domenica 28 settembre 2014

Conferme - 28 settembre 2014

Titolo ambiguo di questa settimana, dedicato a letture “di genere”, che, appunto, confermano quanto di buono e di cattivo possa riservare questa scrittura. Leggo l’osannato libro di Alessia Gazzola, e confermo che è interessante. Leggo il primo libro della saga del commissario Miceli, e confermo che ne leggerò altri. Leggo un vecchio libro ambientato a Palermo e scritto tanti anni fa da Silvana La Spina, e confermo che avrebbe scritto altro di interessante. Leggo l’ultimo libro della serie di Camilla (ultimo che nel frattempo Pederiali è morto) e confermo di non aver ancora capito perché ne ho letti 4!
Gianni Simoni “Un mattino d’ottobre” TEA euro 12
[A: 15/04/2013– I: 28/04/2014 – T: 01/05/2014] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 294; anno 2007]
Avevo sentito parlare di questo magistrato in pensione che comincia a scrivere di quello che sa: la vita ed i casi di magistratura e polizia. Da magistrato aveva indagato su molti e importanti casi (da alcune Brigate Rosse a Sindona ed altro). Da scrittore sicuramente ci dà un’immagine molto accurata e veritiera di quello che accade durante un’indagine. Le forze in campo, gelosie e amicizie, metodo e fortuna. Ho aspettato che fosse ripubblicato il suo primo libro, dove cominciamo a conoscere quelli che, secondo la quarta, sono gli eroi dei suoi scritti: il giudice in pensione Carlo Petri ed il commissario Miceli. Devo dire però che la prima impressione è che la bilancia, non a caso, punti più sul magistrato che sul poliziotto (una proiezione?). Comunque, l’ho trovato scritto bene, anche se comincia a decollare dopo una cinquantina di pagine, quando più si danno spazio alle indagini ed alla descrizione dei vari componenti della “squadra”. Sul giudice torneremo più avanti, intanto abbiamo il commissario che immaginiamo una sorta di Maigret verso fine carriera, con tanto di moglie e paternalismi vari. Poi c’è l’ispettrice Grazia Bruni, romana (l’azione si svolge a Milano), bella, rossa di capelli, intelligente e solitaria; c’è l’agente Maccari, giovane e dotato di grande acume e capacità di collegamenti (oltre ad essere segretamente innamorato della Bruni); c’è il contro-altare, l’ispettore Rosati, tronfio ed arruffone, oltre a sentirsi piacente e conquistatore; e ci sono i Gianni e Pinotto della squadra, gli agenti Grasso e Tondelli, che discutono dei casi alla Flaubert con l’acume appunto dei due comici (anche se ricordiamo per inciso che i due comici si chiamavano in realtà Abbott e Costello). Il caso, che parte proprio una mattina di ottobre (e si concluderà solo a Natale) nasce da una serie di coincidenze che fanno precipitare una valanga. L’ingegnere Rava, con moglie un po’ sciatta, sta andando in cantiere quando è distratto da un’improvvisa telefonata al cellulare. Scarta di lato, e la sua auto è presa in pieno dal furgone di Anselmi che, in ritardo, correva un po’ troppo. La carambola finisce ai limiti di un giardino investendo ed uccidendo la piccola Giulia Strambi, sfuggita al controllo della tata Santina, distratta dai colloqui con il suo spasimante Sandro. Il Rava va in coma, ma dopo una quindicina di giorni viene ucciso nel suo letto d’ospedale da due colpi di pistola. Dopo di che nasce una catena di morti: Anselmi, Letizia Strambi (la madre di Giulia, che poi si scopre essere l’amante del Rava), Santina, Sandro. Poi un colpo a vuoto: il meccanico di Rava mirato ma non colpito. Poi l’edicolante di Rava stesso. La squadra, dove ancora non entra nel vivo il nostro giudice, è sballottolata tra il non riuscire a collegare tutte le morti (che la storia di Santina e Sandra non era nota) e l’ipotesi che dietro a tutti ci sia l’avvocato Strambi, il padre di Giulia, distrutto dalla morte della figlia e forse improvvisatosi giustiziere solitario. Ammiriamo Maccari nella sua capacità di leggere giornali e verbali, e cominciare ad ipotizzare un collegamento. Così come fa l’ispettore Bruni, pensando alla pistola (sempre una calibro 22) ma senza che le scatti una domanda fondamentale (chi possiede armi?). In tutto ciò, l’unica cosa positiva che fa il commissario Miceli è coinvolgere il suo vecchio amico ed ex-giudice Petri nelle indagini. Ed il nostro fa subito i collegamenti giusti. Il colpo a vuoto risulta anomalo, e si scopre che sia voluto. Parlando con una vecchia vicina allo svolgimento dei fatti scopre il legame tra Santina e Sandro. Ed avvia l’indagine che porta alla scoperta che la pistola la possiedono l’avvocato, la moglie di Rava ed il meccanico. Escludendo quest’ultimo (difficile cercare di auto-colpirsi) rimangono i due, che noi lettori capaci ed esterni avevamo subito pensato fossero gli unici reali possibili colpevoli. Sarà una mossa azzardata di Petri che scatenerà la paura e darà modo di chiudere il cerchio. Insomma, per riprendere l’analisi della squadra, Petri risalta come l’unico che si fa le domande giuste, anche se non ha le risposte. Così come deve fare un investigatore degno di questo nome. Mi chiedo solo com’è che in Polizia nessuno si sia fatto le stesse domande e gli stessi collegamenti (forse solo Maccari, che però è l’ultima ruota del carro). Per concludere, un bell’impianto, qualche tentativo di depistaggio, ma una buona mano che conduce i fili del gioco. E bene anche le caratterizzazioni dei personaggi (a me sta più simpatica la Bruni, comunque). Mi sa che se ne leggerà ancora.
Alessia Gazzola “L’allieva” TEA euro 12
[A: 15/04/2013 – I: 01/05/2014 – T: 03/05/2014] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 374; anno 2011]
Alla sua uscita, il libro della trentenne Alessia Gazzola ebbe un buon successo di critica e di pubblico. Io ho aspettato pazientemente l’uscita in economica, poi ho aspettato di volerlo leggere, facendo passare un tempo giusto (secondo me) che avrebbe smussato le voluttà mediatiche per lasciare i sedimenti dello scrivere. Devo dire che sono contento del libro. Non stravolge le categorie di bellezza, né assurge a vette inarrivabili di capolavoro, ma è un libro che si legge, che scorre, che ha un discreto mix di tensione e ironia, nonché un sottofondo di sentimenti e di umanità che non guasta. Certo, Alice Allevi, l’allieva di patologia medica non può essere annoverata (come ci fa credere la quarta) come epigono di Kay Scarpetta. Non ne ha il ruolo, forse non ne ha ancora le capacità. E soprattutto, la medicina forense in Italia non ha quel ruolo di preminenza nelle indagini come quella d’oltre oceano. In compenso, la scrittrice (forse memore delle sue vicende personali) ben descrive l’ambiente post-universitario italiano, con gli arrivismi, i nepotismi e le gelosie (pubbliche e private) che (purtroppo) caratterizzano il panorama italiano. La dottoressa Allevi, come detto, è al secondo anno di specializzazione in medicina legale, ultimo (o quasi) gradino della piramide dell’Istituto, con a capo il Supremo, anglo-italiano di molte capacità, con a livello professori una serie di chiare tipologie italiote, di cui seguiamo al meglio il dr. Claudio Conforti, tutor della nostra, galletto sempre pronto alla battuta equivoca verso le donne, e nei cui confronti Alice ha un certo trasporto. E poi gli specializzandi, con la battaglia per i pochi posti tra la nostra (capace, ma insicura e svagata), Lara (la migliore, per sua sfortuna bruttina) e Ambra (la vamp, che utilizza tutte le sue armi per la carriera). La storia prende le mosse dalla morte di tal Giulia, fortuitamente incontrata da Alice poche ore prima della morte. Seguiamo le varie fasi delle analisi forensi: autopsie, esami tossicologici, esami di presunte prove, test di DNA e affini. La vicenda complessa deriva dalla presenza di una strana famiglia alle spalle della morta. Orfana di genitori, con sorella Bianca tornata dagli USA per darle sostegno, vissuta con gli zii, e con un cuginastro (figlio di primo letto della moglie del fratello della madre di Giulia) in attesa di convolare a giuste nozze con l’abulica Doriana. Giulia viveva sola, con l’amica Sofia. Ed insieme si davano alla tossicologia non spinta (spinelli a gogò, all’inizio, poi eroina solo sniffata, ma poi chissà). Gli esami dei nostri (dove ogni volta Alice riesce a fare un po’ di casino) mostrano che Giulia ha avuto rapporti prima di drogarsi e prima di assumere del paracetamolo (cui è allergica) che le provoca lo choc anafilattico e la morte. Tutti, commissario in testa, propendono per tragica casualità. Solo Bianca non sembra convinta, e convince Alice (che comincia a frequentare la famiglia della morta per la casuale conoscenza di cui sopra) a cercare altre strade. Cosa che Alice fa, andando prima sul bordo, poi decisamente fuori della legge. Tutto questo mentre la sua situazione in istituto è sempre più precaria. I capi vogliono bocciarla, e tutti i casini che combina non l’aiutano certo. Ma in seguito alle sue analisi parallele, scopre che Giulia si è drogata con una persona diversa da quella con cui ha avuto rapporti, che ha litigato ferocemente con una donna prima di morire. Istigata da Bianca, scopre che Giulia aveva rapporti sessuali con il cuginastro, la cui futura moglie era responsabile della lite poco prima della morte. Tuttavia, anche Bianca ha un debole per il cugino, e lei, come tutta la famiglia, sa delle allergie di Giulia. I ragionamenti di Alice porteranno il commissario sulla giusta strada, anche se in Italia spesso i colpevoli non pagano il fio delle loro azioni. Ma il commissario è grato ad Alice, e le propone una consulenza che sarà foriera di altri libri. In tutto ciò, non ci dimentichiamo che Alice si innamora di Arthur, giornalista free lance, casualmente figlio del Supremo. Che Arthur, dopo la breve storia con Alice, parte per il Sudan dove si ammala di malaria. Nel frattempo fa in modo che le doti di patologo della bella risaltino (e Alice sarà promossa), ed anche se senza prospettive, Alice lo raggiunge in Sudan, perché l’amore è l’amore. La storia tra i due non sembra avrà molto respiro, ma ci sono delle pagine discrete tra di loro. Tralascio le beghe dell’Istituto e la scalata di Ambra attraverso il letto del professore, che concedo ai fortunati lettori di questo libro direi tipicamente estivo. Da relax sotto l’ombrellone. Comunque un relax intelligente e ben scritto.
“Mi sento morire quando sto fermo nello stesso posto per più di due mesi. Quando torno a casa, ho già voglia di ripartire. È una curiosità infinita del mondo ma, forse, anche una forma di instabilità. Sono un irrequieto, di fondo.” (120)
Silvana La Spina “Morte a Palermo” Et al. Euro 9
[A: 13/12/2013– I: 05/05/2014 – T: 07/05/2014] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 201; anno 1987]
Avevo intravisto questo libro a “Più Libri Più Liberi”, ma poi mi ero scordato di prenderlo. L’ho poi ritrovato da Feltrinelli e mi sono detto che poteva valere la pena di leggerlo, sebbene fosse datato. Intuizione corretta, che è un libro piacevole e ben scritto. Devo dire tuttavia che durante la lettura mi aspettavo qualcosa di più, qualcosa che invece non è scattato, lasciandomi l’impressione di un libro con maggiori possibilità, se solo fosse stato scritto qualche anno dopo. Che è il primo libro della scrittrice siciliana, ancora forse pieno di troppi desideri inespressi. Tanto che la parte “gialla”, pur ben congeniata, si complica man mano la vita, sino a risolversi in una soluzione direi forse scontata (data la costruzione che se ne fa intorno). Piacevole se non altro, invece, l’inserimento di un personaggio finto – reale che funge quasi da contraltare di noi lettori, dando voce ai ragionamenti che si fanno nel corso della lettura. E non è difficile scorgere nell’anziano Honorio Bustos Domecq, cieco scrittore con dama di compagnia, la figura di un Borges che, realmente, trascorse giorni a Palermo e vi fece anche una lectio brevis sul concetto di metafora. Per i miei lettori di scarsa memoria, ricordo che Bustos Domecq è stato uno pseudonimo, presto svelato, di Borges stesso, durante la scrittura di alcuni racconti polizieschi (di trama, ovviamente) che il vate argentino produsse nelle sue lunghe stagioni di scrittura. Avrei forse speso qualche parola in più, nella postfazione della stessa Silvana, visto che il libro uscì proprio poco tempo dopo la morte di Borges stesso. La presenza di “Borges” consente anche alla scrittrice un bel gioco di citazioni, in primis sulle metafore, ma poi anche più strettamente connesse alla trama. Che il morto, su cui si innesta tutto il racconto, è un professore di storia antica che sta per pubblicare un libro sulle influenze cretesi in Sicilia, e su eventuali e possibili ritrovamenti cretesi nell’isola. E viene ucciso, e poi “affogato” in una cisterna, così come il buon Teseo, quello che liberò Arianna, complice il filo, dal labirinto (e qui le citazioni con Borges si sprecano) del Minotauro. Poi c’è il secondo morto, o meglio morta, la moglie del professore, uccisa e poi impiccata così come Arianna quando scopre la morte di Teseo, che si impicca dal dolore (e non ripercorro la ben nota storia). Il tutto si muove in uno dei più intriganti scenari cittadini, quello appunto di Palermo. Sia per la città stessa che per il mondo di potenti e di ricatti che ben si conosce (o che dovrei dire ora ben si conosce, forse trenta anni fa era meno palesemente noto). Come non aver un moto di simpatia, verso la scrittrice che fa muovere i personaggi ora alla Kalsa ora a Ballarò? E soprattutto, quando gran parte della storia si muove in piazza della Marina, con quei bei giardini che tanto mi piacciono. Nei bei palazzi intorno alla piazza stessa, tra cui il Palazzo Chiaromonte Steri, teatro di molta parte della vicenda. Peccato solo non faccia neanche un salto nella mia chiesa favorita, la bellissima Santa Maria della Catena. Il mondo dei potenti invece è visto con gli occhi ed i sentimenti del commissario Santoro incaricato delle indagini. Poiché il morto è persona ben nota, si ha subito paura di scoprire altarini vari. E lì intorno si muovono il barone spiantato che si interessa di giardini (e di labirinti), l’architetto rampante (e Dedalo stesso, l’artefice dei labirinti, era un architetto), il prete in odore di troppa accondiscendenza verso chi muove i fili delle borse, il professore nemico giurato del morto, assistenti universitari rampanti e senza scrupoli, politici pronti a cambiar bandiera al primo soffio di vento. Il commissario segue un suo ragionamento, corredato da tracce ben visibili (a chi le sappia vedere, che tracce palesi sono invisibili, come dimostrò cento cinquanta anni fa “La lettera rubata”, per chi ha buona memoria) ed arriva all’individuazione del colpevole, che ovviamente ha mascherato il crimine per evitare che le scoperte archeologiche del morto portino a cambiamenti negli assetti di investimenti per … Ma il commissario vi arriverà secondo, che Borges, seguendo il suo ragionamento letterario (non a caso appunto ogni passo è citazione e metafora) arriva alla scoperta del colpevole. E ce lo dirà, con un bel ragionamento, anche se dovrà confessare che non può portare prove in merito. Ci penserà Santoro… Qualche sospensione per farvi leggere il libro. Soprattutto per convincervi di fare una passeggiata a Palermo con lui. Un ultimo punto dolente (bisogna pur fare qualche critica, no?) è la scarsa attenzione della scrittrice a svelarci i meccanismi ultimi in particolare della prima uccisione. Si sorvola un po’ troppo, e ciò non giova alla comprensione globale del testo. Che, e qui chiudo, in ogni caso, mi è piaciuto (e non è neanche troppo invecchiato).
“Ogni mattina lo specchio gli rimandava una faccia sempre più simile a quella del padre.” (111)
“In fondo le certezze servono solo agli imbecilli.” (195)
Giuseppe Pederiali “Camilla e il rubacuori” Garzanti euro 9,90 (in realtà, scontato a 7,43 euro)
[A: 18/06/2013– I: 05/07/2014 – T: 07/07/2014] - && e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 313; anno 2010]
Stranamente, misteri del caso, della cabala, della lettura, di chi volete voi, leggendo un precedente episodio dell’ispettore Camilla Cagliostri nel 2012 chiudevo con queste parole: “Chissà cosa leggerò tra due anni?” ora rispondo, un po’ profetico ed un po’ mesto. Ho letto il quarto ed ultimo episodio della serie di Camilla, perché, purtroppo, lo scorso anno, Pederiali è deceduto in seguito alle complicazioni di un incidente stradale. Quindi, senz’ombra di dubbio, non si leggerà altro di Camilla. E pur rimanendo una serie non eccelsa, questo mi è risultato leggermente meno indigesto dei precedenti. Non che sia migliorata la trama, sempre un po’ piatta nella parte “gialla”, né l’ambientazione generale, anche se guardo sempre con occhio benevolo Modena e dintorni. Un po’ c’entra il gioco del titolo, un po’ l’affetto per una persona che, pur diversa da me, tante volte ho incrociato nelle mie letture (spesso indirettamente, soprattutto in gioventù nel versante delle opposte visioni fantascientifiche). Il titolo dicevo. Che Camilla sappiamo essere un ispettore ed una donna un po’ fuori le regole, molto intuito (nelle indagini) e molta spontaneità (nella vita privata, un filo libertina). E se ci si aspettava il rubacuori come una lotta tra polizia e un gigolò, ci troviamo invece di fronte ad un serial killer che uccide le sue vittime … rubandone il cuore. Dopo due uccisioni similari, Camilla ed il suo gruppo si vedono quindi sulle tracce di qualcuno che sceglie le sue vittime anche in funzione del cuore stesso. E la parola “cuore” entra come tormentone per tutto il libro: persone di buon cuore, cantanti di basso profilo che hanno per sigla “Cuore” di Rita Pavone, tentativi d’adescamento sotto le spoglie di un concorso su “Cuore d’oro”, voyeur innamorati di “Cuore matto” di Little Tony. Pederiali si è sbizzarrito su questo versante. Ma non contento, ha inserito anche una variante che discende dai suoi vecchi amori su misteri ed altro, inserendo le vicissitudini egizio - tolteche sul cuore, sulla bilancia che lo pesa insieme ad una piuma. Inserendo nel contesto altre due morti legate all’estirpazione del cuore dal petto. Noi attenti lettori capiamo bene che i due filoni sono disgiunti, cioè gli assassini sono senz’altro due. E con Camilla decidiamo di seguire il primo, quello che uccide le giovani donne. Quello dove Camilla si propone da esca con un articolo sul giornale locale. Quello dove, da pagina 1, capiamo sarà coinvolta la giovane Danila, diciassettenne sorella dell’amante di Camilla. Pederiali ha buon gioco nel condurci in giro per l’Emilia e per possibili sospetti, ma non ci trae in inganno. Sappiamo che il cattivo deve essere uno con dei traumi profondi, e come ci insegnano i profiler americani, uno cui ad un certo punto sia scattato un meccanismo di follia. Legato magari ad una ricorrenza. E mentre la macchina delle indagini procede farraginosa, Pederiali ha anche buon gioco nel mostrare le inconcludenti misure prese dalle forze dell’ordine, inclusa una task force di cervelli conoscitori di assassini seriali e di cuori estirpati. Cerca anche di farci cadere nel tranello verso quest’ultimo esperto, l’archeologo conoscitore dell’Egitto, cui dei balordi, anni prima, hanno rapito e ucciso moglie e figlia. Ma intanto Danila scompare, Camilla (contro ogni regola) si mette in cerca da sola, capisce improvvisamente i retroscena, si presenta nella villa del cattivo, che ormai sappiamo tutti chi sia. Ed ovviamente cade in trappola. Sarà salvata dall’archeologo che in extremis riesce ad uccidere il cattivo, strappandogli il cuore. Perché lui è l’altro assassino (lo sapevamo da tempo, era facilino anche questo), ma un assassino “etico”, che i due morti sono coinvolti nella tratta di organi umani dal terzo mondo e nel riciclo di rifiuti tossici in Somalia. Il finale lascia intuire che, se non fosse sopraggiunta la morte di Giuseppe, avremmo avuto altre puntate. Che Camilla si salva, ma l’archeologo riesce a fuggire. E di sicuro sarebbe stato il protagonista di un possibile quinto romanzo. Invece salutiamo Camilla, i suoi facili amori (ma anche felici), la sua spregiudicatezza, e la sua avvenenza. Salutiamo i tortellini, gli aperitivi in piazza. E gustiamo un piccolo intarsio di un’indagine sull’uccisione di un ex-generale serbo, partecipante alla mattanza di Sebrenica, ora riciclato in mafioso emiliano. Dove Camilla trova il colpevole, ma non la denuncia, che questa è una vittima degli stupri etnici jugoslavi. Possiamo eccepire sulla morale, non sulle scelte. Dicevamo, in conclusione, tutto un po’ sotto il livello del coinvolgimento emotivo ed intellettuale, ma sempre un onesto prodotto. Ed un addio in finale ad un altro scrittore. Comunque, con affetto.
Abbiamo finalmente, questo nuovo computer, dal quale vi scrivo e sul quale sto cercando di ripristinare l’efficienza del precedente, in termini di contatti ed info. Spero di non aver dimenticato troppa gente nel passaggio tra il vecchio ed il nuovo. E cerchiamo di guardare quindi alle prossime settimane con l’occhio benevole di cominciare nuove imprese, avendo consolidato le vecchie.

domenica 21 settembre 2014

Donne, donne, donne - 21 settembre 2014

Quattro interessanti uscite al femminile, che non guasta mai. Altalenanti, se vogliamo, con autrici a me solitamente care che non riescono altrettanto bene di autrici che magari conosco ma di cui non avevo, non ho letto ancora molto. Preferisco di molto la Napoli anni ’50 della Ortese a quella della Ferrante, da cui mi aspettavo di più. Non posso che inchinarmi alle memorie della famiglia Nemirovsky, e rivolgere una speranza per il futuro negli scritti di Isabel Allende.
Anna Maria Ortese “Il mare non bagna Napoli” Adelphi euro 10 (in realtà, scontato a 7,50 euro)
[A: 04/01/2014– I: 13/03/2014 – T: 14/03/2014] - &&&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 176; anno 1953]
Anna Maria Ortese è una scrittrice il cui nome riecheggiava in qualche fondo di memoria. Ne sapevo l’esistenza, mi giungevano echi di possibili scritture, e mi rimaneva in testa questo titolo, come se sapessi che prima o poi ne avrei letto. E prima della lettura, c’erano anche i rumori di lotte, discussioni, forti dissensi, infiniti ed insormontabili litigi. Mi sembrava ricordare qualcuno che parlava male della scrittrice, che bollava astioso ed irreale questo suo scritto. Non avevo mai avuto voglia di sbrogliare questa matassa. Ma, come dico anche altrove, la forza della maturità mi spinge a prendere in mano testi che forse non pensavo di leggere. Maturità e curiosità direi. E bene ho fatto. Che questo libro, pur coevo, e quindi con del testo che va misurato all’età, rimane bello, appassionato. Una serie di scritti, tre racconti e due testimonianze, che, nelle loro diversità, ci fanno scendere nei gironi danteschi dell’universo napoletano del dopoguerra. Sia una discesa fisica, come nei crudeli racconti e nella testimonianza, sia una discesa della testa e dell’intelligenza in quell’ultima, lunga e bellissima narrazione dell’universo intellettuale partenopeo di quegli anni. E separiamo allora, anche nella narrazione, questi due momenti. Nei racconti e nella prima testimonianza, Ortese ci cala nella Napoli del dopoguerra, nella vita quotidiana, nell’estrema povertà. La si accusa di “godere” della descrizione del dolere di vivere. Ma a me restituisce il senso di una certa vita. Della piccola Eugenia e del dramma di essere povera e quasi cieca. Dello scorrere quasi inutile della vita della quasi zitella Anastasia. Della vita quotidiana e delle sue piccole furberie tra San Biagio dei Librai ed il Monte di Pietà (ed ancor oggi, passeggiando per Spaccanapoli se ne avverte il sapore, quasi immutato dopo sessanta anni). Di quel monumento descrittivo della miseria e del degrado che furono i Granili, e la massa di senza tetto che per decenni vi si era ammassata (Granili poi finalmente demoliti proprio nel ’53). Le immagini della Ortese, nella loro crudezza, non sono crudeli. Forse irreali, laddove l’irrealtà a volte descrive meglio la realtà di una foto sbiadita. Ne leggo, e torno a Napoli ed a pensarla nella vita minuta. Nei gesti dei napoletani che ho conosciuto dopo, ma che ritornano, come delle maschere immote nel tempo. E poi c’è la lunga, sofferta testimonianza della vita dei sodali della scrittrice nei primi anni del dopoguerra. In quell’insieme di intellettuali, scrittori, giornalisti ed altro che cercarono, ognuno con le proprie forze ed idee, di dare svolta ad una città che si andava incartando su se stessa. Ne uscirono sconfitti, e la nostra scrittrice, andando a ritrovarli dopo, nell’epoca della sconfitta avvenuta, ce li rende con il suo pathos di un essere altrettanto sconfitto, ma che vuole salvarne il senso dall’oblio. Il ritratto viene fuori impietoso, e posso capire che chi ne lesse si sentisse colpito dall’essere messo davanti alla propria sconfitta. Ed a quella di una generazione. Ma non capisco, non accetto, l’ostracismo che verso l’Ortese ne seguì. Il fatto che proprio in seguito a questo scritto, nessuno dei suoi ex-amici la volle più in città. E lei ne fuggì, con la Napoli nel cuore, errando per luoghi italici, fino al buon ritiro e morte in una Rapallo di fine secolo. Io invece li vedo, Luigi Compagnone zoppicante con il suo bastone, il suo salotto, con Pratolini, con il giovane Domenico Rea. La casa dell’allora azzimato La Capria (che rimarrà nella mia testa quando lo incontrai con la moglie Ilaria Occhini alla GS del Pantheon). E, ultimo e molto importante, Prunas, il motore della rivista “SUD”, che tanto sembrava poter smuovere, e che purtroppo non smosse. Lo vedo allontanarsi, dopo un caffè al Gambrinus, verso Monte di Dio, che mi riporta al migliore De Luca di tanti decenni dopo. Tutto quel dolore non è inutile mostra delle ferite di una sconfitta, né astio per chi ti allontana. È comprensione per quello che poteva succedere. Ed è anche speranza. Quella che in molti non ebbero. Quella che mi ritornava in mente leggendo il libro e pensando alla di non molto successiva morte di Renato Caccioppoli (ed alla bellissima interpretazione che ne diede Carlo Cecchi in “Morte di un matematico napoletano”).  Ma torniamo al libro, alla Ortese, ed a quel mare che non bagna Napoli. Un libro che va letto. Nonostante.
Isabel Allende “Il quaderno di Maya” Feltrinelli euro 9
[A: 15/04/2013– I: 07/05/2014 – T: 10/05/2014] - && e ½
[tit. or.: El Cuaderno de Maya; ling. or.: spagnolo; pagine: 398; anno 2011]
Torno dopo quasi due anni alla lettura dei libri di Isabel, dopo la buona prova de “L’Isola sotto il mare”, e ricordandomi “Ines dell’anima mia”. Il mio amore per la scrittrice è di vecchia data, e non cambierà. Non mi scordo “La casa degli spiriti”, uno dei primi libri letti, o “D’amore e d’ombra”. Anche qui, come una costante della sua produzione, c’è un bel ritratto di donna. Questa volta torniamo al presente, e torniamo anche ad una ragazza colta nel passaggio tra adolescenza ed età adulta (anche se con tutte le vicende che passa, ha sicuramente una maturazione molto veloce). E sebbene questo tipo di scrittura sia gradevole, trovo che in questo caso la nostra scrittrice voli verso la parte bassa dei miei gradimenti. Certo, ritroviamo il suo stile, la capacità di tenerci sulla pagina (anche se non con la stessa intensità di un tempo). E ritroviamo inoltre quasi un canto d’amore per il Cile natio, da troppi anni lasciato per le note vicende politiche, ma che sempre le resta nel cuore. Forse con una punta di troppo verso la volontà di mettere delle pietre sopra ai dolorosi anni di Pinochet. Ma questo è anche merito della presidentessa Bachelet e della sua opera di pacificazione. Da un certo punto di vista, poi, la storia di Maya Vidal è adombrante molte storie di profughi cileni e delle loro famiglie. Il lungo romanzo si snocciola come un lungo e doloroso diario di Maya che nello scrivere delle sue vicende cerca di trovarne ragione, ed anche di uscirne fuori, come in un bel “outing” psicoanalitico. Intanto, la nostra eroina si trova a Chiloè, isola cilena del profondo sud, praticamente patagonica, dove si è rifugiata per qualche motivo che scopriremo leggendo. Nell’isola è ospitata dall’anziano Manuel, ex profugo politico, ora dedito alla scrittura di libri sulla mitologia chilote (che ho scoperto essere di una certa importanza antropologica) ed accudita da Blanca, figlia di un seguace dei militari (seppur blando) ed innamorata di Manuel. Nel suo diario Maya alterna le vicende minimali ma fondamentali della sua vita nell’isola dove ricostruisce se stessa, alla sua storia privata. Storia che nasce dalla fuga della nonna Nini con figlio piccolo da Santiago nei giorni del golpe (dopo l’uccisione del marito Felipe, amico pare di Manuel). Nini va in Canada, e lì si innamora di Popo, un docente di astronomia negro, con il quale ricostruisce la sua vita, trasferendosi con lui a Barkley. In California il padre si fa adulto, diventa pilota di aerei, ad un certo punto sposa una danese da cui nasce Maya. La madre però torna ben presto in patria, e Maya crescerà con i nonni. Soprattutto in ammirazione del nonno Popo, della sua intelligenza e mitezza. La svolta della sua vita l’avrà per la prematura morte del nonno cui non si rassegna. Si lascia quindi andare ad un salto verso gli abissi. Si accompagna con i peggiori elementi della sua scuola, comincia ad abusare di alcol e di droga. Quando poi si dedica anche a ricatti verso strani personaggi viene arrestata e mandata in Oregon in un centro di rieducazione. Dopo un anno passato lì, non trova di meglio che fuggire e sulla strada di casa prima viene violentata, poi si ferma a Las Vegas, dove viene assoldata da un losco figuro che la prende per la sua banda. Lei farà il corriere della droga per Bernard, avendo in cambio droga ed alcol a profusione. Ma Bernard è anche coinvolto in loschi affari di denaro falso (pare abbia un fratello che falsifica dollari in modo perfetto). Passiamo pagine e pagine su vicende cruente, sniffate, morti vari e depravazioni conseguenti. Sappiamo che ci sono dei cattivi, forse banditi, forse poliziotti corrotti. Fatto sta che Bernard viene trucidato, e lei riesce finalmente a tornare dalla sua Nini, che, per salvarla, la spedisce appunto a Chiloè. Qui si ricompatta la vicenda. Maya nella semplice vita cilena si disintossica, trova l’amore in un turista di passaggio, che poi la lascerà con grandi crisi. Ripercorrerà le vicende legate al golpe, trovando tracce della morte del nonno Felipe, e della vera storia di Manuel (e queste non ve le dico). Ma verrà anche ritrovata dai cattivi. Sarà l'anima buona del nonno Popo nonché qualche essere mitologico chilote a salvarla, facendosi che possa tornare alla luce. Non sappiamo, la storia si interrompe prima, se rimarrà a Chiloè, se troverà di nuovo l’amore, o altre non essenziali storie. Sappiamo solo che ha ricostruito se stessa, ricostruendo un po’ anche del Cile dei suoi parenti. E questo in fondo il messaggio della Allende, almeno quello che io ne ho percepito. La volontà di uscire dagli anni buoi per tornare a viaggiare verso un futuro di speranza. Tuttavia, la storia a volte è un po’ forzata nel voler arrivare a punti prefissati, a svolte annunciate. Seppur piacevoli, non tutti i personaggi sono allo stesso livello. E Maya ritrova probabilmente con troppa facilità la via maestra. Ma un sano buonismo non fa male ai nostri cuori. Mi aspettavo qualcosa in più, ma in fondo non mi ha deluso la piacevole lettura.
“La persona che sono ora è il risultato delle mie esperienze precedenti, compresi gli errori più estremi.” (257)
Èlisabeth Gille “Un paesaggio di ceneri” Marsilio s.p. (regalo di Alessandra)
[A: 07/05/2014– I: 17/05/2014 – T: 20/05/2014] - &&&&
[tit. or.: Un paysage de cendres; ling. or.: francese; pagine: 171; anno 1996]
Interessante romanzo della figlia minore di Irene Nemirovsky, scritto nell’anno della sua morte per cancro. Per la scrittura e per l’argomento. È una trasposizione, ovvio, delle sensazioni della piccola Elisabetta, nel periodo che le ha segnato la vita: 6 anni, Francia occupata, genitori deportati. Nella realtà sappiamo che la vicenda della famiglia Epstein (questo il nome da sposata della scrittrice profuga russa) è analoga a quella descritta, con molte “aggravanti”. Irene ed il marito, pur essendo di radici ebraiche, si erano convertiti al cattolicesimo negli anni ’30. questo pensavano li mettesse al riparo dalle successive persecuzioni. Così come il fatto di essere personaggi pubblici, ben noti scrittori. Per questo non scapparono come altri in America. Ma furono presi nottetempo nel ’42. Le due figlie (la piccola Babet e la più grande Denise) fuggono nottetempo e si riparano a Bordeaux. Michel e Irène vengono invece inviati immediatamente ad Auschwitz, ed immediatamente vengono avviati alla camera a gas. Nonostante la notorietà e la conversione, nessuno alzò una mano in loro aiuto, e questo sarà un macigno che le figlie porteranno per tutta la vita. Cercando a modo loro di esorcizzarlo. Della grande non parlo, che qui non se ne tratta. La signora Gille studia, si laurea, diventa direttrice editoriale di case editrici (in particolare, si occupa molto prima di fantascienza poi di polizieschi). Negli anni ’90 si ammala, e comincia a scrivere. Prima una biografia della madre, poi questo libro, che uscirà poche settimane dopo che la malattia l’ha portata via. E questo romanzo è un lungo grido di dolore, ed un lungo richiamo verso la madre mai realmente incontrata. La piccola nasce nel marzo del ’39, i genitori vengono arrestati nel luglio del ’42, che la nostra ha cinque anni e poco più. Ed il romanzo parte proprio da questo abbandono, da quando la protagonista (qui senza sorella maggiore) si trova nel pensionato cattolico accudita dalle suore. E comincia con un “No!” gridato, così come cominciava il primo romanzo della madre (quel “David Golder” di cui ho già tramato a suo tempo). Seguiamo allora la piccola Lea nella sua presa di coscienza della realtà. Dalle suore, tutte hanno qualcuno che manda aiuti. Lei no, lei si sa essere (forse) di origini ebree e nient’altro. Ha una sola compagna, Bénédicte, ragazza anche lei sola (anche se più grande) ma perché (e lo scopriremo alla fine) ha i genitori impegnati nella lotta armata al nazismo. Nella prima parte seguiamo tutta l’infanzia della piccola. Più intelligente della media, ma più indisponente, che non capisce l’essere sola, e si trastulla nel mito dei genitori che verranno a prenderla e la farà vedere a tutti. Seguiamo vicende minute, che lasciano graffi se non segni, con solo una delle suore che cerca di penetrare nel guscio di Lea, dove solo l’amica del cuore trova spazio. Finisce la guerra, tutti tornano, anche i genitori di Bénédicte. Lea è portata dalla suorina a Parigi, e qui c’è la sequenza più drammatica. Nella vecchia casa no c’è più nessuno, trova solo una scatola di perline con cui giocava da bimba. Vanno all’Hotel Lutetia dove portano i sopravvissuti (e nella realtà, Elisabeth e Denise vi trascorsero mesi aspettando inutilmente i genitori) e Lea vede le miserie, capisce in fondo che non c’è speranza, ed in una scena drammatica, perde le perle. E si rinchiuderà in se stessa. La seconda parte fa un salto di qualche anno. I genitori dell’amica adottano Lea, la fanno studiare (anche se Lea non recupera più lo sguardo ridente). E Lea, mentre studia, segue di nascosto tutte le miserie che avvengono nel dopo guerra: i processi ai nazisti ed ai loro sodali, e soprattutto, dopo le condanne dei primi anni, le assoluzioni. Lea (e noi con lei) non capirà mai questa vittoria avanzante del male. Le due sorelle – amiche si trasferiscono a Parigi, all’università. Bénédicte diventa sempre più bella ed appetita dai maschi. Lea diventa sempre più cupa. Si avvicinano al Partito Comunista, manifestano. Ma anche Lea legge Sartre, e suona incessantemente sul giradischi tutto Brassens e “Il disertore” di Boris Vian (mi sembra di ripassare con dieci anni d’anticipo la metà dei miei anni ’60). Le due vanno sempre insieme, una solare, una lunare. E si avvicinano altre lotte, sono i primi anni delle lotte in Algeria, delle bombe, del Fronte di Liberazione. Tralascio tutto quello che fa Lea in questo periodo, sempre nel solco di quella ricerca della colpa di chi ha lasciato andare verso la morte i suoi genitori. Il libro, che stava avviandosi verso un finale di lotta e di speranza, si chiude invece (e non poteva altro) con un episodio drammatico, ed un ultimo, lungo grido di dolore. Non è sempre alla stessa intensità. Si nota, a tratti, un pur tuttavia irrisolto risentimento (anche se il termine è un po’ forte) verso la madre. Ma c’è, e sempre ci sarà (e noi saremo sempre con lei) quel sentimento di rabbia e di impotenza verso chi ha fatto del male (e tanto) e che non riesce a trovare una giusta punizione. Si aprirebbero spazi enormi di discussione. Noi che ne siamo esterni possiamo anche cercare di comprendere. Ma io mi domando, chi l’ha vissuto, quel periodo, come riesce ad uscirne? Capisco, anche se non comprendo, quel dolore ad esempio che segnò tutta la vita di Primo Levi fino a portarlo al suicidio. Capisco il dolore di Elisabeth, ed anche della sorella Denise (entrambe moriranno di cancro a dieci anni di distanza). Rimane questo libro, dove spero che prima o poi non sarà tutto e solo cenere. Anche se è bene leggerne. Per non dimenticare. Mai.
Elena Ferrante “L’amica geniale” E/O s.p. (Regalo di compleanno 2014 in ritardo di Rosa&Emilio)
[A: 10/06/2014– I: 19/06/2014 – T: 24/06/2014] - &&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 327; anno 2011]
Per rimanere in un linguaggio tematico caro all’ignota autrice, eccoci a leggere il primo libro della trilogia (o forse quadrilogia) de “L’amica geniale”. Appunto si diceva, una scrittura “molesta”, nel senso di scomoda, tormentata, in ogni cosa, che non lascia indifferente. Come non lascia indifferente la non esistenza di Elena Ferrante. Perché si sa che questo è uno pseudonimo, e si sa anche che non vuole si sappia chi si cela dietro. Quindi non è mai comparsa in pubblico, non è presente nei talk-show televisivi (e per fortuna), non si sa nemmeno se sia donna o uomo (anche se la sensibilità dei suoi scritti mi farebbe escludere che ci sia dietro una mano maschile). E questi sono tutti punti a favore. Così ne parliamo solo rispetto a quello che produce. Non possiamo nasconderci dietro contesti vari, ma dobbiamo attenerci al testo, ed a quello che ci suscita. Detto quindi tutto il bene possibile di chi scrive, di come ha scelto di vivere, e del resto “esterno”, veniamo al libro, alla trama, alle sensazioni. Un libro non facilissimo, bello sicuramente, che ci trasporta per 300 pagine nel ventre di Napoli, nelle sue miserie, nelle sue esaltazioni. E che ci porta nell’infanzia dell’io narrante, intorno alla seconda metà degli anni Cinquanta, usando un approccio che ci fa presagire (anche se non lo sapessimo) l’uscita di altri volumi. Si inizia, infatti, ai giorni nostri quando Lila, sessantasei anni, scompare, e la sua amica e sodale di sempre Elena detta Lena, comincia a narrare le loro storie, per farci capire chi fosse Lila (e chi è lei stessa, Elena). Percorriamo così, in questo primo volume, l’infanzia e la prima adolescenza delle nostre due ragazze napoletane. L’incontrarsi alle scuole elementari, Lila figlia dello scarparo, e Lena figlia di un usciere. La nascita di un’amicizia, narrata con un piglio che ci fa percorrere, battito dopo battito, tutte le palpitazioni che percorrono la vita degli adolescenti. In questa la Ferrante è senza dubbio magistrale. Dipinge e ci fa sentire vive attrazioni e repulsioni, sfide e contro-sfide. Fin dall’inizio cerchiamo poi di immaginare il titolo e la sua applicazione. Che Lila è geniale ma lo è, a suo modo, anche Lena. Scrittura stratificata, dove non solo si parla di bimbi che crescono (e già questo ben riesce), ma si parla di una città che uscita dalla guerra stenta a ritrovar se stessa. E se lo fa, spesso lo fa in modi svogliati e sbagliati (quanto si sente la vicinanza della scrittura della Ortese ne “Il mare non bagna Napoli”). Contemporaneamente, ed intorno, si vede anche l’Italia stessa uscire dalla guerra, crescere ed avviarsi al boom degli anni Sessanta. Ferrante riesce in una sapiente opera di fotografia in progressione, mostrando piccoli elementi che ci fanno capire grandi rivolgimenti. Anche volendo tralasciare i “guappi” di periferia e le loro prime macchine, ci sono i primi trasporti pubblici verso il centro, la discesa per via Toledo, le pizzette si Spaccanapoli, le prime televisioni che riuniscono amici e nemici per vedere Mike Bongiorno e “Lascia o raddoppia”. Ma anche i sogni di chi ha l’intelligenza per studiare ma non i soldi (Lila) e chi i soldi riesce a trovarli e studia e con profitto (Lena). Pur nel divergente parallelismo, le nostre due ragazze rimangono legate da un sentimento di fondo più forte del resto. Anche quando Lena prenderà tutti dieci al liceo. Anche quando Lila, dopo uno sfortunato tentativo di sfondare nella calzoleria, deciderà di sposare, a quindici anni, Gino, il figlio del farmacista. Uno con una posizione, lì nel Rione. E se vogliamo con i soldi (anche se non si sa quanto “puliti”). Altrettanto bella è la descrizione corale degli altri ragazzi del rione, con i loro sogni, le loro paure, i loro entusiasmi, le loro tante sconfitte ma anche le rare ed entusiasmanti vittorie. Vedremo, se capiterà, cosa avverrà dopo, quali saranno le strade che Lila, Lena e Napoli percorreranno. E detto tutto il bene della scrittrice, della scrittura, dei temi trattati, insomma della cosmogonia presente nel libro, devo comunque alla fine confessare che non mi è piaciuto “alla morte”. Molte volte le situazioni mi hanno trascinato senza coinvolgermi, le sensazioni le ho viste ma non vissute. Ho apprezzato il punto di vista femminile da cui venivano lette le situazioni, ma, forse, non sempre l’ho capito sino in fondo. Da come ne parlavano amici e conoscenti mi aspettavo senza dubbio qualcosa di più intrigante. Un bel libro, però, che continuerei a consigliare a chi volesse leggerlo, e che sono contento mi sia stato regalato.
Ripeto quanto detto all’inizio scusandomi se c’è qualche mancanza negli invii, ma il crash del PC mi costringe ad una configurazione di backup che non è completamente affidabile. Sperando in un ritorno del’efficienza fisica ed informatica, saluto tutti

domenica 14 settembre 2014

Romanzi da cinema - 14 settembre 2014

O romanzi per il cinema. Comunque, questa settimana abbiamo quattro titoli, tutti prima o poi passati al grande schermo. Anche se devo dire la migliore interpretazione è quella per la TV di Nicole Kidman per il romanzo di Cain. Anche se al cinema Joan Crawford aveva vinto l’Oscar, anche se il film tratto da Kureishi ha vinto l’Orso d’oro a Berlino, anche se dal libro di Carr venne una delle prime e migliori interpretazioni di Kenneth Branagh. Ultima, ma solo in ordine di tempo, la trasposizione sullo schermo dell’olandese Koch, in un film tutto italiano (e che non ho visto, avendo scritto la trama in tempi ancora non sospetti). Insomma, un bel connubio tra due grandi arti, anche se preferisco sempre Calliope alla Decima Musa.
Hanif Kureishi “Nell’intimità” Bompiani euro 8
[A: 04/01/2014– I: 14/02/2014 – T: 16/02/2014] - &&& e ½
[tit. or.: Intimacy; ling. or.: inglese; pagine: 107; anno 1998]
Pur avendone letto altri libri, e pur stimando il romanziere e regista indo – pakistano, questo è il primo libro in italiano che leggo. E, benché datato, trovo la traduzione di Ivan Cotroneo ben fatta ed aderente allo spirito della scrittura di Kureishi. In un libro che non è facile, nonostante sia agile, quasi come un racconto lungo. E sicuramente diverso e più interessante del film che si dice ne venne tratto nel 2001, vincendo l’Orso d’oro a Berlino (il film usa una diversa storia di Kureishi come trama e questo romanzo come atmosfera). Qui, il nostro scrittore imbastisce un lungo monologo di un quarantenne (credo, anche se non dice l’età) allo sbando. Pur essendo uno sceneggiatore di successo (ed in questo, Hanif si tratteggia un po’ nel personaggio), non trova “un centro” alla propria esistenza. A me, forse un po’ semplicisticamente, è parso affetto da una grave “sindrome di Peter Pan”. Il protagonista si rifiuta di crescere, crogiolandosi e commiserandosi in uno “sto male qui ed ora, come faccio ad uscirne?”. Intanto, oltre al buon lavoro, vive con Susan, con la quale ha due figli. E mentre si aggira per casa, cercando di decidere cosa portarsi via perché la vuole lasciare, ricostruiamo a sprazzi la sua storia. Quella di uno dei tanti “leftist” o forse “radical” inglesi. Gioventù sbandatella, senza metà, frequentazioni alternative e promiscuità. Grandi bevute ai pub, ma anche spinelli e droghette a go go. Ed una pulsione sempre presente per l’altro sesso. Che spesso e volentieri, concretizza. Sia prima della convivenza che dopo. Nonostante voglia bene ai due figli piccoli, abbia momenti di genuina tenerezza e scoperta con loro. Ed a modo suo vuole (voleva?) bene a Susan. Ma la vita di famiglia impone delle regole. E lui, non crescendo né in crescita, è quello che rifiuta. Vuole tutto come se fosse un ragazzo di vent’anni prima. Vuole scopare, vuole ubriacarsi, vuole farsi le canne, e vorrebbe che la vita in famiglia potesse andare avanti senza che lui intervenga “in aiuto”. Appunto, come un Peter Pan che si aspetta che ci sia sempre qualche d’un altro (una Trilly, ad esempio), che facesse per lui “i lavori sporchi”: fare la spesa, cucinare, mettere in ordine. Non è un caso, che decide di avere uno studio fuori casa, dove rintanarsi a lavorare, come se. Ed uno studio che usa come garçonnière a tutto vapore. Il momento topico che lo porta a riflettere sul suo malessere, avviene quando si accorge che anche i suoi amici crescono, e si assumono responsabilità, e per questo, si vedono meno. Bello è il contraltare di Naif, uno degli amici storici, anche lui con moglie e figli, ma che accetta questa realtà, e ci lavora. A lui rimane solo Victor, uno che se ne andato anche lui di casa un paio d’anni prima (ma con ripensamenti e crisi). Contemporaneamente, ha una storia con Nina, ragazza più giovane di lui, affascinata dal suo essere un po’ alternativo. Che aspetta, ma poi non accetta quella sua indecisione di fondo. E lo lascia. Questi due avvenimenti lo mettono in crisi. Lo mettono di fronte al suo vagheggiamento di un’età felice. Facendo in modo di riversare tutto il suo malessere e le sue incapacità sulla buona Susan. Che invece lo ama ancora, e molto. Che va con lui in analisi per capire il loro rapporto. Il nostro sembra mettercela tutta. Ma niente da fare. Per andare avanti dovrebbe sporcarsi le mani. Ed allora, si ripete, qui sto male, anche se ho Susan, anche se ho i miei figli. Me ne vado, così faccio piazza pulita e ricomincio da capo. Non capisce, non capirà mai, che non può andarsene da se stesso. E la piazza pulita la deve fare al proprio interno. Cambiare cielo non significa, mai, cambiare vita. Kureishi, oltre a descrivere con crudezza questa catastrofe umana, utilizza il nostro anche come paradigma di una generazione bene o male fallita. Quella che all’epoca andava per i quaranta (ed ora andrebbe per i sessanta). Che è stata sconfitta nel pubblico e nel privato, proprio perché “non si è sporcata le mani”. Descrizione cruda nei rapporti umani, ed in quelli sessuali, per tirarne fuori pochi (e sparuti) elementi di conforto. Alla fine, dolentemente, mi è anche piaciuto, laddove rivedo situazioni similari. Forse, come diceva qualcuno ma non ricordo dove, ci volevano “un po’ più di palle” per affrontare la vita. E non ce l’ha messe né il protagonista, né lo scrittore. Comunque una lettura non banale, da approfondimento.
“Le parole sono azioni e fanno accadere le cose. Una volta che sono uscite dalla bocca non puoi più farle rientrare.” (5)
“Se sei portato all’infelicità, no ti mancherà mai un amico.” (30)
“Per un ceto periodo sono stato una sorta di marxista, anche se adesso non riesco più a ricordare le differenze fra i vari tipi: gramsciani, leninisti, hegeliani, maoisti, althusseriani.” (35)
“Lei [inglese] insegnava inglese agli stranieri, cosa che rappresenta sempre l’ultimo rifugio per chi è allo sbando.” (60)
“Non è che adesso sia poco attraente, ma è di mezza età, e perciò appartiene a una categoria diversa.” (75)
James M. Cain “Mildred Pierce” Adelphi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 04/01/2014 – I: 14/04/2014 – T: 15/04/2014] - &&&
[tit. or.: Mildred Pierce; ling. or.: inglese; pagine: 308; anno 1941]
L’autore è il ben noto scrittore de “Il postino suona due volte”, libro che però non ho ancora letto. Qui lo troviamo in quello che invece è considerato il suo miglior romanzo, portato al cinema da Joan Crawford (Oscar) ed in televisione da Kate Winslett (Emmy Awards). Romanzo che veniva ascritto al genere noir, in considerazione dei cambiamenti fatti nel film. E che invece è giustamente un mélo come ci fa vedere la mini-serie TV. Infatti, seguiamo per le scorrevoli 300 pagine la storia e le vicende di Mildred Pierce, giovane casalinga che vive nel 1930 a Glendale, sobborgo di Los Angeles. È appena accaduto il grande disastro del ’29, l’America è in piena recessione, ed il costruttore di case Bert (marito di Mildred) si trova a corto di soldi e senza prospettive. Non solo, ma si consola dei disastri tra le braccia di Maggie, mentre Mildred è costretta a fare torte in casa che rivende a pochi dollari, per poter arrivare (e con molta fatica) a fine mese. Ci sono poi le loro figlie: Moire (detta Ray)  e Veda. Mildred, stufa della pochezza di Bert, lo manda a scopare il mare, chiede il divorzio, e comincia a ipotizzare di far diventare un lavoro più redditizio quello delle torte. Ma deve trovare anche il modo di sbarcare il lunario, di pagare il mutuo che le ha lasciato Bert. Insomma, sta proprio in mezzo ai guai. Oltre alle torte, l’unico mezzo di sostentamento che ha è il suo corpo. Non che diventi improvvisamente un escort di lusso, ma diciamo concede le sue grazie in modo da ottenere in cambio qualche aiuto, qualche suggerimento. Magari legale, dall’ex-socio del marito. Magari di prospettive, quando cade tra le braccia del bel Monty, un quasi gigolò, forte solo della sua bellezza e dei lasciti aviti che a poco a poco si mangia. In questo girare tra letti e torte, scompare presto la piccola Ray, portata via da una polmonite fulminante. Ma Mildred non si lascia abbattere. Prima continua con le torte, poi si fa cameriera. Accumula soldi ed esperienza, e, nella grande esaltazione del sogno americano, fa una luminosa carriera. Tanto da poter aprire un ristorante suo. Dove impiega le sue amiche, chi ai tavoli, chi ai liquori (che intanto il proibizionismo sta passando). Unico suo cruccio, l’impossibile rapporto che ha con la figlia Veda. Che non accetta lo status di “figlia di una commerciante”. Lei è quella delle grandi manie, delle grandi capacità, quella per cui non è nata nobile ma solo per caso, e fa di tutto per salire (a suo modo) i gradini del potere femminile. Prima con il pianoforte, ma avendo un talento solo ripetitivo deve cambiare e cambia alla grande, verso il canto dove le sue doti spiccano di gran luce. Seguiamo così le loro due carriere, sempre ai ferri corti, ma ognuna con i suoi lumi. Il ristorante, le torte, gli investimenti, consentono a Mildred di arrivare ad una vita agiata. Ogni volta rimessa in pericolo dalla necessità di soccorrere Veda se questa ha problemi, se Veda chiama, se Veda ha bisogno. Bert, intanto, si defila dalla scena, un poco ingelosendosi dei successi di Mildred, ma partecipando a quelli della figlia, in cui rispecchia il proprio egotismo assoluto (se non c’è niente al mio livello, non faccio nulla, aspettando che qualcosa arrivi). Mildred salva anche Monty dalla bancarotta, rimette in sesto le di lui scarse finanze. Lo sposa anche, per poi ben presto divorziare quando si accorge che Monty è un involucro vuoto. Ed è nella parte finale che il melo acquista tono e spessore. Perché Mildred, acquiescente ad ogni richiesta di Veda, si accorge che non solo la figlia la odia da sempre, che Veda l’ha usata per ottenere un contratto canoro più vantaggioso. Ma anche che Veda si mette con Monty, andando via da Los Angeles per continuare la sua bella vita a New York. Mildred alla fine risposa Bert, il suo primo marito (lasciato da Maggie che torna dal suo di marito che nel frattempo ha scoperto del petrolio nel Texas, ahi potenza del grande sogno americano). Il libro è tutto qui, tutto nel rapporto tra genitori e figli e su come le scelte private influiscano sulla vita pubblica dei personaggi. Nel film con la Crawford decidono di inserire la componente noir, inscenando l’uccisione di Monty. Ma è una forzatura, che nel libro manca. Perché il libro, in fondo, è molto più dolente della torbida storia melo-noir del cinema. Dolente ed aulente. Perché da un lato si inneggia al grande mito americano che tutti possono riuscire se hanno le capacità (Mildred fa le torte, sa cucinare, apre un ristorante, ed ha successo; Veda sa cantare, e vola di palcoscenico in palcoscenico), ma tutti falliscono se non ne hanno (Bert si illude di saper fare, e farà lo spiantato per tutta la vita, riscattato solo dall’affetto di Mildred, Monty ha soldi di famiglia, ma non è capace di nulla, e non potrà passare che di fallimento in fallimento). E dall’altro si toccano le corde che sempre inguaiano gli americani: l’incapacità di avere rapporti umani, la tragedia dell’odio genitori-figli (o meglio figli vs. genitori, anche se bollare Veda come la creatura più demoniaca della letteratura come fa la quarta di copertina mi sembra un po’ forte). Ci sarebbe quasi da scriverne un saggio sociologico. Intanto gustiamoci questa scrittura di Cain, dimenticando il film, la serie televisiva, e seguendo gli anni Trenta americani attraverso alcuni protagonisti minuti, anche se non minimali.
“Bert assomiglia a Veda. Se non può fare le cose in grande stile, gli sembra di non vivere.” (102)
James Lloyd Carr “Un mese in campagna” Fazi editore euro 12,50 (in realtà, scontato a 10 euro)
[A: 12/03/2014 – I: 04/06/2014 – T: 06/06/2014] - &&&&
[tit. or.: A Month in the Country; ling. or.: inglese; pagine: 157; anno 1980]
È uno di quei romanzi in cui non succede niente, e proprio per questo è pieno di tante cose. Inoltre, anche se ha scritto altro, l’autore è una specie di single-book man. Il buon J. L. Carr, tre l’altro, è morto una ventina di anni fa. E questo suo romanzo, scritto a 66 anni, dopo essere andato in pensione come ex-preside di liceo, gli valse anche premi ed onori. Direi giustamente. Dicevo, non succede niente, ma è pieno di tanto. Se volessimo chiudere la storia in poche note, da quarta di copertina, dovremmo parlare della piccola storia del ragazzo Tom, appena finita la Prima Guerra Mondiale (il romanzo è ambientato nel 1920), ripreso in mano il lavoro di restauratore di dipinti ed altri oggetti in deperimento, viene chiamato da un parroco di campagna per rimettere alla luce un affresco probabilmente celato dietro l’altare. Ovviamente Tom è rimasto segnato dalle esperienze militari. E la comunità campagnola non facilmente accetta estranei. Mentre Tom mette alla luce il dipinto, lavora al suo fianco il giovane Charles che invece sta cercando una tomba. Nasce solidarietà tra i due, entrambi reduci dalle rovine militari. Ma Charles ha qualcosa in più, essendo stato cacciato dall’esercito in quanto gay. Durante il suo lavoro, Tom viene avvicinato solo da due persone: la ragazza Kathy e la giovane Alice. La prima, tredicenne e spensierata, coinvolge Tom prima nella vita domenicale (il padre è predicatore), poi nell’aiutare dei bimbi disadattati, poi in tutta una serie di attività di aiuto in cui Tom con la sua naturale empatia si mostra vincente. Alice, invece, è la moglie dell’attempato parroco. E si capisce ben presto che ha un debole per il nostro Tom. Che si domanda il perché di questa unione tra Alice ed il prelato. Che si domanda se deve fare qualcosa, anche lui sentendo del trasporto. Ma il mese trascorre. Charles trova la tomba, Tom ripulisce l’affresco. Alice ed il parroco chiedono il trasferimento in una diversa parrocchia. Ve l’avevo detto, no, la trama è ben presto riassunta. Ma è tutta la carica di inespresso e/o di velato che c’è dietro e dentro che rende molto interessante il romanzo. Innanzi tutto, le tonalità che usa Carr, perché narra appunto come se fosse il Tom anziano che ricorda un periodo della sua giovinezza. E quindi sappiamo, a posteriori, che, in effetti, non successe gran che in quel mese in campagna. Se non che Tom – Carr matura e prende coscienza di se. Capisce di avere comunque un mestiere tra le mani (restauratore). Capisce che può riprendere il rapporto con gli altri (aiutato da Kathy), cosa che sembrava fosse stata interrotta dalla guerra e non più riprendibile. Capisce che se fa un gesto, un piccolo gesto, la sua vita, quella di Alice e quella del parroco, potrebbero cambiare. Quindi romanzo di possibilità. Ma anche romanzo di rimpianto. Che Tom si chiederà sempre e per sempre cosa sarebbe successo se… Una specie di contraltare delle domande irrisolte che si farà il narratore del bellissimo libro di Barnes “Il senso di una fine”. Se potesse continuare a restare lì in campagna. Se accettasse di fare il maestro ai ragazzi del paese. Se avesse baciato Alice. Se avesse iniziato a fare il predicatore, come il padre di Kathy. Insomma, un piccolo momento in cui Tom fa un salto in avanti nella sua vita ed un momento in cui non tornerà più (“non ho più incontrato nessuno di quel paese sperduto”) ma gli servirà per costruire la sua vita. Mi ricorda e mi fa venire in mente tanti piccoli istanti che ognuno vive. In particolare, un viaggio in treno da Siviglia a Madrid, fatto più di quarant’anni fa, e la conoscenza che feci sul treno della giovane Monika, turista tedesca. Non ci fu gran che di più di quello che successe tra Tom e Alice, ma modificò e di molto, la mia percezione dell’altro (o meglio delle altre e del mio rapporto con loro). E come Tom, dopo quel luglio di quaranta anni fa, più nulla seppi di Monika, delle sue amiche e della sua vita. Per tornare al libro, l’unico elemento che mi ha leggermente disturbato è l’introduzione di Penelope Fitzgerald. Non perché non dica cose condivisibili, ma perché le dice prima del romanzo. Guastando un po’ il godimento che se ne trae leggendolo. Io ritengo che le introduzioni debbano soltanto inquadrare, se del caso, l’autore ed il momento della scrittura. Mentre lascerei alle postfazioni il compito di entrare nei dettagli del narrato, che ora, avendolo letto, consente di condividere e di comprendere meglio quanto si dice. Evitando di anticipare cose che il prefatore vede, e magari io lettore no. Ma in fin dei conti, amici, leggete il romanzo. E non tiratevi indietro come il nostro Tom. Meglio una domanda ben posta che una ricerca di una risposta per tutto il resto della vita.
“Per quanto mi riguarda, avrebbe potuto girare l’angolo e morire di colpo. Ma questo vale per la maggior parte di noi, non è vero? Ci scambiamo sguardi vuoti. … Che facciamo qui? … Sogniamo ad occhi aperti. … Sì, quelli sono la mia mamma e il mio papà. … Vado a lavorare alle otto e torno a casa alle cinque e mezzo. Quando andrò in pensione mi regaleranno un orologio… Adesso sai tutto di me.” (52)
“Ciascuno di noi vede le cose con occhi diversi, e non serve a nulla sperare che anche uno solo su mille la pensi alla tua stessa maniera.” (96)
“Siamo entrati in questo mondo e prima o poi lo lasceremo. … Siamo qui a tempo determinato.” (101)
Herman Koch “La cena” Beat euro 9 (in realtà, scontato a 8,19 euro)
[A: 01/02/2014– I: 27/06/2014 – T: 29/06/2014] - && e ½ 
[tit. or.: Het Diner; ling. or.: olandese; pagine: 255; anno 2009]
Il mio coevo scrittore olandese, dopo tanto scrivere per televisioni e giornali, esce qui in tarda età con un libro ambivalente. Sicuramente ben scritto (ed una volta tanto ben tradotto), cerca di confutare l’incipit dell’Anna Karenina di Tolstoj. Cerca cioè di spiegare come non solo ogni infelicità è unica, ma anche le famiglie felici, sono felici a modo loro. E lo fa con un libro, come sottolinea Daria Bignardi, politicamente scorretto. Con un libro in cui, dopo aver cercato di farci simpatizzare con tutti i personaggi, li distrugge ad uno ad uno. Tanto che alla fine verrebbe da dire, come con Agatha Christie, “… e non rimase nessuno”. Allora perché valutarlo al ribasso? Forse mi aspettavo un po’ più di crudeltà verso la fine. Arrivati a tanto, viene quasi voglia di vedere di più. Invece il libro si chiude, forse con scelta saggia, con una cattiveria non tanto celata: le cose sono talmente brutte che continueranno ad andare male. Non si salverà nessuno. La narrazione è fatta in prima persona da uno dei quattro partecipanti alla cena, Paul. Partecipanti che si scopre essere due fratelli, Paul appunto e Serge, con le rispettive mogli, Claire e Babette. Si nota subito una certa disparità. Serge è l’uomo famoso, un politico in scalata, che aspira ad alte cariche. Babette è un po’ una moglie “palo”: serve nelle occasioni pubbliche, ma poco nel privato. Paul si scoprirà è un professore in congedo, mentre ignoto sembra il lavoro della moglie. Si sa solo che Paul la ritiene molto più in gamba di se stesso (e di tutti gli altri). Ci sono poi i due figli grandi, Michael e Rick, nonché Beau un nero adottato dal politico. E si nota anche dell’astio. Paul sembra avercela, e molto, con Serge. Ci fa credere forse che sia per la prosopopea da uomo pubblico (e ne stigmatizzata bene gli atteggiamenti) ma procedendo capiamo che ci deve essere qualcosa di più profondo. E mentre la cena procede (ed alla fine, da buona forchetta, vi riporto anche il menu), Paul ci svela tutti (o quasi) i retroscena. Lui, professore di storia, preso da crisi depressive profonde, comincia a fare discorsi para-nazisti sulla necessità di eliminare i “cattivi soggetti”. Tanto che viene allontanato dalla scuola. Poi la malattia di Claire, e le continue scaramucce con il fratello, che sembra fare sempre la parte del buono, del corretto. Ma infine, la grande crisi. Tutti e quattro i genitori si accorgono, attraverso uno sfocato video trasmesso dalla televisione che sono Rick e Michael ad aver ucciso (forse involontariamente) una barbona che dormiva in un bancomat. Questa è la scintilla nascosta, che mette a nudo i comportamenti dei quattro. Babette è subito emarginata non pensa che a se stessa, senza capire né figli né parenti. Serge è preso dal suo ruolo sociale, vuole fare ammenda davanti a tutti. Paul e Claire, quasi indipendentemente l’uno dall’altra, hanno invece un atteggiamento simile: fare di tutto per proteggere il figlio Michael. Anche perché si aggiunge un ulteriore pericolo: l’adottato Beau scopre le malefatte e ricatta i due ragazzi. L’abilità di Koch è nel farci calare, gradino dopo gradino, nell’inferno di queste “felicità”. Paul all’inizio sembra molto posato, riflessivo, preoccupato delle attività di Michael. E poi, si scopre essere lui stesso razzista, quasi comprensivo, preoccupato di coprire il figlio. Lo stesso modo di agire di Claire, che addirittura cerca di coprire la possibile resa dei conti tra i ragazzi e Beau. E cercano entrambi di mandare fuori gioco il tentativo di Serge di fare il “bravo politico”. Ovviamente, riusciranno tutte le peggiori attività che ci possono venire in mente. Alla fine non potremmo far altro che piangere su come stia andando in malora l’etica di questo nostro mondo. E ringraziare l’autore di aver costruito un monumento all’ipocrisia. Che sappiamo essere di questo mondo, ma che pensiamo sia altrove. Invece è anche lì, nei comportamenti minuti di molte persone. Nella mia ricerca del buono, nel mio fondamentale ottimismo, rimango spiazzato da questo libro, dove non riesco ad entrare in empatia con nessuno. Bravo Koch! Alcune note a margine sugli atteggiamenti al ristorante. Non sono riuscito a capire, infatti, se il soggettivo di Paul è ironico o meno. Ma dubito che lo sia, come quando fa una sparata sul fatto che solo in Olanda (dice) i camerieri riempiono continuamente i bicchieri di vino per far salire il conto. Lo fanno ovunque. Allora è ironico? È ipocrita? È, forse, solo ben scritto, in modo che risaltano le stupidità della borghesia olandese. E magari riusciamo a riflettere sulle nostre, di stupidità. Poi date un’occhiata al menu, ed immaginate il cameriere che si affanna a descrivere i piatti, soprattutto gli antipasti. E poi spezza il tappo mentre tenta di stappare una bottiglia di Chablis!
Il menu (per quattro, ma non sempre quattro piatti, che alcuni prendono pietanze simili, altri, verso la fine, smettono di mangiare)
Aperitivo       Champagne rosé
Vino               Chablis
Antipasti       Gamberi di fiume in vinaigrette di dragoncello e cipolline con gallinacci dei Vosgi
       Animella d’agnello marinata in olio sardo con rucola e pomodori secchi della Bulgaria
       Caprino caldo con pinoli e noci tritate e contorno di songino
Piatto             Filetto di faraona avvolta in pancetta tedesca
       Tournedos con contorno di uva e lattughina
Dolci              Parfait di cioccolato con mandorle, noci grattugiate e more
       Gelato alla vaniglia con cioccolata calda
Caffè
“Non bisogna sempre sapere tutto l’uno dell’altro. I segreti non ostacolano la felicità.” (252)
Seconda domenica di settembre, quindi alleghiamo anche una piccola Cura, questa volta dedicata ad un problema medico specifico che affligge molti uomini: la calvizie. Per il resto, come sanno i miei amici viaggiatori, nessuna nuova, cattiva (o era buona?) nuova.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

SETTEMBRE 2014
Un mese dedicato ad un problema serio (almeno per molti uomini), da affrontare con molto tatto, che qualcuno ci rimane male. Ed ecco allora due terapie opposte per la debulbificazione del cuoio capelluto.

CALVIZIE


Calliphora, Patricia Cornwell
Sun Dog, Monique Roffey
Se avete una zucca lustra e rosea sulla quale non cresce nulla - e la vedete, di scorcio, riflessa nelle ve­trine mentre passate - magari sarete costernati per la scomparsa dei vostri boccoli come, forse, di un po' della vostra virilità. Guardate con invidia le folte criniere che vi circondano, e vorreste che i loro possessori vi cedessero qualche ciocca. Vi invitiamo, però, a riflettere sull'evoluzione umana, da scimmia a essere quasi glabro. Siete voi l'essere superiore, la vostra fronte altissima è segno di maggiore evoluzione. Sono quei bruti con la zazzera che dovrebbero essere intimiditi dalla vostra presenza, loro che sicuramente si raderebbero a zero, se avessero abbastanza cervello per pensarci.
Se questo non basta a rassicurarvi, leggete il diciassettesimo romanzo di Patricia Cornwell, “Calliphora”. Jean Baptiste Chardonne è nato con una folta peluria nera - che non gli copre solo la testa, ma anche il resto del corpo. Da bambino veniva trattato come una creatura bizzarra, nascosta agli sguardi altrui dai genitori imbarazzati. Diventato adulto ha ormai accettato il ruolo del mostro, di ripugnante «lupo mannaro» - non solo a causa della sua pelliccia, ma per come questa si associ a un corpo deforme e a un viso dagli spaventosi lineamenti animaleschi.
In questo romanzo peli e capelli sono dappertutto, intasano i lavandini, restano a ciuffi in mano alle persone, vengono lasciati come indizi su alcuni cadaveri. Finiscono, anche, sotto la lente di ingrandimento di Kay Scarpetta, il medico legale che si occupa del caso (e ha già incontrato la belva irsuta). Mentre Scarpetta e Chardonne affilano gli artigli sulle rispettive corazze, il lettore sarà sempre più infastidito e disgustato da tutti quei capelli che si passerà una mano sulla pelata con indicibile sollievo.
Se poi avete bisogno di ulteriori prove che essere calvi è meglio, leggete “Sun Dog” di Monique Roffey. Il protagonista, August, è un uomo capace di modificare il proprio aspetto in accordo con le stagioni. In autunno ha i capelli arancioni, dritti sulla testa che sembra «una soffitta in fiamme». In inverno diventa azzurro, e secerne fiocchi di neve. In primavera gli germogliano le ascelle, i capezzoli e le orecchie. D'estate, infine, perde i capelli a manciate. E proprio in quel momento, quando è calvo e più vulnerabile, che August incontra il suo vero amore. Per fortuna a lei non importa nulla se è glabro o irsuto; lo ama per quello che è.

Bugiardino

Mi dispiace di non avere (ancora) nella mia libreria il libro di Monique Roffey, che d’altra parte non mi risulta essere uscito in Italia. Invece ho, insieme alla collezione competa, gli scritti di Patricia Cornwell dedicati a Kay Scarpetta (in realtà posseggo 20 dei 21 libri, essendone appena uscito uno nuovo). Una serie interessante (soprattutto nelle prime uscite), con una dose ben documentata di autenticità scientifica, che a poco a poco si è incartata, anche se le ultime prove hanno segnato una risalita. Questa per la calvizie è una delle prove minori del periodo buio, illuminata solo dalla presenza del super bulbifero assassino.
Patricia Cornwell “Calliphora” Mondadori euro 9,50
[tram del 19 giugno 2011]
Un libro di passaggio, credo. E sicuramente minore, uno dei punti più bassi delle vicende Scarpetta&Co. Credo che ad un certo punto un autore (o autrice) affermata possa sentire la mancanza di ispirazione. Ma l’industria del libro (soprattutto quella americana) ha leggi spietate. Immagino (questa è pura finzione mia) che la Cornwell abbia ricevuto il solito anticipo per scrivere un libro, ma che non venivano idee nuove e/o originali. A parte, forse, quella legata al titolo, anche se il moscone della carne (in inglese blowfly, dal nome latino di Calliphora vicina) compare un paio di volte nel libro per spiegarne l’uso forense nel determinare il tempo della morte di un cadavere. Per il resto è una pura e semplice prosecuzione del precedente, dove si riprendono temi e personaggi, ma in tono minore, con molta stanchezza. Intanto ci sono due grossi fatti che condizionano il libro: il primo è che l’ottimo Benton (l’agente amato da Kay) dato per morto nei due libri precedenti si è solo eclissato perché così può continuare le sue indagini sul cartello degli Chandonne senza mettere in pericolo Kay e compagnia. L’altro è che la simpatica Lucy, fino ad ora allegra gay con amori simpatici anche se sfortunati, viene occultata al rango di “donna caliente”, tacendo le sue tendenze amorose, come se, in un soprassalto di perbenismo, non fosse più “pagante” il suo ruolo e l’autrice cercasse di ricrearle una verginità. Terzo elemento, minore se vogliamo, ma condizionante, la Scarpetta ha un ruolo decisamente marginale. Sì, compare ed accompagna tutto il libro, ma non ne è il motore pulsante. Quasi che, la famosa morte di Benton la svuoti della carica di protagonista. Così anche l’altro elemento della banda, il buon Pete Marino, risulta sfuocato, a volte più preso dalle sue turbe familiari (la mancanza di una seria vita affettiva, ed il dirazzamento del figlio, che si scopre avvocato dei cattivi e molo, molto corrotto). Per fare un po’ di esotismo, ci si sposta dalla Virginia, sino ad ora teatro delle gesta anatomo-patologiche, a Baton Rouge in Louisiana. Si ha così modo di fare un po’ di colore locale, sia sull’inadeguata polizia, sia sui meandri paludosi e malavitosi delle paludi del Mississippi. Ritrovandoci, come è ovvio, i gemelli Chandonne. Jean - Paul alla deriva in Louisiana, dove uccide a più riprese donne bionde nella speranza di uccidere prima o poi la bionda Kay. Jean Baptiste nel braccio della morte di Houston, in attesa di una sentenza che tarda a venire. Ma è tutto trascinato via. Come dicevo, come se fosse un libro di passaggio. Si deve giustificare l’abbandono della polizia da parte di Lucy, che mette su una sua agenzia investigativa (e credo che la rivedremo più pimpante nelle prossime opere). Si deve giustificare il ritorno di Benton (con una patetica scena di odio-amore con Kay). Si devono eliminare un po’ di rami secchi, e così si fanno morire, in vario modo, uno dei gemelli ed il figlio di Pete. Si deve lasciare in vita l’altro gemello, errabondo in qualche luogo (così che ce lo ritroveremo nelle prossime avventure). E si tira fuori un ragazzino di 10 anni, cui (per diverse cause che non narriamo) muoiono i genitori, e vuoi vedere che qualcuno dei nostri se ne occuperà? Ma non c’è un vero giallo, una vera ricerca, un thriller. Nulla di nulla di nulla. E penso soprattutto a chi si trovasse, malcapitato, a leggerlo prima di altri. Poi magari legge quello che ho tramato poco tempo fa e scopre che chi ora è vivo lì è morto. Un voto bassino, ma di molto. Comunque ci si tornerà sopra, che la mamma ha voluto per regalo la serie completa.

Conclusioni

Seppur pieno dell’irsutismo del piccolo Chandonne (a proposito, un punto di demerito ai curatori del libro di Sellerio, che il “mostro” si chiama Chandonne e non Chardonne!), e non avendo la controprova del secondo libro, credo che questa volta la cura proposta dalle nostre dottoresse non sia molto efficace. Perché non è la calvizie la prima cosa (ma neanche la seconda o la terza) che viene in mente leggendo “Calliphora”. Forse avrei citato al suo posto “Storia della mia calvizie” l’ironico libro dell’olandese Arnon Grunberg. O meglio ancora, quell’apologo di retorica del afro-greco Sinesio di Cirene con il suo “Elogio della calvizie” dove sostiene (e ne abbiamo le prove nelle statue antiche) che i saggi ed i filosofi sono tutti calvi. Comunque, anche se leggere non aiuta ad allungare la chioma, aiuta senz’altro ad essere pronti ad affrontare il mondo (con o senza peli).

domenica 7 settembre 2014

Spanish Tales - 07 settembre 2014

Mettiamo un titolo inglese per una tramona di spagnoli, dove però non arriva il quarto e ci si mette un ottimo e robusto americano. Tra gli spagnoli, non mi ha convinto molto la prova di Mendoza, di cui avevo letto altro e mi sembrava meglio. E per nulla mi ha intrigato la complessa ed immaginaria storia personale di Jodorowsky. Meglio, e di molto, i dolci ricordi di Skármeta (con nella testa le immagini sempre presenti di Troisi) e le girandole di San Francisco dove ci portano le invenzioni e le storie di Maupin.
Eduardo Mendoza “O la borsa o la vita” Feltrinelli s.p. (prestito di Roberto “Fako”)
[A: 08/11/2013– I: 24/02/2014 – T: 27/02/2014] - &&
[tit. or.: El enredo de la bolsa y la vida; ling. or.: spagnolo; pagine: 235; anno 2012]
Peccato, peccato anche qui. Traduzione così, verve così, tutto un po’ così. Come dice una persona con cui ne ho parlato, si sente che gli anni passano. E già, perché negli anni ’90, le vicende del detective senza nome, che Mendoza ci tramanda con quei capolavori pirotecnici de “Il mistero della cripta stregata” o “Il tempo degli ulivi”, avevano un altro passo. Qui rimane una comicità di testa, che si perde nell’insipienza di una trama che non esiste. Sono tutti spunti, momenti di vita barcellonese, dei soliti personaggi ai margini che Mendoza cura e ci descrive con la sua indubbia perizia. Ma non c’è carica eversiva come quando, nell’anno della morte di Franco usciva l’inarrivabile “La verità sul caso Savolta”. Senza parlare della traduzione, che cerca di restituirci momenti ilari, ma non sempre ci riesce. E soprattutto se si parte dal titolo. Un conto è parlare di un grido da rapinatore sbandato, quell’italiano “o la borsa o la vita”. Un altro è parlare dell’imbroglio della borsa e della vita. Mendoza vuole dirci che siamo tutti in una grande crisi. Poco lavoro, poco prospettive, pochi euro che girano. Le banche fanno prestiti solo per strangolare i mutuati. E l’Europa non da prospettive, soprattutto prospettive comuni. Per questo, il nostro ironico scrivano imbastisce, con i suoi soliti personaggi di questi quattro episodi del detective senza nome, una storia senza capo né coda. Dove i nostri tentano (ci riusciranno? Questo magari lo leggete) di salvare Angela Merkel da un rapimento e forse da un omicidio in terra di Spagna. La banda dei buoni è la solita unione di strambi personaggi “alla Mendoza”. In testa a tutti, il detective senza nome, sempre con un passo sbagliato rispetto alla realtà. Lui vede problemi e soluzioni, ma il mondo è sfasato rispetto a lui. Per questo, fin dal tempo della cripta, la maggior parte del tempo lo passa in manicomio. Ora ne è uscito da un po’, e come ci avrebbe detto il terzo episodio, non ancora uscito in Italia, ha messo su un (inutile) parrucchiere per signora (“La aventura del tocador de señoras”). Ma quando scompare il suo pazzo amico Romulo el Guapo, uno che si inventa rapine che più pazze non si può, e che per questo anche lui si ritrova spesso in manicomio, il nostro si attiva. Spinto anche dalla piccola Quesito (questo il nome originale della così tradotta Formaggino). E nelle indagini e ricerche coinvolge le statue viventi delle Ramblas, utilizzate come pali per controllare entrate ed uscite da palazzi pieni di sospettati. O la stramba Moski, fuoriuscita russa, stalinista nell’anima, che si guadagna la vita suonando una fisarmonica senza saperlo fare. O Menelik, il moto-pizzettaio che si mangia le pizze invece di consegnarle a domicilio. Il nostro e la sua banda, di errore in catastrofe non potranno che portare avanti la loro lotta alternativa allo status quo, inscenando gustosi siparietti con i vicini di strada, i cinesi del bazar. Ovviamente Mendoza ne approfitta per fare una (piccola) critica alle economie occidentali che da un lato lasciano molto spazio agli orientali senza orari, dall’altro ne cercano aiuto in caso di difficoltà. Ed altrettanto gustosi i siparietti con il finto santone yogi, innamorato non corrisposto della moglie di Romulo. Alla fine ci scappa anche un insight del nostro detective con la madre di Quesito, che scopriamo essere l’Emilia già incontrata nelle altre puntate della saga. Ma il testo scorre veloce, senza dare troppo aiuto ai pensieri profondi, soltanto con qualche sorriso (certo, vedere la Merkel svampita innamorata ancora del giovane Manolo incontrato in gioventù, o Candida, la sorella del nostro, che ne fa la controfigura, sono dei gustosi cammei). Non ne ho visto le critiche sociali che sembra adombrino la quarta di copertina, o altre critiche accolte in giro. No, comicità, divertissement, ma niente, niente di più. Mendoza è bravo ad imbastire situazioni surreali come se fossero possibili. Ma non va molto più in profondo. Un’altra occasione non centrata completamente.
Antonio Skármeta “Il postino di Neruda” Einaudi euro 9,50 (in realtà, scontato a 7,13 euro)
[A: 01/02/2014– I: 04/04/2014 – T: 05/04/2014] - &&&&
[tit. or.: Ardente pacienca; ling. or.: spagnolo; pagine: 117; anno 1985]
Un altro bello anche se non eccellentissimo romanzo. Di quelli che una volta farebbero piangere lacrime a fiumi. Per la storia in sé. E per il suo contesto, cioè quel bello e dolentissimo film che segnò l’ultima apparizione di Troisi, morto poche ore dopo la fine delle riprese. Sono 20 anni che Massimo c’ha lasciato, ma il suo ricordo è sempre lì, o qui nella memoria. Ma il contesto è anche il Cile dell’85, dodici anno dopo il colpo di stato militare. Ed allora, dimentichiamoci il film (anche se quella prima apparizione della Cucinotta…), e veniamo al veloce romanzo breve. Sicuramente torneremo sulla sciagurata traduzione del titolo alla fine di questa trama. La storia in realtà è breve come il romanzo. C’è Mario, ragazzo di 17 anni, sognatore, senza arte né parte. Siamo nel 1969, e siamo ad Isla Negra (che non è un’isola ma una località ad un centinaio di chilometri da Santiago), dove per decenni ha eletto la sua residenza Pablo Neruda (che in realtà non si chiamava né Pablo né Neruda, ma Ricardo Neftalì Reyes Basoalto). Mario ha solo una bicicletta, e per questo viene assunto come postino. Con un unico cliente, appunto il poeta, dato che nessuno riceve lettere ad Isla. Il rapporto tra i due si fa prima di sguardi, poi di timide avances di Mario, affascinato dalla poesia. Il sessantacinquenne poeta non è molto incline alla confidenza, ma viene poi preso dall’innocenza di Mario, dal suo entusiasmo. E diventano grandiose le discussioni tra i due sulle metafore e sul loro uso in poesia. Parallelamente al rapporto di conoscenza, se non di amicizia, tra i due, si sviluppano due momenti importanti per Isla Negra, uno interno ed uno esterno. Si avvicinano, dall’esterno, le elezioni del settembre del 1970, quelle che portarono al Governo Allende, con la grande spaccatura del popolo cileno, anche sotto la spinta delle manovre nordamericane. Dall’interno, Mario conosce la giovane Beatriz e se ne innamora perdutamente. Tanto che chiede al poeta di aiutarlo a conquistare il cuore della donna. Neruda non lo fa direttamente, ma rinfocola la via di Mario alla metafora, e con le parole, le azioni, e vincendo la resistenza della futura suocera, finalmente i diciottenni convolano a giuste nozze. Intanto Neruda è nominato ambasciatore in Francia e lascia Isla Negra. Dove la vita procede, anche con la nascita del piccolo Pablo Neftalì. Mario aiuta l’osteria, ma nel 1971 è chiamato da Neruda ad una missione personale. Pieno di nostalgia, il poeta vuole sentire i suoni di Isla Negra, e Mario gira con un registratore per la zona, cogliendo le campane, la risacca del mare, i gabbiani che si alzano in volo, ed il pianto del piccolo Pablito. È uno dei momenti più belli la descrizione dei suoni del nastro. E poi Mario riunisce tutta Isla Negra, di destra e di sinistra, persino il fascista Labbé, per vedere alla televisione il conferimento del Premio Nobel a Neruda. Ma se la storia di Mario e Beatriz prosegue con passione (e tanta) non altrimenti avviene nel Cile, che passo dopo passo si avvicina al baratro. Nell’agosto del ’73 Neruda torna a Isla Negra malato. Mario cerca di confortarlo, ma anche la moglie del poeta, Matilde, è preda ad oscuri presentimenti. Poi, il settembre nero, il golpe di Pinochet pagato dalla CIA, la morte di Allende, l’occupazione militare di Isla Negra. Ed il poeta viene prelevato, portato nella capitale, dove, 12 giorni dopo il golpe muore. Amato da tutto il paese, i generali negano i funerali. Solo Mario, nella cittadina, ne fa l’orazione, internamente, ricordando il passaggio della poesia di Rimbaud citata da Neruda al Nobel (“armati di ardente pazienza entreremo nelle città splendide”), verso che il poeta riprende nella sua bellissima poesia “Lentamente muore”. Il giorno dopo Labbé arresta Mario, che “desaparece”. Rimango quindi sul testo (scordando definitivamente il film), sottolineando la dolenza estrema che Skármeta infonde nelle delicate descrizioni della vita di Mario. Della sua presa di coscienza, e della sua scomparsa a soli 21 anni, insieme alla migliore gioventù cilena (quella dei Victor Jara, delle Violeta Parra, dei Miguel Littin, e di tanti altri). Un libro triste, ma con la speranza che “Solamente l’ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicità”.
Alejandro Jodorowsky “Quando Teresa si arrabbiò con Dio” Feltrinelli s.p. (prestato da Alessandra)
[A: 26/04/2014– I: 27/04/2014 – T: 30/04/2014] - &
[tit. or.: Donde Mejor canta un Pájaro; ling. or.: spagnolo; pagine: 331; anno 1992]
Anche questo viene dal natalino dell’arabista, e sono stato “piacevolmente” costretto a leggerlo dall’insistenza di chi voleva un parere su di un autore che conosco (per altre cose di cui dirò) e che non era riuscito a convincere. Veniamo allora a Jodorowsky, che frequentavo una trentina di anni fa, quando insieme al geniale Moebius diede vita ad uno dei più bei fumetti della storia dei comics: “L’Incal”. Una storia onirica, complicata, ma rese graficamente da Moebius con una capacità e semplicità che ne smussava i toni altri. Conoscevo anche in parte l’opera teatrale del nostro, più che altro perché ero stato un ammiratore in gioventù del grande Fernando Arrabal. Poi lo avevo lasciato andare per la sua strada, non convinto né dalle sue performance filmiche (“El Topo” o “La montagna sacra”), ed in seguito per quella svolta verso la disciplina esoterica da lui inventata: la psicomagia. Mi era sembrata una strada non mia, che non mi avrebbe portato nulla di interessante, coniugando dimensioni che (in parte) conosco come carattere e psicologia, ad altre che sinceramente non mi convincono o coinvolgono (magie, onirismi, ed altri stati di alterazione). Certo Jodorowsky è un personaggio interessante, con quegli anni passati alla corte di Marcel Marceau che sicuramente andrebbero ripensati e rivalutati. In questo libro, che non è altro che la trasposizione magica della storia della famiglia Jodorowsky, a partire dai nonni paterni per arrivare alla nascita del nostro, questa storia viene “stravolta” non tanto capovolgendone o inventandone avvenimenti, quanto amplificandoli ed inframmezzandoli da salti logici, che secondo Jodo fanno parte del suo realismo magico. Come quando parla del terremoto che accoglie i suoi all’arrivo a Valparaiso o quando immagina se stesso nella sua incarnazione precedente che tira le fila per far congiungere quelli che aveva deciso fin dalla cacciata degli ebrei dalla Spagna che fossero i suoi genitori, cioè Jaime e Sara Felicidad. La realtà, depurata dai suoi voli eccessivi, è in realtà abbastanza (anche se non completamente) semplice. Nel tardo diciannovesimo secolo, Aleksandr Levi (n.1873), nonno paterno di Jodorowsky era un ebreo ucraino che nel 1900 si sposa Teresa Groismann (n.1879). L'anno seguente, nasce Jaime, il secondo di cinque fratelli (il figlio maggiore muore annegato e nonna Teresa ne sarà stravolta per tutta la vita) e sarà l’unico ad avere a sua volta dei figli. Nel 1909, il nonno  compra il cognome Jodorowsky da un nobile polacco e cambia legalmente il suo originale nome ebraico, Levi, probabilmente a causa dei pogrom che avvenivano nella regione, ma secondo l'autore l’ha fatto per evitare al polacco di essere arruolato nell'esercito. Poco prima della fine della prima guerra mondiale, i nonni paterni di Alessandro fuggono in Francia. A Parigi sono aiutati da un gioielliere di nome Moishe Rosenthal, membro del Comitato  israelita di Mutuo Soccorso. Poco dopo partono per Marsiglia e, come molti altri immigrati ebrei della diaspora, da qui partono con i loro figli in Sud America, con un viaggio che termina in Cile, da dove non torneranno  mai più in Europa. La migrazione di sua madre, Sara Felicidad Prullansky, nata a Buenos Aires è più complicata. Durante l’epoca dei pogrom fomentati dallo Zar Alessandro III, Jashe, la nonna materna, sefardita, bruna di pelle, viene violentata da un cosacco. Incinta, fugge dalla Russia, sbarca in Argentina, dove dà alla luce una ragazza dalla pelle di marmo e dai grandi occhi azzurri: Sara. La nonna Jashe sposa poi in Argentina un uomo d'affari ebreo, Mosè, con il quale ha altri due figli. La famiglia si trasferisce a Iquique, un porto fiorente dove venivano imbarcati nitrati per l’Europa. Sua madre Sara ha una relazione peccaminosa con un non-Ebreo e la famiglia la costringe quindi a sposare Jaime Jodorowsky, spostandoli nella vicina Tocopilla per sfuggire ai pettegolezzi della comunità ebraica di Iquique. Pertanto, nel suo albero, oltre agli ucraini paterni, ci sono per via matrilineare ebrei polacchi (i Prullansky), i lituani (Trumper), i russi di origine germanica (Groismann) e sefardita (Arcavi). Tuttavia Jodorowsky non ha mai ricevuto come figlio l'educazione religiosa ebraica (o di qualsiasi altra religione), se non altro perché suo padre, un militante comunista, era profondamente anti-religioso. Anche per questo, nella parte cilena, l’autore infarcisce il tutto con manifestazioni, attentati anarchici, ed altre diavolerie pseudo-rivoluzionarie. Jodorowsky ha spiegato innumerevoli volte che dal divieto del culto religioso, emerse il suo interesse per lo studio di molte religioni e dei loro simboli, che lo porta alle sue teorie attuali. Jodorowsky basa la sua  metodologia sul presupposto che l'inconscio prende atti simbolici come fatti reali,  in modo che un sacro atto simbolico magico può cambiare il comportamento dell'inconscio, e quindi se bene applicato, può curare alcuni traumi psicologici. Questi atti sono "su misura"  e sono prescritti dopo che lo "psicomago" analizza le caratteristiche personali del cliente, anche studiandone l’albero genealogico. Per questo, Jodorowsky ha creato anche la Psicogenealogia. Questa parte della premessa che certi traumi e comportamenti inconsci vengono trasmessi di generazione in generazione, in modo che, un individuo, per  diventarne consapevole e separarsi da loro, deve studiare e poi agire in base al suo albero genealogico. E questo risulta anche dal titolo di questo romanzo che si riferisce proprio alle origini di una persona. Il titolo spagnolo si riferisce a “Dove meglio canta un uccello”, riprendendo una frase ironica di Jean Cocteau che dice “Un uccello canta meglio sul proprio albero genealogico”. Mi convince allora Jodorowsky e tutto ciò? Devo proprio dire di no. Come non mi è piaciuta, non mi ha coinvolto la scrittura. Senza la mediazione della grafica, rimane un esercizio per “épater le bourgeois”, e non è nelle mie corde. Ritengo che Jodo abbia di certo una bella testa, ed una capacità di essere ancora ben lucido alla sua attuale età di 85 anni. Anche se, appunto, le sue fantasie non mi incuriosiscono. Come, e per finire, nel sostenere nel libro di essere nato il giorno della caduta delle borse di New York (che ricordo essere il 24 ottobre del 1929), mentre in tutte le biografie risulta essere nato il 7 febbraio dello stesso anno. Mah!
Armistead Maupin “I racconti di San Francisco” BUR euro 10 (in realtà, scontato a 8,10 euro)
[A: 01/02/2014– I: 13/07/2014 – T: 15/07/2014] - &&&&
[tit. or.: Tales of the City; ling. or.: inglese; pagine: 480; anno 1978]
Un libro allegro, scanzonato, fuori le righe, certo, sicuramente datato (ha quasi quaranta anni!). Anche, se vogliamo, pieno di luoghi comuni (San Francisco città della gioia, dove tutto è permesso e tutto è possibile, ma anche città della tristezza dove non si realizza nulla e si va alla deriva). Sarà, comunque Maupin proprio quaranta anni fa, nel 1974, inizia a scrivere prima su un giornale locale, poi sul più diffuso “San Francisco Chronicle”, dei piccoli pezzi sulla città. E non a caso questi si chiamavano “Tales of the City” (Racconti della città). In cui si parlava di rapporti, di lavoro, di gay, di spinelli, di licenziamenti, di appartamenti, di strade. Quasi come tanti anni dopo, anche se con meno allegria, farà McCall Smith con Edimburgo e il 44 di Scotland Street. Dopo due anni di raccontini,  l’editore gli chiede di omogeneizzarli nello stile, e di dar loro una veste “libresca”. Esce così il libro che ho appena finito di leggere. Che per molti versi è irraccontabile. Proprio perché è un continuo “episodizzare”, anche se, volendo tirare un filo, possiamo seguire Mary Ann Singleton (cognome tutto un programma, che, in effetti, è forse la sola che non riuscirà a concludere nessuna storia) che decide di lasciare la triste e natia Cleveland per cercare fortuna nella grande città. Trova un posto da dormire al 28 di Barbary Lane, dalla simpatica Anna Madrigal, che nel retro della casa ha una piccola coltivazione di “maria”, ed accoglie gli ospiti offrendo loro uno spinello augurale. Trova anche lavoro presso il boss Halcyon, che è il contraltare come atmosfera di Barbary Lane: posto di lavoro duro, dove si licenzia facile, ma che vive una vita parallela con la casa. E spesso i personaggi si mischiano. Quando si innescano giri alla Schnitzler, con Michael, abitante della casa, gay sfortunato che ha una storia con Jon, il quale lo lascia, ed in una sauna è rimorchiato da Beauchamp, il genero di Halcyon, la cui moglie è in cura dal ginecologo Jon (si quello gay). E così sfreccia la vita, dove appunto, sono più i personaggi che fanno la storia che la storia in sé. Oltre alla sunnominata Mary Ann, ne abbiamo tanti. Anna Madrigal, come detto la proprietaria della casa, che cerca un rapporto materno con ciascuno dei suoi inquilini, solo un po’ più aggressivo con Mona Ramsey; spinge sempre Mary Ann verso qualche “avventura”, ma più che altro, intreccia una tenera storia d’amore con il morente Edgar Halcyon (sempre nell’intreccio tra i due filoni). Mona Ramsey il contraltare di Mary Ann, bohemien, e malinconica, si ritrova disoccupata, licenziata da Beauchamp dopo una giornata tremenda in ufficio, convince il suo amico gay Michael a restare con lei, fino a che non decide di riallacciare un rapporto con la sua vecchia fiamma D'orothea Wilson, una strana modella di colore. Michael 'Mouse' Tolliver, il migliore amico di Mona ed il confidente di Mary Ann; Mouse è fiducioso che alla fine tutto andrà bene, anche se passa di storia in storia, e tutte gli vanno male, anche quella che sembrava promettente con il ginecologo Jon. Brian Hawkins un cameriere per scelta dopo aver abbandonato la professione di avvocato a seguito dei moti del ’68; considerato un donnaiolo, passa quasi tutto il suo tempo alla ricerca di  discoteche e taverne dove rimorchiare. Norman Neal Williams vive nel sottotetto della casa, ed è schizzato da tutti, solo Mary Ann prova ad avere una relazione con lui, che finirà male quando si scopriranno segreti che non vi narro (volete leggerlo o no questo libro?). Jon Fielding, il ginecologo, si fidanza con Mouse per un breve periodo, ma lui è della cerchia dei gay di alta levatura, gli omosessuali snob che fanno una casta a sé stante, oltre però ad essere il centro di quel girotondo che ho accennato sopra. Beauchamp Day è il marito narcisista e donnaiolo di DeDe, che trova modo di avere relazioni extraconiugali sia con Mary Ann (che è segretaria di Edgar, ma con cui esce una volta sola) e con Jon. DeDe Halcyon è una delle infelici donzelle d’alto bordo della parte “ricca” di SiFi (come viene chiamata San Francisco per contrapposizione con LA – Los Angeles), per noia ha una relazione con un fattorino cinese, che la mette incinta, poi va in una clinica sofisticata per dimagrire, dovendo al ritorno, magra ed agguerrita, combattere con la gravidanza e le scappatelle del marito. Infine Edgar Halcyon, capo della ditta dove transitano molti dei nostri, allontanatosi da Frannie, la moglie alcolista, che si accompagna con Anna durante la fatale malattia. Il tutto per restituirci il senso della vita nella città, al tempo in cui tutto sembrava possibile. E Maupin lo fa con una scrittura fresca, che attraversa con ironia anche i momenti cupi, e rende plausibile ogni eccesso (ma poi scopriamo che si fanno veramente le gare di ballo in mutande per soli gay…). Chiudendo, come fa l’autore nella bella postfazione che percorre anche i fatti ed i libri successivi a questo primo, con la “gioiosa accettazione della differenza che è il bello della vita a Barbary Lane”.
Nel giugno si sono lette altre 17 storie (di cui ben 5 provenienti da regali, quasi un record), ma senza che nessuna superi la mediocrità. E con una delle peggiori prove del buon Vitali, che quando si allontana dal ventennio stenta a trovare corde discrete per le sue frecce.
#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Carlo Barbieri
La pietra al collo
Sole 24 ore – Noir
6,90
3
2
Andrea Vitali
Galeotto fu il collier
Garzanti
s.p.
3
3
James Lloyd Carr
Un mese in campagna
Fazi editore
12,50
3
4
Alexander McCall Smith
Lettera d’amore dalla Scozia
TEA
9
3
5
Andrea Vitali
Dopo lunga e penosa malattia
Garzanti
9,90
1
6
Camilla Läckberg
L’uccello del malaugurio
Marsilio
s.p.
2
7
Kathy Reichs
La cacciatrice di ossa
BUR
9,90
3
8
Kathy Reichs
La voce delle ossa
BUR
13
3
9
Alexander McCall Smith
The World according to Bertie
Abacus
s.p.
3
10
Elena Ferrante
L’amica geniale
E/O
s.p.
3
11
Clive Cussler & Grant Blackwood
L’oro di Sparta
TEA
9
2
12
Giorgio Scerbanenco
Le spie non devono amare
Corriere della Sera
6,90
3
13
Andrea Vitali
La leggenda del morto contento
Garzanti
10,90
3
14
Andrea Camilleri
Un covo di vipere
Sellerio
14
2
15
Herman Koch
La cena
Beat
9
2
16
Roberto Mazzucco
I sicari di Trastevere
Sellerio
13
3
17
Pino Cacucci
Mahahual
Feltrinelli
s.p.
3

Come sapete dalle mie altre scritture, dopo i fasti francesi, si stanno azzerando le possibilità di viaggiare4 nel breve con le nostre Avventure. Se fossi meno pigro dovrei approfittarne per mettere ordine in tutte le altre e quotidiane faccende. Speriamo di esserne capaci.