domenica 25 febbraio 2018

Sempre donne - 25 febbraio 2018


Sarà che ci vuole tempo per assorbire ed elaborare dolori, ma eccoci ancora qui, freschi del pensiero di mia madre, grande donna e grande lettrice, a trattare di quattro scritture femminili. Una decisamente insufficiente, la poco leggibile e melensa Clara Sanchez. Le altre tre ben oltre la sufficienza. Se d’altronde me lo potevo aspettare da Isabel Allende, che scarsamente delude, ben contento sono della giapponese Natsuo Kirino che non conoscevo. Per chiudere con un classico che avevo paura mi deludesse, invece…
Isabel Allende “L’amante giapponese” Feltrinelli euro 9,90 (in realtà, scontato a 4,95 euro)
[A: 02/05/2017– I: 07/09/2017 – T: 10/09/2017] - &&&& --  
[tit. or.: El amante japonés; ling. or.: spagnolo; pagine: 281; anno 2015]
Devo dire che non mi dispiace affatto questo ritorno di Isabel Allende a tematiche amorose. Anche se, data la sua storia personale, trattasi comunque di storie che toccano temi diversi, complessi e spesso pieni di (forse) dolorose conseguenze. O che preludono dolorose conseguenze a fronte di dolorose scelte. Questo forse il limite del romanzo, quello di aver messo tanta carne sul fuoco, e di non riuscire sempre a portare tutto al giusto punto di cottura. Perché abbiamo il tema dell’amore dei vecchi, e dell’amore tra i vecchi (la maggior parte del libro è ambientata in una ridente casa di riposo per anziani in California). La storia della famiglia Belasco e la storia della famiglia Fukuda. Il tema dolente della pedo-pornografia ed il tema dell’immigrazione. La storia di amanti sotto diverse specie: dentro e fuori matrimoni, etero e omosessuali. Nonché piccoli rivoli toccati con diversi gradi di approfondimento: sindrome di down ed inserimenti lavorativi, deportazione dei nippo-americani durante la Seconda Guerra Mondiale, dolore e serenità di chi si avvia al termine della propria vita. Certo, tutto è condito dalla scrittura sapiente e senza ostacoli di una narratrice che sa portare avanti i propri discorsi, che sa tenere il lettore (decentemente) incollato alle pagine, che porta quindi (quasi) tutto alla sua conclusione. Non scopro certo ora Allende ed i suoi scritti, anche se l’amore-politica delle prime uscite non è stato più raggiunto nel mio cuore (e nel mio stomaco). Tuttavia è un buon libro, giocato molto sul registro multiplo della storia della romena Irina che inizia a lavorare nella casa di cura, e nel suo rapporto con Alma Belasco, ebrea polacca che, alla soglia degli ottanta anni, pur potendo scegliere tante soluzioni (la sua è una famiglia di solide capacità economiche) vuole passare gli anni che le rimangono spogliandosi di tutto il superfluo della vita. Per questo si rifugia nella casa, e sceglie, fortunatamente e fortunosamente, di prendersi come segretaria proprio Irina. Irina, che ha i suoi problemi come scopriremo alla fine, essendo questa una copertura che le ha dato l’FBI in quanto “testimone a rischio”, è in ogni caso un’anima buona, si prende cura degli anziani, ed è intrigata dal “mistero Alma”. Perché la bella signora ha fatto questo passo? Perché e dove Alma sparisce ogni mese per qualche giorno? Aiutata dal nipote di Alma, che ovviamente di lei si innamora, scoperta dopo scoperta, riesce a ricostruire la vita complessa di nonna Belasco. Ebrea polacca, viene spedita dai genitori in America prima dell’inizio delle persecuzioni naziste (cui i genitori soccomberanno). In America, sola e spaurita, riesce a “resistere” aiutata dal cugino Nath, introverso, sognatore, ma con capacità insospettate (scopriremo che è un valente fotografo) e dal figlio del giardiniere, il nippo-americano Ichimei. Del quale lei, dodicenne, perdutamente si innamora. Sarà il suo per sempre “amante giapponese”, visto che le convenzioni rendono difficile che l’amore si trasformi in matrimonio ed in vita comune. Da qui seguiamo il doppio binario Belasco-Fukuda. Ichimei, come tutti i nippo, durante la guerra viene internato. I due si perdono di vista. Alma va in Europa, sviluppa i suoi talenti artistici facendo fortuna con sete disegnate. Ichimei, dopo la guerra, riprende la sua cura per le piante, e la sua sensibilità per tutte le cose viventi. Si ritroveranno per un breve periodo, sui venti anni, quando Alma rimane incinta e, per non abortire, decide di sposare Nath. Ichimei, dal cuore spezzato, torna alle sue radici giapponesi sposando una gentile e sottomessa isolana. Il bambino però nasce morto, Alma e Nath, pur non amandosi, continuano la loro vita parallela di sposi, ed Alma partorirà un altro figlio, Larry, il padre di Seth. Ma la vita dei due è, per l’appunto, parallela e soffusa di amicizia. Con una grande svolta quando, dopo il funerale del capostipite Belasco, Alma ritrova Ichimei ed i due diventeranno amanti, di reciproco sostegno fino alla fine delle rispettive vite. Specialmente quando Nath decide di uscire dal suo guscio e palesare la sua natura omosessuale. Come detto tante altri bastoncini alimentano questo grande fuoco. La storia della sorella di Ichimei che vuole diventare medico, e che, anche lei dopo tortuosi percorsi, coronerà il suo sogno d’amore. La storia di Irina, sopra accennata, ma di cui non dico altro. La storia di Lenny, anche lui deciso a finire la sua vita nella casa di cura. Ovviamente, parlando di anziani, poco ci sorprende che, invece di 4 matrimoni ed un funerale, ci si avvia più verso 4 funerali ed 1 matrimonio. Anche se quest’ultimo non si sa se avverrà dopo la fine del libro. Ma anche in presenza di queste morti, non c’è nessuna sensazione di tristezza. Certo non c’è allegria, ma una specie di sorriso a fiori di labbra. Soprattutto per le ultime rivelazioni in fine di libro, che vi lascio gustare e trovare. Ripeto, alcuni rivoli narrativi non sono sempre portati ad un giusto compimento, lasciando qualche dissapore. Ma Isabel è tornata ai grandi affreschi dei suoi libri migliori. Ne sono contento, quasi come ritrovare una vecchia amica che abbia avuto dei problemi, ma da cui, per volontà e capacità, è riuscita a tirarsi fuori.
“Vorremmo proteggere le persone che amiamo, ma ciò che si vuole per sé stessi è autonomia.” (39)
“Tutto è relativo. È vecchia, non anziana. … E poi l’amore non ha età … durante la vecchiaia fa bene innamorarsi; è indicato per la salute e contro la depressione.” (42)
“La vecchiaia è la tappa più fragile e difficile della vita, più dell’infanzia, perché peggiora con il passare dei giorni e non ha altro futuro se non la morte.” (159)
“Non siamo vecchi per il fatto di aver compiuto settant’anni. Iniziamo a invecchiare nel momento in cui nasciamo, cambiamo giorno dopo giorno, … ci evolviamo. L’unica cosa diversa è che adesso siamo un po’ più vicini alla morte. E cosa c’è di male in questo? L’amore e l’amicizia non invecchiano.” (161)
Clara Sanchez “Il profumo delle foglie di limone” Garzanti s.p. (biblioteca di via Tolemaide)
[A: 06/06/2015– I: 23/09/2017 – T: 29/09/2017] - & e ¾    
[tit. or.: Lo que esconde tu nombre; ling. or.: spagnolo; pagine: 360; anno 2010]
Premetto, come mostra il mio gradimento di sopra, che il libro non mi è piaciuto gran che, né mi ha tanto meno coinvolto, come critiche e recensioni mostrano in giro su Internet. Ma prima di entrare nel merito, non posso che spezzare una lancia contro il petto di traduttori ed esperti di marketing, che hanno storpiato, travisato, oserei dire, se non fosse una parola grossa, ingannato il lettore. Il titolo originale recita “Quello che nasconde il tuo nome”, ed ha un senso, una sua logicità nello sviluppo del libro. Le foglie di limone ed il loro profumo vogliono quasi far intendere una storia d’amore, alla sudamericana. Peccato che l’autrice sia spagnola. Mettendo in copertina poi una ragazza che si avvia verso l’acqua, quasi a volersi annegare. Che è certo un passaggio inziale del libro, ma di quelli senza rilevanza e senza essere il nodo principale. Invero, il nodo è la memoria, la banalità del male, come direbbe Hannah Arendt, o anche la differenza tra l’essere e l’apparire. Ma la debolezza del testo è palese in ogni suo aspetto: nella forma, nei personaggi, nello sviluppo. L’autrice decide di usare una sorta di dialogo a distanza, alternando la voce dei due protagonisti, Sandra e Julian, che narrano la loro parte di storia. Sarebbe interessante se fossero due visuali contrastanti, due facce della stessa medaglia. Invece, dopo un inizio in cui Julian sa e Sandra è ignara di tutto, i due convergono, ed i loro racconti, sovrapponendosi, perdono forza e aumentano la stanchezza della lettura. I personaggi poi sono altamente manichei: ci sono i buoni (Sandra, Julian, Salvador, Alberto, e forse altri comprimari) ed i cattivi (i coniugi Christensen, Alice, Otto, Frida, e soprattutto Sebastian, ed anche qui altri di secondo piano). Tutti arroccati nel loro essere, tutti che continuano sulle proprie strade. Con tentennamenti assurdi ed incomprensibili. Perché Sandra diventa amica di Fred e Karin? Perché i due la accolgono? I cattivi cercano di nascondere il loro nome dietro parvenza di normalità. Ma riescono solo ad essere burattini senza che si trovino burattinai. E Julian, che per portare avanti la sua vendetta, mette in pericolo sé e gli altri non ha mai un momento di ripensamento, non riflette nulla su quello che fa, su chi coinvolge. Senza per altro sapere mai come portare realmente avanti la propria lotta. L’idea di base, al fine, non sarebbe poi neanche male: Julian, spagnolo antifranchista, passa alcuni anni nel lager di Mauthausen. Dopo la guerra, lui, Salvador e altri si dedicano alla caccia dei nazisti sfuggiti alla cattura. Poi gli anni passano, Julian si sposa con Rachel. Solo Salva continua. Ora, ottantenne messo poi neanche bene, rifugiatosi anche lui in Argentina, Julian riceve una lettera da Salva che gli dice di aver trovato due nazisti norvegesi, Karin e Fred, che vivono in Spagna. Julian parte lancia in resta, scopre che Salva è morto, e si mette lì a guatare i nazisti. Che vivono normalmente, sembra, e che accolgono Sandra, una giovane spagnola un po’ sbandata, incinta ma senza marito. Tutto il libro si svolge su questo filone: Sandra che ci racconta la parte “normale” di quella vita, Julian che accumula prove, indizi e che scopre esserci lì una bella raccolta di nazisti scampati alla guerra. Tuttavia non si capisce mai (anche dopo la fine del libro) come Julian intenda fermarli, denunciarli o altro. A parte Sandra sono tutti ottuagenari che poco hanno ancora da vivere. I nazisti, tra l’altro, si sono consorziati in quella che in italiano viene chiamata “Confraternita”, e che nell’originale suonava come “Hermanidad” (Fratellanza). Una specie di società di mutuo soccorso, contro i “nemici” e con la circolazione di finte droghe che dovrebbero allungare la vita. Un’assurdità che solo la finzione letteraria sorregge. Tutto ben sospeso, sino a che Julian spiega a Sandra cosa la giovane stia vivendo. Sandra ha una bella agnizione e decide di aiutare Julian, ma in cosa non si sa. Sandra, alla ricerca di ulteriori prove, mette in pericolo sé stessa ed il nascituro. Julian ha un solo momento interessante, un lungo colloquio delucidatore con Sebastian. Ci sono altre piccole avventure, ma niente si risolve con momenti forti. Sandra rischia, però riesce a fuggire aiutata da Julian e da … (segreto). Torna dai suoi a Madrid, partorisce un bel pupo che chiamerà Julian. Julian il vecchio rimane lì, vede i nazisti che sbaraccano, e non riesce a fermarli. Decide di restare allora nell’ospizio spagnolo, dove si accontenterà di trascorrere l’ultima parte della sua vita con Pilar. Ma ripeto, un romanzo che in nessuna parte riesce a coinvolgerti, in nessuna parte riesce ad interessarti o ad approfondire qualcosa. I cattivi, benché colpiti, continueranno la loro vita. Come Sandra. Come Julian. Ed è inoltre un libro che non scorre, avete visto che ho impiegato una settimana a portarlo a termine. Peccato, il tema meritava altra penna.
“Il caffè era l’unica abitudine dannosa alla quale non avevo rinunciato e a cui non avevo intenzione di rinunciare: mi rifiutavo di passare al tè verde come i pochi amici che mi erano rimasti.” (20)
“Quando R. si arrabbiava davvero con me, smetteva di parlare: la rabbia le cuciva le labbra. All’inizio mi disperavo e cercavo di fare in modo che tornasse nel mio mondo e mi guardasse, che mi accettasse di nuovo, ma questo non faceva che peggiorare le cose. Con il tempo capii che era meglio aspettare e non forzare la situazione.” (142)
Natsuo Kirino “Una storia crudele” Beat euro 6,90
[A: 24/08/2016 – I: 29/09/2017 – T: 01/10/2017] - &&&&    
[tit. or.: 残虐記 Zangyakuki; ling. or.: giapponese; pagine: 235; anno 2004]
Avevo comperato il libro di Natsuo Kirino perché avevo letto che era una scrittrice di gialli giapponesi, ed in tale lista avevo inserito questa storia. Invece, a valle della lettura, devo dire che è qualcosa di diverso. Non che non contenga elementi misteriosi, quasi polizieschi. Ma non è quella la spina dorsale del libro. Un libro, invece, sull’identità, sulla ricerca di sé, e su di uno spaccato di mondo giapponese, quasi contraltare di quel “Giappone-Mondo” che innerva la scrittura di Murakami. In certi punti, si respira quasi una lievità parente di Yoshimoto, anche se il linguaggio, le tematiche, la storia tutta narrata da Kirino è ben lontana da quelle intimistiche di Banana. Alla fine della lettura, che è stata gradevole è intrigante, mi è sembrato quasi di respirare un’aria alla Stephen King in salsa di soia. Anche perché Kirino riesce a tirare fuori dalla sua scrittura una serie di scatole cinesi, imbastendo, ricucendo, smontando e rimontando la storia di base. Storia di Keiko, una scrittrice ora trentacinquenne, che all’età di dieci anni ha subito un trauma fortissimo: viene rapita da uno strano personaggio di nome Kenji, e da lui sequestrata per 13 mesi. Un’enormità, ed un trauma da cui non solo non è facile uscire, ma forse è quasi impossibile. Ora Kenji (condannato all’ergastolo ma uscito dopo 25 anni per buona condotta) le scrive una lettera, anche se lei ha cambiato nome e città. Una lettera che le riapre un baratro mai richiuso del tutto. A valle della stessa, decide di scrivere la storia, la vera storia (dal suo punto di vista) del rapimento, delle sue motivazioni, e di tutto quanto si muoveva intorno. Dopo averla scritta, scompare, lasciando il marito con il manoscritto e mille domande. Noi ora leggiamo questo scritto, dove Keiko ci narra la sua visione di tutta la storia. Immergendoci in quei 13 mesi di angoscia, paura, umiliazione. Ma anche alla fine, acquiescenza, dovendo trovare il modo di sopravvivere. A parte tutto quello che le succede con Kenji, di giorno duro e spietato, di sera e di notte, dolce ed affabile, quasi bambino anche lui, benché venticinquenne, lo spaesamento di Keiko è il fatto di essere da lui chiamata Micchan. E la paura, scoprendo in un armadio dei quaderni firmati proprio Micchan. Chi è? Dov’è Micchan? La maggior valvola di sicurezza di Keiko è la presenza, al piano di sopra, di un certo Yatabe, collega di Kenji, che lei spera la possa liberare. Ma Kenji le confessa che Yatabe è sordo! Tant’è che, per casualità e fortuna, alla fine viene liberata, ma entrando nell’appartamento di Yatabe scopre un foro nel muro dal quale Yatabe poteva vedere cosa succedeva da Kenji. Allora? Complici? Forse, tanto che mentre Kenji viene arrestato, Yatabe scompare. E scavando nei giardini intorno alla casa, si scopre il corpo di una diciassettenne di origini filippine. Mentre si avvia tutta la parte processuale per Kenji, Keiko cerca di tornare alla vita normale. Dove non si inserirà mai del tutto. Avendo anche uno strano rapporto di simpatia – antipatia con il suo avvocato, allora trentenne, e con una mano finta. Dopo anni di falliti inserimenti, casualmente (ma in maniera consequenziale ai personaggi) Keiko scopre Yatabe, lo smaschera, ma questi fugge di nuovo, nonostante gli sforzi dell’avvocato, che confessa anche lui di aver subito un trauma: la madre, fuori di testa, gli ha staccato la mano con una accetta! A questo punto Keiko, collegando fatti noti a tutti, fatti noti a lei sola, e fantasticando (ma non molto), ricostruisce la vicenda di prima del rapimento. Pubblicandone un libro che avrà un grande successo di pubblico e la lancerà nel mondo della scrittura. Ripercorre quindi il sodalizio tra Kenji e Yatabe, con il primo succube del secondo, disposto a tutto per fargli piacere. Yatabe aveva preso sotto la sua ala Kenji bambino, ne aveva abusato fino alla maggiore età, quando lo allontana da sé, pur tenendolo sempre sotto il suo giogo morale. Per compiacere il “mostro” Yatabe, allora Kenji sequestra la filippina di cui sopra, consentendo a Yatabe di fare il guardone. Ma il triangolo si rompe quando (e non vi dico come né perché) la filippina muore. Qui finisce il libro giovanile di Keiko, che però ci spiega come, per proseguire nel perverso gioco, Kenji ripiega su un sequestro più giovane, quello della nostra Keiko, appunto. Nel ruolo della memoria, spinge anche oltre il limite la sua “sindrome di Stoccolma”, Keiko riesce a razionalizzare i suoi sentimenti per Kenji. Nonché quelli di Kenji verso di lei. Gioco di matrioske, elementi che ogni volta, visti da prospettive diverse sono ancora diversi. E Keiko, come annuncia il marito, scompare. Nella parte finale è proprio il marito che, pur non sapendo dove sia, né cercandola, né trovandola, ci rivela che sia lui stesso, e come le parole del manoscritto sino vere ma non sempre veritiere. Finisce così, con una sospensione che ci ributta addosso “tutto l’horror del mondo”. Ma abbiamo capito qualcosa: un trauma deve essere ben elaborato per essere superato. Keiko cercherà di capire sé stessa per tutta la sua vita, cercherà di capire le sue azioni, che sembrandole incomprensibili, fanno in modo che non riesca mai a capire il vero sé. Sono convinto che percorsi del genere non possano essere affrontati in solitaria, ma le soluzioni che propone Keiko non sono altresì praticabili. Non è certo una psichiatra svogliata, una poliziotta poco socievole, o un avvocato problematico che la possono aiutare. Tuttavia, capisco nel percorso che Kirino ci fa fare come, appunto, ci siano parti segrete ed infossate che devono essere domate, capite, gestite, se si vuole arrivare ad avere non dico una vita felice, ma almeno una vita serena. Anche io, come voi, come Keiko, ho fatto tanta strada. Ma io ho avuto la fortuna di avere aiuti impagabili, anche non coscienti, che mi hanno fatto arrivare al mio io attuale. Ma tutto ciò, di sicuro, esula da questa trama. Se ne riparlerà altrove, magari in serate fredde intorno a camini accesi e castagne fumanti.
Margaret Mitchell “Via col vento” Mondadori euro 12
[A: 12/06/2015– I: 08/11/2017 – T: 27/11/2017] - &&&&
[tit. or.: Gone with the Wind; ling. or.: inglese; pagine: 1104; anno 1936]
Devo dire che anche un lettore discretamente veloce come il sottoscritto, non può che riservare un congruo lasso di tempo ad un libro che supera le 1000 pagine. Un libro, inoltre, per diversi versi interessante, ben riuscito, e discretamente coinvolgente. Certo, se uno ha visto una mezza dozzina di volte il film (come il sottoscritto) non c’è più di tanto il piacere della scoperta della trama. Ma c’è il piacere della scrittura, che non stanca nonostante la lunghezza. C’è il piacere di scoprire le piccole differenze che ci sono tra film e libro. C’è il piacere di veder scorrere le avventure di Katie Scarlett O'Hara Hamilton Kennedy Butler (o solo Rossella nella versione tradotta) e Rhett K. Butler e degli altri personaggi, avendo in mente Vivian Leigh, Clark Gable, Leslie Howard e Olivia de Havilland (tanto per ricordare i personaggi principali). Perché, come quasi tutti, ho visto il film prima di lanciarmi nella lettura. Quindi le immagini si sovrappongono, lasciando comunque alla fine la sensazione che, pur con due mezzi espressivi diversi, libro e film abbiano raggiunto i loro scopi. Ma qui si parla di scrittura, ed al libro torniamo. Un libro che celebra l’epopea del Sud, poco prima, durante ed un po’ dopo quella grande ferita americana che fu la Guerra Civile del 1860. Si, proprio mentre noi si celebrava l’Unità d’Italia, lì si consumava una ferita che, forse, ha ancora strascichi, passati che siano 150 anni. Il libro in realtà è un grande affresco, che tocca varie corde romanzesche e storiche, proprio per dipingere, con gli occhi del Sud, gli avvenimenti e la vita e le persone di quegli anni. Proprio la parte storica, benché tinta di qualche rimpianto di troppo, è quella più curata dall’autrice, che spese lungo tempo in ricerche, e che riporta date e fatti con notevole precisione. Una parte storica che vede certo alcuni lati della medaglia della Georgia. I neri erano funzionali al sistema, fornivano manodopera a basso costo, ed altri dettagli. Non erano solo carne da macello. Ma di converso, non tutte (anche ben poche) erano le famiglie “alla O’Hara”, che avevano un rapporto non conflittuale (o non molto conflittuale) con la manovalanza. Era il sistema di vita, tale che, per far piacere al suo capoccia nero, Gerald O’Hara (il padre di Rossella) compera dai vicini la schiava che il suo amato Pork aveva messo incinta. Era una vita di feste, di cavalli, di pizzi e merletti femminili. Che avrebbe permesso, a chi voleva, anche di poter fare il “gentiluomo di campagna”. Come avrebbe voluto fare l’esimio Ashley Wilkes, che mai avrebbe voluto fare il soldato. Che sarebbe stato contento di stare in casa a leggere i suoi amati greci. E che, una volta diventato capo-famiglia, avrebbe anche liberato i suoi “schiavi” negri, facendo scegliere loro se e come restare nella casa delle “Dodici Querce”. Una ricerca storica che presenta anche un solo lato degli “yankee”. Loro, come tutti i soldati del tempo, come tutti gli approfittatori di situazioni estreme, sono “brutti, sporchi e cattivi”. E di certo ce n’erano. Come ovunque. Come anche nei gentiluomini del Sud, che puniscono nottetempo bianchi e neri malvagi. Ma Mitchell lo dice (cosa che non fa il film) che quello era il Ku Klux Klan. E non erano solo buoni vendicatori come Frank Kennedy, ma anche (e tuttora) razzisti e profittatori. Insomma, c’è molto di più di quello che potrebbe mostrare un romanzo (e prima o poi ci si tornerà sopra). Anche perché lo stesso Rhett è un emblema del difficile momento di quelle terre. È un miserabile che sfrutta situazioni favorevoli, che ruba anche (e lo confesserà), ma che ha anche la sua schiettezza, quella che gli fa dire, fin dall’inizio, che il Sud ha tutte le ragioni per perdere una guerra con il Nord. Una su tutte: non ha fabbriche di armi. Seconda su tutte: l’esercito (soprattutto all’inizio) è fatto da gentiluomini e non da soldati di professione (come sono le giacche blu che da tempo combattono per tutto il territorio americano). Secondo risvolto del libro è quello dei risvolti umani, delle relazioni, delle storie d’amore. Con al centro la nostra Rossella. Che attraversa le mille pagine del romanzo con tre matrimoni e tre figli (uno per matrimonio). E con uno sbaglio di fondo: pensa di amare Ashley e pensa che lui la ami. Per questo sposa Charles (Carlo) Hamilton che muore subito e senza lasciare traccia. Che per trovare soldi per mantenere la fattoria, la mitica Tara, sposa Frank (Franco) Kennedy. Non solo trova soldi, ma anche un suo ruolo, anche se non ben accetto, all’interno della società georgiana post-guerra. Diventa imprenditrice, si fa spavalda. Tanto da subire quasi uno stupro, che porterà i suoi vecchi sodali (i Wilkes, i Kennedy, i Tarleton e tutti glia altri) a cercare di vendicarla uccidendo il bianco cattivo. E quasi cadendo nella trappola delle giacche blu. Da cui vengono salvati proprio dal “malvagio” Rhett. Tutti meno il povero Kennedy che ci lascia le penne. Da qui la tormentata storia d’amore tra Vivian e Clark ha i suoi punti e spunti migliori (spesso espunti nel film, che ci fa perdere tutte le battute pungenti di Rhett). Avrà tutto ciò il suo culmine con la morte della figlia dei due. Diletta Butler (“Bonnie Blue” nell’originale) cade da cavallo come cadde e morì il vecchio Gerald. Una ferita insanabile tra i due. Che diventa rottura alla morte di Melania, l’unico elemento equilibratore di tutta la storia. Morte che fa capire a Rossella che per 950 pagine non aveva capito nulla di Ashley. Morte che nelle ultime meno di 100 pagine cerca di tirare le fila della parte romanzesco-rosa del libro. Che ci serve solo a capire quanto tempo ci vuole per maturare. Ma d’altra parte, se guardiamo le date, il libro comincia che Rossella ha 16 anni e finisce quando ne ha sui 28. Vi ricordate voi, come eravate in quel lasso di tempo? Ce ne vuole di tempo pe capire sé stessi (se mai lo si capirà). Inciso, alla fine del libro, Rhett di anni ne ha 45, cioè 17 più della sua amata. Perché nonostante alla fine si lascino (e lo sappiamo bene, avendo visto il film), sappiamo anche, sebbene il libro lanci luci ed ombre sul loro rapporto, che quello tra Rossella e Rhett è, tutto sommato, amore. Infarcito da incomprensioni, immaturità (di Rossella), presupponenza (di Rhett). Insomma, un libro che è un vero microcosmo di quasi tutto. Un libro che fa riflettere sulla poca lucidità di chi non capisce (e non accetta) l’evolversi del tempo. Un libro che ci fa pensare quanto sia meglio domandare che aspettare risposte a richieste non fatte. Un libro che mi è piaciuto, che tutti i miei sostegni di cura per la vanità e per la felicità consigliano, e con ragione. Un libro che, pur essendo uguale, è diverso dal film. Dove c’è la lunga storia del viaggio dalla natia Irlanda alle nuove terre di Gerald O’Hara. Dove c’è la storia di Elena la madre di Rossella, e del suo sfortunato amore per il cugino Philippe. C’è la storia di Mammy (quella di “Missrossella…”), di zia Pittypat, di Bella, di Wade ed Ella (i due figli di Rossella che spariscono nel film), di Suele (la sorella di Rossella), della famiglia Tarleton con i quattro maschi che muoiono in guerra, del dr. Meade e del suo ospedale da campo. E di tanti altri personaggi. Soprattutto, nel libro è meglio scolpita nella pietra la figura di Rhett, nel bene e nel male, che sarebbe troppo antipatico da far interpretare a Clark Gable (anche se sempre meglio lui che la prima scelta, che era Erroll Flynn). Quindi, anche se avete visto il film, leggete il libro. E poi leggete “La guerra civile americana” di Roberto Meccarini, per mettere un po’ di puntini sulle “i” opportune. (E non ho citato neanche una volta le due battute leggendarie del libro: “Francamente, me ne infischio” di Rhett e “Dopotutto, domani è un altro giorno!” di Rossella, o, come dall’originale, ““My dear, I don’t give a damn” e “After all, tomorrow is another day”).
Terza scrittura di questo freddo febbraio, dove per scaldarci è bene tornare ai libri che dovrebbero farci felici, ed affrontare una nuova terapia d’amore.
Per il resto, sommersi dalla burocrazia, poco si riesce a fare d’altro. Lo so, è anche questo un modo per pensare a chi non c’è più andando oltre, elaborando. Tuttavia non ne nego la fatica e la stanchezza che ne viene. 

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
FEBBRAIO 2018
Rimaniamo ancora sulle terapie d’amore, soprattutto sul versante psicologico che ne forniscono i libri di Chiara Gamberale.

TERAPIE D’AMORE (VIII)
PER DIECI MINUTI di CHIARA GAMBERALE (2013)

Pillole di trama       
Nel giro di poco la vita di Chiara si sgretola. Dopo aver scoperto che forse sta meglio senza di lei, il marito le annuncia (per telefono) che ha bisogno di mettersi in aspettativa dal lavoro e dal matrimonio. Come se non bastasse, oltre a ritrovarsi a vivere da sola in una casa che non ha mai sentito come casa, la tanto amata rubrica che cura da anni viene inaspettatamente chiusa. Mentre tutte le sue sicurezze vanno in frantumi e lei è a un passo dal perdere sé stessa, l’analista le prescrive una cura che è prima di tutto un gioco: per un mese, per dieci minuti al giorno, deve fare una cosa che non ha mai fatto prima e che probabilmente non avrebbe mai pensato di fare. Il romanzo è il diario di questo mese durante il quale la protagonista ripercorre in maniera frammentaria un po’ tutta la sua vita. Grazie a queste piccole attività, Chiara riuscirà a ricominciare, liberandosi dal dolore e dalle paure.
Supposta-saggezza
Non c’è che dire, a Chiara dice proprio male: in poco tempo si ritrova con una mano davanti e una di dietro, nuda di fronte a una vita che non riconosce più come sua. Il carattere, poi, non l’aiuta: paurosa e insicura, problematica e analitica, si è sempre nascosta all’ombra dei familiari e del marito (sposati da diciotto anni, fidanzati da sempre). Ma ora che lui si è poco elegantemente tolto di mezzo lasciandola in pieno sole, deve fare qualcosa perché un po’ di luce arrivi nelle sue zone d’ombra. L’analista le suggerisce un modo leggero e spensierato per affrontare le difficoltà, sgombrare la mente da elucubrazioni infognanti e recuperare la lucidità necessaria per vedere le cose da un diverso punto di vista. Grazie a queste attività assolutamente ordinarie ma lontane dalla sua quotidianità e dal suo carattere, Chiara entra in contatto con gli altri, si apre a realtà estranee alla sua sofferenza e capisce qualcosa di nuovo sulla vita e su sé stessa. È come se quei pochi istanti di stravaganza trasmettessero al giorno seguente una qualche possibilità, come se le permettessero di aggiungere ogni volta una pietra creando un percorso sicuro per attraversare il fiume delle sue paure senza affondare. Chiara scopre di potercela fare anche da sola, senza suo marito, senza quel salvagente che forse la stava facendo annegare. Deve accettare la più difficile delle sfide, crescere, e lo fa imparando a giocare, distraendosi dalle proprie sofferenze e trascurando le proprie ossessioni (compresa quella per l’ex). Crescere comporta anche la necessaria rinuncia a sentirsi il centro del mondo, condizione che si aggrava amplificandosi oltre misura quando si soffre. Aprendosi a nuove esperienze, Chiara impara a condividere il tempo e le emozioni, pensando a sé stessa con meno avidità. Arriva il momento in cui il dolore si attenua, la frattura che l’abbandono ha provocato nell’anima comincia a ricomporsi e inizia la guarigione. Ovviamente la ferita tornerà a farsi sentire e a dare fastidio, magari quando il tempo cambia e minaccia pioggia, ma bisogna conviverci, continuando ad andare avanti anche con passo stentato, anche zoppicando. Dopo una prima fase di legittima e sana disperazione (o rabbia folle, dipende dal carattere), ci si potrebbe accorgere che, lasciandoci, il nostro ex ci ha fatto il più bel regalo in assoluto (molto meglio anche dell’anello di famiglia che ha pure rivoluto indietro «perché, sai, era di nonna»), offrendoci l’occasione di dare nuovo significato alla nostra vita, permettendoci di sondare quelle «facoltà latenti» attraverso le quali è possibile «giungere alla conoscenza del mondo».
Posologia
Si consiglia il romanzo per il trattamento sintomatico degli stati febbrili e dolorosi correlati alla rottura di una relazione sentimentale, specialmente se di lunga durata, e a tutti quegli eventi che implicano una perdita di sicurezze, ovvero quando tutto frana, la vita va in frantumi e si manifesta «al suo posto una massa informe, sfilacciata, ferita, che come unico perno su cui girare aveva lo smarrimento».
Se ne consiglia la somministrazione in caso di apatia, stanchezza e stati depressivi prolungati connessi all’urgenza di dare una scossa alla routine emotiva, mettendosi in discussione per rinnovarsi e scoprirsi diversi. Anche dieci pagine al giorno sono sufficienti a favorire il rilassamento emotivo e a reintegrare la quota fisiologica di coraggio favorendo l’incremento del desiderio di lanciarsi verso l’ignoto senza la paura del vuoto emotivo. Assunto secondo le modalità indicate è anche un efficace beta (s)bloccante per lo scioglimento di blocchi emotivi, invalidanti nel rapporto con sé stessi e con gli altri, non necessariamente causati da una separazione ma da qualsiasi crisi esistenziale.
Oltre a favorire il graduale riassorbimento di un ego eccessivamente espanso a causa della sofferenza, può essere utile per prevenire o contrastare i rischi dell’abitudine che se in piccole dosi garantisce sicurezza, sovradosata impedisce di vivere pienamente liberi soffocando silenziosamente ogni desiderio con 1 inganno che ciò di cui si ha bisogno sia solo quello che non spaventa mentre «il meglio della vita sta in quelle esperienze interessanti che ancora ci aspettano».
Effetti collaterali
Tra gli effetti collaterali, il più frequente è anche il più innocuo, anzi il più salutare: il desiderio di mettere in pratica la cura dei dieci minuti. Se una carenza di fantasia vi spinge a prendere in prestito le attività di Chiara, tra le controindicazioni potrebbe esserci quella di mangiare piramidi di pancake alla Nutella (non c’è migliore medicina della cioccolata per le delusioni di ogni tipo) o ritrovarsi con le unghie ricoperte di smalto fucsia (con i brillantini) o girare vestiti da Babbo Natale il giorno della vigilia o rischiare di prendere un palo camminando all’indietro (ma in questo caso potrebbe anche capitare di travolgere qualcuno di interessante, poi da cosa nasce cosa e chissà che non possa essere l’inizio di un nuovo capitolo amoroso con cui superare l’eventuale abbandono).
Consigli
Se venite contagiati dal gioco dei dieci minuti, sentitevi liberi di fare cose stupide, anzi sarebbe preferibile fare proprio attività decisamente frivole che mettono addosso quell’allegria fondamentale per stemperare l’insostenibile pesantezza dell’essere. Parlando di leggerezza, pesantezza e relazioni amorose complicate, consiglio di dedicare dieci minuti al giorno (o molto di più) alla lettura de “L’insostenibile leggerezza dell’essere” di Milan Kundera. Non è una cosa stupida da fare, ma sarebbe stupido non farlo.
Chiara Gamberale è recentemente tornata a parlare di dolorosi abbandoni in “Avrò cura di te”, commovente e ironico romanzo scritto a quattro mani con Massimo Gramellini, indicato per curare momenti di sconforto e la conseguente perdita di ogni certezza. Perché la cura abbia effetto, però, è necessario credere negli angeli custodi. Per combattere con autoironia e intelligenza, unite a una buona dose di malinconica amarezza, eventuali danni provocati dall’abbandono di una persona amata consiglio anche “Fai bei sogni”. Attingendo alla sua esperienza personale, Massimo Gramellini racconta come la perdita e l’abbandono della donna più importante della vita di ognuno di noi, la mamma, possa segnare l’esistenza. Vissuto come tradimento, il distacco rischia di generare rancore e pessimismo, paura e insicurezza, un pericoloso intruglio di reflussi acidi in grado di avvelenare lentamente la capacità non solo di essere felici, ma anche semplicemente vivi. Gramellini dedica il romanzo a tutti coloro che nella vita hanno perso qualcosa e che, rifiutandosi di accettare la realtà, rifiutano sé stessi. «Preferiamo ignorarla la verità. Per non soffrire. Per non guarire. Perché altrimenti diventeremmo quello che abbiamo paura di essere: completamente vivi». Appassionante e ironico antidolorifico che apre gli occhi e cura i bruciori di cuore.

Commenti

Ho letto molto della nostra scrittrice, di cui ricordo sempre la bellezza mia interna alla lettura de “La zona cieca”, e alla riproposizione letteraria della “finestra di Johari” (e chi ha fatto psicologia con me sa di cosa parlo). Ora questa terapia mi ripropone altri due libri suoi, che, onestamente, non sono all’altezza dei primi, anche con l’apporto (nel secondo) della scrittura di un Massimo Gramellini che ancora non decifro completamente (bene in TV, male in libro).
Chiara Gamberale “Per dieci minuti” Feltrinelli euro 9,90 (in realtà, scontato a 4,95 euro)
[pubblicato il 10 dicembre 2017]
Quasi un metalibro, che mi ha accompagnato nella calda settimana omanita. Speravo in un romanzo più caldo, consono all’ambiente, e più rilassante. In realtà non è stato né l’uno né l’altro, eppur tuttavia, una lettura che ha avuto alcuni momenti di interesse. Diciamo soprattutto nella parte iniziale. Chiara è sempre stata attenta ai problemi psicologici dei suoi personaggi, tanto che rimando sempre a quel libro piccolo ma illuminante le mie personali esperienze nel campo che è stato “La zona cieca”. Anche qui, il suo personaggio, forse non a caso omonimo, ha di fronte una psicoterapeuta. Dalla quale va per affrontare una perdita, e la conseguente consapevolezza di aver fallito. La perdita è quella del suo matrimonio, quando il suo lui la lascia con una telefonata durante un viaggio di lavoro. Poco dopo, anche il lavoro, per il quale si era trasferita in un’altra città, le viene tolto. E Chiara si trova ad essere per la prima volta sola, in una nuova città, che non conosce bene, e senza lavoro. Senza punti di riferimento. Mi sembra il minimo che la vita vada in pezzi. Dopo varie sedute pregresse, che avvengono prima dell’inizio del libro, la psicoterapeuta le domanda se è disposta a fare un gioco, che riprende il pensiero pedagogico di Rudolf Steiner: per dieci minuti al giorno, per un mese dovrà fare una cosa mai fatta prima. L’obiettivo è quello di uscire dai classici schemi e combattere la paura. E Chiara non si tira indietro, decide di giocare, dopo tutto quello che sta passando le sembra una cosa semplice da fare. Nessuna azione eccezionale le viene chiesta, solo di sperimentare quelle che per lei sono delle novità, come cucinare i pancake, ballare l’hip-hop, mettersi uno smalto sgargiante, camminare di spalle per la città, ascoltare i problemi di sua madre; azioni semplici, ma che, poco alla volta, l’aiutano a cambiare sguardo sul mondo che la circonda e a capire che ricominciare è necessario. E per ricominciare, giocando in questo modo bizzarro, ogni volta si mette in discussione, prova ad essere meno egoista, prova ad aprirsi, cerca di capire di più sé stessa. Aprirsi significa anche condividere il proprio dolore, non negarlo. Non si vorrebbe mai provarlo, ma se c’è, se lo si affronta, può portarci qualcosa, può arricchirci. Affrontando i suoi dieci minuti altri, l’autrice ci fa scoprire anche chi sia, ora, Chiara. Come si sia sempre affidato al marito che si occupava di lei, in tutto. Senza, la sua vita non c’è più. Un momento illuminante del percorso e del suo scopo, lo abbiamo quando Chiara chiede alla psicoterapeuta, accettando il gioco: “Alla fine che cos si vince? Riavrò la mia vita indietro?” Ovvio che non ottiene risposta. Ovvio (per noi che capiamo i meccanismi) è che se Chiara gioca bene le sue carte non avrà indietro la “sua” vita, ma una “nuova” vita. Perché nei suoi dieci minuti privati, pian piano, capisce che sta passando dal “noi” che fino ad ora l’aveva bloccata, ad un semplice, banale, fortissimo “io”. E solo dopo aver finalmente sperimentato l’io Chiara riesce a pensare di nuovo al noi. Grazie a tutte le nuove esperienze, agli esperimenti provati potrà finalmente dire un grande no e un grande sì: con sé stessa scopre anche gli altri. Anche se non vi dico che no e che si siano. La capacità della Gamberale è anche di far seguire alla sua scrittura il percorso di Chiara. All’inizio, quando è confusa e spaesata, la scrittura è nervosa e spezzettata. Poi si trasforma in una narrazione calma e consapevole. Tuttavia, ed è questo il motivo che ci fermiamo a “soli” tre librini è anche una scrittura che fatica a coinvolgere il lettore. Se ne legge, si capisce gli accadimenti, ma non si diventa mai partecipi del romanzo. Io lettore non mi sento Chiara che cammina di spalle (anche se ricordo, e con vera gioia, quando facevamo il gioco dei ciechi, con Luisa, con Rosa, con Cristina). Questa scrittura ondivaga, ha fatto balenare l’idea che l’autrice abbia raccolto brani di suoi mini-racconti e li abbia cuciti una volta trovata l’idea forte dei “dieci minuti”. Non sono talmente abile nel decifrare le trame altrui da poter dare una risposta certa. Noto quello che c’è, non quello che ci poteva essere e non c’è (una maggiore enfasi nel futuro di Chiara, per me, ad esempio). E sono contento di averne letto.
“Purtroppo e per fortuna, bisogna essere in due a voler essere in due.” (99)
“Gli altri, quando fanno qualcosa per noi, ci danno o … ci tolgono un’occasione?” (113)
Massimo Gramellini & Chiara Gamberale “Avrò cura di te” TEA euro 5
[trama scritta il 22 dicembre 2017, non ancora pubblicata]
Pur essendo un libro misto uomo-donna, lo collocherò nell’Universo femminile, che mi sembra l’impronta di Chiara maggiore, o di maggior spinta, rispetto a quella di Massimo. Gramellini che non mi dispiaceva leggere a volte su “La Stampa” (non invece nella nuova veste nel Corriere) o ascoltare da Fazio, ma non riesco ad entrare nella sua scrittura libraria. Ho letto “L’ultima riga delle favole” e non mi è piaciuto; ho provato ad interessarmi a “Fai bei sogni”, e niente anche qui. Confesso che in questa prova l’ho trovato più leggibile, anche se, a volte, un po’ troppo legato alla parola, all’effetto, al detto e mal interpretato. Eppur tuttavia, discretamente godibile, anche se facilmente decrittabile. Gamberale è, al solito, nel buio nero delle crisi esistenziali. Non sembra aver fatto un passo avanti dal precedente “Per dieci minuti”. È ancora lì, ad elaborare lutti e cercare di recuperare, a riempirsi di parole, quasi a sommergerci in modo da non darci diritto di replica. Per questo, lo ritengo un libro più femminile, per questa preponderanza, alme-no emotiva, della parte “Chiara”. Il libro è costruito come una specie di epistolario tra la povera Gioconda-Chiara, con tutti i problemi, passati, presenti e probabilmente futuri, ed un nomato “Filèmone”, presentatosi come suo Angelo Custode. Senza entrare nel merito dell’angelicità, del-la vita al di là, della morte (e magari della reincarnazione), sottolineiamo la scelta de nome che rimanda alla saga di Filèmone e Bauci, due dei più teneri amanti della mitologia greca, che per rimanere uniti per sempre vennero prima di morire trasformati da Zeus in una quercia e un tiglio uniti per il tronco. Ma non ci meraviglia inoltre, che Filèmone sia un personaggio centrale dell’opera psicologica di Jung. Perché, in realtà, volendo traslare l’angelicità, Filèmone-Massimo ha molto dello psicologo, con in più la capacità – volontà – dirazzamento di intervenire oltre che di ascoltare. La trama a due voci è discretamente lineare: Gioconda è stata lasciata dal marito Leonardo (certo invenzione poco felice), non riesce ad elaborare il suo (nuovo) lutto, ed ecco che interviene come suo contraltare Filèmone, che la striglia, la indirizza, fino alla catarsi finale cui arriveremo. Perché, nel progredire dello scritto vediamo delinearsi sempre più chiaramente le figure sia di Gioconda che di Filèmone. Gioconda, trasferitasi a casa della ormai defunta nonna Gioconda, ne mitizza la vita vissuta accanto al marito Antonino. Intanto, sotto la spinta dell’angelo, tira fuori la sua storia. Figlia di una coppia scoppiata quando lei aveva quattro anni, non si è mai sentita accudita – compresa – cresciuta né dal padre, esimio ofiologo, né dalla madre, pronta a partire per il Sud America in vista di un nuovo possibile amore “che dia un senso alla vita vissuta fin qui”. Cresciuta con i nonni, ribelle senza rivoluzione, fa (quasi) sempre scelte sbagliate accettando o rifiutando innamorati e amanti. A trentun anni, laureata ed insegnante di Italiano, incontra Leonardo. Ne nasce una storia d’amore forte, complessa, piena dei di lui silenzi e delle sue parole. Tuttavia, mai dare per scontato l’amore, che va rivisto e coccolato ogni giorno. Gioconda e Leonardo si raffreddano, si allontanano, fino a che lei, quasi senza esserne cosciente, va a letto con il padre di un suo alunno. Un tradimento? Si potrebbe discutere e parlarne. Certo Leonardo, scopertolo, intento un processo via mail a Gioconda e la lascia. Gioconda cerca aiuto in Filèmone, anche dei suoi passi incerti, del voler tornare con l’Innominato, ma sen-za muovere un dito (commento mio). E l’Angelo la convince a guardarsi dentro, a non nascondere il proprio Io. Bellissime le poche righe che Gioconda si (e ci) concede per la sua fuga all’Isola di Pasqua. Ovvio che quando Gioconda finalmente comincia a camminare con le proprie gambe, Leonardo si ripresenta, rischiando di far crollare il fragile castello. Sarà la capacità di non chiudere gli occhi che consentirà (forse e se lo vorranno) l’inizio di una via nuova sulla vita vecchia. Il tutto ha per contraltare l’angelo, che ci racconta delle sue vite passate, ed intuiamo, da interventi fuori testo, che anche lui ha un grande amore, immutabile, immancabile, eterno. Per costringere Gioconda a guardarsi dentro senza altre maschere, Filèmone, alla fine, le fa capire che il suo grande amore era (è) proprio la nonna Gioconda. Ma allora Filèmone è nonno An-tonino, o c’è una storia diversa che non conosciamo e che conosceremo? Come conosceremo l’idea (che però è chiara già da diverse pagine prima della fine) di come Filèmone e Gioconda senior potremmo dare ancora una mano a Gioconda junior. A parte l’invenzione dell’Angelo, che mi lascia freddo, il libro si legge come un Fabio Volo al femminile, con qualche tocco di Federica Bosco. E molte frasi (anche se quelle sotto riportate sono condivisibili) più da Bacio Perugina che da libro di lettura. Leggerino, incomprensibilmente (o forse molto comprensibilmente) in testa a classifiche mensili di lettura. Dove ormai mi sembra chiaro che la popolarità raramente si accoppia ad una riuscita emotiva e cerebrale completa.
“Dov’è il confine che separa un segreto da una bugia?” (115)
“Si completa con gli altri solo chi sa bastare a sé stesso.” (134)
“L’amore perfetto non esiste: quello reale è la somma di tante imperfezioni. Ogni tradimento è il tentativo di colmare un vuoto.” (181)

Finalino

Ripeto quanto detto in commento: il co-Gramellini non mi convince, i “Dieci minuti” mi sembrano una lezione troppo “alla moda” per essere interessante. Leggete (o rileggete) invece “La zona cieca”.

domenica 18 febbraio 2018

Saggiamente tornati - 18 febbraio 2018

Già la scorsa settimana si parla del ritorno, del dolore, e di altro. Ora, in questa settimana in cui c’è anche un’appendice di panico, torno a delle letture sicuramente di livello. Non è forse un caso, come direbbe l’amica Marina, che si parli di saggi e non di romanzi. Tutti oltre la sufficienza, anche di molto. In cui si parla di Istanbul, di Vietnam, del nostro caos attuale, e die rapporti interpersonali, soprattutto con e verso i figli. Una settimana di letture che mi sento di consigliare in blocco (e sottolineo Terzani sotto la spinta del mio amico umbro Roberto).
Francesca Pacini “La mia Istanbul” Ponte Sisto s.p. (prestito di Fako)
[A: 02/05/2017 – I: 24/05/2017 – T: 26/05/2017] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 228; anno 2013]
Sono stato molto indeciso se e quanti gradimenti attribuire a questo libro. Che ho letto con piacere, ma che mi ha rimandato alcune immagini contraddittorie. Perché è un libro ben scritto dove la lettura scivola sul testo con facilità, quasi si fosse cullati dalle onde del Bosforo. Perché è un libro che parla di Istanbul, città che ho sempre nel cuore, dicendo cose che, per chi non conosce la città o la Turchia, sono degne di essere lette. Perché, però, tutto quanto detto ha solo confermato quanto già era nel mio cuore, senza aggiungere nulla né di testa né di pancia. Alla fine sono giunto ad una mediazione, per una valutazione dove “in medio stat virtus”. Un giudizio che parte con il piede giusto, perché non ci si può non fermare alla copertina, e dove molto del libro sta già nel sottotitolo “Viaggio di una donna occidentale attraverso la porta d'Oriente”. Non è un reportage, non è un diario di viaggio, forse un mix, di certo una piccola guida di emozioni per conoscere meglio una città magica. Con gli occhi di una donna non islamica in un mondo che lo è. Capisco, credo di capire, cosa possa essere. Per chi come me, come molti di voi (e chi non c’è stato ci vada, e chi c’è stato ci ritorni), ecco che dietro le parole di Francesca sbucano i dervisci rotanti che danzano nei quartieri alla moda ma anche nella stazione del vecchio Orient Express, ecco che ci imbarchiamo per una gita in Asia con il battello, per poi scendere ed aggirarci passeggiando lungo la riva del Bosforo. Fare un salto al vecchio hamam del centro, fumare un narghilè dietro il vecchio cimitero. Ed al mattino svegliarsi con il canto del muezzin all’alba dietro ai minareti. Come dice l’autrice “Quando viaggi, il bello è vedere il diverso, l’altro da te”. Istanbul è piena di questo altro. Una città in bilico tra Oriente ed Occidente, una frontiera tra il nostro noto e quello che ci si aspetta dall’ignoto. Certo, non è una città facile, non ora con un governo teso ad altro e che rende difficile esprimersi, prendere contatto. Ma Istanbul è lì, nella parte moderna interessante, ma che si può vedere una volta e basta. E le tante atmosfera di un tempo: nel quartiere tradizionale, per vedere gli affreschi di San Salvatore in Chora, nelle stradine intorno alla moschea del Solimano, alle sue casette ancora in legno, alle stradine verso il Corno d’Oro. Non penso entrerò nel merito specifico del libro, che la scrittura è gradevole, anche se, come detto, non mi ha preso abbastanza da rendermela vicina. Ma le immagini, sia del libro sia quelle che mi ha evocato nella testa, quelle sì che possiamo riportarle. Come quella, vicino alla fermata di Kabataş, della Moschea Dolmabahçe che si affaccia direttamente sul Bosforo. Le due anime di Istanbul, l’europea e l’asiatica, la moderna e la tradizionale, si amalgamano e cambiano sé stesse, così che, girando per le strade, incontriamo donne truccate e vestite alla moda con in mano un cocktail alcolico, che incrociano splendide musulmane che indossano con disinvoltura l’hijab. Là dove la tolleranza potrebbe quindi regnare. Là dove, purtroppo, non sarà così, che, come in tutte le religioni, sono gli estremismi a causare i problemi. Lì, ad Istanbul non è questione di Islam o non Islam, è questione dell’estremismo governativo di Erdoğan. Emblema, uno per tutti, Gezi Park e tutto quello che ha portato con sé. Ma noi lasciamo il governo e la polizia, noi torniamo alle moschee affacciate sul Bosforo, al mare azzurro, alle barche sotto il ponte di Galata, ai suoni ed ai colori. Due ultime immagini prima di lasciare Istanbul e Francesca Pacini. Una dolente, che a pagina 80 si cita quella che per alcuni anni è stata una libreria di riferimento per testi islamici in generale, e sufi in particolare. La libreria Nima, lì alla stazione Tiburtina. Ora purtroppo c’è solo un venditore di kebab! Una allegra, per me che mi riporta non ad Istanbul, ma a Damasco. Quando alla scrittrice per la sua ultima cena in uno dei tanti viaggi, il cameriere porta una zuppa di lenticchie, dove lei, come feci io, come avrà fatto Esau, spruzza contenta un limone prima di mangiarla. Sarà contento Proust! Ricordando il memento finale che ci lascia Francesca (“Bisogna vedere delle cose vecchie con occhi nuovi. Invece spesso vediamo cose nuove con occhi vecchi, purtroppo”) vi lascio anch’io, augurandovi un nuovo felice viaggio.
“Chi cerca, chi si mette in viaggio, arriva sempre, qualunque strada percorrerà.” (29)
“La mediazione si trova anche nell’accettazione della diversità, senza volerla per forza integrare.” (63)
“Pasolini: la mia indipendenza, che è la mia forza, implica anche la solitudine, che è la mia debolezza.” (220)
Tiziano Terzani “Pelle di leopardo” TEA euro 10 (in realtà, scontato a 8,50 euro)
[A: 18/05/2015 – I: 11/09/2017 – T: 22/09/2017] - &&&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 456; anno 2000]
Sotto questo titolo “cumulativo” (e sulla cui bellezza tornerò più avanti) sono in realtà presentati due libri, diversi e consequenziali, del mai dimenticato Terzani. Che, confesso, non avevo molto nel cuore ai tempi dei suoi scritti o dei suoi articoli. Anche perché faceva il corrispondente per un giornale tedesco, il “Der Spiegel”. Ma che mi avvinse alla sua scrittura con il bellissimo ed impareggiabile “Un indovino mi disse”. E poi mi avvinse alla sua vita con le sue vicende finali: la strenua lotta sia contro la guerra, di lui da sempre corrispondente di guerra, e la non vincibile lotta con il tumore che, purtroppo, ce l’ha portato via ormai da 13 anni. E sono contento di leggere le sue mirabili pagine, proprio in questi giorni in cui avrebbe festeggiato i suoi 79 anni.
“Pelle di leopardo – Diario vietnamita di un corrispondente di guerra 1972-1973”
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 1-169; anno 1973]
Detto che la scrittura di Terzani, una volta che la si incontra, non la si dimentica più, ho finalmente letto, a più di quarant’anni dalla sua uscita, il primo dei due libri che l’autore dedica al Vietnam Autore insolito e momento insolito. Che Terzani, dopo una giovinezza acuta e strampalata, finalmente nel 1972 riesce a coronare il suo sogno: andare in Asia da corrispondente di un giornale. Le stranezze sono che Tiziano, proveniente da famiglia non ricca, tra sacrifici ed altre amenità, si laurea in Giurisprudenza. Poi fa lavori strani, si sposa con l’amata Angela che lo seguirà per tutta la vita, fino a diventare parte dell’ufficio del personale della Olivetti ai tempi di Paolo Volponi. Aveva già imparato il cinese a New York, vive qualche anno laggiù tra Singapore ed altre asiaticherie (portandosi appresso l’appena nato figlio Folco). Ma l’Olivetti gli sta stretta. Prova per un po’ a lavorare a “Il Giorno” con Giorgio Bocca, senza molti risultati. Fino a che ha questo colpo di fortuna (e di genio): gli viene offerto di fare il corrispondente all’estero del giornale tedesco “Der Spiegel” (Tiziano parla francese, inglese, tedesco, cinese e qualche altra lingua). Lavoro che farà per 25 anni sino al ’97. Forse anche per questo, all’inizio non è particolarmente noto in Italia, fino però ad uscire fuori con la forza delle sue parole. Quelle che scriveva già a 34 anni, quando, iniziando i suoi reportage dal Vietnam non poteva che dire: “non si può parlare, scrivere di questa o di un’altra guerriglia, se non la si va a vedere, se non si è disposti a condividerne i rischi. […] Mi pareva che andare alla guerra fosse necessario per capirla, fosse anche una forma di lealtà nei confronti di chi la combatte.” E tutta la sua opera, di scrittura e di vita, è permeata di questo sentimento: lealtà. Come in questo suo primo scritto, in cui dal suo diario estrapola le avventure significative del suo anno nel Vietnam del Sud. Prova a descrivere con lealtà la vita quotidiana a Saigon, tra una possibile offensiva ai tempi del Tet del ‘72 (il capodanno vietnamita tra fine gennaio ed inizio febbraio) e la firma degli accordi di Parigi nel gennaio del ’73. Ma anche cosa succede a Nord, verso la linea di confine tra i due Vietnam, a Hué ed altre città vicine. E poi anche nel Delta del Mekong. Riuscendo sempre a mantenere un atteggiamento descrittivo e non giudicante. Certo, non può mancare un giudizio implicito, quando si descrive l’insipienza dei comandanti americani sul posto. Mirabile la descrizione di una conferenza stampa e dei “No comment” del generale americano di turno. O lo stesso giudizio sulle malefatte quotidiane dell’esercito sud-vietnamita sia verso chi fosse sospettato di parteggiare per il Nord, sia per gli stessi civili, colpevoli di nulla. In questa parte diaristica poco compaiono delle azioni e delle posizioni sia dell’esercito del Nord sia dei Vietcong, che difficile è per i giornalisti entrare in contatto. Ma con le testimonianze dirette della gente che intervista, in genere contadini e gente del popolo, Terzani riesce a sollevare il velo dei comunicati ufficiali, rivelando le inutili nonché enormi sofferenze del popolo vietnamita durante tutto il conflitto. Ma è anche un bravo giornalista, anche perché conoscendo brandelli di lingua locale riesce a comprendere meglio posizioni ed atteggiamenti. Ed attraverso le sue descrizioni comprendiamo meglio le posizioni sul terreno nella Saigon di quegli anni. Il terribile peso dittatoriale del presidente Thieu, la presenza di una “terza forza”, né pro-americana né pro-comunista che tuttavia non riesce ad esprimersi. Dopo tutta una serie di mesi passati su e giù tra le zone di guerra, solo nel gennaio del ’73 riesce a penetrare nella parte del Delta occupata dalle forze di liberazione. E ne descrive anche qui le vicende quotidiane, con quella bellissima sera di teatro popolare in una città inesistente del Mekong (inesistente perché nasce per la rappresentazione dove convergono molti locali, e viene abbandonata la sera stessa, dopo lo spettacolo). Dopo di che, il governo di Thieu ritiene non gradita la presenza di Terzani, che viene espulso, si ritirerà a Singapore, e riuscirà a tornare solo due anni dopo, come racconta il secondo libro contenuto in questo volume. Corrispondente di guerra, che scrive della guerra perché si riesca ad eliminare le guerre, la scrittura di Terzani è bella, coinvolgente, ti fa sentire lì dove sventolano le bandiere, lì dove cadono le bombe, lì dove la gente che subisce la guerra inutilmente muore. E per chi ha visto, quaranta anni dopo, quelle terre, quelle ferite, non si può che rimanere colpiti dalla bravura e dalla precisione di questo giornalista ancora giovane. Che ci dà, alla fine, tutti i sentimenti della guerra: il soldato americano sfiduciato, il generale americano presupponente, la gerarchia sud-vietnamita inconcludente, la terza forza incapace di esprimersi, il popolo minuto che si occupa del quotidiano, l’avanzata, inesorabile, dell’esercito di liberazione. Veramente un bell’inizio.
“La carta geografica del Sud è ... una specie di pelle di leopardo con delle macchie nere rappresentanti ‘il nemico’ [i.e. i Vietcong] sparse un po’ dovunque, non solo nelle campagne, ma anche vicino alle città … a Saigon, Hué, Da Nang, eccetera.” (117)
“Giai Phong! – La liberazione di Saigon”
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 171-440; anno 1976]
Nel secondo libro della duologia vietnamita, vediamo Terzani riuscire, dopo due anni, a tornare a Saigon, proprio nel momento topico della guerra vietnamita. Come dalla lettura del libro precedente, sappiamo che nel 1973, ufficialmente, l’esercito americano lascia il Sud. Ma rimangono ancora le strutture di supporto al governo sud-vietnamita di Thieu. In due anni, Vietcong e Vietminh avanzano dalle campagne, circondano e “liberano” le città. Terzani, in due momenti topici di questo libro, ci dà conto delle due parti primarie della vicenda. Nei tre giorni di fine aprile del 1975, riesce a farci seguire, giorno per giorno, anzi ora per ora, tutto quello che avviene nella città. Le attese, la fuga di Thieu, la nascita di un governo che dovrebbe trattare la resa, la fuga dei corrotti aiutati dagli ultimi elicotteri americani. Ricordo ancora l’emozione provata pochi anni fa nell’entrare nel palazzo presidenziale, vedere il giardino con il primo carro armato entrato in città e lì parcheggiato, salire le scale sino al tetto, dove, dall’eliporto improvvisato, partì il 30 aprile 1975 l’ultimo elicottero americano. Sono i piccoli dettagli che Terzani ci mostra e che ci fanno capire l’insensatezza di anni e anni di battaglie, e l’ironia di un popolo che si voleva diviso e che finalmente si ricongiunge. Finalmente si libera. La cosa migliore di questa parte, è la descrizione del carro armato che ha una piantina per raggiungere il palazzo, visto che a guidarlo sono giovani mai entrati a Saigon. E che si perde, e deve chiedere ad un passante la strada da percorrere. Un tocco magistrale. La seconda parte, invece, è tutta incentrata nei tre mesi successivi. I primi tre mesi della Rivoluzione. Caratterizzati, questi almeno, da alcune parole d’ordine e da alcuni comportamenti che permisero un inizio abbastanza soffice del processo di normalizzazione. I liberatori non usarono repressioni o epurazioni, ma agivano in termini di perdono e pacificazione. I sudisti avevano sbagliato, ma perché consigliati malamente. Quindi, istituendo dal basso momenti assembleari di discussione, di critica ed autocritica, i nordisti, i vietcong, l’esercito di liberazione entrano in simbiosi con i sudisti, con i tanti sostenitori, coscienti o meno, dei “fantocci” che avevano guidato il Sud dal 1954 per venti anni. Campagne rieducative, esempi da seguire e far seguire. Con tutta una escalation studiata ed attuata magistralmente. Dal basso, la rieducazione è breve, perché brevi e poche sono le colpe. Man mano che si sale nella scala gerarchica del potere, che si investono soprattutto i pochi rimasugli dell’esercito sudista, la rieducazione diventa più lunga, anche più dolorosa. Mirabile anche qui la descrizione di quei quadri cui viene detto di prendere provvigioni per almeno un mese, ma la cui rieducazione sarà molto più lunga, comporterà anche la necessità di trovarsi a procurare cibo ed alloggi. Tutto serve alla causa della Rivoluzione, dicono gli epigoni di Lê Ðức Thọ, il negoziatore degli Accordi di Parigi. Terzani ce ne descrive al solito il quadro con una discreta dose di imparzialità, anche se non si può negare un certo grado di partecipazione. Non è un caso che questo libro verrà subito tradotto anche in vietnamita, che verrà propagandato come descrizione occidentale degli avvenimenti, che ne verrà a lungo vietata la vendita negli Stati Uniti. Non è un libro che va oltre quanto promesso. Non può, per ovvie ragioni di tempo, entrare nel merito del processo successivo degli avvenimenti indocinesi. Che dopo questa fase di pacificazione, per sostenere le idee egualitarie, ma anche per far riprendere i mezzi di sostentamento agricolo, andati bellamente a puttane, un sempre più duro sforzo sarà necessario. Un irrigidimento che contraddirà molti dei principi che Terzani ci ha fatto amare in queste pagine. Che entrerà in conflitto con l’Unione Sovietica, con la Cina, occuperà anche la Cambogia di Pol Pot (e questo forse è stato un bene), fino ad avviare, dagli anni ’90 un lungo processo di “terza via” simile a quella cinese, rendendo il Vietnam, ora, uno stato interessante per le prospettive economiche e di sviluppo. Anche se pieno di contraddizioni, come ho potuto constatare “de visu” durante il lungo giro che ne ho fatto. Ma non stiamo parlando di storia, stiamo parlando di libri. E soprattutto di Terzani. Certo, la sua capacità di citare nomi e situazioni e località è di una precisione impressionante, ma che purtroppo ci restituisce poco, a noi che dei nomi locali ne ricordiamo a mala pena tre: Hồ Chí Minh, che però muore nel 1969, Lê Ðức Thọ, il negoziatore sopra ricordato, e Võ Nguyên Giáp, il generale che ha guidato tutta la guerra (e che è morto poco prima che io visitassi il paese alla bella età di 102 anni). Il resto, sono nomi che non rimangono, di cui vediamo le storie che ce ne racconta Terzani. E di cui non entriamo nel merito. Dovete leggerla, dovete entrare in quei tre mesi fatali, là dove il potenziale diventa atto. Là dove si è riusciti, per poco e con tanto sforzo, a rendere fattibile, anche alla fine del XX secolo una rivoluzione che sa di primo Novecento. Inoltre, ed in ogni riga, in ogni piega delle sue pagine, anche quando parla di guerra, anche quando visita il Delta e le città che nascono a nuova vita dopo tante sofferenze, Terzani ci comunica quello di cui tutti i suoi scritti sono soffusi: la guerra è una tragedia, e bisogna fare di tutto per non caderci di nuovo. E lo dico ora quando i burattini americani ed asiatici tendono a cadere ancora ed ancora nelle stesse trappole. Parlare, spiegare, sedersi intorno ad un tavolo, e non aver paura di essere normali. Grazie, sempre e comunque, amico Tiziano.
“Dieci anni di tragedie per nulla.” (228)
Zygmunt Bauman & Ezio Mauro “Babel” Laterza euro 10 (in realtà, scontato a 7,50 euro)
[A: 04/10/2016 – I: 10/12/2017 – T: 13/12/2017] - &&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano – inglese; pagine: 153; anno 2015]
Cominciamo con il giudizio, che questo saggio è un libro composto, è un dialogo tra i due autori, intorno a tematiche interessanti e che sempre sono nella mia testa, negli ultimi anni. Ma come tutti i dialoghi ha un diverso peso nelle parti esposte e sostenute dai due autori. Prima però di entrare in trame specifiche, è bene che dica la mia sensazione. Che gli interventi di Bauman (ora purtroppo scomparso) sono lucidi, solidi, ma anche, al solito (se vedete le mie altre critiche ai suoi scritti) molto sociologici e poco politici: analizzano, in modo anche feroce, la realtà, ma non ci danno (perché credo che non sia questo il mestiere del pensatore polacco) una soluzione, una modalità per operare. Ma la loro solidità merita anche 4 librini. Il contraltare di Mauro, che vorrebbe e dovrebbe essere più politico, invece mi risulta meno convincente ed avvincente, a volte teso anche a tirare acqua al mulino di Repubblica (anche se non vedo niente di sconveniente in questo), ma che portano i librini del giornalista tra il 2 e ½ ed il 3. Il dialogo tra i due pensatori si articola in tre tappe che ripercorrono e affrontano le tematiche del nostro oggi. La crisi della democrazia, la crisi della rappresentanza, la solitudine dell’interconnessione. Sono tre aspetti del mondo che viviamo e che Bauman sintetizza nella sua breve ed affascinante introduzione riportandoci alla “Lotteria di Babilonia” di Borges. Non è un caso che si comincia con uno scrittore, perché poi con gli scrittori si finisce, con quelle due citazioni che riporto sotto di Canetti e di Bulgakov. Ma questo mondo inconoscibile, così come diventa dopo anni ed anni la lotteria di Borges, è quello in cui viviamo. È quello in cui da anni siamo immersi in una crisi che per non angosciarci troppo riteniamo solo economica. Invece nella crisi economica dobbiamo vedere un sintomo del collasso della democrazia come abbiamo tentato di costruirla o ricostruirla dopo la Seconda guerra mondiale. Prima c’era solo il lavoro ed i rapporti sociali che avevano senso, che permettevano lo scambio, e di conseguenza la costruzione, di un mondo, di uno Stato. Poi tutto si è andato monetizzando (ricordo a qualcuno l’assioma di un governante che taglia i fondi alla cultura perché questa non produce, subito, denaro). Si è andata sempre più verso il primato dell’economia. Dove destra e sinistra, che un tempo indicavano due diverse visoni del mondo - l’una più attenta alla libertà d’impresa, l’altra più attenta alla solidarietà sociale - hanno perso significato, determinando quell’apatia politica ben evidenziata dalla crescita dell’astensione a ogni tornata elettorale, da parte di cittadini, che più non credono nella possibilità di modificare le cose. Era anche un mondo dove c’erano disuguaglianze, ben lo sappiamo. Ma erano disuguaglianza tollerate perché in cambio offrivano sicurezza. Che ora non è più di questa parte del mondo. In quel contesto, nel mondo degli Stati nazione, l’Europa ha potuto scrivere la Storia dell’Occidente e l’Occidente la storia del mondo, oggi, dove nel 2050 metà della popolazione occidentale sarà di origine extracomunitaria, bisogna trovare altri motivi ed elementi di compatibilità. Questo ci porta ad essere soli, ad avere la paura di essere soli. Una paura che i social network, i Facebook, sembrano aver eliminato. Ma che invece ha contribuito ancora a deresponsabilizzare l’individuo, a far finta che vedere l’evento su Internet sia parteciparvi, sia capirlo. Qui inserirei due miei commenti esterni. Uno che riprendo da Eco, dove in alcune sue pagine magistrali decostruisce l’uso di Internet come fonte di notizie, perché lì c’è di tutto, ma tutto è inverificato. Quindi è vero ed è anche vero il suo contrario. Il secondo viene da questa mia esperienza recente in quel di Gerusalemme, durante la crisi generata dalle parole di Trump. Ne ho vissuto momenti in diretta, vedendo quello che succedeva. Ne ho visto su Internet, vedendo video che sezionavano l’accaduto, ma proprio per questo ne davano un’immagine parziale. Ne ho letto sui giornali, che, pur allargando il discorso, non riescono a dare la reale sensazioni di cosa c’è e cosa potrebbe accadere. Allontanandomi da Porta Damasco, dove la polizia caricava, vado verso Ben Yehuda, dove turisti circolano, negozi vendono. Ed arrivo al mercato, dove gli arabi, comunque irritati, aprono le loro bancarelle. Quanto si potrebbe dire e dedurre da tutto ciò. Ma io non sono un pensatore, io osservo, e riporto a me ed a voi le mie sensazioni. Dove, tornando al libro, al dialogo ed alla trama, mi accorgo di averne riportato la mia visione. Quello che a me colpisce, che forse sarà diverso da voi, ma sarà utile a discuterne. Sarei tentato, come fanno i nostri due, di mettere ora una profusione di interrogativi, che sono quelli che vengono alla mente, ora, qui, in questo nostro mondo, ed a cui non riusciamo a rispondere. Anche se fare domande è meglio che non farle. Ma voglio solo sottolineare di nuovo quella frasi di Bauman, dove la comunicazione, l’enunciazione del fatto, il dire (o anche il facile “like” su di una frase in rete) sostituisce la comprensione dello stesso avvenimento. Vorrei finire allora riprendendo l’attualizzazione della citazione gramsciana di Bauman sul pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà: “la sfida della modernità è vivere senza illusioni e senza diventare disillusi”. Facciamolo, se possiamo.
“EM: ingaggiarci in qualche battaglia pubblica o restare chiusi in casa ha per noi ormai lo stesso effetto pratico.” (33)
“ZB: [ora] i mezzi giustificano i fini.” (89)
“EM: la costruzione del contesto è ciò che rende comprensibili i fatti.” (94)
“ZB: la comunicazione ha sostituito … la comprensione.” (102)
“EM: avviciniamoci al fuoco, in modo da poter vedere cosa stiamo dicendo.” (124)
“Canetti: in un mondo che foss’anche il più volontariamente cieco, la presenza di persone che insistono tuttavia sulla possibilità del suo cambiamento acquista un’importanza suprema.” (135)
“Bulgakov: tutto può ancora accadere, perché nulla può durare per sempre.” (152)
Massimo Recalcati “Il segreto del figlio” Feltrinelli euro 15
[A: 22/05/2017 – I: 14/12/2017 – T: 16/12/2017] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 120; anno 2017]
Avevo letto di Recalcati alcuni articoli pubblicati su “La Repubblica” e giornali collegati, con un discreto interesse per la relativa chiarezza dell’esposizione. Relativa dovuta quasi sempre ad alcuni passaggi legati alla professione principe dell’autore, cioè la psicanalisi. Spinto dalle novità di maggior successo dell’anno, mi sono quindi dedicato a questo agile (per numero di pagine) volume. Senz’altro interessante ed anche pieno di spunti. Inoltre con un assunto ed una tesi di una linearità unica, seppur poi a tematica viene svolta con perizia e dovizia di citazioni e rimandi. Nei risvolti di copertina si colloca questo libro come terzo elemento del triangolo dedicato ai rapporti familiari. Non ho letto, né credo lo farò, i nodi dedicati al padre ed alla madre. Che credo questo del figlio possa, debba, essere preso per sé, come elemento di discussione sulla natura del figlio (sul suo segreto) e sul rapporto con i genitori. Una situazione complessa, come sappiamo tutti noi che abbiamo miriadi di intrecci che costituiscono la nostra vita (ed a cui dedicai la lettura, di certo più leggera, de “Gli sdraiati” di Michele Serra). Qui l’analisi di Recalcati si colloca su due piani “filiali” antitetici ed esemplificativi. Che servono entrambi ad analizzare i rapporti umani squilibrati tra generanti e generati. Il primo è dedicato ad Edipo. Qui siamo nel centro dell’analisi classica del rapporto filiale. Laio, il padre, avvertito da un oracolo che sarà ucciso dal figlio, ordina al servo di ucciderlo (per evitare di essere sopravanzato dal figlio, allora è meglio il parricidio). Ovvio che il servo di nascosto salva il piccolo e lo manda in un altro regno. Ovvio che, una volta cresciuto, Edipo cerchi le proprie radici. Si imbatte in Laio che non vuole cedere il passo in una strettoia. Altrettanto ovvio che Edipo lo uccida. Poi arriva nel regno senza più re, e decide di sposare la regina Giocasta, che non sa essere sua madre. Dal parricidio all’incesto. Poiché per i greci il fato è qualcosa di immutabile, tutto continua a correre verso il baratro. Il regno è flagellato da guai. Edipo cerca il responsabile, ed alla fine Tiresia gli dice la verità. Edipo, distrutto dal dolore, si acceca per non vedere più le brutture del mondo, e se ne va in esilio (Giocasta nel frattempo si era giustamente uccisa). Tutto questo ben noto schema (che genera in Freud e Lacan memorabili pagine psicoanalitiche) serve comunque a Recalcati per ribadire un percorso del rapporto che stiamo analizzando. Il padre deve donare al figlio gli strumenti per crescere e per sopravanzarlo. Se lo blocca, se lo “uccide” non potrà che subirne conseguenze forti. Nel caso, certo, che il figlio cresca normalmente in un ambiente fertile di stimoli. Il figlio, Edipo, ad un ceto punto dovrà sopravanzare il padre, “ucciderlo”, e dovrà prenderne il posto, “giacere con la madre”. Ma se poi continua ad agire cecando senza sapere, non riconoscendo le sue azioni, non potrà che finire come Edipo, accecato e ramingo. La seconda parte è invece dedicata alla parabola del vangelo di Luca detta del “figlio ritrovato” (o “figliol prodigo”). Il figlio chiede al padre la sua parte di eredità, pur con il padre in vita, perché vuole portare avanti la sua vita fuori dall’ombrello paterno. La ottiene, vive la sua vita, la sperpera, decide di tornare dal padre per chiedere perdono e ospitalità, come fosse l’ultimo dei servi. Ma il padre lo vede da lontano, gli corre incontro, e lo accoglie tra le sue braccia, perché “si era perso, ed ora è stato ritrovato”. Il padre qui non agisce secondo nessuna legge, ma fa un salto quantico, usando quello strumento che è veramente uno strumento divino: il perdono. Quale è allora il messaggio, sia per i padri come Laio e come quella della parabola, e per i figli come Edipo e come il figlio ritrovato? Difficile agire, da padre e da figlio. Difficile non vivere questa dicotomia come una tensione che attanaglierà tutta la vita. D’altra parte, tutti siamo figli ma non tutti siamo padri. E come figli, come quelli citati a lungo, e come altri che andrebbero citati se fossi meglio preparto (come Amleto, come Isacco), ognuno porta in sé un segreto, un modo di vivere, un modo per commettere incruentemente un parricidio e per passare senza consolazione in un perdono. Recalcati dà la sua soluzione al segreto. Che io ritrovo dai miei trascorsi psicanalitici. Il carattere si forma nell’età iniziale della vita, forgiato dall’energia in cui si vive, e che ci viene concessa da chi ci cresce. Il percorso della nostra vita è capire noi stessi, chi siamo, quali sono i lati del nostro carattere, e diventare, coscientemente, quello che siamo sempre stati. Due ultime chicche di questo bel libro. Un parallelo interessante e condivisibile sulle diverse posizioni di Amleto e Edipo. Amleto sa (chi ha ucciso il padre, e tutto il resto del dramma che non vi sto a ripetere) e non agisce; Edipo non sa e agisce. L’altra chicca è collegata al perdono, almeno nel mio immaginario. Si riferisce a quella tecnica giapponese della riparazione degli oggetti rotti con evidenziazione delle rotture stesse con oro e argento. Tecnica chiamata “Kintsugi”, che sottolinea come non si possa ricostruire una cosa che si rompe (un oggetto, un rapporto interpersonale) ma evidenziandone l’imperfezione, forse da una ferita piò nascere una perfezione migliore e diversa. Un’immagine che trovo stupenda. Che sottolineo, e che ribadisco con le frasi che sotto riporto. E che come vedete dal tono si riferiscono tutte al figlio ritrovato. Un caso?
“Ritrovare è riportare alla vita chi si pensava si fosse perso.” (92)
“Quando si perdona un’offesa come quella del tradimento non si perdona perché si è riusciti a dimenticare l’offesa, in quanto si può dimenticare solo se si è riusciti a perdonare.” (97)
“Il figlio giusto non è il figlio del sangue, non è giusto per natura.” (101)
“Diventare quello che si è sempre stati.” (120)
Ormai smaliziati e consapevoli, non potete scordare che questa seconda uscita mensile è dedicata alla cura di qualche malattia. E quale miglior viatico, oggi, che parlare di panico?
Non torno sui dolori pubblici e privati, torno invece sul ritorno (scusate il bisticcio) che oggi tornano anche i miei “italiani d’Argentina” come canterebbe Fossati. Io e loro non siamo certo saggi, ma ne facciamo di viaggi. 

PS: in ricordo di mia madre, pur non essendo un giorno palindromico oggi è una data anagrammatica!

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

FEBBRAIO 2018
La seconda cura dell'anno è dedicata a me ed a tutte le persone che conosco e che ne soffrono (o ne hanno sofferto).

PANICO, ATTACCHI DI

Jack Schaefer                “Il cavaliere della valle solitaria”
Gianrico Carofiglio           “Testimone inconsapevole”
C’è solo una cosa cha fa più paura di credere che stiamo per avere un attacco di panico, ed è avere un attacco di panico. Ovviamente, saperlo ed esserne preoccupati rende ancora più probabile avere un attacco di panico. Chi si trova in questa situazione dovrebbe tenere a portata di mano un flacone di tranquillità letteraria e berne un lungo, lento sorso - leggendo o recitando a voce bassa un brano imparato a memoria - ogni volta che perde la testa perché potrebbe cadere in preda al panico. Fatelo abbastanza spesso, e col tempo vi basterà il titolo per ridurre la frequenza cardiaca. Il romanzo adatto è “Il cavaliere della valle solitaria”.
Shane arriva nella valle a cavallo, vestito di nero. Quando chiede, educatamente, dell’acqua per sé e per il suo cavallo, tutti e tre i membri della famiglia Starrett sono attratti da lui - perché lui emana qualcosa di potente e misterioso. Lo convincono a restare con loro, offrendogli un lavoro come bracciante, anche se è chiaro che l’agricoltura non è il suo mestiere. Ben presto tutti si accorgono che Shane è l’essenza della calma. Uomo di poche parole, ha un forte senso della giustizia e anche se con la sua forza potrebbe facilmente sopraffare un altro uomo, è chiaro che l’aggressività non gli appartiene. Tiene la pistola sotto il cuscino, invece che al cinturone, come tutti gli altri.
La prima cosa che fa quando va a vivere con la famiglia Starrett è prendere l’ascia per tagliare il ceppo nell’aia, una spina nel fianco per Joe Starrett da quando ha disboscato la terra. Il ceppo è grosso - abbastanza per fare da tavolo a una famiglia grande due volte la loro - e mentre Shane lo taglia, il limpido suono dell’acciaio sul legno colpisce il giovane Bob come nessun altro suono prima di allora e lo riempie di calore. In quel momento Shane diventa l’eroe di cui Bob aveva bisogno per crescere “retto come un ragazzo dovrebbe”. A Bob, infatti, era necessario un esempio fuori dal nucleo familiare - qualcuno da poter imitare. Determinato, aggraziato, giusto, con un dolore del quale non sappiamo nulla, un uomo che farà sempre la cosa giusta, Shane è proprio quel mentore - e non solo per Bob, ma anche per suo padre Joe.
Accogliete questo gioiello di uomo, duro e fiero, nel vostro cuore. Il vostro cuore batterà regolare e tranquillo come il canto di quell’ascia contro quel ceppo ostinato. Fate che il panico sia il ceppo che sapete di poter vincere.
Se nonostante questo rimedio, gli attacchi di panico continueranno a molestarvi negli ascensori o per strada, se continuerete a svegliarvi nel cuore della notte con una incontenibile voglia di piangere, se il vostro umore, la mattina, si mostrerà di un grigio topo permanente, allora non lasciate che qualsiasi psichiatra vi accerti una forma acuta di disturbo dell’adattamento incline a una depressione di media severità e vi riempia di psicofarmaci, piuttosto gettatevi sulla letteratura poliziesca e sui legai thriller. La prima avventura di Guido Guerrieri, un avvocato penalista barese che soffre dei vostri stessi sintomi e che a 38 anni ha appena scoperto che le cose finiscono per davvero, vi aiuterà di sicuro ad accettare il fatto che si è sempre rinviati a giudizio dall’ansia, e non ci sono riti abbreviati per la paura o lo smarrimento, si possono solo affrontare giorno per giorno, senza perdere la fiducia che la propria volontà o un incontro casuale o l’empatia con gli altri esseri umani possano farli evaporare.

Bugiardino

Non ho letto, ne credo mi capiterà presto, il libro della frontiera sul cavaliere della valle solitaria (il cui titolo originale era “Shane” come il protagonista, e da cui, ben più noto, fu tratto un film con protagonista Alan Ladd; ma questa è un’altra storia). Ho letto invece, ed ho letto tutto il pubblicato, il libro di Carofiglio. Anzi ne lessi e ne parlai insieme al secondo, in una delle mie prime trame, edita nel lontanissimo novembre 2006. Ve la ripropongo così, essenziale com’era, prima che passassi a commenti lunghi e tormentati. Per chi poi non può farne a meno, inserisco anche una sintesi succinta della storia stessa, che altrimenti nulla si potrebbe capire.
Con Carofiglio, quindi, io ho cominciato leggendo (16/11/20016)
“Testimone inconsapevole” Sellerio 11 euro
Un giallo-non giallo, un ambiente barese ben delineato. Ed un altrettanto ben delineato l’ambiente personale dell’avvocato. Da leggere in sequenza con il secondo. Cosa che ho fatto con
“Ad occhi chiusi” Sellerio 10 euro
Seconda avventura dell’avvocato Guerrieri, forse anche meglio scritta della prima. Qui, al contrario del primo che lascia ombre e punti irrisolti, il mistero si scioglie anche. Ed entrano ed escono personaggi che lasciano tracce visibili. Molto rilassante.
Per tornare, appunto, alla trama di cui stiamo narrando, si legge di Guido Guerrieri, avvocato a Bari, appena entrato in una crisi depressiva scoppiata con la separazione dalla moglie Sara. Il problema psicologico ha anche riflessi sulla vita pratica: paura di utilizzare l'ascensore, attacchi di panico, insonnia... Intanto il lavoro continua ma l'impegno, ormai calato, riemerge solo grazie ad un cliente che ha notevoli pretese e pochi soldi. Abdou Thiam, venditore ambulante senegalese, è stato arrestato per l'accusa di sequestro, omicidio e occultamento del cadavere nei confronti del piccolo Francesco Rubino, un bambino di nove anni che Abdou aveva conosciuto come Ciccio, come era sua abitudine con i clienti della bancarella ambulante, sulle spiagge di Monopoli. Alcuni testimoni, come un barista, di idee razziste, assieme all'imprecisione dell'analisi e degli interrogatori della polizia creano un vero e proprio corpo di prove contro il senegalese che, oltretutto, non ha alibi e cerca di nascondere i suoi commerci di indumenti e accessori dai marchi contraffatti. L'acuto avvocato riesce però, con la sua convincente arringa, che chiarifica il concetto di verosimile riferito alla ricostruzione dei fatti, evidenziandone la grande incertezza, a tirare fuori dai guai Abdou. Nel frattempo, grazie al soddisfacente lavoro compiuto e ai nuovi rapporti con la vicina di casa Margherita, riesce ad uscire dalla crisi psicologica.

Conclusioni

Saltando a piè pari il western, posso confermare che leggere del primo Guerrieri è un balsamo per il panico (altrimenti lo fa venire, insieme ad ansia e sudarella). Eppur tuttavia, un libro da rileggere se ve lo siete scordato.