positive, ma forse solo costruttive. Capiamo i suoi drammi di donna, le sue amicizie, i suoi amori, il dolore del figlio autistico. Capiamo come dentro abbia tanto di più di quanto possa avere Yair, e che, forse, Yair è servito solo a darle un grimaldello per scardinare un mondo troppo chiuso, troppo compresso. Sebbene ognuno con la propria vita sociale distinta, non potrà non essere che alla fine, per complesse casualità, i due si incontrano, si scontrano, e, fortunatamente, Grossman non ci dice come proseguirà nel futuro. In fondo poco ci importa. Si capisce che, se Yair si lasciasse trascinare da Myriam, potrebbe scaturire altro, ma non credo possa succedere. Io, tifo per Myriam, sin dalle prime righe. Questo è quanto per giustificare il libro dedicato alla scrittura (Grossman riesce, senza mai entrare direttamente nella descrizione, ma per cenni e rimandi, a farci vedere ed immaginare chi siano Yair e Myriam) ed il doppio meno dedicato alla trama. Rimane il mio rimando personale, che mi è balzato prepotentemente agli occhi dopo le prime lettere di Yair. Che ripensavo al me stesso quindicenne, al suo lungo (nella memoria, ma in fondo durò solo otto mesi) amore epistolare con la bella friulana di un incontro estivo-tortoretano. Già allora velleità scrittrici mi balzavano alla penna. Ricordo che avrei voluto prendere le lettere di … beh chiamiamola Tiziana (nome di fantasia) e riunirle in un romanzo ad una via. Sì, per fare in modo che, leggendone da una parte sola, si potesse vedere, immaginare, il mondo del rapporto a due. Avevo anche un titolo al libro, che avrei chiamato “Amanti sotto il cielo, perplessi” (in questo drogato da mio cugino Paolo il cinefilo e dal suo ardore verso il film che vinse il Leone d’Oro a Venezia nel ’68, “Artisti sotto la tenda del circo, perplessi” di Alexander Kluge). Tuttavia, alla fine, proprio questi ricordi personali fan sì che Grossman rimanga ancora tra gli autori che non mi dispiace leggere.
Kazuo Ishiguro “Il gigante sepolto” Einaudi euro 13
[A: 15/01/2018 – I: 21/07/2018 – T: 27/07/2018] - & +
[tit. or.: The Buried Giant; ling. or.: inglese; pagine: 320; anno 2015]
Continuo a leggere, abbastanza in modo ravvicinato, i libri dell’ultimo premio Nobel per la letteratura, saltando a piè pari tutte le possibili polemiche e concentrandomi sui testi. Continuo tuttavia a non amare in modo particolare gli scritti dell’autore nippo-inglese. Certo, il primo, “Quel che resta del giorno”, aveva un suo impatto, ed una mia valenza per la parte “decisionale” così ben evidenziata. Questo gigante seppellito (il participio meno usato di seppellire ma che rende forse meglio la nozione di “tumulato” che ci vuol mandare l’autore) è di certo un momento importante della vita di ognuno. Perché Kazuo ci parla della memoria, che per una serie di vicissitudini in questo romanzo è per l’appunto sepolta, e delle sue gesta verso di noi. Di come, a volte, possa essere utile scordare, di come, a volte, possa essere troppo pesante ricordare tutto (ed in questo caso io cito sempre il meraviglioso “Ireneo Funes” di Borges). Con quella domanda che sottace molta parte del libro: se ricordassimo tutto quello che, volenti o nolenti, abbiamo scordato, potrebbe essere che cambi il nostro atteggiamento verso gli altri? È quello che con insistenza interiore si chiedono Axl e Beatrice: se ricordassimo tutto, ci vorremmo ancora bene? Ma questo “gioco” intorno alla memoria, ed alla scomparsa dei ricordi, è immerso, nel romanzo, in tutto un castello di altro, che, pur maneggiato con maestria dall’autore, non è certo atto a suscitare in me partecipazione ed immedesimazione. Perché la favola di Ishiguro prende le mosse nelle nebbie della storia inglese, o sassone o britanna. Risalendo ai tempi “magici” di re Artù, ed immergendo il tutto in un sapore di scrittura “d’epoca”. Con gli orchi, i draghi, le credenze popolari (tutti elementi che non facilitano la mia lettura, lontano come sono dalle scritture magiche). Toccando e coinvolgendo elementi pseudo-storici. Ora non sappiamo se Artù, signore della guerra, sia stato un personaggio storico, o solo un immaginario creato prima da Goffredo di Monmouth e poi reso immortale dagli scritti di Christian de Troyes. Di certo, intorno al VI secolo ci fu un condottiero che guidò i britanni alla conquista di un grande territorio, che oltre all’isola inglese, coinvolgeva probabilmente Norvegia e forse Islanda. Un condottiero che sconfisse il nemico storico dei britanni, i feroci sassoni, costringendoli alla resa. Ma che ebbe anche afflati di lungimiranza regnante, cercando di trovare i modi di una pace, possibile anche se non probabile (tant’è che dopo quindici secoli, britanni, sassoni, gallesi, irlandesi e compagnia cantante non è che siano proprio di un’amicizia ferrea). Qui vediamo due anziani britanni, Axl e Beatrice, avvolti nella nebbia del respiro di un drago che fa perdere a tutti la memoria, ricordare brandelli della loro vita. Per questo, decidono di andare a ritrovare il loro figlio di cui non hanno più ricordi. Incominciano un viaggio quasi iniziatico, dove saranno coinvolti in molte avventure. Incontreranno il cavaliere Wistan, un sassone in cerca di vendetta per il suo popolo. Il giovane Edwin, marchiato dal morso di un drago, e che per questo è capace di ritrovarne le tracce, ed a cui viene predetto un futuro di gloria ed onori. Il vecchio ser Galvano, forse cugino di Artù, e da questi incaricato di mantenere in vita i draghi che cancellano la memoria. Ci saranno vecchie abbandonate, bambini in fuga ed in cerca dei loro parenti, barcaioli che riecheggiano il vecchio Caronte. Ci saranno piccoli disvelamenti, che spesso le persone non sono quello che palesano essere ad un primo sguardo. Intuiamo, anche, tra le righe, che Axl poteva essere un britanno di rango, sodale di Galvano, autore di editti di pace, che però vengono disattesi. Motivo per cui si allontana dall’agone pubblico, rintanandosi nel privato con la sua Beatrice. Sapremo anche la storia di quasi tutti i protagonisti, compreso il figlio perduto. Ma due soltanto, alla fine, saranno i temi che ci avvincono: l’amore, veramente intenso, tra Axl e Beatrice, e quella memoria, quei ricordi che abbiamo perso (per colpa del drago, per colpa dell’età). E quella domanda iniziale: ricordare o dimenticare? O forse, meglio ancora, sopire per perdonare. Se queste domande, e le figure dei due anziani, sono elementi forti, il resto è talmente annegato nel mondo “alla Conan” che ho fatto fatica a leggerne, che ho faticato a finire, che fatico ancora adesso a riportare. Indubbia, la grande capacità di Ishiguro di usare tanti registri di scrittura, di essere capace di descrizioni paesaggistiche che ci fanno figurare bene in mente cosa possa essere la Britannia del tempo (e che forse risulta ancora più vivida essendo appena tornato da una Scozia che la ricorda da vicino). Ma continua ad essere una scrittura per me difficile e che non mi prende. Vedremo se si tornerà a leggere del “giovane” Kazuo (in fondo ha sempre un anno meno di me).
Seconda settimana ed allora godiamoci una bella lettura sulla perversione di essere troppo pronti a dare giudizi sui comportamenti altrui. Magari rimanere sempre al di qua del dubbio.
E poi continuare… ma non a viaggiare come il grande Lucio. Continuare a badare alla malata che sta, per fortuna sua, a metà del percorso. Mentre i viaggi languono, i capelli imbiancano e qualcosa latita. 
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
OTTOBRE 2018
Anche questo mese sembra dedicato a qualcosa che, a volte, è forse troppo vicino, è forse troppo presente. Ma spesso, ed io con lui, anche molto lontano, quasi che giudizi non vengano mai dati.

PRONTO A DARE GIUDIZI, ESSERE TROPPO

Bernhard Schlink            “A voce alta”
Ben Rice                       “Pobby e Dingan”
Soprattutto da giovani, siamo tentati di formulare giudizi immediati e sicuri sugli altri e dirli in giro. Valutare, pronunciarsi, applicare etichette - queste cose, a una mente immatura, possono sembrare un sinonimo di forza e fiducia. Ma avere delle opinioni non autorizza a esprimere verdetti - soprattutto se si misura una cosa o una persona sulla base di una sola qualità o di un solo attributo. Una persona troppo pronta a giudicare insisterà, per esempio, sul fatto che tutti i criminali sono persone orribili, che tutte le persone schizzinose a tavola non sono brave a letto, che tutti gli adolescenti sono ingenui e, anche loro, troppo sentenziosi (e su quest’ultimo punto hanno ragione).
Per stroncare la vostra tendenza a esprimere giudizi, vi raccomandiamo “A voce alta” di Bernard Schlink, un complesso racconto di senso di colpa collegato al nazismo, vergogna privata e orrore retrospettivo, un romanzo che affronta il problema di come le generazioni del dopoguerra dovrebbero rapportarsi all’Olocausto e a chi è stato coinvolto nelle sue atrocità. Michael Berg ha appena quindici anni quando inizia una relazione con una bigliettaia di tram di trentasei anni, Hana. I loro appuntamenti, durante i quali spesso fanno il bagno insieme - un riferimento al bisogno di Lady Macbeth di lavare via i peccati del passato - spesso coinvolgono dei libri, perché ad Hana piace che Michael glieli legga (l’Odissea in greco, Guerra e pace), e noi approviamo con tutto il cuore. Solo qualche anno dopo, quando Michael assisterà come studente di legge a un processo per crimini di guerra, la riconoscerà in uno dei volti sul banco degli accusati. Il suo primo amore, una volta, era una guardiana delle SS, complice della morte di centinaia di donne. E ha anche un altro segreto, del quale si vergogna ancora di più.
Michael passa la vita a cercare di venire a patti con quello che ha fatto Hana - e con quello che ha fatto a lui. Mentre lei prova rimorso, e si lascia perfino accollare maggiori responsabilità di quante ne abbia avuto in effetti, la decisione di Michael di non rispondere alle sue lettere dal carcere la fa soffrire. Schlink, in questo modo, getta il lettore nella mischia delle implicazioni etiche. Vi lascerete commuovere dal dolore di Hana o continuerete a condannarla per il suo crimine? È questo il vostro dilemma. Ci auguriamo che questo romanzo vi faccia capire come avere delle opinioni forti non comporti necessariamente il dovere di formulare un giudizio.
Se non avete stomaco per un simile dilemma etico, avete a disposizione una cura più blanda. Se esiste un romanzo - breve, in questo caso - in grado di convincervi a spegnere il fuoco dei vostri responsi, questo è senz’altro Pobby e Dingan, l’esordio narrativo di Ben Rice. Kellyanne, sorella minore di Ashmol, il narratore, ha due amici immaginari, Pobby e Dingan. Come ci si aspetterebbe da ogni fratello maggiore che si rispetti - soprattutto se cresciuto nella dura comunità di minatori di opale di Lightning Ridge, Australia - Ashmol non ha tempo per certe bambinate. Che fareste voi, quando sono anni che vi chiedono di apparecchiare anche per Pobby e Dingan, e vi dicono che non potete andare in piscina perché, con Pobby e Dingan seduti dietro, non c’è spazio anche per voi?
Alla fine del romanzo vi risponderete che sì, il tempo lo trovereste. Perché quando Kellyanne annuncia che Pobby e Dingan sono morti, e soffre tanto da finire in ospedale, Ashmol fa una cosa meravigliosa: va in giro per la città a mettere avvisi con cui offre una ricompensa a chi riuscirà a trovare gli amici della sorella («Descrizione: immaginari. Tranquilli»). Da quel momento, anche voi sarete tra quelli che credono alle fantasie della bambina non tra quelli che fingono di piangere e ridacchiano.
Siate persone aperte. In tutti c’è un po’ di bontà, di cattiveria, di follia e di tristezza, e non dovete perdonare ogni difetto o credere a ogni cosa per essere a vostro agio con una persona. Vale anche per voi stessi. Se per esempio, quando cercate di imparare qualcosa di nuovo, avete la tendenza a ritenervi senza speranza, cominciate da lì ad abituarvi a non esprimere giudizi.

Bugiardino

Devo dire che, dopo aver visto il film, la lettura del libro conferma la bellezza delle idee alla base della scrittura del premio Nobel, ma anche la mia difficoltà a leggerne.
Bernhard Schlink “A voce alta” Garzanti euro 9,90
[tramato il 29 giugno 2014]
Ultimamente, nella mia fornita biblioteca, stanno entrando alcuni libri da cui sono stati tratti film (+ o -) famosi. Ho sempre pensato che queste due forme espressive siano disgiunte, e da giudicare nella loro specificità. Ciò nonostante, quando capitano punti di intersezione è anche interessante annotare come, queste due espressioni, muovano diverse sensazioni, a fronte di una materia omologa. Tutto questo panegirico per introdurre il bel libro di Schlink, e ricordarne l’interessante film che ne fu tratto nel 2008, dal titolo “The reader” con Ralph Fiennes e Kate Winslet. E se nel film esce fuori prepotentemente la figura di Winslet – Hanna, tanto che prenderà l’Oscar, il libro tutto in diversa soggettiva, ne fa si uscire la problematica, ma anche i problemi generali dei tedeschi verso l’Olocausto. Comunque cominciamo con la solita tirata d’orecchi agli editor italiani che l’hanno ribattezzato “A voce alta”, dopo che in tutto il mondo il libro è intitolato come nell’originale tedesco, “Il lettore”. Perché si legge a voce alta? Ma non è la voce, il punto. È proprio l’azione di leggere. Venendo al libro, ha una sua struttura tripartita molto ben scandita. La prima parte è l’innamoramento e poi la storia d’amore tra Michael e Hanna. Lui sedici anni, lei qualche cosa in più di trenta. Lui va scuola, si sente male, lei lo aiuta. Comincia così prima una frequentazione. Poi sempre qualcosa in più. Fino ad una bella storia d’amore. Certo, è soprattutto Michael che è preso da Hanna. Ma è ben descritto il loro prendersi e litigare (meglio che nel film). Il tempo passa, Michael cresce, ed Hanna ad un certo punto sparisce. Prima però, c’è tutto il tempo che il nostro ragazzo passerà a leggere libri ad alta voce alla sua bella. Stacco sulla seconda parte. Il ragazzo cresce, fa legge all’Università. E per un seminario partecipa da uditore ad un processo. Che coinvolge Hanna ed altre donne accusate di essere aguzzine di un lager durante la Seconda Guerra Mondiale. Qui esce fuori la capacità giuridica dell’autore, anche lui avvocato, che ci fa partecipi del processo. Ma tutto dalla prospettiva di Michael che si interroga: perché Hanna fece quello che fece nel lager? Perché non si difende dalle accuse, molto labili, che le vengono mosse? Durante un insight sulla sua vicenda, il nostro capisce: Hanna non sa leggere. E questa “vergogna” è più forte della volontà di essere assolta. Michael, pur nolente, capisce e rispetta questa espiazione. Ed Hanna viene condannata all’ergastolo. Nella terza parte, vediamo il nostro cresciuto, poi sposato, divorziato, sempre problematico con le donne. Al fine l’unico legame che gli resta è proprio con Hanna. E comincia ad inviarle cassette con le sue letture. Fino alla grazia che dopo 18 anni riceve l’ergastolana. Michael finalmente la va a trovare. Scambi di sguardi. Possibilità di amicizia in tarda età. Ma Hanna rimane legata alla sua storia, e prima di uscire dalla prigione, si impicca. Prima di lasciarci Michael esaudisce l’ultimo desiderio della sua vecchia amante, devolvendo i denari di lei per un’associazione che si occupa di analfabeti. La seconda parte della storia, devo dire che è meglio resa nel film, dove lo scandire delle immagini, e delle letture di Michael, viene meglio in video che in scrittura. Quindi dire che tra libro e film c’è un sostanziale pareggio. Quello che esce più forte nel libro è forse la domanda (o le domande) sull’Olocausto. Quanti cittadini “normali” hanno fatto cose “anormali” in quegli anni? Esce forte quella banalità del male di cui parlava la Arendt nel suo bellissimo libro sul processo ad Eichmann (ma perché viene citato il poeta Auden dal nostro scrittore? C’è forse qualche poesia che mi sfugge?). E ci tormenta fino in fondo la domanda su quanto la vergogna di non saper leggere sia prevalente sul bisogno di espiazione di Hanna. Dov’è nasce il confine tra i due? Merito di Schlink di porre queste domande, e di porle dall’interno della Germania. Un ottimo libro, che narrando altro ci pone queste domande e ci riporta sempre lì, al conflitto tra obbedienza e follia. Consiglio a tutti la lettura (anche e soprattutto chi non ha visto il film).
“Quand’ero ragazzo, io mi sentivo sempre o troppo sicuro o troppo insicuro. O mi vedevo totalmente incapace, insignificante e indegno, o pensavo che sarei riuscito in tutto e che tutto dovesse riuscirmi. Se mi sentivo sicuro potevo superare le più grandi difficoltà. Ma il minimo insuccesso bastava per convincermi della mia indegnità.” (57)
“Siccome la verità di ciò che si dice, è ciò che si fa, si può anche fare a meno di dire.” (143)

Conclusioni

Entrando nel merito, il lettore è sicuramente un libro (ed un film) che pone mille domande. Forse non sui giudizi precoci, ma sicuramente sulle implicazioni etiche delle cattiverie, dell’espiazione e del dolore.