domenica 30 marzo 2014

E si torna agli scandinavi - 30 marzo 2014

Se la settimana scorsa siamo tornati ai seriali in genere, non poteva mancare una seconda puntata dedicata ai seriali scandinavi, che tanto successo hanno negli ultimi anni in Italia. Due puntate in Norvegia con Harry Hole, il detective di Jo Nesbø e due in Svezia, una con il da poco arrivato Gunnar Barbarotti di Nesser, ed una con l’ormai arrivato al capolinea commissario Wallander di Mankell. Una settimana di medio piacere (a parte il poco entusiasmante commissario) e di molto relax di lettura.
Jo Nesbø “L’uomo di neve” Piemme euro 14 (in realtà, scontato a 10,50 euro)
[A: 01/11/2012– I: 29/11/2013 – T: 02/12/2013] - &&&
[tit. or.: Snømannen; ling. or.: norvegese; pagine: 531; anno 2007]
Ed eccoci ad un nuovo capitolo di Harry Hole e della sua Norvegia. Nesbø sfoggia al meglio la sua capacità di intrecciare vicende, purtroppo però, la storia (o forse la vita) di Harry gli prende un po’ la mano. Non risulta scorrevole come nelle precedenti, anche se riesce (e qui ci vuole un po’ di maestria) a presentare tre diversi e plausibili colpevoli, prima di approdare a quello definitivo, in un bel finale serrato (uno di quelli che ti incolla alla pagina, segno di una bella capacità di scrittura). Peccato però che quando chiudi il libro e ripercorri le vicende narrate senti che tu lettore avresti potuto fare meglio. E ti ricordi le battute delle prime pagine, e ti dici: "Perbacco, se fossi stato più attento… O se il libro fosse più corto…" (perché non è sempre facile collegare una frase delle prime pagine con una seconda che si trova verso pagina 350, e chiudere il cerchio con una terza oltre pagine 480!). Intanto, e finalmente, Nesbø riesce ad imbastire una storia con un serial killer. Sappiamo che la carriera di Hole era iniziata con la scoperta di un serial killer australiano (in uno dei due libri non tradotti in Italia), e che spesso pensava di averne uno sotto le mani, ma non era mai così. Qui, abbiamo un paio di morti (anzi di morte che il fulcro è l’uccisione di donne) con modalità analoghe. E con la comparsa sulla scena del delitto di pupazzi di neve (Snømannen in norvegese), con dentro, sopra, intorno, pezzi di cadaveri. Come i migliori serial, poi, non sembra esserci legame apparente fra le donne uccise. Intanto, la squadra di Harry (dopo la morte del suo aiutante) si amplia con l’immissione della bella Katrine proveniente da Bergen. Ed in parallelo, la vita personale e sentimentale di Harry si complica alquanto. Rakel trova un buon rifugio in Mathias, ma è sempre presa intimamente da Harry, con il quale ritrova intese sessuali perdute. E Oleg, il figlio di Rakel, tiene sempre Harry come stella cometa da seguire. Ma ci sono sempre “i mostri” dietro l’angolo. Katrine non sembra così lineare come potrebbe essere, dà sempre delle dritte ad Harry (anche se non esplicite). Ad esempio, tirando fuori una statistica di donne scomparse negli ultimi 12 anni, statistiche “fuori norma”. Harry, da buon segugio, comincia a fare due più due. E prima trova qualche legame possibile (le donne frequentavano tutte lo studio del dr. Idar Vedlesen), poi ipotizza un collegamento con le prime uccisioni avvenute proprio a Bergen, inclusa quella del poliziotto che guidava le indagini. Cerca anche di farsi aiutare da Mathias, anche lui dottore, e frequentatore in giovinezza di Vedlesen. Anche un noto donnaiolo e giornalista ha frequentazioni con il dottore, ed anche qui si accumulano sospetti. Perché ben presto si scopre che tutte le donne uccise avevano avuto figli da relazioni extra-coniugali. E che lo studio di Idar e Mathias faceva un elevato numero di test di paternità. Tra morti efferate che continuano (che il serial killer usa uno strano cappio incandescente per le sue esecuzioni, strumento altrimenti noto in veterinaria) e misteri che si svelano, Nesbø ci porta a tappe forzate verso la soluzione. Ma chi sarà il misterioso pupazzo-assassino? Prima si pensa a Idar, che tutte le donne transitavano da lui, e soprattutto quando misteriosamente muore. Poi si passa al don Giovanni, che almeno due delle morte avevano fatto un figlio con lui. Intanto Harry scopre il cadavere di Rafto, il poliziotto di Bergen, e scopre che è anche il padre di Katrine, la quale tenta di uccidere il libertino. Harry lo salva, fa tutto un ragionamento sulla possibile pazzia di Katrine, fino ad arrestarla in un drammatico sotto-finale. Ma alla fine, nel vero e lungo epilogo, si ripercorrono tutte le morti, questa volta insieme al killer (che ha la stupenda intuizione di farsi amico il poliziotto che indaga sulle morti, per poi ucciderlo se arriva troppo vicino alla verità, come ha fatto con Rafto). Killer che soffre di sclerodermia, per cui vorrebbe uccidere il maggior numero di adultere (ricordi infantili) per poi essere ucciso prima che la malattia uccida lui. Harry invece lo salva, e lo condanna ad un ergastolo psichiatrico quanto mai pieno di sofferenze. La catarsi fa uscire dalla psicosi Katrine, che tornerà a lavorare a Bergen. E sembra mettere su binari nuovi il rapporto tra Harry e Rakel. Vedremo. In conclusione, una trama che si stratifica giorno dopo giorno (Harry ci mette un mese a sbrogliare la matassa), lasciandoci a volte un po’ perplessi. Tuttavia la penna è buona, e la cosmogonia norvegese ne viene fuori in modo chiaro e preciso. Peccato però che non sono riuscito a trovare la citazione del film di Marty Feldman che fa Harry in finale (“Penso che me ne andrò”, “Dove?”, “Non so, non cercatemi, soprattutto non nel Nord Africa”). Qualcuno sa da dove?
“Harry: - Ci sono alcune cose che non capisco di Katrine. Lo psicologo: - Per quanto mi riguarda, ci sono ben poche cose che capisco in tutti gli esseri umani. Quindi, come psicologo, sei più bravo di me.” (399)
Håkan Nesser “L’uomo che odiava i martedì” Tea euro 9
[A: 15/07/2012– I: 05/12/2013 – T: 07/12/2013] - &&& e ½
[tit. or.: De ensemma; ling. or.: svedese; pagine: 471; anno 2010]
Era decisamente molto tempo che non prendevo in mano un nuovo romanzo di Nesser (che per inciso è nato esattamente un giorno prima del mio amico Luciano). Che al solito trovo piacevole, nella scrittura e nella trama. Ormai siamo nel pieno della nuova serie (questo è il quarto episodio) ideata dallo scrittore svedese, per riprendere lena dopo i lunghi anni passati con il commissario Van Veeteren. Sempre nelle fittizie langhe della cittadina di Kymlinge, seguiamo da un po’ l’ispettore italo-svedese Gunnar Barbarotti. I personaggi si sono consolidati ed hanno una loro dimensione. Gunnar ha trovato un nuovo amore della seconda età con la bella Marianne. Ed ora vivono insieme, divedendosi la cura anche dei loro cinque rispettivi figli (2 suoi e 3 di lei, credo). Abbiamo conosciuto e seguito la parabola del suo aiutante, la simpatica Eva, che finalmente ha divorziato dall’insulso Ville, ed anche lei gestisce i suoi due figli, accudendoli a settimane alterne con il marito. Su tutto ciò si innesta “il crimine”. O almeno qualcosa di doloso, su cui bisognerà indagare e comprendere. In un dirupo tra i monti muore Germund, nello stesso luogo dove 35 anni prima era morta la sua compagna di allora, Maria. La narrazione, sin dall’inizio, si biforca sui due tronconi: il presente e l’indagine, da un lato, e la storia del gruppo di Uppsala dall’altro. Perché un gruppo era, formatosi ai tempi degli studi e del militare. C’è Rickard (che sottolineiamo di passaggio fa Berglund di cognome), che studia teologia ed è l’uomo che odiava il martedì, giorno in cui per lui capitavano avvenimenti infausti (o giudicati tali). C’è Tomas, di cui fa conoscenza i primi giorni di Uppsala, giovane pieno di idee e fascinoso, che si è appena messo con la bella Gunilla. C’è Maria, la sorella di Tomas, che ha sempre atteggiamenti “non usuali”, dicono perché ha sbattuto la testa da piccola in altalena. C’è Germund, il fisico teorico, uomo pieno di donne, ma che si lega di un amore assoluto con Maria (anche se ognuno ha altri rapporti, nella Svezia libertaria dei primi anni 70). C’è infine Anna, che studia giornalismo, e che si innamora e si mette con Rickard. Seguiamo il percorso dei sei durante il passaggio tra i 20 ed i 25 anni, segnato da un avvenimento “cruento”. Decidono di investire in viaggi organizzati, comprano un pullman per fare pratica, e vanno per un mese in giro per i Paesi dell’Est. Siamo ancora ai tempi bui, ed in quel di Timisoara, vengono “rapiti” dai poliziotti, che chiedono come riscatto una notte con una delle donne. Lì, Maria si sacrifica per tutti. Ma da quel momento, la vita di tutti loro inizia una decelerazione di amicizia. L’impresa di Tomas fallisce, e devono restituire i soldi. Gunilla ha due aborti spontanei e non riesce a rimanere in cinta. Germund si aggira tra tutti, rimanendo però sempre in disparte con quel suo misterioso fascino. Maria non parla con nessuno. Anna e Rickard si sposano. Poi, dopo tre anni decidono un incontro, una discussione serale (di cui non sappiamo molto) ed una giornata per funghi. Lì dove Maria muore. Disgrazia? Suicidio? Omicidio? La polizia di allora sospetta e indaga, ma non trova prove. Ora, dopo 35 anni, la morte di Germund riapre il caso. Gunnar indaga, scoprendo anche strani legami tra la sua Marianne ed il morto (anche se di più di cinque anni prima). Muore anche Anna, rosa dal cancro. E Rickard diventa sempre più cupo, ora che si sente (e forse è) definitivamente solo. Eva e Gunnar, leggono, chiedono, hanno intuizioni. Poi tutto precipita con un aneurisma che colpisce Marianne (ma si salverà). Gunnar che va fuori di testa, e, visto che certo ricordate il suo gioco a punti sull’esistenza di Dio, decide che il gioco finisce qui (non vi dico chi vince). Eva che costruisce i pezzi del rompicapo, arrivando alla conclusione che le morti sono state dolose. Ed in un finale di svelamenti, Gunnar mette la parola fine, svelando tutti i punti oscuri della vicenda. È un buon libro, decisamente. Bella la mano che segue le diverse atmosfere. Dispiace solo, forse, un po’ di lentezza in alcuni punti, soprattutto nelle vicende giovanili dei sei. E nell’insistere su di una colpa o forse un reato che uno di loro avrebbe commesso in gioventù. Non vi dico altro, se non sottolineando l’incongruenza della decisione del titolo italiano. L’originale era “Il solitario” che si attagliava a diversi personaggi, permettendo di mantenere un velo di mistero a molte vicende. Puntare i riflettori su Rickard, seppur d’effetto per la storia, risulta un punto negativo per la costruzione globale. Peccato.
“Con le faccende di cuore le cose vanno così: si sa, senza capire come si faccia a saperlo.” (140)
Henning Mankell “La mano” Marsilio euro 12
[A: 19/10/2013– I: 07/12/2013 – T: 09/12/2013] - && e ½
[tit. or.: Handen; ling. or.: svedese; pagine: 137; anno 2013]
Sinceramente sono un po’ deluso. Non è che mi aspettassi chissà che, perché io lo so (e lo sappiamo tutti) che Mankell ormai ha abbandonato il commissario Wallander. Il ciclo è finito, nel bene e nel male. Ma il battage che veniva fatto a questo libro faceva sperare in qualche cosa, in un piccolo brivido di piacere quando si incontra un vecchio amico e ci si aspetta antiche vicinanze. E invece… Intanto, non è un inedito, anche se non era stato pubblicato prima. Cioè, è un racconto scritto da Mankell per un premio letterario olandese nel 2004, poi utilizzato come sceneggiatura di uno degli episodi televisivi inglesi (lì dove il commissario è interpretato da Kenneth Branagh), e quindi riproposto ora da Mankell, con la promessa (come aveva detto dopo “L’uomo inquieto") che non esistono altre storie con Wallander. A tutta questa parziale mistificazione, si aggiunge la manchette dell’edizione italiana, che parla di Premio Chandler. Ma quello che non dice è che il Premio è stato assegnato a Mankell non per questo modesto libricino, ma è un premio alla carriera. Veniamo allora a queste poco più di 100 pagine. In realtà, abbiamo ben poco. E di quel poco, molto è stato già detto nel precedente libro (temporalmente successivo). Il commissario è stanco, probabilmente vuole andare in pensione, continua a non andare d’accordo con la figlia (su questioni marginali, ma la tensione c’è), vorrebbe trasferirsi in campagna e comprarsi un cane (e nel successivo sarà ormai così). Nel mezzo di questi piccoli avvenimenti privati (dormire, fare colazione, sentire musica, brontolare), il collega Martinsson gli propone una casa, tra l’altro vicina a dove viveva il padre (ora morto). Qui purtroppo Mankell imbroglia un po’ le carte, che nell’Uomo inquieto, la casa che compra è esattamente nello stesso posto e con la stessa descrizione di questa che va a visitare. Solo che quella è di agenzia, questa del collega. E questa non la prenderà, perché mentre la visita scopre una mano in giardino. Poi dalla mano risalirà ad un corpo (di donna) morto per soffocamento, e più tardi ad un successivo corpo (maschile) morto per un forte colpo alla testa (una vanga o simili). Probabilmente Mankell ha cercato di far quadrare i conti, modificando qualcosa in questo, viso che l’altro, già pubblicato in mezzo mondo, era difficile modificarlo. Tornando al romanzo, per tutto il tempo, dal ritrovamento in poi, Wallander cerca di scoprire l’origine della mano. Periodo natalizio nella Scania, con poco da fare per la polizia. Per cui Wallander, Martinsson, financo Linda la figlia, si mettono a scavare. Prima svolta: il medico legale dice che la morte è avvenuta una cinquantina di anni prima. Anche con questo suggerimento, non si cava ragno dal buco. E le pagine continuano a scorrere lente, comunicandoci soltanto la stanchezza (di Mankell e di Wallander) verso il lavoro e la sua monotonia. Seconda svolta è il ritrovamento del secondo cadavere, che fa ora ricercare una coppia e non più una donna sola. Utilizzando i dati catastali, Kurt risale a proprietari dopo proprietari, fino a trovarne una che si ricorda del periodo della guerra, e trova degli intonsi diari. Non male, leggere nel 2002 (anno di svolgimento della vicenda) dei diari tenuti in soffitta e risalenti al 1944! Lì Kurt trova il terzo indizio: l’accenno ad una famiglia estone, fittavola nella casa. E utilizzando i dati anagrafici, trova anche il figlio estone vivente, benché ormai oltre gli ottanta. Tutti i tasselli, faticosamente, andranno al loro posto, senza però che ci smuovano più di tanto. Insomma, un libro per smuovere un po’ il mercato in vista del Natale, ma che nulla aggiunge ai personaggi. E quando si tratta di fare indagini su vecchi casi, molto meglio il commissario Erlendur dell’islandese Indriðason. Provate per credere.
Jo Nesbø “Il leopardo” Einaudi euro 14 (in realtà, scontato a 10,50 euro)
[A: 01/11/2012– I: 14/12/2013 – T: 19/12/2013] - &&& e ½
[tit. or.: Panserkjerte; ling. or.: norvegese; pagine: 759; anno 2009]
Gli avrebbe giovato qualche centinaio di pagine in meno, che così risulta un po’ troppo lungo. Anche se Nesbø dimostra ancora una volta di saper maneggiare trame complesse, senza perdersi d’animo e senza dimenticarsi niente per strada. Peccato che il titolo italiano sposti l’attenzione da Hole (il titolo inglese si riferisce a qualcosa come “un cuore blindato” che è come si sente il nostro Harry o forse ad una pericardite, la malattia per cui sta morendo il padre di Harry) all’assassino che si muove silenziosamente proprio come un leopardo. Nesbø al solito costruisce un suo spaccato di mondo, dove entrano la storia poliziesca, fulcro della vicenda, ma anche tanti ruscelli laterali. Il più importante è la malattia terminale del padre di Harry, ed il rapporto tra lui ed Harry, durante colloqui e silenzi ospedalieri. Poi c’è il grande castello del rapporto tra Harry e Rakel (e Oleg, ovviamente). I due decidono di andarsene dalla Norvegia dopo essere stati in pericolo di vita nel finale del precedente. Avvenimento che Harry capisce ma non comprende. Tanto che si rifugia in Oriente, passando dall’alcool all’oppio. Ma anche quando torna, non sarà mai sopito. Anche quando rivede Rakel al funerale del padre. E sarà un caso, ma il librone si chiude su una lettera non aperta di Oleg che Harry non apre ancora mentre torna ad Hong Kong (mi sa che nel prossimo…). Infine c’è il rapporto tra Harry e le istituzioni: Anticrimine, Kripos (una specie di KriminalPol scandinava) e Ministero. È vero che Harry è un battitore libero (e per questo riesce a risolvere i complicati casi che ha davanti). Ma dovrebbe rispondere alla sua Unità, che manda l’ambigua Kaja a tirarlo fuori dalle peste orientali. E non dovrebbe mettersi in collisione con la Kripos, che sta tentando, tramite il suo capo Mikael di unificare (ovviamente sotto di sé) tutte le azioni criminali. Ovviamente Mikael è ambiguo, arrivista, e con qualche sassolino di gioventù da nascondere. Harry prima tenta di lavorare da sé, poi, per salvare la carriera a Kaja ed a Bjorn (il mago della scientifica) che lo hanno aiutato, accetta di inquadrarsi nella Kripos. Ma un suo passo falso in uno dei pre-finali, lo mette fuori gioco. Fortunatamente un giornalista amico tira fuori le magagne, ed alla fine Mikael avrà del lustro fingendo di aver risolto il caso, ma non la gloria per cui aveva lottato. E perderà (ma era ovvio) anche l’amante segreta che aveva. In tutto ciò, l’assassino dal piede felpato, il Leopardo del falso titolo, inanella una serie di omicidi. Tre (almeno) con un aggeggio di tortura che si dice inventato dai militari del Belgio in quel del Congo, e chiamato “la mela di Leopoldo” (inteso come re del Belgio). Oggetto a forma di mela, che si mette in bocca al malcapitato, si tira una cordicella e 24 lame sbucazzano il palato provocando la morte. Una, facendo saltare una donna con un cappio al collo dal trampolino di Holmenkollen. Altra con un pugnale. Una ancora, incollando il morituro alla vasca da bagno ed aprendo l’acqua. Il bello è che non si trovano i moventi. Almeno finché Harry non torna da Hong Kong. Tutte le persone morte erano transitate da una baia montana. Ne rimangono tre in vita: una donna, Iska, che si è trasferita in Australia, Tony un gigolò – investitore di capitali, ed un ignoto amante notturno. Si cerca di usare Iska come esca (scusate il bisticcio), facendola interpretare da Kaja. Ma il cattivo se ne accorge e provoca una valanga che seppellisce la baita dove stavano ad aspettarlo Harry, Kaja ed un poliziotto della Kripos. Una bella scena di panico sotto la neve, consente a due di loro di salvarsi (indovinate chi?). Ed Harry, collegando altri fattarelli e dopo una visita anche in Congo alla ricerca della mela, scopre il terzo incomodo. Guarda caso un infermiere che stava curando il padre (ma era un caso?), cui in gioventù Tony aveva praticamente tranciato la lingua per una questione di donne, che si era portato la bella alla baita, dove aveva visto Tony che se la scopava (ancora? Ma è proprio sfigato!). Ormai il cerchio si stringe, uno dei due è il colpevole. Ma mentre si cerca di incastrarlo, fugge. Saranno Harry e Kaja e ritrovarne le tracce di nuovo in Congo, arrivando al cruento epilogo vicino al cratere del vulcano Nyiragongo (per chi ricorda, uno degli epicentri del genocidio ruandese). La vicenda è anche piena di sottovicende: una famiglia ricca che adotta la figlia naturale della domestica, il problema dell’artrite dell’assassino e del padre, le vicende giovanili dell’assassino, compresa la strana morte della madre. D’altra parte ci sono quasi ottocento pagine da riempire. Comunque Nesbø scrive facile, il romanzo scivola molto agilmente (non come il quasi equilungo di Chandra), anche perché, rispetto ai precedenti, Nesbø ci mette più azione. Ci si sposta tra tre continenti: Europa, Asia, Africa. Non c’è solo Oslo. Ma Hong Kong, Lipsia, Copenaghen, Kigali, Goma, e via correndo per il globo. Pur tuttavia, è un filo lungo. Io non sopporto quando Harry si attacca alle bottiglie (capisco che sia un problema nordico, ma mi porta fuori pista dai solchi romanzeschi). E mi da fastidio non capire dove Nesbø vuole andare a parare sulla sua vita sentimentale. Chi sarà la bella vincente? E soprattutto, ci sarà? Però, in fin dei conti, a me HH (cioè Harry Hole) piace. Non sarà Pepe Carvalho o Salvo Montalbano e forse nemmeno Harry Bosch, ma mi piace. E spero che qualcuno si decida a tradurre i primi due libri mai arrivarti in Italia.
“Il fatto che qualcosa non sia accaduto non significa che non possa accadere.” (755)
“E poi stai invecchiando … perché … quando un uomo comincia a citare il proprio padre è vecchio. Fine dei giochi.” (756)
Una settimana (come vedete dagli occhielli) di lettura pre-natalizia, in un intorno di Tommaso. Mentre ora ci sono settimane di sistemazioni e di preparazioni. Anche se viaggi all’orizzonte se ne vedono pochi. 

domenica 23 marzo 2014

Torniamo ai nostri seriali - 23 marzo 2014

Dopo una settimana dedicata alla riflessione, eccoci ad una settimana dedicata all’evasione. Sempre di livello (abbastanza) ma con un ritorno alle lunghe serie dedicate ad investigatori, patologi, e commissari vari. Ritroviamo quindi la giornalista svedese Bengtzon e le sue storie (che cominciano ad incartarsi), la dottoressa Kay Scarpetta (le cui storie da tempo si sono incartate) ed il commissario Charitos, da cui mi aspettavo di meglio. Un po’ di riposo, quindi, per i nostri cervelli stanchi.
Liza Marklund “Finché morte non ci separi” Marsilio euro 12,50 (in realtà, scontato a 9,50 euro)
[A: 18/03/2012– I: 16/10/2013 – T: 18/10/2013] - && e ½  
[tit. or.: Livstid; ling. or.: svedese; pagine: 478; anno 2007]
Un romanzo che si apre praticamente sull’ultima pagina del romanzo precedente (“Il testamento di Nobel”) quasi senza rottura di continuità (e pare prosegua con il successivo “Freddo Sud” ipotizzando una trilogia all’interno della serie dedicata alla giornalista investigativa Annika Bengtzon). Sembra quasi un tentativo anche di mettere ordine a tutte le sue storie, che si sono andate dipanando in tutti i primi otto libri. Sia le storie gialle che le storie private. Mantenendo la cifra di questa giornalista sempre un po’ spaurita, sempre un po’ troppo al centro delle attenzioni, quasi che si trovasse suo malgrado a risolvere i casi che affronta. È anche (come dice nelle note finali l’autrice) il primo romanzo che comporta un’inchiesta poliziesca vera e propria, coinvolgendo fin dalle prime battute l’ispettrice Nina Hoffmann. Ma soprattutto perché il morto è un ispettore di polizia anche lui, il bello e mai troppo decifrato David Lindholm, e la principale sospettata è la di lui moglie, nonché miglior amica di Nina, nonché anch’essa poliziotta, Linda. Quindi, mentre da un lato seguiamo le vicende “gialle”, dall’altro dobbiamo fare il conto con Annika che al termine del precedente libro avevamo visto sfuggire miracolosamente, insieme ai suoi due figli, ad un attentato che manda in fumo (letteralmente) la sua casa. Dopo che anche la vita privata era anch’essa bruciata, in seguito all’allontanamento del marito Thomas, innamoratosi della bella Sophia. Questi due registri erano sempre stati presenti nelle storie di Annika, dagli scontri violenti con il suo precedente marito (tanto violento da giustamente finire male) all’amore con il placido Thomas, che, libro dopo libro, diventa sempre più antipatico, fino a raggiungere un buon punto di cattiveria in questo (e mi domando, cosa succederà nel prossimo). Nel momento in cui perde tutto, Annika trova un supporto nella collega Berit, che l’aiuta con i figli e la sprona a riprendere le indagini. Ritroviamo così il piglio deciso della giornalista d’assalto, che mette insieme interviste, ricerche su Internet ed intuizioni varie, per ricostruire la vita dell’irreprensibile David, che poi tanto irreprensibile non sembra sia stato. Bello e carismatico, ma sempre molto vicino al fuoco, come se avesse interessi sul lato criminale, utili a coprire suoi traffici, ed a scoprire pesci piccoli da mettere in gabbia. Inoltre David è uno “sciupa-femmine”, cosa che sanno tutti, e sembra dare margini di credibilità (almeno per Annika) quando Linda sostiene che nell’appartamento durante l’uccisione c’era un’altra donna, che avrebbe portato via il figlio Alexander (che in effetti, risulta scomparso). Tuttavia i poliziotti fanno fronte intorno a David, con la relativa condanna di Linda anche per la morte di Alex (benché non si trovi il corpo). Annika, tra una lite e l’altra con l’ex Thomas (e poi ci torniamo), trova il bandolo anche di questa matassa, risolvendo (nel solito convulso finale) tutti i maggiori nodi: ritrovamento di Alex, scoprimento del reale colpevole di questo e di un altro precedente delitto, che aveva portato in carcere un innocente, con un doppio legame con la polizia. Da un lato con David e dall’altro … No, questo non ve lo dico. Tanto uscirà fuori sicuramente nel prossimo. Torniamo un attimo sulle vicende private: nonostante sia in rotta dura con l’ex e non sopporti Sophia, non esita a dar loro una mano nelle settimane di affidamento alterno dei due figli. Questioni di civiltà? Quanto siamo lontani noi da queste realtà? Un altro appunto (più criptico) viene durante le discussioni tra i redattori del giornale in crisi, dove due giovani apprendisti si chiamano Emil e Ronja. Così che la Marklund accenna alla provenienza di molta gioventù svedese dalla saga di Pippilotta Långstrump. Ovviamente, noi si rimane spiazzati, che la saga da noi è nota come Pippi Calzelunghe. Ma sfido qualcuno a conoscere a memoria i personaggi, e ricordarsi che i due sodali di Pippi si chiamano… Annika e Tommy. Nel complesso (dopo aver convenuto anche con la polizia che l’autrice dell’incendio di casa Bengtzon è la gattina colpevole degli assassini del precedente romanzo) una lettura gradevole, in attesa di collegarla con il successivo libro della trilogia. Ah, un’ultima domanda: spero che “Livstid” (significato in svedese “tutta la vita”) sia una formula usata nei matrimoni svedesi. Cosa che giustificherebbe l’altrimenti poco sensato titolo italiano.
“Il primo caso riguardava quello di un ventunenne, Tony BERGLUND” [ma quanti ce ne sono, di Berglund in Svezia…] (140)
Liza Marklund “Freddo Sud” Marsilio euro 12,50 (in realtà, scontato a 10,58 euro)
[A: 28/04/2012– I: 05/11/2013 – T: 09/11/2013]
[tit. or.: En plats i solen; ling. or.: svedese; pagine: 509; anno 2008] - && e ½
E così finalmente si conclude la così chiamata “trilogia della separazione” (almeno così l’ho chiamata io, come separazione tra i protagonisti ed anche tra raziocinio e realtà). Cominciata come detto con “Il testamento di Nobel” (da tempo tramato) e continuata con il da poco letto e sopra tramato “Finché morte non ci separi”, ora finalmente (almeno credo) vengono chiuse tutte le parentesi aperte nei libri precedenti. Con questa tecnica (un po’ falsa) di far finta di risolvere qualche mistero, per poi riaprirlo e darne nuove soluzioni. Insomma, un libro che mi ha mosso sentimenti altalenanti: dal piacere della scrittura al nervosismo di meccanismi smaccatamente commerciali. Ma come mi insegnava la mia maestra di comportamento, cominciamo con le note positive. La scrittura questa volta è molto più scorrevole del precedente. Non ci sono molti “tempi morti” e, benché 500 pagine siano un po’ lunghe, si va discretamente veloci alle soluzioni (anche perché si fanno passare mesi tra le varie sezioni, e non ci si accumula tutto in pochi e sparuti giorni). Dal punto di vista dell’intreccio, il killer donna dell’incendio è finalmente acclarato chi sia, ed Annika potrà finalmente riscuotere i soldi dell’assicurazione. L’ex-amica Anna è finalmente uscita di scena (e speriamo non torni). I figli, Erica e Kalle ci sono, ma stanno al loro posto, com’è giusto che sia, senza interferire con la vicenda. Che finalmente trova la sua quadratura: è tutto compreso in un grande giro internazionale di droga. C’è la fattoria in Marocco dove si coltiva la cannabis destinata ai mercati europei. Fattoria gestita da Fatima che risulta essere la prima moglie di David (il poliziotto ucciso nel romanzo precedente). Davide che aveva stretto un sodalizio giovanile con Filip e Yvonne (i due fratelli assassini) e Victoria (giovane avvocato, dedita al riciclaggio dei soldi con uno studio a Gibilterra). Ed è nella Costa del Sol che si svolge la maggior parte del libro, tra Malaga e Marbella. Nella grande comunità svedese. Dove vengono uccisi Victoria, con la madre, il marito e due figli. È un regolamento di conti (ma si saprà con molto ritardo), comandato dal carcerato Filip, in attesa di essere liberato, dopo che Yvonne è stata uccisa dalla polizia nel romanzo precedente, e di conseguenza accusata sia della morte di David (giustamente) sia delle uccisioni di due libri fa (ingiustamente, che il colpevole era proprio Filip). Il tutto condito dalla presenza di Nina, la sorella “buona” di tutta la banda, che invece delle strade del crimine, ha preso quelle della legge. E sarà lei che, alla fine, metterà il punto fermo alle tribolazioni della storia, riuscendo a far quadrare i conti della giustizia con quelli privati. Il tutto condito con altri elementi, che vanno a poco a poco scendendo nel meno interessante, fino allo scassamento. Da una parte, la storia parallela delle tre amiche (che poi sarebbero le madri di Filip, Victoria e Nina) e delle loro storie giovanili, collegate (ma che ci sarà di interessante?) con il fatto che la madre di Filip non è svedese, ma è figlia di un qualche gerarca nazista (ed allora??). Storia che la Marklund ci propina attraverso un finto libro scritto da Siv, la “buona” del trio (e vediamo se capite di chi può essere la madre…). Dall’altra i tentativi di emancipazione di Annika. Prima con un sottosegretario che purtroppo è anche il capo di Thomas, e malgrado possibili simpatie finisce (per ora) in una bolla. Poi con un poliziotto in missione in Spagna, dove sembra andare meglio (almeno si fa del sesso), ma che poi senza motivo scompare. Il tutto vissuto da Annika con sensi di colpa. Tanto che verso la fine, l’autrice sembra ipotizzare che la storia tra Thomas e la troia Sofia sia al lumicino, e che i nostri (per il bene dei figli… – ma che c…a!), sembra si vogliano rimettere insieme. Una parte di storia veramente debole e con intenti troppo consolatori (sembra quasi che la scrittrice faccia dei sondaggi con i lettori, ed orienti le sue scelte verso quelle più di cassetta). E sullo sfondo e per finire, le vicende sociali: la crisi svedese (come in tutta l’Europa) esemplificata dalla crisi del giornale di Annika, con ristrutturazioni, licenziamenti, promozioni di incompetenti. Un tentativo di fare “gialli alla Wahlöö” veramente poco riuscito. Infine, tanto per gradire, un ultimo colpo di bacchetta ai maghi dei titoli. Qui si raggiungono vette di idiozia fulminante. Ora “Freddo Sud” si suppone che sia qualcosa ambientato in un Sud per qualche motivo (climatico o comportamentale) più freddo di qualche Nord. La maggior parte del libro si svolge in Spagna, in un caldo allucinante. E la parte risolutiva, addirittura in Marocco, con ancora più caldo. Forse sono gli svedesi che vivono a Marbella ad essere freddi, ma, per quanto vediamo, ci si lascia qualche dubbio. Ma ancora più ignominiosamente, il titolo originale (capisco che “Un posto al sole” possa far venire altro in mente) aveva un senso di collegamento tra le varie vicende e con la ditta di import-export motore delle nefandezze descritte nei tre libri. Delle due l’una: o si lasciava il titolo, salvando i collegamenti, o si modificavano i collegamenti (magari chiamando la ditta “CoSo” invece che “Apits”) per seguire le modifiche del titolo. Nulla di tutto ciò: modifica del titolo senza modifica dei collegamenti. Risultato: incomprensibilità dei passaggi verso la soluzione. Ma si riuscirà mai a trovare un modo che non tradisca la traduzione? E se qualcuno rimane spiazzato da queste righe, ne riparliamo dopo che ha letto il libro.
Patricia Cornwell “Nebbia rossa” Mondadori euro 13 (in realtà, scontato a 11,05 euro)
[A: 06/02/2013– I: 23/12/2013 – T: 25/12/2013]
[tit. or.: Red Mist; ling. or.: inglese; pagine: 382; anno 2011] - &&
Siamo alla diciannovesima storia di Kay Scarpetta, ed ormai si vivacchia un po’ sugli allori riprendendo i fili delle storie dall’ultimo romanzo, ed intorbidendo il tutto. Già da questo attacco capite che il romanzo non mi ha preso tanto. Da un lato è decisamente scontato, senza particolari novità sul fronte delle invenzioni (sia di trama che poliziesche). Dall’altro i personaggi sono decisamente incartati su loro stessi. Avevamo lasciato la dottoressa disorientata nell’ultimo libro dal presunto “tradimento” del suo secondo Jack, personaggio sin ora mai troppo chiarito, con una scena finale movimentata (solito schema) in cui Kay sta per soccombere a quella che pare essere la vera mente e la vera mano degli assassinii. Nella fattispecie la figlia di Jack e di tal Katherine. Qui cominciamo che, per mettere ordine alle vicende, Kay va a trovare Katherine in carcere e scopre nuovi baratri di coincidenze. Katherine era l’insegnante di Jack, avevano avuto una relazione “proibita” dalle leggi americane, per cui la donna era stata condannata alla prigione, dove aveva a poco a poco perso se stessa. Nella stessa prigione è anche rinchiusa una psicolabile in attesa nel braccio della morte per un omicidio perpetrato anni prima. E scopre che Jaime, ex-fiamma della nipote Lucy, diventata avvocato di difesa (era un tempo procuratore) vuole fare luce sulla vicenda. Ci mettiamo pagine su pagine per penetrare nella psicologia di Jaime, che cerca di far ruotare tutto per il suo interesse, coinvolgendo anche il buon Pete Marino, un tempo valido aiutante di Kay ed ex-poliziotto, nelle sue trame. Che sono piene di misteri, che coinvolgono servizi segreti, FBI, complotti ed altre amenità. Peccato che, ad una ad una, tutte le persone coinvolte vengano uccise in modo misterioso. Un modo che, tra l’altro, fa riprendere in mano altre morti avvenute nel penitenziario in questione, ed anch’esse mai chiarite. Muore Katherine. Muore Jaime. È in fin di vita, forse in coma irreversibile la figlia di Jack e Katherine. Insomma un’ecatombe. Kay si muove male in tutto ciò, oppressa da sensi di colpa per non aver capito in tempo alcuni sintomi delle malattie. Ed oppressa dalle difficoltà del suo rapporto con il marito Benton. Che lavora all’FBI e che lei sospetta non dirgli tutto. Insomma, tutto si avvolge pian piano nella nebbia, dove non si vede ad un passo, e dove ogni passo rischia di portare i nostri fuori strada. Ma l’anatomopatologa sa il suo mestiere e collega dettagli apparentemente lontani, per costruire ipotesi di soluzione. Purtroppo la soluzione è scadente sul punto innovativo. Non ci si meraviglierà scoprendo che dalla relazione adulterina giovanile di Jack e Katherine non nacque una bambina, ma una coppia di gemelle. Una è quella che tentò di uccidere Kay nel libro precedente. L’altra, ben nascosta e forse protetta dalle complesse leggi americane, è invece la mente di tutto questo guazzabuglio. La storia, una volta scoperti i veli, si avvia senza troppi sussulti verso la sua onesta fine. Colpevoli trovati e puniti. Nuova pace tra Kay e Benton. Lucy che rimane nel contorno della vicenda (anche se apprezziamo al solito le sue capacità informatiche). Marino che forse lascerà il gruppo (ormai è un personaggio un po’ troppo bollito). Insomma, non un gran libro. Leggibile certo, ma non proprio godibile. Appesantito, tra l’altro, da una prima parte forse un filo lunga. Dove seguiamo, ed un po’ ci annoiano, i tormenti esistenziali della nostra Scarpetta. Boh, vediamo se migliorerà nel prossimo, già uscito ma non ancora acquistato.
“Chi può dire di non aver mai fatto del male alle persone che ama?” (138)
“Devi vivere nel luogo in cui ti svegli al mattino, anche se è stato il sogno di qualcun altro a portarti lì.” (154)
Petros Markaris “L’esattore” Bompiani euro 13
[A: 19/05/2013– I: 02/01/2014 – T: 06/01/2014] - &&
[tit. or.: Περάιωση; ling. or.: greco; pagine: 341; anno 2012]
Dopo un po’ di silenzio, torna ancora una volta il pacifico commissario Kostas Charitos. Questa volta Markaris cerca di inserirsi sempre più a fondo nel vissuto greco, ma ne risulta una storia un po’ bollita. Soprattutto dal punto di vista dell’intreccio per così dire poliziesco. Intreccio che per come nasce e per come viene risolto risulta veramente di poco spessore. Certo il nostro scrittore, molto attento alla società civile, vuole dimostrare anche altro. Vuole parlare delle difficoltà del popolo greco di fronte alla crisi economica devastante che lo attanaglia. E questo ce lo mostra con alcune scene, e con alcuni suicidi, esemplari ed esemplificativi. Non si rimane indifferenti davanti alle anziane signorine che decidono di mollare la vita che non tirano avanti con la misera pensione. O i due giovani che si tolgono la vita per la mancanza di lavoro e di prospettive. In questo scenario (che riprende cinquant’anni dopo le descrizioni sociologiche della società svedese dei ben noti Sjöwall & Wahlöö) si inserisce anche il quasi dramma della figlia del commissario, che non trova una remunerazione adeguata, e quasi decide di andare a lavorare in Africa per svoltare economicamente. Una serie di circostanze, ed un colloquio chiarificatore con lo “zio Lambros”, faranno poi decidere Caterina a continuare a lottare in patria. E magari troverà una spalla nella psicologa – poliziotta Manià, per mettere in piedi qualche struttura legal-terapeutica. In tutto questo contorno sociale, si inserisce la vicenda gialla, che ne è una filiazione logica. Vengono uccise, con la cicuta, due personalità eminenti nell’evasione fiscale, da un personaggio che firma le sue imprese con volantini su internet a nome “Esattore”. Qui Markaris costruisce una specie di escalation interna, poggiando su due bastioni: la crisi economica (che è in fondo il leit-motiv del libro) ed il dilemma morale. L’Esattore, nei suoi scritti, afferma (e con ragioni e prove) di uccidere persone che evadono il fisco, dando loro l’alternativa se pagare o avere un “condono tombale”. A fronte delle prime due morti, il fisco greco riceve una serie di entrate impreviste (sui sette milioni di euro) di evasori minacciati. Charitos, e con lui il rumoreggiante popolo greco, si domanda se si debba trovare questo assassino, che tuttavia fa “del bene al Paese”. Il poliziotto non ha dubbi. L’uomo un pochino ne ha. Di fronte ad uno Stato debole, solo la minaccia di morte fa rispettare le leggi. Ma questa morale non può soddisfare una personalità etica come Markaris (non a caso sceneggiatore dei migliori film di Anghelopoulos). Per cui fa il primo passo di escalation: l’Esattore chiede una tangente sulle somme incassate. Qui la morale vacilla, e si cerca di attivare al meglio le indagini, non riuscendo ma non per colpa di Charitos, bensì dell’insipiente burocrazia greca. Trovandosi impantanato in una vicenda che sembra senza sbocchi, Markaris fa un secondo passo. Poiché lo Stato non paga, l’Esattore minaccia e poi comincia ad uccidere non evasori, ma personaggi pubblici, possibilmente politici, che hanno prosperato nei meandri del malcostume imperante. E qui si ritorna al dilemma primitivo: l’Esattore uccide, ma a fin “di bene” (o del bene del Paese). Ormai però siamo stanchi del romanzo, andiamo a doppiare il capo delle 300 pagine senza aver fatto passi avanti. Ecco che lo scrittore decide di “precipitare” la fine, e, attraverso improbabili colpi di scena, Charitos riesce a trovare prima le tracce, e poi il colpevole in persona. Questa è la parte veramente debole del romanzo. Tutto si risolve, ma come “per ammuina” senza che poi nulla cambi. Insomma, un romanzo che nasce con delle premesse interessanti, si sviluppa lungo un’idea notevole, ma termina un po’ in sordina. Come se l’autore non avesse più mordente. Tra l’altro, l’andamento generale delle indagini ricalca abbastanza, pur nelle mutate condizioni, quanto aveva scritto, con ben altra grinta e capacità, in uno dei primi libri del commissario “Si è suicidato il Che”. Speriamo che il prossimo episodio, già in libreria, anche se non in biblioteca, riporti in alto le sorti della storia. Magari evitando quello che ormai sta diventando un tormentone delle sue storie: il traffico di Atene. Ogni due pagine si parla di ingorghi e di strade, tanto che per seguire la vicenda bisognerebbe leggerlo con accanto Goggle Maps! Alla fine diventa stancante e neanche particolarmente funzionale alla storia.
Riposo, si diceva, ma non ozio. Si continua a pensare ai viaggi (quelli organizzati, quelli da organizzare). Aspettando di ricevere notizie se il viaggio pan-russo (fatte salve le paturnie di Putin) riuscirà ad avere sbocchi. 

sabato 15 marzo 2014

Dialoghi e monologhi - 16 marzo 2014

Dando il benvenuto ufficiale ai nuovi amici lettori, ci imbarchiamo in una settimana densa di ragionamenti. E molto orientata al mio “vicino di casa”, il buon Papa che saluto di là dai vetri. È lui il protagonista, in prima o seconda persona, di buona parte di queste letture dello scorso inverno. Decisamente meglio, poi, quando interviene direttamente, con i suoi discorsi che, quanto meno, sono chiari. Meno chiari (e mi domando sempre perché ne leggo ancora) i voli astrusi di De Luca. Fortuna che è la trama del mese dedicata anche alla cura, come riporto nel finale (dove vado a spiegare anche simboli ed altro di queste letture).
Ezio Mauro & Camillo Ruini “Laici e credenti nell’età di Papa Francesco” Repubblica – Idee euro 1
[A: 26/08/2013– I: 18/11/2013 – T: 18/11/2013] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 46; anno 2013]
Plaudo senza riserva alle iniziative di Repubblica che, anno dopo anno, cercano in qualche maniera di risvegliare le menti intorpidite dalle televisioni berlusconiane. Non sempre ci riescono, non sempre le materie del dibattere sono seguite come meriterebbero, non sempre gli interlocutori riescono a coinvolgere gli astanti. La forza (delle idee) di Repubblica è quella di continuare ad andare avanti, che credo, nel desolante panorama italiano, sia una delle poche aziende ad avere un minimo di attivo nel bilancio. Veniamo così a questo dibattito – dialogo avvenuto nell’arena del Teatro Petruzzelli di Bari nell’aprile di quest’anno (2013). Discussione interessante, anche se il titolo è al solito di quello da “horrenda captatio”. Cioè non è molto in sintonia con il duello in punta di fioretto tra il laico Ezio Mauro, da ormai 17 anni direttore del quotidiano, e il credente monsignore Camillo Ruini, modenese 82enne e per 15 anni a capo della CEI. Perché il dibattito, dopo aver toccato, quasi come un’introduzione per indurre gli astanti ad rimanere incollati alle sedie, il papato di Francesco, di altro parla. Certo non è né un saggio né un approfondimento (e ben presto vi torneremo sopra con altri libri), ma il titolo (motivo del mio seppur lieve acquisto) mi aveva fatto sperare in altro tipo di discussione. Una volta liquidata l’elezione di Bergoglio al soglio pontificio, e messo in disparte senza entrare nel merito l’epocale passo indietro fatto da Papa Benedetto XVI, si va a parlare di altro. Certo altrettanto interessante e stimolante, ma che forse meritava altro spazio ed altra discussione. Perché (e si sente) il testo è la trascrizione del dibattito avvenuto tra i due, ne ha l’immediatezza, ma non la profondità. Questo forse il limite di quest’operazione di carta stampata. Nel momento che si trasferisce un dibattito interessante e stimolante, andrebbe corredato di altro che ne sostanzi il contenuto. Come penso sia stato fatto (e se ne leggerà) nel dibattito tra Papa Francesco ed Eugenio Scalfari. Così invece, nell’immediatezza delle parole e del dibattito, si affrontano temi spesso lasciandoli un po’ in sospeso. Io vedo quattro elementi di discussione nel dibattito tra il vescovo e il direttore, due più politici e due più religiosi. Cominciamo dagli ultimi due (anche se vengono affrontati dopo), sui quali più incerto si fa anche il mio pensare. Si dibatte sulla libertà di coscienza, cioè su quello che ognuno pensa sia retto fare (il Vero), anche sapendo che spesso la minuscola debba prevalere. Ma il vero non si afferma a maggioranza, come vorrebbero Silvio e i suoi sodali. Tanto che, con Tommaso Moro, ripetiamo che il Parlamento delibera sulle regole della vita comune non sulla verità. Questo dà modo a Ruini di affondare sulla libertà personale di chi, non riconoscendosi in una delibera, ne diventa obiettore. Il problema (e qui Mauro non risponde a tono, pur citando il caso Englaro) è che una legge, pur contrastante con il proprio sentire va rispettata in quanto legge. Altrimenti se ne deve accettare la conseguenza. Contro ordini ingiusti ma legali ci si deve opporre, ed andare sino alle conseguenze ultime, appunto come la citazione di Moro sopra riportata. Altro punto interessante è chiedersi se il sentimento del sacro sia insito nella natura umana, nel momento in cui l’uomo si erge sui suoi due piedi, guarda la volta celeste e rimane attonito. Il Vescovo fa nascere da qui tutta una serie di ragionamenti che portano alla fede, pur ribadendo (sulla scia di Bergoglio, tanto per rimanere dietro le spalle del capo) che si può essere giusti anche senza la fede. Meglio ricordo le parole di padre Bianchi quando dice che la fede è un atto volontario, ma agire secondo coscienza prevede l’apertura degli stessi spazi “di fiducia” verso quello che Ruini intende essere il mondo celeste. Venendo invece alla parte politica, pur apprezzando le aperture che ne fa Ruini, trovo invece più agguerrito il popolo di Repubblica. Certo, ad ora il governo della Chiesa deve andare verso quella collegialità che già cinquant’anni fa predicava il Concilio Vaticano II. E che tutti i papi da Paolo VI in poi hanno decisamente dribblato. Ruini apre, ma non affonda. Papa Francesco invece lo sta facendo sul serio. E credo sia di interesse seguirlo, nel momento che rivendica (correttamente) il ruolo religioso della Chiesa, lasciando ad altri (correttamente) il ruolo politico. Nel solco della tradizione di Gesù (date a Cesare quel che è di Cesare). Per finire (almeno nel mio modo di leggere il breve testo) sul punto in cui più in disaccordo mi trovo con Ruini, la CEI e tutta la Chiesa italiana. Non credo sia corretto legare il sentimento religioso (che deve essere personale e privato) ad un atteggiamento pubblico unitario. Si rifarebbero i guasti di una Democrazia Cristiana che per decenni ha bloccato la vita pubblica italiana. Non a caso c’è filiazione diretta tra De Gasperi, Andreotti, Ruini ed altri. Non a caso, personalmente, e non solo per storia familiare, starei dalla parte di quella libertà di coscienza che vedeva mio padre sventolare nel ’46 la bandiera rossa in Piazza San Pietro (senza che i cosacchi si abbeverassero alle fontane del Bernini). Credo che veramente qui si debba applicare quella libertà di cui parlavo all’inizio. Se c’è un modo corretto di essere al mondo, seguendo regole e dettami di rispetto reciproco, esiste solo il confronto democratico aperto per poter passare dalle idee alla loro attuazione. Liberamente, secondo le proprie coscienze. E nel rispetto, sempre e comunque, delle idee dell’altro. Mi accorgo di continuare a parlare di rispetto in questo mondo che sembra averne sempre meno. Ma si sa, sono un’idealista. Lo ero da giovane. Fortunatamente lo sono ancora.
Erri De Luca “E disse” Feltrinelli euro 10
[A: 03/08/2013– I: 22/11/2013 – T: 23/11/2013] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 89; anno 2011]
Caro Erri, non ci siamo proprio. Anche se parto della fantasia, ho deciso di collocare questo tuo scritto più sul versante dei saggi che in quello dei racconti (non certo romanzi, visto l’esiguità delle pagine, stampate anche ben larghe). Nessuno nega la tua capacità di studiare l’ebraico, e di riportare, a pezzi e stralci, elementi del vecchio e del nuovo testamento, utilizzando un modo di tradurre non usuale, non standard. Che può dare (questo l’unico elemento di interesse) letture moderne e nuove a testi ormai scolpiti nella mente e nella memoria. Ma non mi convince il tuo modo di porti, il tuo farci sentire che sei sopra, distaccato, ma anche in un certo senso, superiore. Sia a noi, poveri “ignoranti” della materia, sia a chi, con certo più capacità di noi, ne studia e ne riporta. La filologia può dare elementi di discussione interessanti. La presupponenza di chi fa cadere dall’alto le sue idee, giuste o sbagliate, un po’ meno. E l’idea di base non era neanche tanto peregrina. Durante il ritorno degli Ebrei dalla diaspora egiziana alla natia terra d’Israele, sul monte Sinai, a Mosè vengono date, scolpite nel fuoco, le tavole della legge, lì con il decalogo che è alla base del sapere e dell’essere cristiano (ma che ritengo abbia una sua parte anche nel sapere e nell’essere ebraico, di cui so realmente troppo poco per controbattere). Ed anche l’idea di utilizzare lo stile narrativo romanzato iniziale, con il Mosè che erra, che si perde verso la sommità del monte, con il fratello che lo accudisce, con Rondine che lo aspetta e che …. (non narro la Storia, che note sono le vicende della famiglia tutta di Mosè, sottolineo soltanto che in ebraico il nome della sposa di Mosè indica il Passero e non la Rondine). Ma già qui la tua mano pesante, quella dei tuoi scritti non migliori, si rivela a pieno. E non ci fa trovare empatia con lo scritto. Non ci fa trovare sintonia con i personaggi che si muovono nella Storia. Perché capisco bene la difficoltà di far muovere personaggi di cui tutti sanno. Utilizzando però registri più bassi, toni più vicini a quel vagare per i monti che mi aveva fatto riprendere in mano i tuoi scritti (“Tre cavalli” ti ricordo), sarebbe potuto uscire qualcosa di più significativo. Anche poi nella disamina delle dieci leggi della tavola. Dove ci dai filologiche interpretazioni che sono di sicuro interesse, ma che a volte si perdono nelle modalità espositive. Che ad esempio le tavole siano scritte da destra a sinistra, come le scritture mediorientali richiedono, è un bel ricordo. Così come la sottolineatura dell’esistenza, in quelle lingue (dove so che l’arabo che conosco è simile all’ebraico che citi tu) di una differenza pronominale tra il tu maschile ed il tu femminile. Per cui, quando sulla tavola appare un comandamento con il tu maschile, hai buon gioco per sottolineare appunto la differenza di reazione tra uomini e donne. E quando invece compare il noi, altrettanto diligentemente, ne sottolinei l’uguaglianza di genere. E così dicasi nell’uso del futuro e del presente. Qui sta tutto il tuo gioco. Ripercorrere i comandamenti utilizzando queste luci. Ed utilizzando la terminologia ebraica che distingue il Dio dal dio, laddove si utilizzano i termini Iod (che in altri scritti esaminasti anche come discendenza anagrammatica) ed Elohim. L’italiano è più povero di questa deriva linguistica (e forse lo era anche il latino, che conosco ancor meno), e le parole bibliche a noi giunte risentono di queste “semplificazioni”. Ma se volevi fare un’operazione di rilettura, potevi utilizzare, anche con modestia, un tono saggistico che pure sai utilizzare e bene. Questo salto continuo tra i due registri non fa altro che aumentare la confusione e rende scarsa la ricezione. Così come quella chiusa, laddove ti chiami fuori. Certo non vuoi essere partecipe, noi vuoi (correttamente, dico io, per uno come tanti che non ha certezze e che sempre è alla ricerca) prendere posto tra le dodici tribù d’Israele. Per cui ti collochi in quella tredicesima che non esiste, che è solo finzione. Solo per dire che capisci, studi, ma rimani al di fuori. Potevi chiudere il libro senza quell’ultimo capitolo (e non ti cito qui l’excutatio non petita). Un ultimo elemento di riflessione (fatto salvo che come dissi per Zolla, si può giocare con le parole così come con i numeri, dimostrando tutto ed il suo contrario), avrei gradito meglio una spiegazione sulla lettura del “no” come “lo”. Dici tu stesso (ed è uguale in arabo) che si scrive come lamed ed alef, ed io so dall’arabo che si legge “la”. Ed a parte segni diacritici strani (e non presenti) alef continua ad essere “a”, e la “o” continua a non essere presente nelle scritture antiche. Una spiegazione sarebbe stata utile. Ma forse ti avrebbe fatto scendere da quel piedistallo dove, scusa se mi ripeto, trovo che con troppo orgoglio sei salito. Alla prossima Erri, con affetto, magari per discutere meglio nel merito quei comandamenti e la loro interpretazione.
Francesco “Lumen Fide” Libreria editrice Vaticana euro 3,50 (in realtà, scontato a 2,98 euro)
[A: 03/08/2013– I: 24/11/2013 – T: 27/11/2013] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 92; anno 2013]
Dopo aver letto il dialogo tra Mauro e Ruini, e prima di dedicarmi a quello tra Scalfari ed il Papa, ho dato mano a questo non facile libretto. Che poi altro non è che la prima Lettera Enciclica di Papa Francesco. Ma che tuttavia ha una particolarità. Discende dalla trilogia di lettere pensate da Benedetto XVI (Amore, Speranza e Fede), ma che il dimissionario papa non portò a compimento. Lasciando appunto incompleta l’ultima, che Papa Francesco ha ripreso, sistemato ed ora pubblicato. E si sente questo dualismo, questo alternarsi tra i due registri, pur con un’opera di amalgama veramente ben fatta. Non sono certo io con le mie basse conoscenze che posso (o voglio) farne un’esegesi stilistica. Ma (e soprattutto nella prima parte) citazioni dotte e costruzione delle frasi fanno pensare ad un discorso della e sulla Fede che viene dalla testa, dal raziocinio dal pensare. Per poi liberarsene, far quasi un volo, e camminare sui registri del cuore, e dell’amore (temi che mi sembra siano molto nelle corde di Papa Francesco). E tuttavia non è mia intenzione tramare questo scritto in questa direzione. Ne parlo perché l’ho letto, perché ci sono passi che mi sono piaciuti e che mi hanno fatto pensare. Non nego, ed è ovvio, che ce ne siano altri che invece non comprendo. Accetto, ne leggo, collego a momenti altri, che spesso conosco ma non di prima persona. Dal punto di vista quindi della mia ricezione, l’ho trovato, complessivamente, uno scritto d’amore, più che di fede (ed utilizzo volutamente le minuscole). Perché dando a Bergoglio quel che è di Bergoglio, ed ascrivendone a lui il testo, si sente, fortemente, il suo amore. Verso gli altri, verso i credenti e verso i laici, verso la Chiesa e verso le Comunità tutte (parole che prendo in senso veramente esteso). Mi ricollego quindi a quello scritto di Padre Bianchi su “Fede e Fiducia” di cui ho scritto, dove il priore di Bose sottolineava l’atto di volontà che sottende la decisione di credere. Qui ne vedo traccia (c’è sintonia di fondo) ma c’è qualcosa in più. Papa Francesco sottolinea, e spiega, come dopo quell’atto ce ne siano tanti altri, come di irrobustimento o fortificazione della Fede stessa. Si passa dalle prime pagine sul perché credere, a quelle più intense su come credere. Si passa dalla fede di Abramo e Mosè, alle parole di San Paolo in molte sue Lettere. Sui primi poi, tornerei volentieri, anche alla luce dello scritto di De Luca, da cui derivo due considerazioni - domande. Nella vicenda di Abramo, non esce dalla mia testa il pensiero della fede di Isacco. Perché se Abramo obbedisce al Padre, senza tentennamenti, anche Isacco, senza ambiguità, ha fede nel padre. E quando Mosè riceve il Decalogo, quell’io che ne scaturisce prepotentemente, poi si riempie di quel “noi” (noi popolo eletto, noi comunità, noi Chiesa) che suggella la fede sua, del suo popolo e delle sue discendenze. Papa Francesco, anche se velocemente, ricorda i passi della Fede (il Credo, i Sacramenti, il Decalogo, la preghiera), senza approfondirne i temi e i contenuti (che ricordo come ben argomentati su quello scritto del cardinale Martini a partire dal “Discorso dalla Montagna”), ma terminando con una chiave di volta del suo pensiero. L’invocazione di aiuto verso Maria, intesa sia come Madre della cristianità, sia come prima persona volontariamente “di fede”. Non è un testo facile, non ne ho colto forse tutto il comprendibile, ma ho avuto piacere nella lettura, piacere di vicinanza verso questo Papa venuto “dall’altra parte del mondo”. (Per chi fosse interessato alla lettura gratuita, ne segnalo il possibile download dal sito www.vatican.va).
“La fede [è] memoria del futuro.” (12)
“In tanti ambiti della vita ci affidiamo ad altre persone che conoscono le cose meglio di noi. Abbiamo fiducia nell’architetto che costruisce la nostra casa, nel farmacista che ci offre il medicamento per la guarigione, nell’avvocato che ci difende in tribunale.” (23)
“Isaia: se non crederete, non comprenderete.” (31)
“San Paolo: con il cuore si crede.” (35)
“La Lettera agli Ebrei … tra gli uomini di fede nomina Samuele e Davide, ai quali la fede permise di esercitare la giustizia … nel governare, la saggezza che porta la pace al popolo.” (79)
Eugenio Scalfari Papa Francesco “Dialogo tra credenti e non credenti” Repubblica euro 8,90
[A: 11/10/2013– I: 18/12/2013 – T: 20/12/2013] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 174; anno 2013]
Avevo cominciato a seguire il dialogo tra Eugenio Scalfari e Papa Francesco dalle pagine di Repubblica, dove, fatto senza precedenti, il giorno 11 settembre (e quanto mai interessante come ricorrenza) esce una lettera del Papa in risposta a due editoriali del fondatore del giornale. Non avendo potuto seguire il resto del dibattito (causa viaggio in Tanzania), ho di buon grado inserito questo libro nella mia biblioteca. Anche perché, dal punto di vista editoriale presentava altri interventi al dibattito. E questo mi è sembrato un plus interessante. A lettura ultimata, tuttavia, devo dire che mi aspettavo qualcosa in più. Perché se degli interventi di Scalfari e di Papa Francesco sapevo cosa mi poteva venire, la platea degli intervenuti poteva aggiungere elementi di discussione e di chiarezza alla materia. Invece, salvo alcune eccezioni, la gente continua (come purtroppo ormai d’uso) a parlarsi addosso. Ed interviene non nel merito, ma per portare avanti una propria bandiera, o un proprio modo di ragionare, spesso avulso dal contesto dichiarato. Come per esempio fanno alla grande Massimo Cacciari, Andrea Prosperi o Matthew Fox. Anche il lungo intervento di Gustavo Zagrebelsky, pur pieno di sana ed onesta carica civile, rimane de-contestualizzato, o, quanto meno, poco attinente. Che il punto centrale, sollevato dagli scritti di Scalfari e poi dalla lettera del Papa, e chiosato nel lungo colloquio a tu per tu tra i due, è certamente il nodo della Fede. Perché averla. Come averla. Quale può essere il suo significato. Ma è, anche e soprattutto, il problema dell’etica nel mondo contemporaneo. Il problema di come comportarsi, di come vivere. Quali sono i punti fermi della nostra coscienza. Il Papa fa un’affermazione bellissima ad esempio quando riafferma la necessità dell’agire secondo coscienza per poter essere “fedeli” al bene ed alla giustizia. E questo è valido per tutti, credenti e non credenti. Chi si trova accumunato in questo sentire, può, deve, trovare il modo di percorrere della strada insieme. Da fratelli. Come Vito Mancuso che continua a piacermi per il suo modo sereno di porsi, e per il suo modo problematico. Perché ci ricorda, con Bobbio, che, credenti o non credenti, solo in quanto esseri pensanti possiamo procedere nel mondo. E potremmo farlo solo ascoltando l’altro. Un inciso, sembra, questo, buttato lì quasi con indifferenza. Ed è invece, per me, uno dei più grandi meriti attuali di papa Bergoglio. Perché, come pochi sanno fare, è una persona che ascolta. Come sa ascoltare padre Bianchi. E sa anche riportarci, nell’intensità del dibattito, verso un punto di comunione e di divisione, tra i fratelli che camminano sulle due sponde del fiume. Per alcuni l’importante è il Gesù storico, che tanto scompiglio ha portato nel mondo, e la cui volontà di andare sino in fondo alle proprie convinzioni, lo porta alla croce. Per altri è il salto dal Gesù storico al Gesù figlio di Dio, fattosi uomo, e condividendo con l’umanità tutte le pene e le sofferenze dell’uomo stesso. Come non ricordare quei bellissimi romanzi su Gesù, proprio dalle due rive, di Saramago o di Schmitt. C’è ad un certo punto, l’intervento inutilmente polemico di Ceronetti, perché è giusto e possibile non essere d’accordo, ma esternare un disaccordo e poi non entrare nel dibattito, mi è sembrato semplicistico. Infine ci sono gli interventi interni alla Chiesa, anche se da posizioni critiche. Che pongono problemi attuali, e sentiti. Come Hans Kung che prende spunto dalle parole del Papa per chiedere che ci si interroghi sulla posizione dei divorziati e delle donne all’interno della Casa Comune. Come, per finire, Leonardo Boff che allarga il discorso e l’orizzonte proponendo di istituzionalizzare in un certo senso questo cammino comune, in un’enclave di discussione aperto che lui battezza Concilio Vaticano III. Per riassumere, quindi, tanti interventi. Ma di margine, al fondo, alla curiosità intellettuale che spinge Scalfari ad interrogarsi su queste problematiche. E che spinge Papa Francesco ad utilizzare tutti i mezzi che gli vengono in mente per condurre quella che sembra a me un’interessante battaglia di riportare tutti nel solco proprio del personale cammino. Ognuno con le proprie peculiarità, ma sempre verso quel mondo di bontà e di giustizia che venne un tempo promesso al popolo d’Israele. Ed allora, facendo lo sgambetto al buon Moretti, avanti con il dibattito.
“Il peccato, anche per chi non ha fede, c’è quando si va contro la coscienza.” (42)
“Nella società e nel mondo in cui viviamo l’egoismo è aumentato assai più dell’amore per gli altri e gli uomini di buona volontà debbono operare, ciascuno con la propria forza e competenza, per far sì che l’amore verso gli altri aumenti fino a eguagliare e possibilmente superare l’amore per se stessi.” (69)
“La vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa.” (77)
“Ciascuno di noi sa … come il camminare insieme possa aiutare a compiere passi che, intrapresi in solitudine, avrebbe considerato impossibili.” (116)
“La tua verità? No, la Verità e vieni con me a cercarla. La tua, tienitela.” (164)
Si diceva delle spiegazioni. Le tre righe in grassetto di ogni libro riportano autori e titolo, data di ingresso nella mia biblioteca, data di inizio e fine lettura, gradimento personale (il numero dei libri da 1 a 6), e le referenze al libro originale (soprattutto per le traduzioni). E dopo la trama, in corsivo, delle frasi che sono rimaste impigliate nella mia memoria. Inoltre, una volta al mese (e questa è quella volta), facendo riferimento al magistrale libro “Curarsi con i libri”, allego un’appendice di un capitolo del libro, commentando (alla mia maniera) i libri citati nel capitolo stesso. Allora, per ora, niente nuovi viaggi all’orizzonte, per cui saluto.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
MARZO 2014
Terminiamo la trilogia dell’adolescenza con un’ultima puntata dedicata all’uscita da questa “malattia”, cioè alle letture di transizione tra il liceo e l’università.
ADOLESCENZA, USCIRE DALLA
L'adolescenza non deve essere un inferno. Ricordatevi che, se siete adolescenti, pure i vostri coetanei stanno lottando per valicare lo stesso abisso e, se ce la fate, lottate insieme a loro. Con gli amici o senza, assicuratevi di fare tutte quelle cose stupide e folli che fanno gli adolescenti. Se non ci riuscite prima del diploma, allora prendetevi un anno di pausa e aspettate a iscrivervi all'università (badando bene di leggere, nel frattempo, i libri giusti). Poi, quando sarete più grandi, almeno potrete guardarvi indietro, ripensare a questo tempo inebriante, eccitante, ormonale, e riderne.
I DIECI MIGLIORI ROMANZI DA LEGGERE TRA LE SUPERIORI E L'UNIVERSITÀ
 Chimamanda Ngozi Adichie    L'ibisco viola
 Albert Camus                      Lo straniero
 Elias Canotti                       La lingua salvata
 Truman Capote                   Colazione da Tiffany
 Beppe Fenoglio                   La paga del sabato
 Ernest Hemingway               Festa mobile
 Daniel Keyes                      Fiori per Algernon
 Cesare Pavese                    La luna e i falò
 Alessandro Piperno              Con le peggiori intenzioni
 Charles Webb                     II laureato
Bugiardino
Sembra abbastanza ovvio che i libri “adolescenziali” o, per dire con le dottoresse librarie, di transizione, ne abbia letti un buon numero. Ed un buon numero che rimonta a passati anche remoti.
Non vi dirò quindi di Camus, che lessi nel maggio della preparazione all’esame di maturità (in linea con i suggerimenti quindi), perché portavo francese all’esame (ed ero anche molto “esistenzialista”). Né tanto meno di Hemingway, che mi cullò qualche anno dopo, nei miei primi ritorni europei di viaggio, ma soprattutto al giro nelle bocche del Rodano, dove passai due giorni meravigliosi ad Aigues Mortes.
Anche tra gli italiani, qualcosa si lesse nei tempi passati. Ricordo di aver aggredito Fenoglio nella mia stanza in casa genitoriale, quando cercavo di capire cosa successe nella guerra, durante la guerra, ed a chi la guerra la fece. E prima del partigiano Johnny, ci fu il sabato e la sua paga. E solo dieci anni fa (ma passa proprio questo tempo), prima del mio furore tramatore, sfogliai con cura e lessi attentamente Piperno. Non ero ahimè ormai più un adolescente. E devo dire che non mi piacque (questo lo ricordo) e che per il resto l’ho un poco cancellato dalla mia memoria.
Veniamo allora, con più o meno lungo parlare, ai tre presenti nelle trame. E cominciando tra una delle prime letture, di quasi otto anni fa, con i commenti che allora erano scarni, quasi dei pensieri che si andavano accumulando. Come dei piccoli fiori che galleggiano sulle scorie della memoria. Per poi passare a Capote e Pavese, ormai trame mature e robuste.
Elias Canetti La lingua salvata Adelphi 8,50
[trama pubblicata il 25 dicembre 2006]
Bella la scrittura e piacevole seguire il nascere e crescere delle passioni di un uomo interessante. Fulminante, nel bene e nel male, il rapporto con la madre. Tuttavia mi rimane quel fondo di vecchio che non si stacca. Mi commuove ancora, però, chi riconosce che, in fondo, noi siamo i nostri genitori.
Truman Capote “Colazione da Tiffany” Repubblica Novecento euro 4,90
[trama pubblicata il 31 luglio 2011]
Il fatto è che Holly sarà sempre legata ad Audrey, e leggere ora il racconto lascia un po’ spaesati (si potrebbe aprire un dibattito su libri e film?). Sarà poi che Capote non riesce a piacermi; certo non ho letto tantissimo, e soprattutto non ho ancora affrontato “A sangue freddo”, ma questa colazione non mi è piaciuta troppo. Comunque facciamo uno sforzo di dimenticarci di Audrey, dei “Vermi” (nelle meno di cento pagine del libro, il termine compare verso pagina 80), ed anche della colazione (che si cita a pagina venti, in meno di due righe). E rimaniamo per ora al libro. Un racconto dolente di un piccolo spaccato della boheme di New York. Scrittori spiantati, fotografi giapponesi, miliardari arroganti, ambasciatori brasiliani, amiche balbuzienti e baristi saggi. Tutti gli ingredienti per fare una piccola miscela calibrata, un buon gin fizz (non un martini cocktail). E lei, ingenua o forse no, illumina con i suoi tocchi di lucida follia questo mondo un po’ squallido, un po’ chic. In realtà, non succede gran che, è solo un filo di ricordi, che, saltando qua e là, andando avanti ed indietro nel corso del tempo, ci fa innamorare di questa ragazza in cerca di successo, ma in un mondo cattivo e torbido. Capote infioretta le pagine di qualche sentenzina, e tenta di inzeppare il testo con tiepidi aforismi. Ma non graffia, non affonda. A volte sbaglia il tiro (come quando bolla il brasiliano spaesato di essere ‘fuoriposto come un violino in un’orchestra jazz’: ma Stéphane Grappelli allora? O Joe Venuti? Per non parlare di Jean-Luc Ponty, che verrà però qualche anno dopo?). Sembra girare un po’ in tondo (ma mi piace di più quando lo farà Paul Auster in atmosfere compatibili qualche anno dopo). Il vero punto forte (rispetto al film) è il suo essere non consolatorio, al fine. Qui niente lieto fine, niente gatto ritrovato sotto la pioggia. No, qui Holly scompare, ed è proprio grazie a poche sparse notizie che arrivano vuoi dal Sudamerica vuoi dall’Africa che lo scrittore alter ego ce ne parla e ci racconta questa storia. Che anche altro afflato avrebbe avuto se, come Capote aveva suggerito, fosse stata impersonata da Marylin. Altra storia. Altro film. Film che, a parte Audrey, non ha altri grossi atout. Perché al solito, Hollywood qui stravolge, fa dello scrittore Paul un gigolò mantenuto, e sparisce l’amica balbuziente. Ma si sa, il Cinema americano stravolge tutto pur di fare cassetta. L’unica cosa di veramente buona è la colonna sonora con quel Moon River da favola. E l’unica cosa veramente esilarante è Mickey Rooney nella parte del fotografo giapponese. Ma qui si parlava del libro. E della scrittura di Capote, che, alla fine dei conti, a me irrita. Boh, speriamo in altro. Ma ora vado a rimettere la punta ideale sul vinile consumato e sentire ancora una volta “…Wherever you're going, I'm going your way…”.
“La patria è dove ci si sente a proprio agio. Io la sto ancora cercando.” (87)
“… non sapere che cos’è tuo finché non lo butti via.” (93)
Cesare Pavese “La luna e i falò” Repubblica Novecento euro 4,90
[trama pubblicata il 20 maggio 2012]
Un poco meno di bello, ma sicuramente interessante. Certo è pieno dell’atmosfera di più di 60 anni fa, quando Pavese lo scrisse. Ma letto oggi, pochi giorni dopo il libro di ricordi di Bianchi, ritrovo atmosfere e sensazioni e moderna eticità. Pavese fin dalle prime righe ci trasporta nelle Langhe piemontesi, tra viti e campi. E non con l’occhio del ricordo dopo cinquanta anni, come Bianchi, ma con l’immediatezza della contemporaneità. Certo, anche Pavese fa un’operazione di memoria, saltando su e giù per il tempo. Ma lo fa per dar corpo e voce ad un discorso più ampio. Un discorso che parte dalla terra, vola per il mondo, toccando anche l’America. E poi ritorna lì alle radici. Quelle di uno che radici non ha, perché l’io narrante è, come si diceva un tempo, figlio di NN. Accolto da contadini, vive la vita della terra fino ai dodici anni, quando per alterne fortune i contadini devono tornare in città. Lui allora va a fare il servo alla Mora, il maniero dell’epoca. Quello dei signori. E delle signorine. Irene e Silvia, che fanno il bello ed il cattivo tempo (sono più grandi di 7-8 anni). Vanno con i maschi, e combinano guai. Lui si accompagna con Nuto, che ha 3 anni più di lui e suona il clarino. Poi anche la Mora andrà in rovina, per scialacquature varie. Ma lui è già soldato, a Genova. Poi prende il piroscafo per l’America. Arriverà, sempre spinto dal fuoco interno, fino in California. Farà fortuna, almeno sembra. E sentirà l’urgenza di tornare. Alle radici, a ritrovare cosa non si sa, ma a provarci. E riviene tra i bricchi e le gaggie. Trovando il cresciuto Nuto, che abbandonato il clarino, ora lavora il legno. E gli fa da mentore per le terre di allora. E per le persone di allora, che sono morte, che sono cambiate. La sua vecchia terra ora è di uno sciamannato contadino, rozzo ed ignorante. Che ad un certo punto va fuori di testa, bruciando tutto ed impiccandosi. Lasciando solo il povero Cinto, bambino e storpio. Lui, Anguilla come lo chiamavano da giovane, lo prende a ben volere, e convince Nuto a prenderlo a bottega. E dopo le feste ed i falò di San Giovanni, tornerà verso Genova dove esercita i suoi mestieri finanziari. Ma prima avrà un ultimo lungo insight con Nuto, che darà modo al sodale di tanti discorsi di fare un salto di pochi anni indietro. Alla guerra che lì c’è stata davvero, e non sui giornali come chi stava in America. E gli racconta barbarie e ripicche, fascismi e brigate partigiane. Fino alla morte di Santina, forse repubblichina o … Lasciamo i punti di sospensione per darvi qualche voglia di leggere. Non come i curatori (barbari!) della collana, che mettono l’ultima frase del libro nella quarta di copertina. Una cosa “sempia” direbbe la Ginzburg. Tornando al testo ed all’autore, alla fine viene fuori, per me, una grande Odissea, dove Pavese, mutandosi nell’io narrante, va per il mondo a seguire “virtude e conoscenza”. Poi torna e con Nuto (un po’ Penelope, un po’ Virgilio) guarda il mondo che è lì. Nuto è la versione “etica e corretta” del sè che vorrebbe essere. Non senza peccato, ma con un’interna dirittura morale che porta Nuto a traversare il mondo, ad agire e ad indignarsi per le cose storte. Pavese si indigna, ma poi molla. Non trova il modo di essere, di agire. Si sente la sua mancanza. Si sente che è stanco. E sappiamo che da lì a poco, questa stanchezza, questa impossibilità lo travolgerà fino a togliersi la vita. Ma rimane il messaggio, quello che poi me lo fa ricollegare agli scritti di Enzo Bianchi: se non si può aggiustare il mondo - come vorrebbe la coscienza sociale di Nuto, che infine si scopre propria anche del protagonista -, almeno bisogna conoscere i ritmi, la terra, gli uomini e le loro storie, più spesso disperate, sempre inquiete. Sono contento, al fine, di avere avuto la costanza di leggerlo, anche dopo tanti anni.
“Ero arrivato in capo al mondo, sull’ultima costa, e ne avevo abbastanza. Allora cominciai a pensare che potevo ripassare le montagne.” (18)
“Nuto disse ai ragazzi di lasciare la lucertola. – Lasciale vivere le bestie – aveva detto – si comincia così e si finisce con scannarsi e bruciare i paesi.” (22)
“Sono libri. Leggici dentro fin che puoi. Sarai sempre un tapino se non leggi nei libri.” (98)
“I ragazzi, le donne, il mondo, non sono mica cambiati. [Fanno cose diverse] eppure la vita è la stessa, e non sanno che un giorno si guarderanno in giro, e anche per loro sarà tutto passato.” (125)
Potrei parlare dell’ultimo libro, avendo (come credo tutti) visto il film, vero signora Robinson? Ma, come ho detto sopra, un libro non è un film. Ed anche di Algernon, che non ho letto, ma conosco per i lunghi passaggi nelle storiografie di fantascienza. Non conosco, infine, l’ibisco viola, né tanto meno il suo autore. Chissà in un futuro.
Conclusioni
Poiché, e da diversi scritti, sono in disaccordo sul malessere adolescenziale così come viene spesso posto dalla lettura anglofona, non entro nel merito dell’efficacia della cura. Sui libri, in quanto tali, si. E benché non sappia collocarli nel giusto tempo di lettura, ritengo che questi dieci titoli (o almeno gli otto da me letti) abbiano avuto una loro giusta funzione di crescita. Anche per chi, come me, forse adolescente non lo è più (ma sarà vero?).

domenica 9 marzo 2014

Italiaans - 09 marzo 14

No, non vi spaventate, non ho inventato una nuova lingua, solo un piccolo aggancio, dopo una settimana di afrikaans, con alcuni scrittori dell’Italia del sud (Sudafrica à Suditalia, ah ah). Due napoletani e due siciliani. Che in vario modo ho già incontrato nelle mie trame. E mentre sottolineo o la buona prova di De Silva e l’onesto ritorno di Piazzese, non posso fare a meno di biasimare la scrittura ed i libri di Alajmo e De Luca, che altrove hanno meritato ben altri commenti.
Diego De Silva “Mancarsi” Einaudi euro 10
[A: 03/08/2013– I: 27/10/2013 – T: 28/10/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 99; anno 2012]
Libretto agile e veloce, e per questo inserito nel bagaglio del viaggio a Dubai. E lì, beatamente letto tra un centro commerciale e una mega metropolitana, sempre con l’aria condizionata a palla. Tra l’altro sono saltato a piè pari dalla prima produzione di De Silva a questa recente prova, ripromettendomi prima o poi di toccare la trilogia napoletana dell’ingegner Malinconico (che però Fako mi sembra sconsigliare apertamente). Questo, invece, è da leggere. Per l’idea e per alcuni passaggi delle descrizioni comportamentali dei due personaggi che per tutto il libro “si mancano”. L’idea, appunto, è di seguire due persone, Nicola e Irene, che sembrano essere fatti l’uno per l’altra (a patto di capire cosa vuol dire essere fatti per un’altra persona, ed a patto di comprendere per quale motivo ci innamoriamo di qualcun altro). E che, per una serie di accidenti, pur frequentando luoghi omologhi, riescono a non incontrarsi e, di conseguenza, a non far nascere quella scintilla che potrebbe cambiare la loro vita. Questo incontro non vi dico se avverrà o meno (lascio a voi la voglia di leggerne) e cosa comporterà l’avvenimento o il mancato avvenimento (comunque vi rassicuro, non siamo dalle parti di “Sliding Doors”). Per il centinaio di pagine del romanzetto, seguiamo comunque le vicende alternate dei due. Da una parte Irene che si accorge, giorno dopo giorno, che il suo matrimonio è arrivato ad un punto morto. Che il marito che si trova accanto non è (non è più?) quello che pensava di avere. E che decide, anche coraggiosamente, che è meglio finire così. Lo lascia. Continua la sua vita e le sue riflessioni sui rapporti umani. Continua a lavorare, ad incontrare gente, anche ad avere una nuova vita sessuale. Ma rimanendone sempre un po’ al di qua. Non trova, non incontra qualcuno cui possa dire: “amo il modo in cui ti gratti il polso quando pensi”. E pur se non vicino al lavoro, continua a frequentare un discreto bistrot nella pausa pranzo, sedendosi davanti ad un grande poster di Buster Keaton. Poster davanti cui siede anche Nicola, ma la sera, quando va a cenare al bistrot non riuscendo ancora a tornare alle vecchie abitudini di prima. Perché presto scopriamo che il prima era quando era viva sua moglie, prima di morire in un tragico incidente. E tutta l’elucubrazione su Nicola gira anch’essa intorno al rapporto a due, al rapporto con l’altro. Con Licia, con la quale erano giunti ad un punto morto. Soprattutto quando Nicola aveva espresso il desiderio di avere un figlio e Licia lo aveva aggredito distruggendo parola dopo parola il castello di sentimenti che Nicola aveva riposto nella possibile nascita. E mentre cerca di trovare un nuovo senso alla sua vita ora solitaria (e, sfortunatamente, agiata, che la morte di Licia ha portato benessere economico e tempo libero come mai avuto prima), ripercorre, dialogo dopo dialogo, i momenti di crisi con Licia. Con la difficoltà (che sentiamo, che viviamo sulla pelle) di non aver avuto il tempo di chiudere questi discorsi. Forse Nicola ha una lenta carburazione. Medita cosa dire, come fare. E mentre ci gira intorno, inopinatamente Licia muore. Come concludere allora quei discorsi se non c’è più l’interlocutore? Come fare ad inventarsi dialoghi se l’altro non c’è? E soprattutto, dialoghi di tempi di crisi. Nicola sembrava maturare quella ribellione allo statu quo, quella che Irene capisce essere avvenuta alle 10 ed un quarto di un mattino altrimenti uguale a tanti altri. Ma l’altro non c’è, si è sottratto (involontariamente) morendo. E noi capiamo la difficoltà che nasce dentro Nicola nel non poter chiudere parentesi aperte. Così, le due vite di Irene e Nicola si intrecciano nella pagina, affrontando a volte anche simili problemi, ma da quelle due ottiche diverse. Di chi ha avuto il tempo di agire e di chi ne è stato privato. Detto anche che il romanzo è pieno di piccole riflessioni, alcune molto condivisibili, sui rapporti personali (anche se difficilmente riportabili, eccetto le solite riportate sotto in corsivo), ribadisco il piacere di questa lettura. Che mi riporta al primo lavoro di De Silva che ho letto (“Le donne più belle si vedono negli aeroporti”) e che mi aveva convinto fosse un autore da seguire. Ed a ragione.
“C’innamoriamo di minuzie, di riflessi in cui vediamo l’altra persona come pensiamo che nessuno l’abbia mai vista e mai la potrà vedere.” (6)
“Nicola è un lettore forte, ma non ha mai letto un libro dall’inizio alla fine. È perché non crede alla compattezza delle storie. Che un racconto resti coerente per duecentocinquanta, trecento pagine, gli sembra una forzatura.” (9)
“Non ne posso più di uomini che mi raccontano come la pensano. Che parlano, parlano … rimproverandoti se non archivi e custodisci gelosamente tutto quello che ti hanno detto.” (71)
“Le storie … devono avere un’origine semplice per evolversi, non durano se devono riabilitarsi, lottare, vincere, infliggersi e procurare sofferenze invece di dedicarsi serenamente a se stesse.” (89)
Roberto Alajmo “Il primo amore non si scorda mai, anche volendo” Mondadori euro 10 (in realtà, scontato a 8,50 euro)
[A: 08/10/2013– I: 27/11/2013 – T: 28/11/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 115; anno 2013]
Sinceramente sono rimasto un po’ deluso di questo scritto del pur bravo autore siciliano. Di ben altre scritture lo ricordavo, tra cui l’ultima da me letta quell’arte di annacarsi che mi aveva fatto fare un bellissimo tour nei miei ricordi siciliani. Qui, invece, abbiamo una confezione (ed uso volutamente questa parola) non all’altezza. Nella concezione, nella proposizione, nei risultati. Sono dei brevi racconti d’infanzia, che spaziano sì come sottolinea l’autore dal comparire dei primi ricordi d’infanzia al primo bacio. Ma sono slegati, sono appunti, ricordi, momenti, legati solo dall’io narrante. E non sono tutti inediti (basti pensare a quello dedicato a Polifemo il gigante buono e la ricerca di scarpe misura 49). Insomma, nelle carte di molti scrittori immagino ci siano fogli, appunti volanti, scrittura di momenti di cui vale la pena lasciare una traccia prima che la memoria li porti via. Poteva quindi essere preso il tutto, ben mescolato, e farne un romanzetto su di un’età critica, quella che va dai 4 ai 14 anni. Invece rimangono racconti, isolati momenti di gioia ed infelicità, come si hanno tutti in gioventù. Quindi concepito al ribasso, poi mal proposto, che l’editor lascia invece supporre che ci sia quel romanzo che non c’è. Ed alla fine il risultato è di bassa intensità. Tanto che i miglior racconti sono gli ultimi due, quando il nostro Roberto si avvia al limitar della Scuola Media, narrandoci delle prime feste, con i primi approcci verso l’altro sesso, in quei momenti atroci di ballo. Dove lui (ed io con lui) non sapevamo come muoverci, aspettando con ansia un lento che ci permettesse almeno di avvicinarci all’altrui corpo. E poi nell’ultimo racconto (che dà anche il titolo al libro), col tentativo di “dichiararsi” alla prima ragazza, i messaggi trasversali mandati attraverso l’amico, quel restare solo con lei, in spiaggia. Il bacio sulla guancia e la difficoltà di essere in costume, e di essere esuberante, e di vergognarsi come non so cosa. Qui, realmente, riesce a tirar fuori situazioni intense, brandelli di memoria che mi hanno riportato ai lunghi anni marinari ed estivi in quel di Tortoreto Lido. I giochi tra maschi, le corse con le palline sulla sabbia, e lo scoprire l’universo femminile senza sapere come approcciarlo. Senza sapere come si bacia. Soffrendo come disperati per uno sguardo storto, per una frase non detta. Gioendo come gatti coccolati per un sorriso, o per un gelato condiviso. Non è che non ci siano altri momenti, isolati nei vari racconti, che non facciano scattare quelle sinapsi di memoria sempre per noi importanti. Una per tutte, la storia delle tonsille e dell’intervento relativo. Soltanto una precisazione che non è vero che ci sia un buco temporale di cinque anni, prima e dopo di Roberto, dove altra considerazione si aveva sul togliere quell’appendice. Che io le tolsi, e ne ho 6 più di lui, mentre non le tolse mio fratello che ne aveva 2 di meno. L’altro elemento (di piacere per me, ma inutile nell’economia del romanzo-racconto) è l’inserimento di quegli elenchi di ricordi focalizzati su giocattoli, giornalini, alimenti vari, e calciatori. Riprende un po’ il tentativo di Guccini sul Dizionario delle cose scomparse, con alcuni elementi di levatura (ed altri in cui si vede la nostra differenza di età). Come scordarsi del Policar, del cambiadischi a 45 giri, della Graziella, di Plastic city, del View Master, di Alvin, di Mariarosa, del pianeta Papalla, di Roby e Quattordici, di Salomone e Svicolone, dei Biscolussi, dell’Algida, dei tortellini Fioravanti. Tutti elementi mitici. Per poi scivolare sul ormai sempre più ripreso ritornello: “il gol di Turone era valido”. A cui rispondo con: Vavassori, Càstano, Garzena, Sarti, Cervato, Leoncini, Stivanello, Nicolé, Charles, Boniperti, Sivori. L’anno del grande amore! Ecco, avete capito. Se poi in sottofondo, mettete Giorgia che canta “Gocce di memoria”, via con l’operazione nostalgia. E pianti a dirotto sui nostri anni passati. Alajmo, sai fare certamente di meglio, e lo hai dimostrato. Torniamo a quei livelli.
“[a proposito della siesta pomeridiana, dialogo tra mamma e figlio] ‘Non vuoi dormire? Vai lo stesso nella tua stanza’. ‘E che faccio?’ ‘Ti annoi’.” (45)
“Visto da prima [che sia passato] un anno sembra un sacco di tempo.” (59)
“In realtà sei convinto che se… una qualsiasi ragazza vuole stare con (uno come) te, deve avere senz’altro una tara o qualche difetto invalidante. Vengono dei dubbi se qualcuno ti accetta.” (112)
Erri De Luca “Storia di Irene” Feltrinelli euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 08/10/2013– I: 29/11/2013 – T: 30/11/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 109; anno 2013]
Quand’è che terminerò di farmi abbagliare dal ricordo di uno scrittore per evitare di cadere ancora nelle sue trappole? De Luca fa qui un altro passo falso, forse nell’ansia di dover pubblicare sempre qualcosa. Esce così un libricino già scarso di suo, che poi scopri essere una mini raccolta di tre racconti. Uno, quello più lungo che si merita il titolo, veramente poco significativo. L’ultimo, una piccola variazione dolente sulla morte di un vecchio. Il solo che ha un minimo di interesse, sia nella scrittura che nel contenuto, è il secondo, dedicato ad una storia della vita del padre. Solo in questo, De Luca abbandona quell’aria di superiorità che purtroppo condisce ormai i suoi scritti, e ci porta lievemente a condividere un breve momento della vita paterna. Siamo nel ’43, il sottotenente Aldo De Luca ha un breve congedo per problemi familiari, ed una volta a Napoli, viene travolto dagli avvenimenti del settembre di quell’anno. Non torna in caserma, si imbosca in campagna, e quando gli alleati occupano Capri, con cinque suoi sodali fugge da Sorrento per approdare all’isola liberata. Già questo spaccato ha un suo fascino (belle pennellate di campagna, di orrori di guerra, di gente che si nasconde, della vita normale che si vive anche in un momento eccezionale). Il tocco in più avviene con l’incontro con il sesto uomo, ebreo in fuga. E con l’accostarsi tra papà De Luca, ateo e rispettoso, e l’ebreo, dolente e religioso. Quasi a mettere in luce semi nascosti che germoglieranno decenni dopo, in questo figlio che, alla ricerca di qualcosa, si mette, da ateo, a studiare l’ebraico ed a leggere e scrivere esegesi su testi biblici, anche con qualche interesse (a meno di non utilizzare quel tono insopportabile di cui ho scritto tramando “E disse”). Minima l’ultima storia, su questo vecchio attanagliato da fame e povertà, che “per togliere il disturbo”, va a morire sugli scogli di Napoli, baciato dal caldo sole della città. Minima e pur tuttavia leggibile. Niente a che vedere con la lunga, inutile storia di Irene. Epopea fantastica, in cui si narra della sordomuta Irene, quattordicenne incinta in una sperduta isola greca. Che trova empatia con lo straniero venuto da lontano, che non teme di nuotare accompagnato dai delfini. Ed al quale narra la sua storia, di ragazza venuta da non si sa dove, che trova il conforto tra gli amati delfini. Di cui si dice sorella e sposa. E dai delfini rimane incinta. Per partorire in una notte con poche stelle, in acqua come i delfini. Partorendo essa stessa un delfino che andrà per mare con i suoi fratelli. Sarà un condensato di metafore, ma non vale la pena cercare di decrittarle. Se la vita (come si diceva in altri e migliori scritti) è tutta una metafora, forse è meglio narrare la vita e non la metafora. Soprattutto quando questa risulta così strampalata da non suscitare nessuna emozione, da non far vibrare nessuna corda. Utilizzando al meglio (cioè al peggio) quello stile distaccato, dicendo e ripetendo frasi, parlando del sé in terza persona, come descrivendosi dall’esterno. Qualcuno che ancora gli vuole bene, parla di poesia scritta in prosa. Ma andiamo! Rileggiamoci quel fantastico viaggio intorno alla mela cotogna di Istanbul del bravo Rumiz. Quella è poesia in prosa (e viceversa). Qui sento solo quel tono di voce che cerca di dire delle cose semplici come se fossero adombranti chissà quali verità universali. Riprenda in mano la penna, il nostro Erri, e risciacqui Irene con il fiume del secondo racconto. Allora sì che si potrà tornare a leggerne con piacere. Qui ogni pagina era una sofferenza, nella speranza che scattasse qualcosa, che qualcosa scendesse a nobilitare lo scritto (un’invenzione, un risvolto, un’immagine). Per fortuna, dopo 70 inutili pagine finisce, per dar spazio al padre. A cui dovrebbe tornare per ispirarsi e meglio continuare a scrivere. Addio per ora, caro vecchio amico scrittore. Chissà se torneremo ad incontrarci.
Santo Piazzese “Blues di mezz’autunno” Sellerio euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 09/11/2013– I: 11/12/2013 – T: 13/12/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 161; anno 2013]
Cominciamo con un ringraziamento “di memoria”, alla mia amica Otto che tanti anni fa mi fece conoscere questo anomalo autore palermitano, e le sue vicende biologo – poliziesche interpretate dal suo alter-ego Lorenzo La Marca. Erano tre agili Sellerio, usciti tra il ’98 ed ’02. Poi di Piazzese si persero le tracce artistiche. Ora compare questo nuovo romanzo, sul quale, invece, si appuntano un po’ di riserve. La prima è una lamentela nei confronti dei librari di Roma, che tutti hanno collocato questo libro tra i gialli. Ed è una collocazione fuorviante. La seconda è un dispiacere verso la storia, che invece ci si aspettava un giallo dal buon Piazzese, e sembravano essercene le premesse nelle prime pagine. Poi, leggendo la sua postfazione, si capisce la genesi dello scritto. E ci può anche stare che non sia un giallo, ma la resa (e la presa) è minore. La terza discende proprio dalla postfazione citata. Che scopriamo il romanzo essere una (possibile, ovvio) dilatazione di un racconto in cui Lorenzo non entrava molto (era la parte finale, incentrata in quelli che vengono riferiti come “gli avvenimenti della Spada”). Ed una dilatazione che può inglobare Lorenzo come protagonista, ne hai i caratteri (come dice l’autore, ed io con lui). Ma questa genesi rende un po’ flebile il romanzo complessivo. Soprattutto nella prima parte, in cui troviamo La Marca impegnato in un congresso ad Erice (magari organizzato dall’esimio Zichichi). Tutta l’introduzione serve un po’ a riportarci sulle tracce del biologo - investigatore (che non a caso gli amici chiamano Marlowe), quasi a fare da connettore con i tre romanzi citati. E ad introdurre un personaggio – ponte, l’amico di gioventù Rizzitano. Lui e Lorenzo schermagliano nella calura estiva della Sicilia, magari facendo in modo che Lorenzo si scopra un po’, ammetta meglio qualche suo lato un po’ “presupponente”. E sveli una faccia seriosa di Rizzitano (che tanto non conosciamo ancora, quindi potrebbe avere tutte le facce che vuole). Tra la lunga introduzione ed il corpo del romanzo c’è poi una parentesi sulla biologia marina e sulla pesca dei tonni, interessante gnoseologicamente, ma un po’ pallosa nel contesto. Forse meglio i tonni, che servono a Piazzese per esercitarsi sullo schizzo di personaggi. Perché poi il resto sarà (almeno nella parte migliore) centrato su dei bozzetti. Sulla nave a caccia di tonni ammiriamo lo schizzo di Don Benedetto, esimio cuoco di cuscus di pesce, e di Karim, l’arabo che parla siculo (e che consente all’autore di ricordarci come dalle parti del canale di Sicilia, esisteva un tempo una lingua franca, mescolanza di arabo, siculo, maltese ed altro che consentiva agli abitanti della zona di comunicare agilmente). I tonni servono anche ad introdurre il “loco fantastico”, appunto “la Spada”. Isola inventata, con tanti elementi possibili di altri luoghi limitrofi. Difficoltà di accesso (Ustica?), isolamento invernale e pienone estivo (Stromboli?), fauna locale “melting pot” (Favignana?). Poco ci cale, quello che ammiriamo sono i tipi ed i posti. Il bar Edelweiss frequentato da “gli Stravaganti”, personaggi stanziali o di passo per la Spada, ognuno con storie e singolarità. A cominciare da Milocco, il gestore, friulano, spostatosi alla Spada per amore della bella Marianna. Che proprio bella è, e fa innamorare di sé giovani e vecchi. Il rais Passasisi o il sub Mutolo o il pittore Damiano. I vecchi che vengono a sentire il juke-box (mitico l’ascolto di “Piange il telefono” di Modugno). E lo strano Lombardi, con i suoi misteriosi traffici con il Sud America. Ma dopo una lunga zoomata sulla Spada ed i suoi eroi, e dopo averci fatto entrare Rizzitano così da collegare prima e seconda parte, esce il racconto di cui alle prime righe. Con il fuori luogo Angelini, punta dell’iceberg che invaderà l’isola di lì a poco. Della sua litigata con Lombardi, fino alla rottura (e non vi dico perché né come). Tanto forte che si rompe l’equilibrio della Spada e degli Stravaganti. E Lorenzo non ci tornerà più, finendo i suoi studi ed intraprendendo la carriera universitaria. Ma poi rimane tutto sospeso (e questo è il quarto ed ultimo minus della storia). Che finisce tutto lì, con la rottura. Non si salda con la prima parte, non vengono sciolti nodi aperti. Non sappiamo se arriva Michelle, se la sorella Assunta, se il mulo, se anche Rizzitano, se … se… Insomma, si poteva partire dal racconto, ma per fare un romanzo doveva esserci un po’ di costruzione in più. Un po’ di chiusure, che non ci sono. Per cui alla fine rimane una piacevole lettura (la scrittura di Piazzese mi piace, mi evoca, soprattutto quando parla della musica, per cui si capisce anche il titolo), ma non molto di più. Riporto solo un giudizio, trovato sul web, che condivido. Essendo Lorenzo un detective atipico, o meglio una persona normale cui capita di imbattersi in momenti gialli, come tutte le persone normali, non è che incontri morti ad ogni suo passo. Vero, ed è giusto costruirci storie. Però che siano un pochino più robusto, per favore.
Anche se ritardando per viaggi, ecco i libri letti nel mese di Dicembre, con il vostro tramatore sempre più chino su questi 20 libri. Con le ottime prove di Tabucchi (peccato che te ne sei andato) e Zweig. E molte (almeno cinque) prove insufficienti, e tra l’altro di autori generalmente piacevoli (come Mankell, Auster o la Cornwell).
#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Jo Nesbø
L’uomo di neve
Piemme
14
3
2
Carlo Giordano
Il mistero delle 366 fosse
Sole 24 ore – Noir
6,90
3
3
Michael Connelly
La città buia
Piemme
5,90
3
4
Antonio Tabucchi
Viaggi e altri viaggi
Feltrinelli
s.p.
4
5
Michele Serra
Gli sdraiati
Feltrinelli
12
3
6
Hakan Nesser
L’uomo che odiava i martedì
Tea
9
3
7
Henning Mankell
La mano
Marsilio
12
2
8
Loriano Macchiavelli
Sarti Antonio: un diavolo per capello
Sole 24 ore – Noir
6,90
3
9
Penelope Lively
Appunti per uno studio del cuore umano
TEA
10
2
10
Santo Piazzese
Blues di mezz’autunno
Sellerio
12
3
11
Kathy Reichs
Duecentosei ossa
BUR
9,90
2
12
Paul Auster
Nel paese delle ultime cose
Einaudi
9,50
2
13
Andrea Franco
L’odore del peccato
Mondadori
4,90
3
14
Jo Nesbø
Il leopardo
Einaudi
14
3
15
Eugenio Scalfari & Francesco
Dialogo tra credenti e non credenti
Repubblica
8,90
3
16
Andrea Camilleri
La banda Sacco
Sellerio
13
3
17
Patricia Cornwell
Nebbia rossa
Mondadori
13
2
18
Banana Yoshimoto
Un viaggio chiamato vita
Feltrinelli
7
3
19
Francisco José Viegas
Un cielo troppo blu
Beat
9
3
20
Stefan Zweig
Viaggio nel passato
Ibis
8
4

Si è tornati anche dal Sud Africa e dalla bellissima Città del Capo, con tutti i dispiaceri di cui avrò modo di parlare quando la calma tornerà sull’agitato mare. Ora c’è bisogno di tutte le energie per caricarsi di nuovo. Ed allora un abbraccio a tutti