domenica 30 agosto 2020

Four, not English - 30 agosto 2020

Eccoci ancora all’interessante (e alterna) collana Noir di Repubblica. Dove, scusandomi per la ripetizione di titoli in inglese, in questa trentesima trama dell’anno, presentiamo quattro autori non anglosassoni. In ordine di gradimento, cominciamo con il sempre valido greco Markaris con il commissario Charitos. Scendiamo di poco con il duo tedesco Klupfel&Kobr ed il commissario Kluftinger. Ci portiamo sotto media con l’indiana Anita Nair ed il commissario Borei Gowda. Mentre scendiamo decisamente in basso, e leggendone capirete il perché, con il francese Lemaitre ed il suo commissario Camille Verhoeven. Molta polizia, sostanza alterna. 
Petros Markaris “Titoli di coda” Repubblica Noirissimo 19 euro 7,90 
[A: 01/11/2017– I: 15/04/2020 – T: 16/04/2020] - &&& +
[tit. or.: Τίτλοι Τέλους - Τριλογία της Κρίσεως, Επίλογος; ling. or.: greco; pagine: 333; anno 2014]
Come ben recita il titolo originale, questo è l’epilogo della trilogia della crisi. I titoli di coda, come dice la traduzione italiana. Ma se non si aggiunge l’accenno alla trilogia si perde qualcosa.
Di certo, anche se si segue la storia, si fanno più labili gli accenni alla crisi greca iniziata nel 2009, e che dal 2010 con quattro libri, Markaris ha cercato di esorcizzare. Rimando ai primi tre, di cui già parlai, e cioè “Prestiti scaduti”, “L’esattore” e “Resa dei conti” per un viaggio nella Grecia delle ristrettezze. Questo, in realtà, sarebbe il quarto libro, che un po’ stona in una trilogia. Ma l’autore aggiunge quella parola finale “Epilogo”, per farci capire che dopo, forse, parlerà di altro. Noto, per la mia scarsa conoscenza del greco, avendo fatto lo scientifico, l’assonanza con l’italiano, visto che il termine, traslitterato in caratteri latini, sarebbe “Epilogos”. Noto, invece, la conoscenza delle lingue di Markaris, perché l’epilogo è il “discorso che viene dopo la fine di qualche cosa”. Una conoscenza che l’autore riporta anche in quei piccoli frammenti ripresi dal dizionario magno della lingua greca, il Dimitrakos, che sarebbe come da noi prendere in mano il Devoto-Oli.
Fatte queste premesse, l’azione e la risoluzione del libro non è tanto nel risolvere le questioni poliziesche (che ovviamente il nostro commissario Charitos brillantemente porta a buon fine), quanto nell’atmosfera generale e nelle motivazioni dei gesti. Come in tutte le grandi saghe seriali, oltre all’aspetto esterno, c’è quello familiare, che, data la personalità di Markaris ed il suo occhio attento alle vicende umane, poi non può che sfociare in un intreccio esterno – interno.
Ricordiamo che il commissario ha una moglie, Adriana, che cucina divinamente, una figlia, Caterina, avvocato ed un genero, Fanis, medico, nonché due consuoceri distanti fisicamente ma vicini ai loro cuori. Come supporto poi c’è l’aiutante di Caterina, Monia, con il suo fidanzato tedesco Uli (che darà una mano al commissario nel tradurre info germaniche). La routine familiare è sconvolta dall’assalto che Caterina subisce all’uscita dal tribunale. Assalto che si risolverà con poche conseguenze, ma che dà modo allo scrittore di mettere a segno due punti. Caterina difende degli immigrati, così Markaris può parlare di immigrazione attuale, legata poi a quella degli anni ’50 che ha un peso nell’altra parte della storia. Caterina è assalita da adepti della formazione “Alba Dorata”, una formazione di estrema destra che negli anni ’10 di questo secolo ha avuto un piccolo successo, dovuto anche allo stato di crisi greco, ma che ora pare ridimensionata e contenuta (da 17 seggi nel 2015 a nessuno nel 2019). Una storia parallela che serve a Markaris solo per sottolineare l’infiltrazione di elementi neofascisti nelle istituzioni, e nella polizia in particolare.
L’altra storia, quella principale, prende il via da un suicidio, per poi collegarsi ad una serie di omicidi. Il primo è di un greco-tedesco, Andreas Makridis. Figlio di un greco immigrato in Germania negli anni ’50 (e di cui parlo sotto), tornato in Grecia per impiantare pale eoliche, ma schiacciato dalla burocrazia greca. I morti sono invece, indifferentemente di destra o di sinistra, ma legati, in modo diretto o indiretto, a personaggi fascisti del dopo guerra, attori noti (localmente) durante la guerra civile greca (che ricordo durò ben tre anni dopo la Seconda Guerra Mondiale) e che alla fine portò a colpi di stato para-militari e poi militari (come non ricordare la Grecia dei Colonnelli?). Il tutto è legato dalla rivendicazione “I Greci degli anni ‘50”. Ma quei personaggi avrebbero una novantina d’anni, più o meno. Si capisce quindi che è un rimando. Un rimando a chi, ora, negli anni ’10 del XXI secolo è costretto a comportarsi come i greci di sessanta anni prima.
Alla fine, con collegamenti vari e soluzioni ad hoc, Charitos trova il bandolo della matassa. Non vi dico certo quale sia, e come lo scioglie il nostro commissario. Penso di aver detto già forse troppo.
Ribadisco solo due punti che fanno salire il gradimento del libro, che era invece sceso perché la risoluzione non mi convinceva, perché molte parti sembravano ricalcare un altro scritto di Markaris (“Hanno ammazzato il Che”), ed infine perché molto interno alla politica ed alla storia greca, che forse non tutti conoscono. Uno è la capacità appunto di descrivere lo stato di crisi che attraversa la Grecia, dalla bancarotta in poi. Il secondo è per il lavoro di traduzione di Andrea De Gregorio, che si è anche dovuto barcamenare non solo con il greco, ma con rimandi ed altre amenità molto interne alla storia greca. Come la vicenda dei Gastarbeiter che significa "lavoratore ospite", termine coniato durante gli anni Cinquanta del XX secolo per designare il gran numero di lavoratori stranieri immigrati nella Germania occidentale. O come le digressioni nel Dimitrakos, dove si è ben mosso, eccetto per un lemma, il charatsi che viene ben descritto, ma non tradotto, anche perché (ma sarebbe stato bello metterci una nota) non ha un esatto corrispettivo italiano, dove viene indicato con il termine arabo kharāj (per chi ne fosse ignoto, ricordo che è l'imposta che gli Arabi musulmani applicarono, fin dalle prime fasi della loro espansione, alle terre appartenenti alle popolazioni sottomesse al loro governo ma non di religione islamica). 
“Il bene arriva con il contagocce, il male come un’inondazione.” (119)
“Adriana … soffre di incontinenza commentativa.” (272) [una definizione stupenda per chi interviene sempre, a proposito e a sproposito]
“Se devi sposare un turco, che almeno sia un sultano.” (274)
Volker Klupfel & Michael Kobr “Spiccioli per il latte” Repubblica Noirissimo 21 euro 7,90
[A: 01/11/2017 – I: 20/04/2020 – T: 22/04/2020] - &&& --
[tit. or.: Milchgeld; ling. or.: tedesco; pagine: 348; anno 2006]
Per una volta tanto un titolo ben tradotto, e come dice il sottotitolo, anche “Il primo caso del commissario Kluftinger”. Pubblicato per la prima volta in Italia circa cinque anni fa dalla benemerita case editrice Emons, che stava lanciando una linea di “gialli” tedeschi, e poi riproposto in questa edizione, da me letta, nella collana in genere interessante edita da Repubblica.
Un poliziesco direi abbastanza gradevole, che ben introduce il mondo del commissario sopracitato. Certo, sconta il fatto che siamo in Germania da autori tedeschi, una combinazione che non mi ha quasi mai portato delle buone sensazioni. I gialli germanici sono in genere un po’ troppo cupi, con pochi agganci al territorio. Qui, fortunatamente, c’è poca cupezza, c’è molto territorio, e c’è anche qualche tentativo di essere ironici. Con poca fortuna, l’ultimo punto è quello meno riuscito, che si, si fa pure qualche sollevamento di labbra, ma satira ed ironia sono ben lungi dallo spirito di questi volenterosi teutonici.
Intanto, siamo in una parte della Germania atipica per basarci romanzi seriali (i nostri due autori sono ora arrivati al decimo volume delle storie del nostro Klufti, come viene spesso chiamato il commissario), e cioè in Algovia, una regione della bassa Svevia, al confine con l’Austria, e molto vicina anche alla Svizzera. Una regione di monti, vallate e alpeggi, così che non ci meravigliamo che la prima avventura del commissario ruoti intorno al latte. Il mondo del nostro commissario (che credo ritorni nelle successive puntate) è composto dall’ambito familiare, con la moglie Erika ed il figlio Markus (che qui viene solo nominato), e dai coniugi Langhammer, con la moglie Annegret molto amica di Erika, ed il marito Martin che fa infuriare Klufti ad ogni piè sospinto. Poi c’è la squadra di polizia, che opera nel capoluogo Kempten: i tre sottoposti, Strobl, Maier e Hefele, il capo Lodenbacher (spesso preso in giro per il suo accento bavarese) e la segretaria Sandy, che essendo di Dresda spesso non capisce le battute dei poliziotti (ma è utilissima nell’ottenere informazioni).
Il caso si presenta abbastanza spinoso sin dall’inizio. Un chimico alimentare del caseificio locale viene assassinato, apparentemente senza motivo. Veniamo quindi subito in contatto con le particolarità algoviane: formaggi e derivati del latte. Wachter, il chimico, era molto quotato sul mercato alimentare, ma in seguito ad uno scandalo (che faremo fatica a ritrovare), si trova una quindicina di anni prima senza lavoro e senza fama. Per questo, il caseificio locale, gestito da padre e figlio Schömanger, ha facilità a prenderlo per un compenso non elevato. Lì Wachter, dopo alcuni anni di quiete, comincia a sfornare le idee che lo avevano reso famoso. Formaggi a basso contenuto di grassi, aromatizzati sapientemente. Klufti, indagando con il suo occhio lungo, scopre la sparizione di un albume di foto, dal quale risale alla storia del licenziamento di un tempo. Dove furono estromessi Wachter ed il suo chimico preferito, Lutzberger. Avevano immesso formaggi che non erano stabili chimicamente, e che, alla lunga, provocavano disturbi gastrici ed anche morti sospette. Wachter si era riciclato, l’amico si era invece ritirato a produrre formaggi di nicchia. Ma muore di cancro nove mesi prima, e rimane sulla scena solo il figlio.
La storia si complica man mano che andiamo avanti. Lutzberger jr. sembra essere sulla scena del crimine, e si sospetta abbia voluto vendicare il padre. Ma la sua morte pone forti dubbi. Si scopre però che, dietro la nuova ascesa di Wachter, ci sono ancora truffe. Latte in polvere a basso costo arrivato clandestinamente dalla Russia (magari da zone inquinate?), procedimenti poco igienici di produzione casearia. Tutto per produrre formaggi, e far ottenere a Wachter ed al caseificio i famosi “spiccioli” del titolo. Dalla truffa ai casini di anni addietro, dalle voglie di rivincita di Schömanger jr. alla necessità di mantenere alto il nome del caseificio di Schömanger sr., insomma, tutto il finale è una serie di piccoli colpi di scena, un po’ prevedibili purtroppo.
Rimane la scrittura gradevole, l’aria tedesca che, alla fine, è più sopportabile del previsto, ed alcune schermaglie alimentari che mi portano a due scoperte. Gli Spätzle, gnocchetti di forma irregolare a base di farina di grano tenero, uova e acqua, originari della Germania meridionale, diffusissimi anche in Tirolo, Alsazia, Svizzera e Trentino-Alto Adige, nonostante la loro patria per eccellenza sia la Svevia e la Baviera. Ma soprattutto il formaggio chiamato Weißlacker, a base di latte vaccino della Baviera, riconosciuto DOP dal 2015. Bisognerà trovarlo, insieme al suo parente stretto l’Allgäuer Weißlacker. Pare siano ottimi con la birra. Insomma, qualche punto positivo, alla fine, lo troviamo anche qui.
Anita Nair “L’ira degli innocenti” Repubblica Noirissimo 20 euro 7,90
[A: 01/11/2017 – I: 23/04/2020 – T: 24/04/2020] && + 
[titolo: Chain of Custody; lingua: inglese; pagine: 365; anno: 2016]
Non avevo ancora letto le opere “noir” della scrittrice indiana, e devo dire che è stata una lettura gradevole anche se non eccelsa. Soprattutto perché mi ha riportato nel cuore dell’India meno nota, e forse più vera. Qui siamo lontano da quel mondo a sé che è Delhi, e ci muoviamo a Bangaluru (come dovrebbe scriversi con la grafia attuale, invece dell’inglesizzato Bangalore).
Soprattutto, a parte il “giallo”, è la parte umana che mi ha preso ed è utile, a chi conosce poco della vita indiana, per capirne mille risvolti, spesso talmente duri da far impallidire i morti di Varanasi.
Intanto, questo è il secondo libro della serie che ha per protagonista l’ispettore Borei Gowda, dove, purtroppo come spesso accade nei secondi libri letti per primi, si perdono alcuni dettagli del contro sociale e personale della serie. Vediamo che Gowda è sposato con figlio grande, ma non ha un gran rapporto con la moglie lontana, ed ancora peggiore con il figlio, forse già troppo dedito a qualche “spinello” di troppo. Il cinquantenne ispettore ha anche un’amante, Urmila, con cui sempre aver un legame migliore che con il resto della famiglia. Legame noto anche alla sua squadra di agenti. Soprattutto a Santosh, venticinquenne agente che probabilmente ha avuto qualche ruolo di rilievo nel primo episodio.
Gowda sembra discretamente attento, ed anche ben introdotto negli ambienti irregolari (informatori, piccoli truffatori ed altro sottobosco). Ha anche un moto, e non a caso (in particolare per chi ha visitato il tempio di Pali) è una Royal Enfield Bullett (e questa volta non vi svelo il mistero).
Tuttavia, ho poco apprezzato la scelta stilistica della narrazione. Che si svolge nell’arco di due settimane, ma che inizia il 14 marzo con un omicidio, poi fa un salto al 6 marzo per prendere una narrazione temporalmente conseguente, e quindi ricongiungersi al prologo e terminare il 18 marzo. Perché non andare invece sempre avanti sempre flashback? Mistero. La storia è poi legata a fili multipli con rapimenti ed altre storture a carico di ragazzi e ragazze minorenne e financo adolescenti. Di certo, una delle grandi piaghe dell’India. Lì c’è talmente tanta popolazione, e talmente tanti giovani, e talmente tanto poco lavoro, che spesso giovani teenager vanno in giro solitari e vengono adescati (quando non proprio rapiti) da procacciatori di loschi affari.
Alla fine, ricostruiamo le fila della vicenda losca.
C’è un procacciatore d’affari, Purjay, con moglie, Gita, su sedia a rotelle. Fanno una bella vita, o almeno decente per gli standard indiani, ma Gita non sa che ciò è permesso dalla parte losca degli affari di Purjay. Che aveva iniziato un po’ alla mister Fagin di Oliver Twist, mettendo su bande di ragazzini. Poi utilizzando i più grandi per sistemare i più giovani in posti per lui ben pagati e per loro di fame. Infine, facendo il salto verso la prostituzione, soprattutto minorile, procacciando, anche attraverso rapimenti, giovani e giovanissime a ricchi committenti. Questo gli permetteva anche di ottenere appalti ed altre situazioni remunerative, invischiando nel suo giro la borghesia ricca e ricchissima dell’India. Questi spaccati servono ad Anita per farci vedere il lato oscuro di questa India, i tremendi loschi figuri che si aggirano per le stazioni adescando i giovani. Ma ci fa anche conoscere una meritoria ONG che dal 1980 lavoro a Bangalore, la BOSCO (Bangalore Oniyavara Seva Coota), fondata dai salesiani e che si occupa di recuperare e prevenire gli adescamenti di cui sopra. Purjay ha un suo “luogotenente”, soprannominato Krishna, colui che risolve i problemi (un po’ alla mr. Wolf di Tarantino…). Saltando tutti i vari passaggi intermedi, il nocciolo è dato dal rapimento di una dodicenne che il gruppo di Purjay vuole avviare alla prostituzione, facendola sverginare come dono da un deputato in cerca di appalti. Krishna, vedendola, se ne invaghisce e cerca di mandare a monte i piani di Purjay, soprattutto nel rapporto per l’antagonista del deputato, l’avvocato (quello che muore nelle prime pagine). Avvocato che sembra preferire una quindicenne non avviata al mestiere. E nel giro di tutte queste avventure, abbiamo anche la crisi di Purjay, quando Gita scopre da dove realmente vengono i profitti del marito.
Non vi dico come si intrecciano tutte le storie, anche se, ad un certo punto, tutti i sospettati transitano per la casa dell’avvocato. Sarà Gowda con il suo acume che riuscirà a separare il finto dal vero, muovendo le pedine giuste, ed arrivando alla soluzione di tutti gli enigmi del libro. Ma, ripeto, la parte poliziesca non è né preponderante né meglio narrata. In un certo senso serve solo a presentare altre parti del mondo indiano: le caste, i rapporti tra capi e sottoposti ed altre indianità. Ho la sensazione, che questa della descrizione di ambienti indiani, sia la cifra migliore degli scritti di Anita Nair, che cercherò di leggere ancora. Un’ultima cosa: perché poi la “catena di custodia” del titolo indiano diventi “l’ira degli innocenti” è il solito mistero delle traduzioni che non riesco a decifrare. Anche perché il titolo inglese si riferisce ad un ben specifico atto giudiziario dell’ordinamento inglese: la documentazione cronologica degli elementi di prova relativi ad un reato.
“Del viaggio non ricordava molto. Dopo un po’ tutti i voli internazionali, le destinazioni e i film sembravano tutti uguali.” (36) [non so i film, ma i voli per me sono sempre unici]
“M’è venuto in mente che nel corso della nostra vita non diciamo alle persone che ci sono care quanto ci sono care.” (87)
“Quale uomo, a cinquant’anni, poteva illudersi che la vita e le sue possibilità sarebbero state eterne?” (218)
Pierre Lemaitre “Irène” Repubblica Noirissimo 25 euro 7,90
[A: 27/11/2017 – I: 11/05/2020 – T: 12/05/2020] - & ½ e &&&
[tit. or.: Travail soigné; ling. or.: francese; pagine: 395; anno 2006]
Sarete senz’altro curiosi della doppia valutazione. Ebbene sì, ecco un libro che fino a pagina 344 mi è piaciuto, con un ritmo ed un intreccio non sempre lineari, ma interessanti. Le ultime 50 pagine lo rivoltano da capo a fondo, e non mi hanno convinto.
Certo, è comunque scritto con capacità, e con bravura ed inventiva, ma mi sono sentito quasi respinto. Come se l’autore avesse fino a lì cercato un’empatia con il lettore, e poi se ne sia scordato, proseguendo per una strada sua, che non ho condiviso. Come, e ben più gravemente, non ho condiviso la scelta italiana del titolo.
Il francese “Lavoro accurato” (più o meno questo il significato) ha un suo perché. Il titolo italiano fa riferimento ad uno dei personaggi del libro, e neanche tanto principale, quasi a dirci: attenti che ad un certo punto diventerà importante. Ma questo toglie ritmo e suspense a tutto il testo. Peccato. Quindi, per ora, tralasciamo il finale, e veniamo alla parte corposa del romanzo, o del thriller per meglio dire. Che è un omaggio neanche tanto velato (tutt’al più nelle prime pagine, ma poi il gioco è scoperto) a grandi maestri del noir, o almeno, a quelli che l’autore ritiene propri maestri (e che sentitamente, alla fine, ringrazia).
Il personaggio principale è questo strano commissario, Camille Verhoeven, che avrà anche dei meriti ma che qui ricordiamo per due cose: la sua scarsa altezza (ci viene detto 1,45 cosa che nelle file di tutte le forze armate italiana credo sia sotto la soglia minima) e (almeno per quanto si vede qui) il suo scarso acume. È sempre in ritardo su tutto, sembra sempre brancolare nel buio. Anche se, con certezza posteriore, è uno schematismo indotto da altro. Comunque, il nostro Camille viene coinvolto in un efferato delitto, subito da due prostitute in un capanno isolato. Noi capiamo subito che c’è qualcosa di teatrale dietro, visto come viene descritta la scena del crimine, e come ne vengono descritti tutti gli elementi presenti.
Aiutati da un dettaglio lasciato a bella posta dall’assassino, il commissario riesce a collegare questo a tutta una serie di altri delitti, altrettanto scenicamente realizzati. E noi che qualche libro abbiamo letto, ne seguiamo le ingegnose realizzazioni. Perché l’assassino cerca, e riesce, di replicare delitti celebri descritti in altrettanti celebri romanzi noir.
Vediamo così una morta segata in due come nella “Dalia nera” di James Ellroy. Vediamo una donna pugnalata alla maniera di uno dei capostipiti della letteratura noir francese, il “Dramma di Orcival” di Émile Gaboriau. Vediamo la descrizione di uno spaccato scozzese dell’ideatore del “tartan noir” William McIlvanney, come descritto in “Laidlaw”. Vediamo l’omaggio ai capostipiti della letteratura gialla scandinava, la coppia Sjöwall & Wahlöö, con un delitto che ricalca il primo libro della saga del commissario Beck, “Roseanna”. Ma soprattutto, in quanto centrale, in quanto super efferato, in quanto il punto di partenza di tutte le indagini, vediamo la ricostruzione della scena del crimine di Patrick Batheson in “American Psycho” di Bret Easton Ellis. Abbiamo quindi un assassino che, seppur in modo mirabile, non fa che copiare scene del crimine altrui.
Un po’ quello che fa anche Lemaitre, come se non avesse la capacità di imbastire una propria scena, un proprio e personale modus criminale. Tant’è che, avviandoci verso un nuovo omicidio, anche questo dovrebbe essere copiato da qualcosa. La suspense che cerca di creare l’autore è dovuta al fatto che questo è un libro inventato. Quindi, una specie di meta salto letterario. Ma Lemaitre non dice che, oltre ad altri marginali omaggi a molti scrittori illustri (eccettuato per sua stessa ammissione il grande Simenon), sta quasi per cadere nel ricopiare Agatha Christie nel suo “L’assassinio di Roger Ackroyd”. Dove però Verhoeven non potrà mai essere Poirot.
Come dicevo, dopo aver fatto salire l’agitazione per ¾ del libro, la fine ha di certo ritmo, ma non mi ha convinto. E non dico altro, che molto (troppo?) è già stato citato. Ultima considerazione metaletteraria, non mi è sembrato un caso che il commissario si chiami “Verhoeven” come l’olandese regista di film come “RoboCop” e “Basic Instinct”. In fondo, tutto il libro si riassume nella citazione di Barthes che Lemaitre porta in esergo. Tuttavia, personalmente ritengo seppur corretto Barthes, fondamentale il modo come uno scrittore usi le sue parole per connettere le citazioni. E qui Lemaitre non mi ha convinto, come ho detto. Per ora non leggerò gli altri due volumi della trilogia di Verhoeven, mentre prima poi penso di dedicarmi alla lettura di un libro del filone più thriller, pubblicato dal Corriere in lotta editoriale con Repubblica.
“Roland Barthes: Lo scrittore è qualcuno che assembla le citazioni eliminando le virgolette.” (9)
Terza trama, che in sintonia con il momento storico, ci porta un po’ alle radici del “Black Lives Matters”.
E con questo siamo arrivati a fine agosto. Senza, purtroppo, nessuna novità. Il Covid non diminuisce. I viaggi non riprendono. Gli amici girano poco. Ci si manda messaggi, sperando che questo vi arrivi, sereno, con gli auguri a tutti i compleanni agostani, con molti abbracci e baci.

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

AGOSTO 2020

Torniamo anche questo mese a piccoli rimedi, come dice l’introduzione, che abbiamo bisogno di qualche blister prima di tornare “normali”.

BLISTER D’AUTOSTIMA 3

Non bisogna mai sottovalutare gli sbalzi di pressione. Soprattutto quelli della pressione emotiva, che può andare su o giù a causa di eventi esterni o di fattori congeniti come il carattere.

Harper Lee “Il buio oltre la siepe”

La gentilezza, quella capacità di entrare in empatia con gli altri ormai considerata da idioti, non andrebbe mai separata dal coraggio. Uno dei disturbi più diffusi legati a livelli eccessivamente bassi di autostima è la paura di esprimere la propria opinione, una tendenza che con il tempo rischia di cronicizzarsi nella scelta, un po’ vigliacca, di astenersi da qualsiasi questione spinosa che rischi di trasformarsi in un problema. Essere diversi spaventa sempre e chi ha un carattere mite tende a evitare ogni tipo di scontro, ma questo non deve inibire la volontà di battersi per quello in cui si crede anche se non è quello in cui crede la maggioranza delle persone. Ad alleviare questi sintomi fino a farli scomparire è il protagonista de “Il buio oltre la siepe”, un esempio di essere umano davvero «umano», uno dei migliori di tutta la letteratura. Un avvocato onesto, un padre single e un uomo davvero buono. Un idiota, direbbero molti. Sì, perché solo un completo idiota accetterebbe di difendere un nero accusato di violenza sessuale su una ragazza bianca in una cittadina di provincia dell’Alabama negli anni Trenta, praticamente un suicidio sociale. Ma Atticus Finch non è una persona ordinaria. In realtà non ha niente di straordinario se non una ferrea fiducia in saldi principi umani prima che civili. E questi principi, che onora con la pratica e per i quali si batte con convinzione, senza ricorrere a nessun tipo di violenza, neanche verbale, li trasmette ai figli, due nella storia ma milioni nel mondo, ovvero tutti quelli che hanno letto “Il buio oltre la siepe” e lo hanno amato (impossibile non farlo). La vicenda giudiziaria è solo l’episodio centrale di un romanzo che affronta con ironia e vigore il tema della diversità nelle sue varie manifestazioni, da quella più clamorosa del razzismo a quella più subdola nei riguardi di tutto ciò che non si conforma ai modelli condivisi. Oltre a Boo Radley, ragazzo con problemi mentali emarginato e deriso, anche la protagonista e voce narrante del romanzo è a suo modo “diversa”: Scout è una bambina straordinariamente vivace e curiosa, intelligente e spericolata, è un maschiaccio in tutto, da come si veste a come parla, ed è ben fiera di essere diversa dalle coetanee. Anche suo padre non è come tutti gli altri papà: è più grande, è vedovo, un po’ acciaccato, non ama le armi e adora leggere. Soprattutto Atticus la pensa diversamente dalla maggioranza e non fa niente per nasconderlo. Seguiamo l’intera vicenda attraverso lo sguardo puro e vispo di Jean Louise, in arte Scout, e con lei impariamo che non c’è niente di forte nel tormentare chi è diverso, che evitare gli scontri è da saggi e non da vigliacchi e che battersi per la giustizia è fondamentale per ottenere il rispetto di sé stessi e degli altri. Con lei mandiamo giù con estrema facilità alcune pillole prescritte da Atticus e utili a regolarizzare la pressione sanguigna del coraggio (il cosiddetto sangue freddo). Eccone alcune: «Devi fare una cosa sola: tenere la testa alta e le mani a posto. Non badare a quello che ti dicono, non diventare il loro bersaglio. Cerca ci batterti col cervello e non con i pugni, una volta tanto... E una buona testa, la tua, anche se è dura a imparare!»; «Ma prima di vivere con gli altri, bisogna che viva con me stesso: la coscienza è l’unica cosa che non debba conformarsi al volere della maggioranza»; e ancora, la mia preferita, una mano santa per curare la sensazione d’impotenza e il terrore da fallimento incrementando la voglia di battersi nonostante tutto: «Volevo che tu imparassi una cosa: volevo che tu vedessi che cosa è il vero coraggio, tu che credi che sia rappresentato da un uomo col fucile in mano. Avere coraggio significa sapere di essere sconfitti prima ancora di cominciare, e cominciare egualmente, e arrivare sino in fondo, qualsiasi cosa succeda. È raro vincere, in questi casi, ma a volte succede».

Atticus riuscirà a dimostrare l’innocenza del suo assistito che, però, sarà ugualmente condannato a morte. Questa la chiamano giustizia. Ma nonostante tutto, come Scout e suo fratello Jem, nessun lettore penserà mai che sia un perdente, lui che si è guadagnato il rispetto di tutti noi.

“Il buio oltre la siepe” è una delle più poetiche e incisive condanne di ogni forma di razzismo e di ingiustizia, un farmaco da banco per prevenire, anche nei ragazzi, l’insorgere di pericolosi virus come pregiudizio, xenofobia, intolleranza, bullismo. L’ironia e la leggerezza la rendono una medicina altamente assimilabile dall’organismo e la sua assunzione provoca sorrisi, riflessioni e una sana indignazione. Se assunta in forma di gocce oculari, consente di idratare gli occhi migliorando la qualità della vista perché «una volta Atticus mi aveva detto: “Non riuscirai mai a capire una persona se non cerchi di metterti nei suoi panni, se non cerchi di vedere le cose dal suo punto di vista”. Ebbene, io quella notte capii quello che voleva dire. Adesso che il buio non ci faceva più paura avremmo potuto oltrepassare la siepe che ci divideva dalla casa dei Radley e guardare la città e le cose dalla loro veranda». Terminata la lettura, la sensibilità oculare sarà di gran lunga migliorata e oltre la siepe non ci sarà più il buio. Come dice Atticus, non si conosce realmente un uomo se non ci si mette nei suoi panni e non ci si va a spasso. Consiglio quindi di fare una passeggiata salutare in sua compagnia augurandovi di imparare a zoppicare con lui. Anzi sarebbe auspicabile riuscire a vedere le cose dal suo punto di vista, anche se da un occhio ci vede male. Ma forse proprio quell’occhio mezzo chiuso gli garantisce una maggiore larghezza di vedute.

Coraggioso Atticus, coraggiosa la piccola protagonista e coraggiosa l’autrice. Quando Harper Lee pubblicò il libro, straordinario successo e premio Pulitzer, era il 1960 e il razzismo una piaga all’ordine del giorno. Il fatto che fosse una donna bianca a contestare la mentalità della gente in mezzo alla quale era cresciuta non è un dettaglio da sottovalutare. Non resta che lasciarci contagiare da tanta forza d’animo anche noi timidi e insicuri, spalmando abbondantemente questo balsamo prodigioso sui lividi provocati dall’inconcepibile irrazionalità di ogni manifestazione d’ingiustizia.

Il libro è un capolavoro da leggere e rileggere, una cura da ripetere ciclicamente, e ogni inguaribile lettore non potrà che condividere questo pensiero di Scout: «Fino al giorno in cui minacciarono di non lasciarmi più leggere, non seppi di amare la lettura; si ama forse il proprio respiro?».

Attraverso le pagine del romanzo i personaggi diventano parte di noi, innescando una reazione chimica, o alchemica se preferite, che genera un’incredibile e preziosa forma di empatia resa sullo schermo con uguale classe, incisività e delicatezza da Robert Mulligan nel 1962. Gregory Peck è uno straordinario Atticus Finch, rassicurante e forte, gentile e deciso, e il film è all’altezza del libro. Non vi consiglio di vederlo, vi obbligo a farlo. La vostra salute ne trarrà sicuro giovamento.

Avvertenza: a distanza di più di mezzo secolo è stato deciso di pubblicare, tra mille polemiche, il seguito del romanzo, “Va’, metti una sentinella”, che per anni era rimasto in un cassetto. In questo misterioso sequel, scritto in realtà prima de “Il buio oltre la siepe”, ritroviamo Scout ormai adulta che torna a far visita al vecchio padre. Proprio il personaggio di Atticus potrebbe scatenare crisi di rigetto nei lettori più sensibili. Per vedere se il nostro cuore malato d’amore per il capolavoro della scrittrice americana tollera o rigetta questa nuova cura, bisogna aspettare i risultati dei primi test. La risposta sarà estremamente soggettiva, ma state pur certi che niente potrà mai ridurre la grandezza dell’anima pura di Atticus Finch, neanche lui stesso.

Commenti

Dopo aver rimandato per molto tempo questi commenti, ora che ho letto anche il secondo libro di Harper Lee, posso riportarne e commentarne.

Harper Lee “Il buio oltre la siepe” Feltrinelli euro 8 (in realtà, scontato 6)

[pubblicato il 14 settembre 2008]

Un libro pieno di sorpresa, o almeno tre: la prima è che Harper Lee è una donna, mi ero sempre fissato fosse un uomo. La seconda è la dura gradevolezza. La terza è che Atticus Fintch anche nella scrittura ha sempre la faccia di Gregory Peck. Unico libro degno di nota della Harper, anche ora, a quasi 50 anni dall’uscita, mantiene la sua forza, la sua freschezza, la sua dolente attualità. Un libro in fondo pieno di diversi, con i quali fare i conti. E sarà proprio uno tra i più bistrattati a salvare da una sordida fine i “Fintch brothers”. Vogliamo parlare del nero accusato solo perché nero? Dei benpensanti che vanno in giro a fare le ronde? Dei padri padroni? Forse sarebbe giusto, come sarebbe giusto proiettare nelle scuole lo stupendo film. A Maycomb, Jem e Scout (figli di Atticus Finch) un'estate conoscono un altro bambino, Dill, e fanno amicizia. I tre sono attirati da Arthur Radley detto Boo, considerato un uomo pericoloso e violento, rinchiuso nella casa accanto alla loro. Ma, col passare del tempo, si accorgono che Boo, senza farsi vedere, si preoccupa dei tre. Atticus spiega che è stato nominato d'ufficio per difendere un uomo nero, Tom Robinson, accusato di violenza carnale su una bianca, anche se sapeva che avrebbe perso. Al processo, Atticus dimostra, senza ombra di dubbi l’innocenza del nero e la colpevolezza di Bob il padre della violentata. Ma Tom viene condannato ugualmente da una giuria di bianchi. Durante una festa di Halloween Scout e Jem stanno andando verso casa, dopo la recita, quando vengono assaliti da un adulto. Nel luogo della lotta, alla fine viene ritrovato il corpo di Bob pugnalato al petto. Ho detto quasi tutto, ma lascio un po’ di buio, infondo alla siepe. Note di merito alla traduttrice (se è merito suo) che ha reso nel titolo molto dell’atmosfera. Infatti, in italiano, il titolo è una metafora: il buio oltre la siepe è ciò che è sconosciuto pur essendo vicino. Nel romanzo, è la figura di Boo, il vicino di casa dei Finch che loro non hanno mai visto e che, per questo, non conoscono. E infatti anche Scout afferma che, col tempo, la casa di Boo non la spaventava più, ma non le appariva meno buia. Nel testo, invece, ci sono diversi riferimenti al titolo originale (“To kill a mockingbird” che significa: Uccidere un usignolo). L' usignolo è un uccello innocuo, che delizia con il suo cinguettio. Uccidere un passero è quindi un peccato doppiamente grave.

Harper Lee “Va’, metti una sentinella” Repubblica Duemila 9 euro 9,90

[scritto il 12 agosto 2020, inedito]

Iniziamo dalla fine: ho messo la data ufficiale del libro, ma tutti concordano che sia stato scritto molto tempo prima. Tanto che il famoso buio della siepe, nella prima stesura, pare avesse questo titolo. Poi è stato preso, allungato, smembrato. Una parte è diventata il famoso e celebrato “To Kill a Mockingbird”, reso famoso anche da un’interpretazione cinematografica maiuscola di Gregory Peck.

Una parte è rimasta nell’ombra, che troppo dolorosa per il Sud Unionista ma anche per l’America in toto, con la sua denuncia del sostrato razzista che negli anni Cinquanta permeava tutta una gran parte del suolo americano. Ed è un peccato, questa scelta editoriale imposta alla brava Lee, che, didascalicamente, aveva un senso presentare prima questa America, e poi far capire come, per la correttezza e l’onestà personale, anche una persona con posizioni borderline, avrebbe dovuto comportarsi. Ne sarebbe uscito un manifesto per quella che ritengo una delle più belle frasi rimaste nella mia memoria. Il Voltaire cui si faceva dire: “Non sono d’accordo in una sola virgola di quello che dici, ma mi batterò fino alla morte perché tu possa dirlo.” (Non entro sulla lunga esegesi della estraneità di Voltaire al testo della frase ma non al suo senso di tolleranza).

Ragionando allora come se fossimo vicino alla compianta Harper, quasi un suo secondo Truman Capote, vediamo come si possa sviluppare il tutto. Il libro, nel suo complesso, si riferisce al Libro di Isaia della Bibbia, dove nel sesto versetto del capitolo 21 si dice “Poiché così mi ha detto il Signore: «Va', metti una sentinella che annunzi quanto vede...”. È un brano dove il profeta Isaia annuncia la caduta di Babilonia. Un brano che serve ad Harper per plasmare tutto il testo intorno alla caduta. Di tutti gli eroi che ha costruito, ma anche, cosa più importante, del mondo retrogrado dell’Alabama degli anni Cinquanta, ancora vicina all’Ottocento più che al Duemila.

In terza persona, seguiamo la nostra eroina, Jean Louise ‘Scout’ Finch, ventenne, emigrata in quel di New York, che torna per le festività nel paesello natio. Dove ritrova i suoi affetti: il padre Atticus, avvocato quasi pensionato, in declino fisico ma non mentale, la zia Alexandra, separata e bigotta, lo zio Jack, con le sue sentenze dotte ed iperboliche, ed Hank, quello che potrebbe essere il suo fidanzato, ma che forse non lo diventerà mai. Non trova invece il fratello Jem, morto tragicamente da qualche anno. Vediamo subito che Scout ed il resto della cittadina non sono in sintonia, soprattutto per quello che è il nodo principale del profondo sud dell’America: il rapporto tra bianchi e negri (non sono politically correct, ma non me ne importa). Vedendo i comportamenti dei suoi, in special modo di Atticus ed Hank, Scout si trova sbalestrata. Ha sempre pensato che comunque fossero tolleranti ed aperti al confronto raziale, mentre qui li vede immersi in un tessuto sociale che, se non frequentato, rischia di emarginarti. Scout non capisce che i suoi tentano di moderare gli animi, ma per farlo devono entrare in contatto, devono convivere con le pulsioni più retrograde. Lei, aperta e cittadina, vorrebbe invece affrontare tutto di petto. Scout dovrà fare un doloroso percorso interiore per arrivare a capire, anche se non ad accettare, quello che in particolare Atticus va facendo nella città. E noi ci domandiamo ancora quale sia il giusto modo di affrontare il problema (che ancora è aperto, in America ed in molte parti del mondo). Sarà un distacco mentale penoso ma necessario. Che avrebbe aperto ai ricordi di ‘Scout’ di quello che pensava essere l’atteggiamento aperto del padre, così che si poteva sviluppare, ricordato in prima persona, tutto quello che noi abbiamo letto ed ammirato ne “Il buio oltre la siepe”.

Ma se questo aveva un suo senso, non è questo quello che abbiamo vissuto. Siamo cresciuti nel mito del buon Atticus, e qui ci ritroviamo a doverlo far scendere dal piedistallo. Nel percorso inverso, non ci saremmo fatti illusioni, ma avremmo avuto una storia più aderente al vissuto locale, di Scout, ma anche di Harper, di Truman e di tutta la gente del Sud. A prescindere quindi dalle costruzioni e dalle ricostruzioni, devo dire che, se non ci fasciamo gli occhi con i pregiudizi, il libro è altrettanto potente dell’altro. Dato che ci pone la domanda fondamentale: per cambiare, bisogna sfasciare o cercare di erodere? Credo che sia una domanda che vada bene anche in altri contesti. Ce la facemmo noi cinquanta anni fa, e, personalmente, non ho ancora trovato una risposta convincente. Alla fine, quello che l’autrice mi comunica è che siamo umani. Quello che dice in più, partendo dal suo retroterra protestante, è che la Babilonia delle lotte raziali cadrà, come predice Isaia. Ma questa, purtroppo, è una questione di fede.

Finalino

Beh, questa volta credo sia stato proprio centrato. Seguire Scout e Atticus mina (o fortifica) la propria autostima. Quindi, che si legga. 

domenica 23 agosto 2020

Tea for Three - 23 agosto 2020

Gian Mauro Costa “Stella o croce” Sellerio euro 14
[A: 12/06/2018 – I: 11/03/2020 – T: 12/03/2020] &&&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 245; anno: 2018]
Non ho molto dell’autore, che del resto non è che sia prolifico. Fin qui un libro ed un racconto con al centro il radiotecnico investigatore Enzo, ed un racconto che introduce la poliziotta Angela Mazzola. Per pareggiare il conto con Enzo, ecco un romanzo con al centro la simpatica Angela. Costa, da buon giornalista sia della carta che del video, non ci delude anche qui per la scorrevolezza del testo, per le descrizioni dei luoghi, e soprattutto per l’ambientazione palermitana che da sola vale un punto in più. Leggermente meno invece per quanto riguarda l’intreccio noir. Facendo alcune congiunzioni tra i punti inziali del puzzle, avevo ipotizzato la soluzione alla comparsa di un personaggio, che si è rivelata esatta. Non avevo ancora capito tutte le intricate vie che il filo avrebbe seguito per creare la matassa. Ma già sembrava l’unica strada percorribile. Fortuna, per me e per Costa, che il noir è solo un di cui di un romanzo che ci dà alcuni altri spunti. Ad esempio, quello di seguire la vita e le opera di Angela Mazzola, giovane, intelligente e poliziotta. Proveniente da un quartiere, Borgo Nuovo, arroccato alle spalle della Zisa e dello ZEN (che non è un modo di meditare palermitano, ma l’acronimo di un quartiere tra i più degradati, la Zona Espansione Nord), quartiere chiuso e degradato. Da lì, per uscirne, la nostra Angela decide di fare le scuole come interna in un collegio di suore, poi dopo la maturità, continuare a studicchiare, mantenendosi con mille lavoretti, e facendo un corso da sommelier (che permette a Costa di continuare l’elenco di vini e buone bevute come aveva iniziato nelle storie di Enzo). Per poi entrare, con un po’ di sorpresa, nella polizia. Ora il poliziotto Angela inizia la sua carriera all’Antirapine (e seguiremo in parallelo tutta la storia per sventare una serie di rapine ben organizzate da una banda proto-mafiosa), ma si sente dentro il fuoco della poliziotta da Omicidi. Tramite il collega Santo (con il quale ha una mini-storia più di sesso che d’amore, e Costa ben tratta questa parte del personaggio, libero ma non senza regole, e comunque decentemente coerente) ottiene una minuscola appartamento con terrazza nella zona dell’Acquasanta, dominata dalla Villa Igea (ora un hotel di Rocco Forte) ma prospicente il mare, vicino alle spiagge dell’Arenella. Costa impiega una serie di capitoli, inziali e poi sparsi, per presentarci Angela e la sua vita, per poi farci piombare nel mezzo dell’intrigo. Che nasce casuale: una intervista giornalistica ad una signorina cui mesi prima è morta la zia, una parruccaia (non parrucchiere, ma fabbricante di parrucche) uccisa nel suo negozio, senza che la polizia trovasse moventi e colpevoli. Angela è stimolata dal fatto che la signorina era una sua collega nel collegio monastico, che la giornalista è stata sua collega nel corso da sommelier, e che si tratta di un omicidio, dove lei pensa di poter sviluppare le sue capacità. Unendo i primi due tratti, insieme alla giornalista Silvia comincia ad indagare: finte interviste ai personaggi coinvolti per ripercorrere gli interrogatori di sette mesi prima; coinvolgimento di Santo nel fornire copie di prove della Omicidi, tra cui il magico nastro di una telecamera; e tanti ragionamenti. Sia sui personaggi che sulla morta, che forse tanto limpida non era. Divorziata senza astio da un marito con il quale è ora in lite per un posto al cimitero (o meglio, era in lite prima di morire); fornitrice di parrucche a travestiti e futuri trans, come il pur simpatico, forse l’ultimo che ha visto la signora viva; ma anche di parrucche a donne in cure chemioterapiche. Che tra l’altro anche la zia di Angela potrebbe avere qualcosa, si fa visitare da un primo medico (di una antipatia unica), poi da un sodale di Angela, che fornisce la diagnosi esatta: diverticoli. Tutto si complica quando (ma io l’avevo detto al primo momento: se una volante della polizia deve passare alle 16:45 ed il nastro indica 17:45, di sicuro c’è un disallineamento dovuto all’ora legale) il nastro mostra discrepanze tra le varie testimonianze. E noi cominciamo a riflettere anche sulla morte di una cliente della parruccaia, avvenuta il giorno prima. Alla fine, la nostra Angela, fornisce gli elementi per chiudere l’indagine, per scagionare gli innocenti, per incastrare i colpevoli, per avere la promessa del suo capo che forse, chissà, potrebbe passare alla Omicidi, e per adottare Stella, un cucciolo di labrador. Perché, come dice zia Giuseppina, nei momenti topici della vita, si butta in aria una moneta: se riesce Stella andrà bene, altrimenti croce, e lo capite anche voi e non dico altro. Una lettura relax, in questi momenti difficili come diceva Tonino Carotone (e spero che sappiate chi sia).
“Tirò fuori il libro comprato il giorno prima. ‘La vera storia del pirata Long John Silver’ … l’aveva appassionata sin dalle prime pagine.” (102) [un libro veramente interessante, di Bjorn Larsson, un magistrale svedese; leggetelo]
Alessia Gazzola “Un po’ di follia in primavera” TEA euro 12 (in realtà, scontato a 3,60 euro)
[A: 13/09/2017 – I: 27/03/2020 – T: 29/03/2020] - &&& --
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 298; anno 2016]
Ed eccoci ad una nuova avventura della fortunata “allieva” di Alessia Gazzola. Che era allieva al primo libro, ed ora al sesto è quasi dottoranda e per noi rimane soltanto Alice Allevi. O “Elis” come dice il suo amato, ma forse non tanto, Arthur. Una scrittura che in parte riscatta la non tanto brillante prova precedente. È anche vero che il libro viene pubblicato durante l’ondata delle uscite in TV della seconda serie televisiva (quella con Alessandra Mastronardi e Lino Guanciale), cosa che, secondo me, dà qualche elemento di troppa fretta nelle uscite, e di sensazione che tutto sia permesso. Non è così, e quindi l’attenzione a volte si sposta troppo sul personale, laddove la vicenda gialla, quella che dovrebbe essere il motore della storia, risulta a volte zoppa, a volte scontata, a volte monca (alcuni punti avrebbero dovuto essere portati più avanti nelle loro conseguenze, e non lasciati morire lì). Quindi abbiamo la parte personale che diventa preponderante ed ingombrante, un po’ come stava diventando (ma poi si è un po’ frenata) la serie di Camilla Lackberg. C’è il rapporto amore – non amore tra Alice ed Arthur. Lui ha lasciato l’amato lavoro di reporter free lance, per stare con lei, la vuole in sposa, tanto che la madre torna dall’America per conoscere la futura nuora. Qui c’è veramente un siparietto inutile che porterà l’ex capo di Alice nonché padre di Arthur a convolare a nuove nozze con Kate, la madre e sua prima ex-moglie. Ovviamente ci sono le incursioni sentimental-lavorative di Claudio Contorti, il nuovo capo di Alice e a volte suo partner. In mezzo a tutto ciò non capiamo Alice dove vuole stare: buttarsi con Arthur? Lasciarlo libero che lui, spirito nomade, è bene parta sulle vie della redenzione del mondo? Buttarsi con Claudio? Decidere magari, senza mai buttarsi, quale sia la vita sentimentale che vuole seguire? Questo sarebbe l’ottimo per lei, come da sempre le consiglia l’amata Nonna Amelia. Ma Alessia, la scrittrice, non vuole mettere punti fermi a questo capitolo delle avventure, come avesse paura di deludere qualcuno (il pubblico televisivo?). Poi abbiamo la storia: la morte di un affermato psichiatra, Roberto. La nostra brava scrittrice fa di tutto per complicare la vita alla vicenda. Roberto è sposato con Eleonora, ma la tradisce assai (anche se mantiene un basso profilo). Eleonora a sua volta ha una storia con Andrea, violinista maestro della figlia, ma soprattutto figlio adottivo di una famiglia di grandi industriali farmaceutici. Adozione propiziata dalle perizie proprio di Roberto. Mentre poi in una prima fase (quella delle lezioni di violino) Roberto aiuta Andrea, quando scopre la tresca, comincia ad ostacolare lui e tutta la terra intorno. Come, ad esempio, traumatizzando la sorellastra Azzurra, togliendo ad Andrea ingaggi promettenti, ed altre piccole cattiverie che fanno risaltare a poco a poco la cattiveria interna del personaggio. Coperto solo in parte dalla sua assistente – aiutante Mathilde (ma perché quell’H?). E ponendoci domande su quale ruolo abbia Elena la sorella di Mathilde con lei affranta in pianto durante il funerale. Inframmezzato da citazioni e situazioni personali che alla fine sono un po’ “pallose”, la trama gialla si riduce ai cinque personaggi di cui sopra. Chi è l’assassino? La moglie stufa dei tradimenti nell’intento di farsi una nuova vita. Andrea per vendicarsi dei torti subiti. Azzurra esacerbata dallo stalkeraggio psicologico di Roberto psichiatra. Mathilde che a sua volta non sopporta la deriva autoritaria del lavoro medico di Roberto. Elena che non accetta più il ruolo di amante di secondo piano (ruolo che si poteva evincere sin dal funerale). Tra l’altro, come ho già notato, Alessia continua ad avere poca fantasia con i nomi, andando spesso a ripetere le iniziali in tutti i personaggi principali. Così come abbiamo Alessia e Claudio nella parte anatomopatologica, abbiamo Arthur (una A) il fidanzato di Alessia, abbiamo Cordelia (una C) la sorella di Arthur. In più qui abbiamo Andrea Cardinali e Azzurra Cardinali (una A ed una C) nel ruolo di sospettati. Nonché, per finire, l’ispettore Calligaris (un’altra C) nel ruolo di investigatore principe e unico a sostenere sempre Alessia. Una buona e veloce lettura, che non ha impegnato troppo le sinapsi cerebrali, lasciando riposare i due stanchi neuroni dell’attuale momento di non facile vita. Ma la scrittura c’è, così come il potenziale di crescere ancora sul fronte della serialità della storia.
“Il mio … itinerante, è uno che quando c’è c’è, e quando non c’è non esiste per nessuno. Queste sue assenze stimolano non solo la solitudine, ma alimentano anche il desiderio.” (88)
“La partenza è un momento di fine e di inizio, per affrontarla ci vuole coraggio. Non si smette di essere nomadi quando lo si è nell’anima.” (173)
“Chi ha scarso spirito matematico ben difficilmente comprende a fondo la realtà.” (193)
Gianni Simoni “La scomparsa di De Paoli” TEA euro 10 (in realtà, scontato a 8,50 euro)
[A: 16/08/2018 – I: 05/05/2020 – T: 06/05/2020] - && -
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 228; anno 2015]
Dopo sei mesi, torniamo a leggere gli scritti dell’ex-magistrato Gianni Simoni, nell’alternanza rigida delle sue due serie. Si era letto di Lucchesi, unico commissario di colore alla Omicidi, che qui torniamo alle storie sottotitolate “un caso di Petri e Miceli”. Non solo, ma anche la quarta ci dice che Petri costringe Miceli “a rimettersi in gioco”. Ora Miceli è praticamente in pensione, come da tempo il giudice Petri. E qui, se non fosse che compare qualche volta in Questura, che si fa qualche salto a casa sua per parlare delle indagini, che per lungo tempo avrà anche un raffreddore, non è che c’entra molto con le indagini. Che al solito ruotano intorno all’acume di Petri, e, talvolta, anche se qui meno, alla bravura del nuovo commissario che sostituirà a breve Miceli, cioè Grazia Bruni. Sebbene in altre storie poi il nostro Simoni esprime qualche passaggio interessante, qui siamo ridotti ai minimi termini. C’è un morto, c’è una possibile indagine, ma lo scritto vaga spesso per altri lidi. Soprattutto alle vicende private, alla vita intima di Petri, quasi fosse un Maigret in pensione, con tanto di moglie accudente e simpatica. O alle vicende del commissario Bruni, che ricordiamo nelle precedenti storie dilaniata tra il rapporto storico con il buon Maccari e la presenza nuova dell’ispettore Armiento, di bella presenza e di buon intuito. Il lato privato è anche aumentato dal fatto che il morto non è altro che un amico di Petri, il buon dottore De Paoli, che in altre vicende era presente come personaggio di contorno. Qui diventa centrale, in quanto ucciso nelle prime pagine, in modo cruento ed in luoghi non chiari. A noi lettori, visto che per le indagini il morto sembra ignoto, è ben chiaro da subito chi sia il morto. Solo i poliziotti impiegano metà libro per collegare i vari fili del discorso e trovare l’identità del morto. Dicevamo in luoghi non chiari, perché De Paoli viene trovato vicino a luoghi frequentati dalle belle di notte. Che oltre ad essere medico, il solitario dottore si prodigava per le sfortunate signorine, al fine di dare una mano, sanitariamente, o anche qualcosa in più. Come accade per la bella Roberta, che alcuni anni prima, toglie dalla strada per farne la cameriera. Suscitando le ire del “protettore” che non si mai rassegnato alla perdita. Inoltre, indagando a casa De Paoli, i nostri scoprono un astio mortale dell’inquilino a piano terra, che rimprovera al dottore non aver autorizzato un’amniocentesi per poi scoprire che la piccola Sara nasce con dei moncherini al posto delle braccia. Questi i due filoni che seguiranno le indagini: vendetta del pappone privato della bella o del “piccolo borghese” che imputa colpe non provabili. E saranno filoni che tormenteranno tutto il libro, insieme alla terza ipotesi di omicidio inutile a scopo di rapina. Tre filoni che sono di poco peso, ma che vedranno ogni volta aumentare il proprio, a fronte di intercettazioni telefoniche, di minacce velate, di orologi scomparsi. È inutile che vi dica che la soluzione arriverà, ma assolutamente fuori dai canoni “alla Van Dine”. Come se Simoni si fosse un po’ stufato di farci partecipare alle indagini, e ci porta il menu bell’e fatto senza che noi lo si riesca a gustare. Dobbiamo invece gustarci le peripezie, tra fumo e dolori alla schiena, del nostro Petri. Nonché la sua vena da “pater familias” risolutore. Laddove vede che il triangolo Bruni – Maccari – Armiento può portare complicazioni all’interno della Questura, Petri si occupa di indagare anche nella vita privata dei tre. Ovvio che la soluzione del privato è a portata di mano (e noi che abbiamo letto i libri precedenti lo pensavamo da tempo). Armiento, infatti, in una precedente indagine si era già invaghito di una simpatica dottoressa, con la quale presto convolerà, e fuori da Brescia, così che probabilmente in altri libri sarà fuori gioco. E Grazia, alla soglia dello scadere dell’orologio biologico, vedrà coronare il suo sogno di proliferare, anche se Maccari non sembrava all’inizio contento. Ma anche questa era una finta. Così che tutto finisce con probabili e successivi “happy end”. Rimane molto poco di altro: qualche passeggiata per una Brescia che non conosco, e che ora è sempre in cronaca per motivi legati purtroppo ai contagi, qualche lettura interessante (sottolineo “I fratelli Ashenazy” che legge il giudice), un buon film (l’indiano “Lunchbox”), e soprattutto la fobia di Petri per le scritte minacciose presenti sui pacchetti di sigarette. Tanto che compra solo quelli che invitano le puerpere ad astenersi. Insomma, una lettura che scivola via, senza molti sussulti, e che poco restituisce a chi non conosce già i nostri personaggi. Speriamo Simoni abbia qualche sussulto positivo in futuro.
“Si era accucciato per raccogliere dal pavimento un mozzicone … e non era più riuscito a rialzarsi, neppure aggrappandosi al bordo del lavabo.” (23) [ahi, come ti capisco, Petri!]
Barbara Bellomo “La ladra di ricordi” TEA euro 10
[A: 09/03/2018 – I: 01/06/2020 – T: 02/06/2020] - && e ¾
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 308; anno 2016]
Non indimenticabile, ma gradevole, almeno nella costruzione di alcuni personaggi e nella finta ricostruzione storica di alcune vicende della storia romana seguenti alla morte di Cesare. Non è un caso, infatti, che l’autrice sia una storica dell’epoca romana. Una scrittura agile e senza intoppi, che mostra una discreta scioltezza nel periodare, anche se poi, nell’intreccio, qualcosa di perde per strada. La scrittrice sembra proprio partire da esperienze personali, visto che la protagonista, Isabella, è una dottoranda in storia, e si trova in quel di Todi, insieme ad altri due dottorandi, al fine di perfezionare una ricerca storica ed accedere a posizioni museali importanti. Non è quindi un caso che quando si mette a tracciare le linee della vita universitaria Barbara Bellomo abbia la mano agile: parla e ci mostra cose che ben conosce, e che non è un caso epigrafi con la bella citazione di Corrado Alvaro. Amicizie e solidarietà, venate e spesso inquinate da arrivismi ed altri egoismi. Come l’utilizzo del proprio corpo come merce di scambio per ottenere posti vantaggiosi. Isabella ha anche un altro grande problema, sottolineato dal titolo. È affetta da cleptomania compulsiva, cioè rubacchia piccoli elementi che incontra per via, come fossero ricordi da immagazzinare in una sua scatola privata. Ovvio e facile da predire che proprio da quella scatola, alla fine salterà fuori il pezzo del puzzle che permetterà di ricostruire in modo coerente tutta la vicenda gialla. Che in effetti, lo sfondo globale non è un dotto excursus universitario, ma una morte e le sue indagini. I personaggi sulla scena sono quindi i tre professori che gestiscono i dottorandi, insieme al loro assistente, i tre dottorandi, uno studente e sua nonna. È lei che contatta il professor Nardi per un consiglio su di un cammeo, ed è lei che subito dopo viene trovata uccisa. Nardi allora si prende cura del nipote, Carlo, e coinvolge Isabella in quanto esperta in cammei d’origine antica. Tutto ruota infatti su questo cammeo scomparso, che sapremo in modo diagonale essere d’origine romana, regalo di Fulvia, moglie di Marco Antonio, alla figlia Claudia, undicenne sposa del ben noto Ottaviano. La scrittrice, ben edotta della storia romana, ci porta a fare un dotto excursus sulla storia romana, sul triumvirato succeduto alla guida di Roma a seguito della morte di Giulio Cesare. Tralasciando questa parte, interessante ma non coinvolgente, sappiamo che di dono in dono il cammeo arriva sino alla signora poi uccisa. Isabella, con la sua esperienza, risale questo crinale di notizie, scoprendo che l’ultimo posto conosciuto dove si ha notizie del cammeo era un Museo di Catania. Ed è lì che lei con Nardi si reca per indagare sulla scomparsa ai tempi della Guerra. Le notizie e le vicissitudini lì si complicano: cammeo appartenente ad una famiglia ebrea, poi omaggiato al Museo, e da lì scomparso per riapparire nella casa di un potente boss mafioso. Nella cui famiglia si verifica un doloroso lutto (che alla fine verrà svelato) collegato con la futura morta. Che in realtà era la governante della famiglia, che dopo quella morte si allontana dai mafiosi per rifugiarsi in Umbria, dove partorisce e si sposa. Siccome i due avvenimenti avvengono in quella sequenza, si capisce che il marito non è il padre. La signora vive molto agiatamente, fino a quando la figlia muore, ed il flusso di denaro che veniva dalla Sicilia si interrompe. Avrete capito bene perché. I sospetti del commissario (figura marginale ma utile alla maturazione di Isabella) si appuntano proprio sui mafiosi. Anche se alla fine, benché tutto si colleghi, il responsabile ultimo si rivela di altro ceppo. Forse era prevedibile, ma è un po’ un altro coniglio che esce dal cilindro di una trama gialla poco avvincente. Rimane il concorso, dove Isabella viene osteggiata da uno dei docenti che vuol far vincere la sua amante. Amante cui si oppone Nardi, e quindi risulta vincente il terzo e più debole incomodo. Isabella avrà i suoi successi professionali, anche se in direzioni diverse da quelle che attendeva. Meglio, il divertente rapporto tra Nardi ed il nipote Carlo. Tirando le somme, Bellomo riesce ad imbrogliare bene le carte, non ci fa troppo annoiare, anche se la cleptomania di Isabella, che doveva essere il motore primo della vicenda, rimane sempre latentemente presente e non sviscerato fino in fondo. Quindi, bene una certa fotografia del mondo universitario, bene alcune figure, discreti gli estratti storici, meno bene il narrato giallo e la sua risoluzione. Alla fine, un risultato discreto, con una scrittrice da rivedere in altre prove.
“Corrado Alvaro: La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile.” (5)
“Per me leggere è divertimento. La cultura, lo spirito. Sono queste le cose importanti. Il resto passa, si perde. Ma quello che sai lo tieni per te, sempre.” (203)
Essendo la seconda trama d’agosto, vi regalo la solita lettura aggiuntiva dedicata ai supereroi di carta o di carne.
Pensavo di riposarmi nel mio buon ritiro, ma le vicende mediche mi forzano di supporto a Roma. Caldo e posa voglia di fare. Speriamo sia inappetenza normale. Per poi tornare a viaggiare, come il nostro amico Lucio. 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

AGOSTO 2020

Ed anche questo mese una volontà altra, quella di essere dei supereroi e prendere a sberle tutti i Covid del mondo.

SUPEREROE, VOLER ESSERE UN

Michael Chabon “Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay”

  1. M. Homes “Questo libro ti salverà la vita”
Aspettate un po’ - non ditecelo. Avete in mente un costume in lycra, rosso e blu. Siete indecisi su quale superpotere scegliere. Qualcuno tra voi crede ancora che la tiara di Wonder Woman riesca a fermare i proiettili, alle sue facoltà telepatiche e all’incredibile velocità con cui scrive a macchina (centosessanta parole al minuto, se volete saperlo). Non vi sentite di escludere che un giorno possiate guidare un veicolo simile, se non proprio identico, alla Batmobile. Ogni tanto, infine, mentre vi dedicate alle attività quotidiane, vi immaginate sopra la testa una nuvoletta con dentro scritto «Woosh!», «Barn!», «Kaboom!» o magari «Pzzow!». 
Bene, tutto OK. Crescendo, di solito passa. A voi non è successo.
Avrete già letto e adorato “Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay” di Michael Chabon, l’epica vicenda di Josef Kavalier e Sammy Clay, disegnatori di fumetti. Cavalcando l’onda degli anni d’oro del fumetto, i due creano una serie di supereroi, a partire da L’Escapista che nel 1939 «corre in aiuto di chi soffre, oppresso dalla tirannia e dall’ingiustizia», e combattono contro Hitler con la penna e l’inchiostro. Joe e Sammy non diventano tuttavia dei veri supereroi, ma se cercate un mentore letterario che vi insegni come si fa noi conosciamo la persona adatta.
Richard Novak, protagonista di “Questo libro ti salverà la vita” di A. M. Homes, non è più in grado di provare emozioni dopo un divorzio, tredici anni prima, e quando si è trasferito in California ha lasciato a New York il figlio di quattro anni, Ben. La sua vita adesso rappresenta il volto più artificiale della moderna Los Angeles: vive in una casa che sembra una scatola di vetro sulla parete di un canyon, splendidamente isolato dal mondo grazie a un paio di auricolari che cancellano qualsiasi rumore, e interagisce solo con la donna delle pulizie, la nutrizionista, il massaggiatore e il personal trainer. Un giorno ricomincia a provare qualcosa - a cominciare da un dolore fisico travolgente e dalla diagnosi impossibile - e a poco a poco gli altri iniziano a entrare nella sua vita: Anhil, il proprietario del negozio di ciambelle, Cynthia, la casalinga frustrata, e Tad, il vicino di casa, una stella del cinema «incredibilmente sexy». Di lì a poco inizierà a infrangere le regole - beve caffè («Vero caffè?» domanda la nutrizionista, inorridita. «Con vero latte?»), fa spuntini a base di ciambelle, scoppia in lacrime, schiaccia un pisolino... e vuole «essere di più, fare di più... essere eroico, sovrumano - salvare qualcuno da un edificio in fiamme, saltare sui tetti». In altre parole, vuole essere un supereroe.
Da appassionati, i vari gesti eroici di Richard - come quello che secondo noi è il migliore inseguimento in autostrada di tutta la letteratura - vi metteranno in soggezione. Ci vorrà quel ciarlatano del suo medico, Lusardi, per sottolineare che forse tutto questo salvare altre persone significa in realtà salvare sé stessi. Quando Ben, che ormai ha diciassette anni, finalmente compare sulla soglia di casa, Richard è pronto a cercare di salvare il rapporto più importante di tutti.
La verità è che non si può diventare un supereroe se prima non si ha sofferto. Richard è sensibile ai bisogni degli altri ma ciò che lo spinge, in realtà, è il disperato bisogno di sistemare le cose con Ben e recuperare almeno in parte ciò che ha perduto. Se la vostra motivazione è rimediare agli errori del passato e migliorare l’esistenza altrui, allora anche voi potete essere dei supereroi.
Bugiardino
Due libri interessanti, letti abbastanza tempo fa, ma comunque interessanti. Sia per le avventure dell’escapista sia per quelle dello “scappato”.
Michael Chabon “Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay” BUR euro 12
[tramato il 1° maggio 2015]
Un libro interessante, che potrebbe anche aspirare a qualche cosa in più, tra valutazioni e segnalazioni, ma che soffre di qualche pecca poco sanabile. Prima di tutto, la lunghezza che seguire per 800 pagine le straordinarie, fantastiche avventure dei due cugini è impresa non da poco. E secondo, mi domando con che criterio e con quali motivazioni questo libro sia stato premiato con il Pulitzer nel 2001. E terzo, ma in un certo qual modo collegato al primo, Chabon mette molta carne al fuoco, riempiendo il romanzo di molti spunti a loro volta degni di trattazione propria. Non parlo comunque degli “intarsi” (così li definisco io) in cui le storie pensate dai nostri irrompono e si mescolano sulla scena. Il libro, visto nella sua globalità, e nello spirito del premio ricevuto, è una saga del modo di vivere americano, ed un omaggio ad un settore produttivo, quello dei “comics” che proprio dell’americanità è stato un campione ed un esempio. Ho di proposito usato il termine americano, piuttosto che il nostro “fumetti”, che induce una visione riduttiva del fenomeno e della diffusione che l’utilizzo del disegno e della scrittura combinati hanno avuto in America, ed hanno poi diffuso in tutto il mondo. Certo, potremmo dire che un po’ ovunque, in Italia come in Giappone o soprattutto in Francia, hanno avuto vita propria ed un loro percorso anche differente. Qui Chabon, prende lo spunto nel narrare la vita di due cugini dediti appunto ai fumetti, per narrare, con capacità, uno spaccato americano che potremmo individuare dal ’39 al ’54. Quindi anni di fuoco, per quella che venne etichettata come “L’età d’oro dei supereroi”. Che nasce nel ’38 con l’irruzione sulla scena di Superman e finisce con le tristi audizioni della commissione McCarthy per le attività antiamericane. La storia è seguita attraverso le vicende di due cugini: Sam Clay e Joe Kavalier. Il primo vive da anni in America, diciamo vivacchia, barcamenandosi tra piccoli lavoretti e idee grandiose. Joe invece sta a Praga. Qui seguiamo tutta la prima storia: Joe è ebreo, c’è l’invasione della Cecoslovacchia, tutte le repressioni che iniziano verso gli ebrei, Joe che ha il mito di Houdini, ha un maestro che gli insegna vita e prestigiazione, tenta di emigrare legalmente, ed inutilmente, poi fugge dentro una finta bara che dovrebbe contenere il mitico “Golem” di Praga. E questa del Golem è tutta una storia a sé, che percorre inizio e fine del romanzo, forse funzionale per il ricongiungimento con le radici ebraiche e con i miti del Vecchio Mondo, ma che a me personalmente ha lasciato decisamente freddino. Joe arriva alla fine a New York, e Sam scopre le sue doti sia di mago che di disegnatore. Sam invece ha una testa piena di storie, e Chabon ce ne racconta brani, ogni volta immergendoci in situazioni di avventure, di intrecci ed altro. I due allora tentano (e con successo) di proporre le loro idee ad un editore di giornali popolari. Nasce così “L’Escapista”, un supereroe che, sfruttando le sue doti alla Houdini, comincia a lottare contro le forze del male. Qui c’è la parte migliore del libro, dedicata alla vita bohemienne in minore dei grafici degli anni Quaranta. Lì a disegnare, a ripassare a china, a proporre ed a vendere e con successo le loro storie. La vita dei due cugini scorre così in parallelo, con Sam che, pur non accettandola fino in fondo, scopre la sua omosessualità. E Joe che fa di tutto per aiutare i parenti in patria, per farli emigrare, prendendo a pugni tutti i tedeschi che vivono a New York. Non è facile seguire tutte le vicende che si intersecano a questo punto. I fatti salienti, mentre prosegue la vicenda della scrittura dei comics, sono l’incontro di Joe con Rosa, ed il loro amore, il tentativo, abortito, di Sam di vivere la sua sessualità, la ricerca di far espatriare il fratello di Joe, su di una nave che i tedeschi affondano, la crisi di Joe che decide di arruolarsi e combattere, non dando più sue notizie per anni, la nascita del figlio di Rosa e Joe (ma Joe non lo sa), la vita di Joe nelle basi polari, la sua guerra privata, il matrimonio di facciata tra Sam e Rosa, il piccolo Tommy che cresce. Nella parte finale, assistiamo alla crisi del mondo dei fumetti nel dopoguerra, al tentativo di reinventarli, alla vita quotidiana di Rosa, Sam e Tommy, al ritorno, dopo dieci anni, sulla scena di Joe. Ed alle agnizioni finali. Nonché alla chiusura di alcune riviste perché “contrarie allo spirito americano”. C’è tutto il tempo per vedere come cresce Tom, come si riavvicinano Tom e Joe, prima, e poi Joe e Rosa, e come Sam fa delle scelte, e via discorrendo per tutte le lunghe pagine del romanzo. Quello che esce fuori è un inno d’amore verso i “comics”, al quale, per la mia storia personale di lettore non posso che associarmi alla grandissima, uno spaccato sulla vita degli ebrei americani, dai rapporti tra loro a quelli con i genitori (e mi viene sempre in mente la mamma ebrea dei film di Woody Allen), la nascita dei sogni americani (se sai fare sfonderai nella vita, la villetta a schiera dei benestanti, i neri che non sono ancora non dico integrati ma neanche considerati). Insomma, un libro complesso nella sua struttura, gradevole e stimolante nelle sue idee, leggermente prolisso per una riuscita vincente su tutta la linea. Seppur letto con fatica nelle notti settembrine, prendetelo anche voi in considerazione, magari per un’estate sotto l’ombrellone. Piccola notazione per le traduttrici: se si parla dei Dodgers di Brooklyn stiamo parlando di football non di calcio!!
“Di solito evitavano di porsi domande come: È normale comportarsi come facciamo noi? Oppure: Che senso hanno le nostre vite?” (727)
A. M. Homes “Questo libro ti salverà la vita” Feltrinelli euro 9 (in realtà, scontato a 6,75 euro)
[tramato il 29 novembre 2015]
Non è che non sappia come si chiama (il suo nome completo è Amy Michael Homes), ma questo con i punti è il suo nome da scrittrice, quello con cui firma tutti i suoi lavori. Cinquantenne newyorchese, a me prima di questo libro ignota, pur nella non completa riuscita del libro, mi ha incuriosito, divertito, ed anche fatto riflettere qua e là. Le prime cinque pagine mi stavano frenando, come se non si riuscisse a decollare. Poi sono stato preso dalla vicenda di Richard, ma, soprattutto, dall’uso che fa la scrittrice di un racconto per fare critiche alla società americane ed alle sue degenerazioni palesi. Con l’abilità di farmi, in fondo, fare il tifo per lo sballottato Richard, anche se non è proprio l’esempio del paladino dalle mille virtù che ci si aspetta per farne il tifo. Richard ha un pacco di soldi, essendo un abilissimo online trader che vende e compra azioni come fossero noccioline, ed in questo che non sembra essere un gran lavoro, accumula dollari su dollari. Ad un certo punto si separa dalla moglie, molto più di lui work-aholic come si dice oggi in America, lasciandola a New York con il loro figlio Ben e trasferendosi a Los Angeles. Qui vive in una villa su una collina, si mette cuffie con musica la mattina, si allena sul suo tapis roulant mentre la sua tata accudisce la casa, mangia la sua colazione ed i suoi pranzi che gli prepara la sua nutrizionista, interrompe il collegamento con il PC per un po’ di ginnastica con la sua Personal Trainer, e poco altro. Guarda la collina del suo mondo, e sta lì, ibernato, tanto che la tata gli dice che sono 35 giorni che non parla con nessuno. Il punto di crisi, la “zeppa” che viene messa nell’ingranaggio è un dolore che sente al petto. Sto per morire? Un infarto? Dalla visita al pronto Soccorso comincia un percorso suo per comprendersi, tanto che tutti cominciano a non “riconoscerlo” più. Si “interessa”! E gli capitano tante cose, cui, forse, prima neanche avrebbe scorto. Si crea una buca in giardino che sta per inghiottire il cavallo di una sua vicina, che lui e un vicino famoso che si scopre poi essere un grande divo del cinema, salvano con un elicottero. Vagando per il quartiere con la sua Mercedes in leasing incontra un immigrato indiano che fa delle ciambelle favolose, che entrano a poco a poco a sostituire i creali che punteggiano la sua vita. In un super mercato incontra una donna che piange e … le parla. Un altro incontro che sarà di buon auspicio per il resto del libro. Diventano amici e lui la incoraggia a seguire una nuova vita, lontano da un marito violento e da figli che si accorgono di lei solo se non cucina o non lava i panni. Lo strano (per il mondo di L.A.) è che saranno solo amici. Per un terremoto la casa minaccia di crollare, e lui si trasferisce a Malibu. Dove incontra uno vicino stralunato, che si dimostra essere uno scrittore di grido. Dove adotta un cane. Dove, dopo anni, fa di nuovo sesso (ma non con l’amica di cui sopra). Dove lo raggiunge il figlio Ben che ha deciso di fare il coast to coast con il cugino Barth. E lunghe saranno le difficoltà che Richard e Ben dovranno superare per avvicinarsi e comunicare realmente. E Richard capirà quello che aveva già capito ma non vissuto: la necessità di Ben della sua figura, anche distante, ma in modo da scambiarsi parole e sostenersi a vicenda nei momenti di crisi. Richard continua a fare il buon samaritano, salvando una signorina che stava per essere rapita da un bruto, facendo regali a tutti, senza volere niente in cambio (ricordate i discorsi sui doni), pagando l’operazione all’anca alla sua tata. Ed avendo anche un riavvicinamento, almeno verbale, con l’ex-moglie. Fortunatamente Holmes non spinge tutto verso l’happy end, che sarebbe uno stucchevole strato di miele su di una storia che invece, anche se facciamo il tifo, è ben amara. E si ipotizza che, benché sperso su di una zattera davanti alla spiaggia di Malibu, Richard ci sarà, per gli altri, e soprattutto per Ben. Il piacevole della scrittura è che tutta questa scrittura, che potrebbe essere solo una specie di sceneggiatura per un mélo americano (alla Paul Mazursky) diventa una critica serrata della società americana: incomunicabilità, passione per il “cibo sano” ma solo se lo dice la nutrizionista, macchine in leasing, attori che fanno i simpatici, lo scrittore che scrive i suoi capolavori perché si isola, ginnastica che “deve” essere fatta (tapis roulant e piscina in casa), divorzi senza parole, famiglie che pensano la donna solo come serva, e tutte le peggiori insensatezze americane (fino al dottore che cura bene ma che si scopre non essere laureato). Certo, non un capolavoro né un libro immancabile, ma ho trovato la nostra scrittrice capace di gettare un bell’occhio sulla realtà americana attuale.
“[della mia infanzia] io non mi ricordo niente … e poi, tutto a un tratto, mi torna un pezzetto e penso: ma guarda, me n’ero completamente dimenticato.” (236)
“Non basta dire ‘mi dispiace’ come se significasse qualcosa.” (258)
Conclusioni
Mi aspettavo una critica maggiore su Chabon, e magari le citazioni di qualche Marvel o DC Comics. Un po’ deluso dei miei ricordi fumettistici, mi consolo pensando ai quotidiani eroi della mia amica a fumetti, ormai molto francese. Bonjour, Luaná!

domenica 2 agosto 2020

Uomini del Duemila - 02 agosto 2020

Alcune trame fa si parlava delle donne di questa collezione. Come dice il titolo, ora vediamo quattro autori maschi. Con una simmetria interessante: due nella polvere e due sugli scudi. E con una constatazione altrettanto importante: nella polvere ho inviato Martin Amis (nonostante la simpatia per la sua matrigna) e Bret Easton Ellis, mentre sopra gli scudi della sufficienza si pongono l’interessante Lilin (anche con tutti i dubbi sulla sua scrittura) e Moehringer (anche prima della scrittura a due mani e una voce con Agassi).

Martin Amis “La casa degli incontri” Repubblica Duemila 35 euro 9,90

Martin Amis “La casa degli incontri” Einaudi s.p. (vedi la trama)

[A: 18/09/2017 – I: 22/03/2020 – T: 25/03/2020] - &

[tit. or.: House of Meeting; ling. or.: inglese; pagine: 220; anno 2006]

Incominciamo con spiegare il “finto” mistero della doppia indicazione. Nell'agosto del ’19 avevo cominciato a leggere il libro, e lo avevo portato nel nostro viaggio irlandese. Per una sbadataggine, a me insolita, è rimasto nel B&B di Sligo. Tornato in Italia ho cercato di ritrovarlo, ma l'editore, dopo due anni, lo aveva mandato al macero. Tuttavia, dopo lunghe ricerche, sono riuscito a procurarmene una copia integra, seppur di Einaudi, presso “Il corbaccio”. Ed è questa che ora ho letto e di cui parlo.

Avevo sempre avuto in mente la famiglia Amis principalmente per il padre Kingsley e la matrigna Elizabeth Jane Howard. Ma soprattutto del padre avevo letto e apprezzato i saggi sulla fantascienza, in particolare quello per me basilare in gioventù sulla definizione delle nuove vie della science-fiction (“Nuove mappe dell’inferno”). Di Martin invece non avevo letto nulla. Devo dire che questo primo incontro non è che mi ha dato particolare soddisfazione. L'ho trovato a volte insopportabile ed a volte illeggibile, con la sua pretesa di scrivere da russo in soggettiva come internato in un gulag sovietico. Capisco le due immedesimazioni che l'autore faceva: una con l’esule Nabokov, uno dei suoi numi tutelari, l'altra con il suo esilio volontario in Uruguay, dopo le scarse considerazioni ricevute in patria dagli ultimi suoi scritti. Ma questo non fa di lui un russo, e la visione che dà della parabola sovietica dal 1945 al 2004 è una visione molto occidentale. Certo, Amis confessa di aver letto molto sulla Russia e sui gulag, e, ciò nonostante, non riesce a darmi la sensazione di un russo che parla in soggettiva. Ma, come è ovvio, di un occidentale che tenta di interpretare il mondo sovietico con i suoi occhiali dell'Ovest.

La storia è un lungo memoir di questo ex-soldato dell'Armata Rossa, partecipe alla Seconda Guerra Mondiale, violento e stupratore (durante la guerra). Internato per qualche motivo politico (non chiarissimo) quando da poco aveva avuto un primo approccio con quella che sarà sempre il faro sessuale della sua vita, Zoya. Nel campo, collocato oltre il 69° parallelo nord, oltre la città di Murmansk (quella dove in inverno ci sono 40 giorni in cui non sorge mai il sole), lo raggiunge il fratellastro minore Lev. E tutto il libro, che poi sarebbe una specie di lunga lettera dell’autore alla nipote Venus che vive in America, è incentrato sul rapporto di amore-odio tra i due. Lev, al contrario del narratore, è brutto, e per di più pacifista. Così che riesce a sopravvivere nel gulag solo per la protezione del fratello maggiore. Assistiamo a tutta una serie di capitoli dedicati alla descrizione della vita nel gulag, al rapporto tra i condannati, e tra questi ed i secondini. Ma è veramente una sequela di parole che poco prendono. Condite da due fatti epocali: la confessione, ad un certo punto, di Lev che dice non solo di amare anche lui Zoya, ma di averla sposata, e la successione dei fatti russi, di cui lì in Siberia si hanno solo echi lontani. Certo, molto si allenta alla morte di Stalin. E molto cambia dopo il discorso di Kruscev del ’56. Lev ed il fratello sono liberati. Lui torna a Mosca. Lev torna con Zoya. E poi Lev divorzia, Zoya sposa un vecchio letterato passato indenne in tutte le purghe dagli anni Trenta in poi. Lev si risposa, ha un figlio che morirà in Afghanistan. Fino a che Lev stesso morirà. Mentre il narratore troverà il modo di fuggire in America dopo la caduta del Muro. Cercherà di convincere Zoya a venire con lui, senza successo. Poi, ed è qui che inizia e si chiude il romanzo, torna ottantenne lì dove era il gulag, facendo quasi un percorso che ricalca idealmente quello dei campi di sterminio di Carlo Levi. E lì finalmente riesce a leggere la lettera del fratello che gli descrive il momento saliente della sua (di Lev) vita nel gulag. La visita, dopo anni di richieste, di Zoya, e la loro riunione nella “Casa degli Incontri” (quella del titolo), dove marito e moglie potevano avere, una tantum, un incontro, ed una giornata tutta per loro, con tanto di cibo e sesso. Ci sarà un interessante finale, che tralascio, ma che non mi ha risollevato le sorti dello scritto.

Certo, anzi molto probabile, che tutta una serie di passaggi siano anche paradigmi di avvenimenti altri, messaggi criptati che l'autore lancia sulla carta e che qualcuno più aduso di me sia alle cose russe che a quelle inglesi, probabilmente riuscirà a decifrare. Io annoto solo la noia di una neppur tanto lunga lettura, giustificata solo dalla mia tenace a leggere tutto quello che è presente nella mia libreria, ed a passare il tempo in questi giorni di segregazione forzata, indotta da questo malanno epocale che ci sta affliggendo. Ma ce la faremo: ad uscirne ed a leggere altro.

“Più eri intelligente, più eri candidato alla depressione.” (141)

“Questa cosa, al pari di tutte le altre, non è ciò che sembra; l'unica certezza è che è peggio di come sembra.” (176)

Nicolai Lilin “Educazione siberiana” Repubblica Duemila 37 euro 9,90

[A: 02/10/2017 – I: 29/03/2020 – T: 31/03/2020] - &&& e ½

[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 412; anno 2009]

Un romanzo interessante scritto da un autore complesso e controverso. Un moldavo che una quindicina di anni fa si trasferisce dalla natia Tansnistria nel Nord Italia, dove continua a fare il tatuatore, mestiere a lui congeniale fin dalla gioventù. E dove concepisce questo libro per raccontare quella che dovrebbe essere la sua infanzia. Ora, ricercatore più bravi e conoscitori di me delle cose russe, dicono che come autobiografia è improbabile, tra l'altro, citando avvenimenti e fatti diversi che sembrano storicamente non verificati. Ma lo scritto io l'ho letto anche come una trasposizione della realtà come poteva essere in quel tempo ed in quei luoghi. Da questo punto di vista, mi è risultata una lettura interessante e con alcuni spunti degni di nota. Che poi l'autore sia stato davvero un cecchino in Cecenia, un agente segreto in Iran per poi, ora, vivere in Italia è un dettaglio. Lilin (pseudonimo derivato dal nome della madre Lilia, piuttosto che dall’impronunciabile cognome Verzhbitskiy) decide poi di scrivere i suoi testi (questo ed altri sei o sette libri) in italiano e di bloccare le traduzioni dei suoi libri in russo (forse per evitare confutazioni o altri motivi di cui poco ci interessa indagare i motivi).

Il romanzo, comunque, autobiografico o meno, ci immerge nella vita di una comunità che vive con regole proprie: quella dei “criminali onesti”, secondo la definizione dello stesso Nicolai. Criminali che hanno un loro codice di comportamento, che osteggiano l’autorità costituita, siano essi poliziotti che russi invasori. Che si rapportano in modo variegato con le altre comunità criminali stanziali nella città natia di Bender. Nicolai (anche indicato con il diminutivo di Kolima) nasce lì da una famiglia siberiana, lì rifugiatasi durante le persecuzioni sovietiche degli anni Trenta. Anzi, è tutta una comunità di siberiani che si installano nella regione, cuscinetto tra la Moldavia e l'Ucraina. Quindi, benché di nazionalità moldava, l’educazione che riceve il nostro, è, come dal titolo, siberiana. Cioè, a parte le attività criminali, rispetto religioso delle icone ortodosse, rapporti familiari caratterizzati da una obbedienza cieca ai maggiorenni ed agli anziani, soprattutto a quelli indicati con il termine di “nonno” e di “zio”, che non sono qualifiche parentali, ma appellativi di rispetto. C'è tutto un rituale nei rapporti umani tra le persone della comunità che viene descritto con interesse: rispetto delle persone in difficoltà (mentale o fisica), aiuto reciproco con chi agisce in nome della comunità (e che poi non riesce a sostentare sé stesso), rispetto anche delle donne della comunità stessa (non delle altre che possono anche essere usate come gingilli sessuali). La parte più intrigante è la descrizione di due caratteristiche peculiari dei siberiani locali: l'uso delle armi e l'uso dei tatuaggi. Lilin mostra un gran rispetto per le armi, in particolare per il primo pugnale ricevuto da uno “zio”, e poi dalla prima pistola ricevuta in dono da un “nonno”. Le armi che vanno deposte quando si entra in una casa siberiana, accanto alle icone sacre. Ma che vengono usate e spesso nei confronti delle altre comunità. Ancora più interessante è l'uso dei tatuaggi. Che (e questo è proprio di molte comunità in giro per il mondo, tipo maori o altro) servono a raccontare sé stessi, la propria vita, i propri credi. Non sono mai dei disegni fini a sé stessi, né vengono posti casualmente nel proprio corpo, ma ne seguono un iter ben preciso. Tanto che lo stesso Lilin, abile nel disegno, diventa un tatuatore provetto, e che ora, in Italia, ha un proprio atelier di tatuaggi. Nella scorribanda della vita di Nicolai, quindi, lo seguiamo da dodicenne che cerca di carpire i segreti degli anziani, sia sui tatuaggi che sulle regole di vita. Fino ai diciotto anni, quando sarà costretto ad arruolarsi nell’esercito. Vediamo Nicolai andare in giro con i suoi coetanei, essere coinvolto in risse, fughe ed altre “amenità” (consegnare messaggi, portare omaggi, salutare parenti in modo formale, ed altre attività quotidiane). Sino al lungo capitolo in cui, infarcito di altre storie, ci porta alla ricerca degli autori dello stupro ad una ragazza autistica della comunità siberiana, con tutte le scaramucce per trovare i colpevoli, fino alla loro esecuzione brutale.

L’ho trovato, tutto sommato, un libro interessante, anche se, per apprezzarlo, bisogna fare un bagno di irrealtà: solo così si può percepire come positivo il modo di vivere dei giovani siberiani. Certo, mi lascia distante tutto lo sfoggio di brutalità, tutto lo sfidare la vita come non ci fosse un domani. Per Nicolai ed i suoi compari siberiani, vivere o morire fa parte di un momento dell'esistenza, scandito dal raggiungimento della consapevolezza delle proprie azioni, siano esse al di fuori di leggi stabilite. Se si fa questa sospensione della realtà, risulta un interessante libro di iniziazione ed anche di amicizia e solidarietà. Altrimenti, la sua crudezza è troppo fuori dal mio ordine mentale per essere compresa. Per quello che ho percepito, ho gradito. Ma non andrò per ora a visitare quei luoghi (a parte il fatto che non possiamo muoverci per ora dalle nostre case).

“L’uomo vive seguendo la ragione, quindi ha bisogno di una parte della vita per fare sbagli, un'altra per poterli capire, e una terza per cercare di vivere senza sbagliare.” (83)

Bret Easton Ellis “Lunar Park” Repubblica Duemila 41 euro 9,90

[A: 01/11/2017 – I: 24/04/2020 – T: 26/04/2020] - & +

[tit. or.: Lunar Park; ling. or.: inglese; pagine: 442; anno 2005]

È il primo libro che leggo di questo che viene considerato uno degli esponenti di punta di tutta una generazione di scrittori, identificata con il nome collettivo di “Brat Pack”, includendo altri scrittori come Tana Janowitz e Jay McInnerney. Una generazione che andava di pari passo con i loro coetanei attori (Andrew McCarthy e Demi Moore). Ma che devo molto al ceppo primario di genio e sregolatezza che negli anni ’50 veniva soprannominato Rat Pack (il Gruppo di Las Vegas con Humphrey Bogart e Lauren Bacall insieme ai loro amici Frank Sinatra, Dean Martin, Sammy Davis Jr. e Peter Lawford). E quelli della Brat Pack si davano (nella vita e nella scrittura) ad analoghe sregolatezze: cocaina come piovesse, sesso ed altre amenità. Tanto che Ellis viene ricordato maggiormente per il suo secondo libro, “American Psycho”, che se non avete letto, ne avete visto il film, o ne avete sentito parlare. Ma non di questo voglio dire, né dei suoi amici, né di altri divertissement di contorno. Perché siamo alle prese con un libro, e con una delle peggiori letture che abbia fatto negli ultimi tempi. Soprattutto perché mi aspettavo momenti di interesse e coinvolgimento. Dove qui, a parte l'idea di fondo del romanzo, la scrittura, lo svolgimento ed il finale sono di una noia mortale. 

L’idea, infatti, parte da una finta autobiografia, in cui l'autore ripercorre (con qualche licenza) la genesi dei suoi primi romanzi e della prima parte della sua vita. Con una (quasi) coincidenza con lo scrittore, tanto che, ad una lettura disattente, potrebbe sembrare reale. Dopo di che, Ellis comincia con il narrare quelli che potrebbero essere gli avvenimenti che l’io scrivente vive in poco più di una settimana, a partire dal 30 ottobre (che un'attenta ricerca del sottoscritto collocherebbe nel 2003, e non nel 2004 come dice Wikipedia). Qui c'è la fiction che si svolge su alcuni binari di comunicazione e di investigazione interiore. Si capisce la fiction dal fatto che lo scrivente parla di moglie, di bambini suoi, e di bambini della moglie, quando ben sappiamo (e ce lo dice anche la dedica rivolta al suo compagno morto) che Ellis è omosessuale. Ma la finzione serve ad investigare il tipo di mondo che un autore del “Brat Pack” è “obbligato” a percorrere: feste, inviti, riunioni varie, appuntamenti a Los Angeles per sceneggiature che non andranno a buon fine (laddove avrebbe dovuto incontrare Harrison Ford), e grandi party a base di alcool e droghe varie (dove fa la comparsa un cammeo di Jay McInnerney). La parte preponderante, anche molto onirica purtroppo, è invece dedicata ai rapporti tra padre e figlio. Una parte reale, laddove ripercorre e non risolve mai il suo rapporto con il padre Martin. Un padre che divorzia quando Bret ha 18 anni, e che vive una vita sua, che lui non capisce. Si dice (o almeno ne fa trapelare in altri scritti) che era un padre violento forse base di fondo del personaggio di Patrick Bateman, il protagonista di “American Psycho”. Una parte fittizia, laddove cerca di capire come rapportarsi al “finto” figlio suo, Robby, ed alla sua figliastra Sarah. Ma se della seconda si ha poca traccia, nel rapporto con il sedicenne (o nella mancanza di rapporto) in realtà cerca di capire, di approfondire il suo mancato rapporto con suo padre. E se tutto questo fosse scritto in maniera consequenziale forse si riuscirebbe meglio a seguirne l’evoluzione. La scrittura di Ellis invece, mescola finto e reale, con puntate assolutamente folli.

Come il fatto che c'è tutta una sequenza di morti, che ripercorre le morti da lui descritte in “American Psycho”. E non solo nel libro pubblicato, ma anche nella prima stesura, che non aveva letto nessuno. Tanto per inserire elementi gotici nella trama. Che tuttavia rimangono sterili. O tentativi di dire attraverso altro. Come il fatto, che lì, nell’assurda comunità in cui vive, cominciano a sparire ragazzi coetanei di Robby. Che qualcuno vuole uccisi, ma che una sua vicina (allucinata allo stadio finale) vuole sia un ripercorrere di altre storie. I ragazzi andrebbero a rifugiarsi a “neverland”, ma non nella città di Elvis, bensì nel mondo adolescente ed onirico a sua volta di Peter Pan. La scrittura procede molto velocemente, saltando dentro fiumi di abusi alcolici e di droghe varie, lasciando lo scrivente sempre sfasato rispetto alle situazioni. E non ci meravigliamo né che non riesca a risolvere i contrasti con il proprio padre, né che venga abbandonato sia da Robby (fuggito anche lui verso “neverland”) e di conseguenza anche dalla moglie attrice.

C'è sempre uno sfasamento quindi tra Ellis, il protagonista e il mondo esterno. Vogliamo parlare di incomunicabilità? Forse troppo facile, dato che sembra difficile comunicare con un alcolizzato che si ritrova nei posti più assurdi senza sapere come. E che vede mondi immaginari che il mondo reale non capisce, non percepisce, non sa. Alla fine, mi è parso decisamente poco interessante, senza che riuscisse a comunicare sentimenti e sensazioni. Una grande capacità di scrittura messa al servizio di una trama e di un romanzo inconsistente. Vorrei solo citare l'unica cosa che mi ha divertito: c'è un pupazzo maligno che la piccola Sarah chiama Terby, e che letto al contrario ci porta a “ybret”, cioè un modo colloquiale per dire “why Bret”. Perché Bret? Me lo chiedo ancora a libro chiuso.

J. R. Moehringer “Il bar delle grandi speranze” Repubblica Duemila 40 euro 9,90

[A: 01/11/2017 – I: 27/04/2020 – T: 30/04/2020] - &&& e ½  

[tit. or.: The Tender Bar; ling. or.: inglese; pagine: 523; anno 2005]

Ovviamente, come tanti, di Moehringer avevo letto la scrittura dell'autobiografia di André Agassi (per saperne di più potete sempre andare a recuperare al 24/11/2013), apprezzandone la scrittura. D’altra parte, J.R. (che chiamerò così per brevità e per volontà sua) è un buon giornalista (il buon non lo decido io ma il Premio Pulitzer da lui ricevuto nel 2000) ed il modo scorrevole con cui le pagine girano una dopo l'altra ce lo conferma. Intanto, spero che qualche anglofilo più agguerrito di me riesca a spiegare meglio il titolo. Perché so che “Bar Tender” sta per barista, e ricordo che “tender” dovrebbe riferirsi alla barra su cui si appoggiano i piedi quando si prende qualcosa in piedi in un pub.

Certo, il “Publicans” della nostra storia, il bar (o pub, meglio) intorno a cui ruota tutto il romanzo, ha dentro e intorno a sé grandi speranze. Ma non so se il titolo rispecchia le idee dell’autore. Per ora, mi sono goduto la scrittura giornalistica dell'autore, che in effetti, scorre e piacevolmente. In realtà, devo dire che, pensando ad Agassi ed a quanto avevo letto, credevo fosse un libro di ricordi sportivi, o di sportivi che si ritrovavano in un pub a parlare del loro passato e del loro futuro. Il libro è diverso, essendo un lungo biografismo dell’autore dagli otto (circa) ai ventisei anni. E si capisce allora perché se ne sia innamorato Agassi, laddove la trama di fondo è comunque il rapporto – conflitto tra J.R. ed il padre. In ogni caso, tolte di mezzo le mie ed altrui aspettative, è una gradevole lettura in cui seguendo passo passo la vita di J.R. vediamo anche uno spaccato americano che i meno attenti forse non conoscono.

In primo luogo, per l'ambientazione del libro. Che si svolge per la maggior parte non solo dentro il Publicans, ma anche e soprattutto nella città di Manhasset, che vedete subito non possa essere molto distante da Manhattan, avendone un’etimologia similare. Ma il quartiere abitativo è anche interessante non solo come luogo di pendolarismo verso la grande mela, con una bella baia vicino, ma anche perché luogo deputato delle vicende del “Grande Gatsby” di Fitzgerald. J.R. ce ne parla ad ogni piè sospinto, ma non è questo il suo motore della vita. Che rimane la curiosità verso la gente e la capacità, che aveva anche la nonna ed il magnifico zio Charlie, di narrare. Loro erano narratori vocali, J.R. riesce a tradurre le magie delle parole in scritti, così come dovrebbe essere per i bravi giornalisti. Vediamo allora J.R. bambino seguire la voce del padre che abbandona la famiglia (e fa bene che mi sembra non sia una bella persona), e che fa il d.j. su varie radio americane. E quando scompare, a J.R. rimane la voce, tanto che si attacca a “La Voce” per antonomasia, cioè Frank Sinatra. Dalle prime schermaglie con i nonni, e staccandosi dalle narrazioni nonnesche e passando alla mitizzazione dello zio. Con la madre che rimane sempre una bella figura, che non pretenderà mai di prevaricare il figlio, ma che sarà sempre contenta dei suoi successi (e delle sue scelte). Frequentando lo zio, J.R. entra in sintonia con il pub. Charlie è uno dei baristi del grande Steve, l’inventore del pub, e dei miti intorno al pub, e dei soprannomi alla gente che lo frequenta. Vediamo nel tempo J.R. andare alle secondarie, frequentare una mitica coppia di librai che lo instradano sulla strada del vizio di leggere, e che riusciranno a convincerlo ad andare a Yale. Lo vediamo all’Università laurearsi comunque, anche se sinceramente non è che abbia ancora capito come funzioni il sistema: ci si laurea e poi ci si specializza in qualcosa? Boh! J.R. ha comunque per tutto il periodo di Yale (e per molto tempo) un amore spasmodico per la bella Sydney, amore che non andrà a buon fine, come molte passioni muliebri di J.R. (anche se poi sposerà la bella Shannon, di cui nel libro non c'è traccia). Poi va a fare il fattorino al NYT, sperando di diventare giornalista. Lo vediamo arrancare, scrivere anche buoni pezzi, ma non riuscire a sfondare. Tanto che alla fine deciderà di lasciare il NYT e di farsi le ossa in provincia. Che sappiamo aveva già provato essendo la madre fuggita ad un certo punto in Arizona, e lì rimasta. La fuga gli consente di ritrovare il cugino McGrew che fuggì per lasciare il baseball. Ed altri affetti. Anche un finale con ritrovamento e lasciamento del padre. Verso una carriera nel Los Angeles Times, ed il Pulitzer del 2000.

Ma tutto quanto ho detto è il contorno, che tutto poi, oltre che con J.R. ruota col Pub ed ai suoi personaggi: Joey D, Puzzolo, Mavaffa, Cager, Bob il Poliziotto, Peter, Dalton, e tanti altri che non mi ricordo (e che forse non ha neanche senso ricordare). Che quello che si ricorda è la solidarietà dei frequentatori del pub, le amicizie, le zingarate, e tutte le bevute. Un romanzone di formazione, di entrata ed uscita nell’alcool, e di speranze, che si realizzano, almeno per l'autore. Che magari non sarà al NYT, ma diventerà un lavoratore della penna, e realizzerà qualche sogno. Magari non tutte le speranze (e lì vedremo, intorno al Publicans, caderne tante di speranze, quasi che per far riuscire J.R. tutti gli altri devono perdere). Ripeto, ringrazio la penna giornalistica di J.R. che fa scorrere le oltre cinquecento pagine agevolmente, che ci fa anche piombare in una parte del sogno americano che non molti conoscono: lo spostarsi da uno stato all’altro in cerca di lavoro, girando per mille chilometri come non per dieci; il pendolarismo; la voglia di stare con altri, anche se la vicinanza non è amicizia; le separazioni delle famiglie; gli odi che nascono e non si sopiscono. Insomma, io oltre al pub ci ho visto un certo tipo d’America, ed una lettura trasversale che non mi è dispiaciuta. Sono contento, alla fine, che J.R. abbia raggiunto un suo traguardo.

“Ogni libro rappresenta un momento in cui una persona in silenzio … cerca di raccontare a noi una storia.” (169)

“Essere soli non ha niente a che fare col numero di persone che si hanno intorno.” (285)

“Capii che dobbiamo mentire a noi stessi di tanto in tanto, dirci che siamo forti e capaci, che la vita è bella e il duro lavoro avrà la sua ricompensa, e poi provare a trasformare le nostre bugie in realtà.” (491)

Siamo proprio al primo week-end di agosto, ed insieme ai saldi, ecco che commentiamo i 18 libri letti nel mese di maggio. Con due belle fughe in avanti: il memoir storico-autobiografico di Giorgio Amendola e lo scritto nordico di Dag Solstad. Mentre precipitano in fondo alle classifiche sia Lemaitre (di cui non capisco il successo) sia una breve scrittura di Stefan Zweig, che invece generalmente gradisco.

#

Autore

Titolo

Editore

Euro

J

1

Andrea Ballarini

Giallo Viola

Repubblica Noir

7,90

3

2

Stefan Zweig

Notte fantastica

Repubblica Duemila

9,90

1,5

3

Andrea Ballarini

Viola nel Bordeaux

Repubblica Noirissimo

7,90

3

4

Teju Cole

Città aperta

Repubblica Duemila

9,90

3

5

Gianni Simoni

La scomparsa di De Paoli

TEA

10

2

6

Clive Cussler & Justin Scott

Fuga

TEA

9,90

2

7

Shifra Horn

Quattro madri

Repubblica Duemila

9,90

3

8

Pierre Lemaitre

Irène

Repubblica Noirissimo

7,90

1

9

Giorgio Amendola

Un’isola

Rizzoli

s.p.

4

10

Sayed Kashua

La traccia dei mutamenti

Neri Pozza

s.p.

3

11

Franco Pulcini

Delitto alla Scala

Repubblica Noirissimo

7,90

2

12

Chinua Achebe

Il crollo – Ormai a disagio

Mondadori

s.p.

3

13

Dag Solstad

Timidezza e dignità

Corriere Boreali

8,90

4

14

Leonardo Padura

Passato remoto

Repubblica EmozioneNoir

7,90

3

15

Wilbur Smith

Gli angeli piangono

Longanesi

s.p.

3

16

Kaho Nashiki

Un’estate con la Strega dell’Ovest

Feltrinelli

s.p.

2

17

Leonardo Padura

Venti di Quaresima

Repubblica Noirissimo

7,90

2

18

Alicia Giménez-Bartlett

Dove nessuno ti troverà

Sellerio

15

3

 

Mese d’Agosto, mese di ferie? Domanda legittima, per noi che, come diceva la canzone, passiamo “una vita in vacanza”. Ma c'è chi lavora, e che allora si stacca e si parte. Purtroppo, e lo sapete bene quanto mi manca, niente uscite dai confini. Si va in Sicilia, isola tra le isole, e si tornerà, freschi e riposati, all'ombra della faggeta.