lunedì 30 aprile 2012

Una gialla risata italiana - 05 giugno 2011

Non è più il dì di festa, né odo augelli far festa. Passata è la tempesta? Parrebbe di sì, ed allora godiamoci qualche sorriso, niente di stravolgente, ma un onesto sorriso italiano, dipinto di giallo. Siamo sempre sul lato (più o meno) poliziesco. Siamo con alcuni amici autori italiani, e con le loro creature ricorrenti. Di quelle, appunto che ci strappano sorrisi. Il Gorilla di Sandrone alla sua prima storica apparizione, il “barrista” di Malvaldi, con gli anziani della Pineta a far da coro, ed un’altra prima, quella del commissario Santovito della bella coppia Guccini & Macchiavelli. Ognuno  con quel tanto (o poco, ma giusto) di ironia, a volte di spensieratezza, che ci consentono di affrontare il dopo la tempesta. Che, a volte, è più ingannevole del mare agitato.
Ma andiamo ad incominciare con il grande Gorilla.
Sandrone Dazieri “Attenti al gorilla” Repubblica Giallo euro 5,90
[in: 2004 – out: 28/01/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 1998]
Finalmente (ri-)leggo il primo episodio del Gorilla. Forse l’avevo letto a suo tempo, ma non sono riuscito a trovare il libro nelle mie Biblioteche. Allora, approfittando degli acquisti di mia madre di cui ho parlato, l'ho preso di nuovo in mano, e mi sono piacevolmente ritrovato con il buon vecchio Sandrone. E nonostante un po’ di anni passati, mi è di nuovo piaciuto. Innanzi tutto l’idea di base, di questa schizofrenia solidificata, di avere un doppio sé con cui vivere. Portandolo all’estremo. L’idea di base è, infatti, di una persona che non dorme mai, perché quando Sandrone dorme, si sveglia quello che chiama il Socio, l’altro sé, quello più forte, ed anche diverso nei gusti e negli atteggiamenti. Quello che, come dice prendendosi in giro, è il genio della famiglia. Dopo un po’ entriamo anche noi nel gioco e ci sembra normale. Anche perché le storie del Gorilla sono sempre viste dalla parte di Sandrone. A brandelli ricostruiamo la sua vita anteriore (papà morto giovane, mamma infermiera, difficoltà di rapporto con i “normali”) e con le scelte di una vita “in minore” ma non da buttare (riflesso della giovinezza dell’autore, tra Scienze Politiche, il Leoncavallo e l’impegno sociale). Il tutto calato nella storia gialla che non può mancare. Un punkabbestia ingiustamente accusato della morte della bella (e dalla giovinezza tormentata) Alice. E la nonna in carrozzella che non rinuncia a cercare la verità, ingaggiando il buon gorilla (e il Socio) nella ricerca della verità. Non facile, tra molti travisamenti. E soprattutto scomoda. Ma ci si arriverà. E Sandrone avrà il suo momento di gloria personale preferendo far vincere i sociali del Leoncavallo, dove ha sempre un po’ di resistenza nel coinvolgere la polizia. Ma la storia è quella che è (forse la parte meno forte del romanzo). Il meglio è il quotidiano di Sandrone, le persone che incontra (e di cui ci dà bei bozzetti, anche se veloci). E gli amici. Alex, l’Elefante, la bella Vale che ama più o meno ricambiato. Insomma, una bella banda che poi ho ritrovato negli altri episodi che ho letto. Ma rimane anche quella bella idea forte. Che il maestro di Aikido gli smaschera con la frase che riporto, e che ci fa riflettere sul nostro essere complessi, e sulla necessità di accettarci per intero. Solo così, possiamo rimettere al loro posto anche le parti peggiori di noi. Come diceva la mia mentore, non per cambiarci, non credo sia possibile, ma per conoscerci. E conoscendoci sapere le maschere che stiamo usando, ed avere la capacità di togliere quando serve. Vero Socio?
“Cercavo di decidere quale ricordo avrei voluto conservare … Duecento chilometri con il treno, il viaggio era stata per me la parte più bella della vacanza … Guardavo dal finestrino i paesaggi di quella giornata di sole e le tenevo una mano sulla gamba, ascoltandola dormire. Mi sentivo in pace con il mondo, non mi capita mai.” (138)
“Solo gli sciocchi non hanno paura, e tu non sei sciocco.” (142)
“Tutti abbiamo qualcosa che non funziona e che non ci piace. Non si combatte quello che non si può cambiare. … In aikido tutto è equilibrio, perché l’universo è equilibrio. Le energie del nostro corpo sono equilibrio, bene e male sono equilibrio. Se ti accetterai, anche quello che non ti piace troverà il suo posto.” (142)
Spostiamoci in Toscana, in quei lembi di terra, fra spiaggia e monte, per incontrar di nuovo il “Barrista” del barLume.
Marco Malvaldi “Il re dei giochi” Sellerio euro 13
[in: 17/07/2010 – out: 01/02/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 2010]
Ed ecco, mentre si annuncia l’uscita di un altro romanzo di Malvaldi (ma sarà sempre in Pineta?), la terza storia di Massimo il “barrista” del barLume in Pineta di Pia. Una lettura gradevole, rilassante, con spunti carini e momenti quasi comici. Tra l’altro (ed è strano per me) mi sono trovato in sintonia anche con i risvolti di copertina (che solitamente sono bersaglio dei miei strali). Malvaldi ha aggiustato il tiro e dopo un esordio gradevolissimo ed un secondo episodio con molti punti negativi, qui ci fa immergere nell’atmosfera del litorale toscano, in un tipico spaccato italico esemplificato dai “vecchietti” del bar. Ed ha imbastito una storia su tre registri diversi ma questa volta ben oleati. La farsa comica dell’ininterrotto discorrere dei quattro vecchietti del bar (Ampelio il nonno, Aldo l’intellettuale, il Rimediotti pensionato di destra e il Del Tacca, quello del comune) che dall’ombra dell’unico albero del bar, si sono spostati nella sala dove campeggia il biliardo nuovo (appunto il re dei giochi). La commedia d’ambiente dove troviamo tutti gli ingredienti per farci vivere qualche mese a Pineta: i quattro di cui sopra, il deuteragonista Massimo, la prosperosa ed in via di matrimonio commessa Tiziana, il commissario Fusco; tutti attesi alle loro quotidianità e normalità, con le discussioni infinite ed intrecciate sulla politica, sul ciclismo, sull’etica del comportamento di un addetto del bar, e così via. Il giallo deduttivo, quello dove si ragiona sui fatti, sugli antefatti e sulle conseguenze. E dove si arriva alle conclusioni, logiche e forse anche un po’ facilmente prevedibili, ma tuttavia non banali. E, ma questo è piacere mio personale, ritrovare le elucubrazioni di Massimo, matematico di formazione e curioso di indole, tra qualche accenno (lieve questa volta) di interpretazioni logiche e di uso quotidiano della matematica (soprattutto delle probabilità, che sono una bestia da prendere con le molle, e fortemente ingannatrici per chi non è cauto). Il tranquillo scorrere della vita a Pineta, è terremotato dalla morte di un ragazzo in un incidente stradale e di sua madre, ricoverata in coma dopo l’incidente ma poi morta di un’embolia indotta. E tale madre era la segretaria di un politico del luogo, in corsa per le elezioni (per la sinistra). Elezioni cui partecipa anche (per la destra) il primario dell’ospedale dove muore la segretaria. Ed a capo della struttura ospedaliera c’è la moglie del politico di sinistra. E pare che la segretaria sia anche l’amante di detto politico. E sembra che a suo tempo sia stata diseredata dal marito con un testamento depositato presso un notaio, che si presenta alle elezioni per una minor formazione liberale. Su questo intreccio gialletto, capite anche voi che le “chiacchiere da bar” partono e si fomentano l’un l’altra, alimentate dallo strano comportamento del fratello della morta, padre francescano simpatico e pre-missionario. Massimo è l’unico che sembra mantenere un filo di logica in tutto ciò. E sarà la sua logica a risolvere il problema deduttivo di cui sopra. Detto il bello e l’intrigante, questa volta (rispetto alle precedenti) è mancato un po’ di “riso senza pensieri”. Sì, alcune situazioni e dialoghi hanno mosso il comico che è in me. Ma niente rispetto alle grasse risate della ricerca del parcheggio nel precedente romanzo. Tuttavia va bene così. Bravo Marco, auguri per la nascita del figlio Leonardo. Che non sembra averlo fermato nello scrivere. Speriamo di godere ancora un po’ di scene come la cascata del gelato sul tappeto del biliardo o il rifiuto di servire un cappuccino al pomeriggio, che il cappuccino si prende la mattina, al massimo fino alle 11.
“La tua libertà finisce dove inizia quella degli altri.” (117)
“Non capisco cosa ci sia di vergognoso nello sbagliarsi. Sbagliare è umano. Un esperto è uno che ha fatto tutti gli errori possibili nel suo campo, e se li ricorda tutti uno per uno. Sbagliando si cresce. Perché allora uno ammette di potersi sbagliare quando fa un dolce, e crede di essere infallibile quando giudica le azioni degli esseri umani?” (121)
E terminiamo spostandoci un po’ a Nord, tra la coppia bolognese e le avventure in Appennino.
Francesco Guccini & Loriano Macchiavelli “Macaronì: romanzo di santi e delinquenti” Mondadori euro 9
[in: 01/10/2010 – out: 11/03/2011]
[tit. originale; ling. or.: italiano; anno 1997]
La prima puntata della saga ambientata nell’Appennino Emiliano, dove vediamo muovere i primi passi del maresciallo Santovito (di cui abbiamo già parlato in altre puntate della storia, dal disco dei Platters a Tango ed altri briganti, mancando ora solo la storia di Spirito). Intanto, un saluto reverendissimo ai due autori. Il Guccini delle canzoni l’ho sempre seguito con attenzione (il mio secondo disco in vinile fu FolkBeat n.1), mentre quello delle lettere mi ha dato alti e bassi. Non ho ben digerito le sue Croniche ed altri dialettismi, mentre ho sempre letto con piacere i suoi sforzi a quattro mani con il grande Loriano. E Macchiavelli non lo discuto, lo metto lì, tra i miei padri putativi delle storie sull’Italia che va avanti (purtroppo solo nel tempo). Quindi ho sempre cercato di non perdere le loro storie. Questa, invece, l’avevo tralasciata. Ora recuperata, mi è sembrata una buona prova. Certo, alcune cose già si sanno. Alcuni personaggi ritorneranno più avanti nel tempo, quindi non danno “stupore”. Ma il loro modo di costruire questo micro-cosmo delle montagne a cavallo tra Emilia e Toscana, mi piacque e mi è piaciuto. Così come l’umanità del maresciallo trasferito dalla natia Campania in punizione in questo posto di montanari, che deve imparare a conoscere, dove deve apprendere ad andare sotto le apparenze. Poi, negli altri libri, sapremmo i perché di questa punizione. Come capiremo meglio chi sia la Contessa della Mezzacosta. Ma anche Blèblè della Ca’ Rossa, o l’osteria della Serafina. E ancora, e ancora, tutti i personaggi, piccoli e grandi che si chiudono a riccio se qualche forestiero cerca di penetrare i loro modi di vita. Soprattutto se cerca di sconvolgerli dall’esterno, senza entrarci. Ma Santovito, no. Lui si siede al tavolo vicino alla stufa, beve il buon vino rosso, ed intraprende lunghe partite a tresette e briscola, nella migliore tradizione paesana. La parte centrale della storia, poi, si colloca tra il ’38 ed il ’40, e quindi non possono mancare le critiche del regime (allora come di adesso, e come sarà poi di prima, quando si parlerà dei briganti di fine ‘800). Ma fatte sempre con il piglio legalitario: non si prende in giro per il gusto dello sberleffo, ma perché c’è una legge (ed una Costituzione!) da difendere. Come in altre loro storie, si va sempre un po’ su e giù sull’onda del tempo, ricostruendo le vicende attuali sul filo delle vicende antiche. Che nulla si dimentica. E per risolvere i problemi dell’oggi, bisogna sciogliere i nodi dell’allora. E così, pian piano che si accumulano i morti in paese (ed alla fine saranno ben quattro, almeno), si parla con Nasone e con Tripoli, con la Stiria e con Cutigno, ed alla fine (anche se un po’ facilmente) si arriva al bandolo. Che come sempre nelle storie del duo non è un bandolo facile a sciogliere, che qualche motivo poi ci sarebbe, ma…  Due soli punti mi hanno lasciato perplesso (motivo quindi di un voto mediano al romanzo). A che punto della sua vicenda personale Ciarèin da buono e disponibile, diventa poco affidabile? E perché muore Don Quinto? Forse mi son distratto, ma non ho capito questi due passaggi. Per il resto, con il 25 a bastoni quarto si batte o no, maresciallo?
E dopo alcuni bei giorni di sole, questa settimana si annuncia con un dì di pioggia. Ma passerà che già vediamo nel cielo delle macchie d’azzurro e di blu.

domenica 29 aprile 2012

Svezia, ma senza Stieg - 02 giugno 2011

Trama straordinaria, perché oggi è un dì di festa, per questa nostra bistrattata Repubblica (anche se qualche sorriso l’abbiamo fatto, nei gironi scorsi, dopo aver smacchiato qualche giaguaro). E la festeggiamo con qualcosa di poco impegnativo, con tre buoni scrittori svedesi, autori seriali con personaggi altalenanti. La giornalista Annika della Marklund, che torna dopo un lungo letargo, ma con poco mordente, il commissario Van Veteren di Nesser, ormai alla sua ultima storia che Nesser cambierà personaggio, e la new entry, l’avvocato Rebecka della Larsson (Åsa non Stieg), da rivedere, anche se l’atmosfera lappone attira.
Liza Marklund “Il lupo rosso” Marsilio euro 12,50 (in realtà, scontato 9,38 euro)
[in: 20/06/2010 – out: 18/01/2011]
[tit. orig. Den röda vargen; lingua svedese; anno 2003]
Ritrovo dopo tanto tempo Annika Bengtzon, che mi era molto piaciuta come giornalista di nera – coinvolta in indagini, agli inizi del secolo. Poi l’editoria italiana aveva deciso di non tradurre le nuove fatiche della sua creatrice, lasciandoci per anni nell’attesa. Ora, sull’onda del giallismo scandinavo, ecco che ricompare. E dobbiamo allora ricucire qualche filo. La quasi cinquantenne Eva Elisabeth "Liza" Marklund è per me una specie di “trait d’union” tra i primi esempi del giallo “impegnato” alla Sjöwall e Wahlöö e l’ultimo epigono svedese di questo filone, alla Stieg Larsson. Come Larsson, è essenzialmente giornalista. E nelle sue storie c’è sempre un qualche filo che unisce accadimenti polizieschi a momenti di denuncia del malessere civile, che in Svezia è molto sentito. Il suo personaggio centrale, Annika, è una giornalista di nera, combattuta tra l’attività di lavoro e la vita privata (gestione di due figli con marito presente/assente). E quando affronta qualche problema, poi c’è sempre un risvolto “sociale”. Come nel primo è più noto “Bomber” (tradotto in Italia come “Delitto a Stoccolma”), dove il perno è la morte di una “signorina” (escort si direbbe ora) e il principale sospettato è un ministro. Questo Lupo, si colloca temporalmente un anno dopo la fine positiva del precedente (anche se nel frattempo, Liza ha scritto altri 3-4 romanzi con avvenimenti precedenti, e dopo il Lupo, ne ha scritti altri 3 con avvenimenti successivi). Qui lo spunto centrale è rinvangare qualche momento degli anni di piombo che anche in Svezia hanno avuto qualche epigono violento. Niente Brigate Rosse o Rote Armee Fraktion. Ma un gruppuscolo maoista, con un capo direttamente arrivato da gruppi religiosi vicino al circolo polare artico, che dopo una violenta azione con morto, si scioglie. Il capo fugge nei Paesi Baschi e per trenta anni fa il killer al servizio di chi lo paga. Ora lo vediamo tornare “a casa” e scatenare problemi e morti tra i vari ex-gruppettari. Questo spunto da modo di parlare, in qualche maniera, di alcuni momenti non proprio felici. Annika ci si trova in mezzo, perché si trova sempre al centro di qualche “casino”, e tra Internet, freddo polare, polizia semi-efficiente, riesce a trovare il bandolo della matassa. Non senza aprire tutta una serie di sotto-filoni: il rapporto con il marito che si invaghisce della bella Sophia, il rapporto con il suo direttore responsabile che non vuole si occupi di “terrorismo”, la storia della sua amica Anne lasciata dal marito con figlia contesa, la storia delle lotte di potere per l’introduzione della televisione digitale in Svezia. Insomma, tanta carne a fuoco. La scrittura è decentemente condotta. Ed anche i vari filoni, anche se non tutti completamente chiusi, non sono proprio abbandonati a loro stessi (e ci si aspetta che i successivi libri ne riprendano qualcuno). Forse, un po’ prolisso e avrebbe goduto di un po’ di “asciugamento”. E ben giostrato anche il risvolto giallo. Una buona lettura, anche se quei momenti un po’ lenti non mi permettono di collocarla proprio ai vertici. Apprezzo comunque qualche buono spunto, come il rispetto per la legalità insita nell’anima protestante svedese. Quella che consente a qualsiasi cittadino di chiedere informazioni sulla corrispondenza di un ministro. O di ricevere le informazioni dei passaporti di altre persone, in quanto documenti pubblici. Certo, qualche risvolto di “solitudine” si sente in quelli che a volte vivono a -29°. Ma sono soddisfatto, e se ne riprenderà il filo quando anche gli altri usciranno in economica.
“Mi piacerebbe avere una vita come la sua … Sentirmi a casa da qualche parte.” (64)
“Se due persone devono vivere la loro vita insieme devono essere d’accordo entrambe.” (301)
Håkan Nesser “Carambole” TEA euro 8,60
[in: 01/06/2010 – out: 05/02/2011]
[tit. or.: Carambole; ling. or.: svedese; anno 2006]
L’ultima avventura pubblicata in Italia del commissario Van Veeteren (o meglio ex-commissario). Non essendo svedesofilo ho solo un dubbio di traduzione del titolo. È plurale o singolare? Cambia abbastanza il senso del messaggio nesseriano. Ormai abbiamo seguito tutta la parabola del commissario, nato per caso dalla penna di questo sessantenne pesce svedese (21 febbraio 1950, casualità?) mentre insegnava lettere al liceo. Abbiamo visto il commissario muoversi nella cittadina di Maardam, porsi le prime domande ed affinare il suo metodo di lavoro per accumulazione di informazioni e per ragionamenti. Anche se alcuni passaggi della storia del commissario sono monchi (la solita cattiveria dei distributori – traduttori italiani che lavorano saltando passi vari dei libri che l’autore pubblica), a poco a poco conosciamo la cerchia dei suoi aiutanti, tra cui l’ottimo Reinhardt. Ed il rapporto con i figli, conflittuale soprattutto con il maschio. La solitudine. Poi la scoperta dell’amore per la dolce Ulrike, e la decisione di lasciare la polizia per lavorare in una libreria (ah, come ti capisco, Van!). Ora in questo capitolo, più o meno finale, Van Veeteren entra poco nel corpo dell’inchiesta, anche se, per contro, ne è uno dei cardini. Infatti, il morto ammazzato è suo figlio Erik. E qui rientra la questione del titolo. Perché, se come si dice la nostra vita è una palla di biliardo che scivola inconsapevolmente sul tappeto verde, scontrandosi a volte con altre palle, a volte questo scontro produce un effetto a catena, una carambola che si ripercuote su tante altre palle. E così si carambola tra la morte del ragazzo travolto da un pirata, la morte di Erik, quella di Vera l’infermiera, e… Beh, qualche punto di sospensione va lasciato altrimenti narro troppo la trama. Una trama che però si trascina stancamente. Che Van Veeteren è, ed è ovvio, troppo preso all’analisi del proprio dolore (mai ci si riprenderà, comunque, dalla morte di un figlio?) per diventare motore della storia. Le parentesi dedicate all’uccisore sono un po’ deboli. E la polizia, senza il commissario come motore e riferimento, rimane a brancolare nel buio per pagine e pagine. Da una parte si capisce che Van Veeteren è arrivato al capolinea, anche se l’odissea della cittadina di Maardam avrà altri capitoli (so dalla biografia di Nesser che, ad esempio, uscirà un romanzo con protagonista l’ispettrice Ewa Moreno una delle aiutanti di Van Veeteren). Dall’altra questo capolinea è troppo pieno di dolore per risultare scorrevole. Nel complesso, è comunque un buon romanzo, anche se non un giallo intenso. Soluzioni e scioglimenti sono prevedibili e previsti. Rimane tutta l’analisi del rapporto con una persona che muore ed alla quale si sarebbe dovuto (si dovrebbe?) dire molto di più. Rimpianti che tutti consociamo. Gli anni successivi vedranno Nesser alle prese con una diversa saga poliziesca, che ruota intorno ad altri personaggi. Vedremo che ne uscirà.
“I vivi devono curarsi gli uni degli altri, pensò. La cosa peggiore è morire senza aver vissuto.” (190)
“Da qualche parte aveva letto che un uomo deve fare tre cose nel corso della sua esistenza. Crescere un figlio, scrivere un libro e piantare un albero.” (190)
“A quattordici anni … vediamo il mondo con chiarezza perfetta. Poi devono passare altri cinquant’anni prima che riusciamo a trovare un linguaggio con cui fissare queste impressioni.“ (263)
Åsa Larsson “Tempesta solare” Marsilio euro 12 (in realtà, scontato 9 euro)
[in: 20/06/2010 – out: 12/02/2011]
[tit. or.: Solstorm; ling. or.: svedese; anno 2003]
L’ho preso incuriosito dal grande battage pubblicitario che negli ultimi tempi, spinti da Millennium, ha portato alla ribalta il giallo svedese come elemento di punta di questo settore. E quindi eccoci qui, con un’autrice svedese, un giallo, ed un personaggio che si annuncia protagonista di altre storie, l’avvocato Rebecka Martinsson. Devo dire, prima di entrare nel merito, che questo spunto iniziale è stato il più disatteso. È senza dubbio un giallo decente, con alcune punte di interesse (innanzi tutto sul colore locale), ma niente di più. Non è un caso che mentre nei paesi anglofoni e in Italia subito a ruota, i gialli svedesi siano pubblicati a spron battuto, nell’altra grande nazione del noir, la Francia, si vadano centellinando senza troppa enfasi. Ad esempio, mi risulta pubblicato solo uno dei gialli della Larsson (a proposito, non ha nessuna parentela con Stieg). Ma veniamo al romanzo. La 45enne scrittrice, come tutti gli scrittori, ma qui in modo più palese, parte dalle sue esperienze per tessere la trama che stiamo leggendo. Åsa, infatti, ha fatto l’avvocato fiscalista prima di cominciare a scrivere a tempo pieno. Inoltre, sebbene nata ad Uppsala, è vissuta a Kiruna, nella Lapponia artica, dove forte e radicato è il Laestadianesimo, un movimento luterano conservatore. Ebbene, la nostra Rebecka è avvocato fiscalista, nata a Kiruna e fuggita ad Uppsala per lasciarsi alle spalle le rigidità religiose dei luterani lapponi. Ma da Stoccolma viene richiamata a Kiruna dalla morte violenta di Viktor, un famoso predicatore locale, suo coetaneo e amico di gioventù. Da qui si diparte la storia, tutta intessuta e legata alla realtà della Lapponia svedese: i freddi intensi, le amicizie con gli animali (soprattutto i cani), le strette connessioni di vita in una realtà numericamente esigua. Tra qualche flash-back ben riuscito e la collaborazione con il responsabile della polizia, l’ispettrice Anna-Maria Mello, la nostra Rebecka viene a capo dell’intricata vicenda (anche se il giallo è un po’ lieve come tessuto) lasciandoci intravedere la possibilità di ulteriori puntate. Quindi un po’ deluso dalle aspettative, rimango interessato alle prospettive. Le atmosfere sono buone, vengono rese con efficacia i momenti di vita di questa lontana e sperduta Kiruna (la città più a nord di tutta la Svezia), un po’ come antropologicamente si possono leggere le storie dell’islandese Indridason. Ma non c’è lo spessore di un Mankell o di una Marklund. Speriamo meglio in altre prove.
Essendo inoltre la prima trama di giugno, come i miei amati lettori sanno, riporto l’elenco delle letture e dei gradimenti del mese di marzo, finora uno dei più densi, cominciato in sordina, risollevato da Haruki e da alcuni classici, precipitato con dei gialli orrendi, e riscattato nel finale da due grandissimi (Barbero e Saramago).

#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Lorenzo Licalzi
Non so
Fazi
9,50
3
2
Edith Wharton
L'età dell'innocenza
Repubblica Novecento
4,90
3
3
Truman Capote
Colazione da Tiffany
Repubblica Novecento
4,90
3
4
Irène Némirovsky
Ida
Folio
2,20
2
5
Petros Markaris
La balia
Bompiani
9,50
3
6
Stefan Zweig
Storia di una caduta
Adelphi
10
3
7
Vitaliano Brancati
Don Giovanni in Sicilia
Repubblica Novecento
4,90
2
8
Francesco Guccini & Loriano Macchiavelli
Macaronì
Mondadori
9
3
9
Luis Sepúlveda
Un nome da torero
Repubblica Giallo
5,90
3
10
Leo Perutz
Dalle nove alle nove
Adelphi
s.p.
2
11
Raymond Chandler
Il grande sonno
Repubblica Giallo
5,90
4
12
Arnaldur Indriadson
Un corpo nel lago
TEA
9
3
13
Murakami Haruki
Norwegian Wood
Einaudi
12
4
14
Graham Greene
L'americano tranquillo
Repubblica Novecento
4,90
4
15
Patricia Cornwell
Calliphora
Mondadori
9,50
1
16a
Andrea Novelli & Gianpaolo Zarini
Per esclusione 1°
Mondadori
4,20
1
16b
Andrea Novelli & Gianpaolo Zarini
Per esclusione 2°
Mondadori
4,20
1
17
Alessandro Barbero
Benedette guerre
Laterza
10
4
18
Jean-Paul Sartre
La nausea
Repubblica Novecento
4,90
2
19
José Saramago
Il vangelo secondo Gesù Cristo
Feltrinelli
9,50
4

Allora biglietti e anticipi per il Sudamerica sono arrivati, quindi il 26 giugno si parte (corna facendo). Per il resto qualche stacco qua e là, ma bisogna chiudere il progetto europeo, e, come direbbe il vecchio Churchill, saranno “effort, blood, sweat and tears”.

sabato 28 aprile 2012

Prima dell’ultima guerra - 29 maggio 2011

Purtroppo di una delle grandi, che le guerre continuano ad esserci, e neanche ce ne accorgiamo. Ma qui parliamo di romanzi e racconti scritti tra il 1910 ed il 1939 (anche se a volte pubblicati dopo). E di due autori che non vedranno la fine della guerra. Per scelte diverse e per situazioni diverse. Comunque due belle scritture, anche se l’allegria non è di queste righe. Speriamo in un migliore e radioso futuro.
Cominciamo con un doppio Némirovsky, con un sentimento alterno. Bello il primo, inutile il secondo.
Irène Némirovsky “Due” Adelphi s.p. (regalo di A.)
[in: 24/06/2010 – out: 22/11/2010]
Un’altra bella prova della Némirovsky (si dice il suo migliore dopo David Golder) ma pieno (scusate il gioco di parole) di una mancanza di speranza che sicuramente riflette gli anni cupi in cui viene scritto (1939) ma è anche una disperazione fuori dal tempo. Irene, profuga dalla Russia negli anni 20, nata in Ucraina nel 1903, proprio intorno ai venti anni, come scrissi in altre trame, comincia a scrivere, ritraendo in genere il mondo di profughi che lei ben conosce. Per una ventina d’anni diventa una figura nota nel mondo artistico parigino, con buone prove, mai troppo eccelse, comunque con dei tocchi stilistici che mi sono sempre piaciuti. Qui si imbarca in una prova ben ardua, seguendo per un decennio le vicende di alcuni giovani parigini (niente ex - russi qui) scampati alla Grande Guerra. Voglia di vivere, feste, vino e belle donne. Ed anche le belle donne hanno voglia di vivere. Comincia un po’ come un carosello alla Schnitzler, dove seguiamo alcuni di questi giovani uomini e donne, senza all’inizio fissare un centro. Che poi verrà, fermandosi su Antoine e Marianne. Prima amanti, poi sposati, poi con prole, poi adulteri, poi, anche serenamente, due. Così come dice il titolo. Sì, ci sono momenti di felicità, in cui una coppia può sentirsi (si sente) unita e unisona. Ma poi ci si ritrova comunque due. Ognuno c’è, ma ognuno, in un certo senso, è solo. Si fa un cammino comune, poi ognuno cerca nei viottoli qualcosa che la strada sembra non dare. E poi? Antoine e Marianne, poi, decidono di riprendere la strada, con affetto, anche con un’amicizia che la gioventù non aveva dato. Certo non con amore. Che c’era, fra loro. Che c’era fra loro ed altri. Poi… poi non c’era più, non è durato. O forse le scelte da fare erano troppo ardue perché potesse durare ed essere altro. Le convenienze, il mondo, il modo di stare al mondo (siamo comunque negli anni Venti) non è che suggeriscono molto altro come soluzione. La bravura della Némirovsky è poi anche in molte figure di contorno. La madre di Antoine e la sua durezza. L’ingenuità della bella Solange. L’irruenza di Evelyne. La solidità dei fratelli di Antoine, che all’inizio li allontana, per poi farli ritrovare, una volta avviati alla quarantina, in sodalizi di sangue che ci sono, anche se non sempre sono al meglio. Ma anche la metamorfosi di Antoine, da giovane spensierato uscito dalla guerra, a piccolo imprenditore perché c’è una famiglia da mantenere, alla sbandata quasi fatale, sino al ritorno sulla grigia strada del quotidiano. Perché, poi, ci sono i figli che devono crescere. E quella di Marianne, spensierata, bella, centro mondano nelle notti del Bois de Boulogne, e poi madre consapevole, preoccupata, ingrigita, e poi rifiorita in amori nuovi, fino al rendersi conto della vanità e degli anni che passano. È lei che fa quelle disperate considerazioni sul due inteso come uno più uno e non come coppia. È lei che decide, coscientemente, che questa è la vita meno peggiore che si possa vivere. C’è tutta la metafora della Francia come nazione dalla spensieratezza del dopoguerra alla consapevolezza della crisi economica, dall’ubriacatura del Fronte Popolare al cupo avvicinarsi della Seconda Guerra. Che senso di tristezza alla fine. L’ho finito a notte fonda, e non sono riuscito a dormire per un bel pezzo. Cercavo un sorriso prima di chiudere gli occhi. Cosa che consiglio di fare a chi si accinge a leggere il libro. Armarsi di buon umore, capire che se la vita è triste bisogna sempre cercare di trovare elementi positivi. Non è facile. Ma ognuno di noi è più forte di quello che pensa, ne sono sicuro. E con questo vi lascio, pensando ad una bella cioccolata calda, davanti ad un camino acceso.
“Quanta maturità ci vuole per scoprire aspetti umani nei nostri genitori.” (123)
“Tra i venticinque e i quaranta anni ogni uomo modella il proprio monumento.” (129)
“La felicità coniugale non somiglia alla felicità più di quanto l’amore coniugale non somigli all’amore.” (191)
“Il giovane predilige la realtà; l’uomo maturo, la subisce; e il vecchio, più saggio, la evita.” (213)
Irène Némirovsky “Ida” Folio 2,20
[in: 27/01/2011 – out: 07/03/2011]
[tit. originale; ling. or.: francese; anno 1934]
Due raccontini estratti dalla raccolta (che non mi risulta ancora tradotta) “Film parlés”, che mi sembra un bel titolo, molto adatto agli anni ’30 della scrittura, anni in cui da poco i film non erano più muti. Detto anche dell’ottima iniziativa dell’editore Folio di pubblicare libri agili (questo ha poco più di 100 pagine), a prezzo veramente irrisorio, ma con la confezione standard delle edizioni Folio, parliamo ora del contenuto che, invece, rispetto ad altre prove, mi è piaciuto meno. Dicevamo due i racconti. Entrambi incentrati su di una figura femminile. Al solito, colma di tutta la disperazione che sapeva infondere la Némirovsky nelle sue pagine. Il primo, Ida, è tutto luci e paillettes. Racconta in controluce le vicende di Ida Sconin, signora del varietà parigino. Quello del Moulin Rouge e del Lido, quello delle 20 ragazze 20. Lì, padrona della scena ormai da dieci, quindici anni, Ida sta salendo gli ultimi gradini di quel Viale del Tramonto così magistralmente filmato negli anni cinquanta da Billy Wilder. Ma qui siamo negli anni Trenta, e, ricordo dopo ricordo, mentre sale la stella della giovane Cynthia, Ida ripensa a tutti i passi della sua vita, la giovinezza in Russia (specchio della stessa Irène), il matrimonio, gli amanti, le morti, la fatica di rimanere bella, anche se non giovane. E soprattutto, non accettarlo. Fare di tutto per evitare l’inevitabile fine. Ci riuscirà o sarà travolta? Il secondo si intitola “La comédie bourgeoise” ed è una specie di microcosmo che rispecchia, visto dalla parte piccola del cannocchiale, il mondo rigido di cui da poco lessi della Wharton. Qui siamo in provincia. La giovane Madeleine suona il piano, viene fatta sposare ad un giovane che praticamente non conosce, che entra nell’industria del padre, che la tradisce con tutte le donne possibili, con cui fa due figli, che a loro volta si sposano e le danno nipoti, che si innamora fugacemente di un parigino, e poi muoiono in tanti, anche il marito, e l’anziana Madeleine si ritrova ancora a camminare per la strada di paese … Lascio puntini di sospensione perché avrete capito. Una desolazione, una tristezza infinita, senza speranza. Gli unici momenti di interesse sono sulla scrittura, perché qui, proprio come in un film, sembra di leggere la sceneggiatura. L’autrice ci conduce per mano, ci fa vedere le scene salienti, ci descrive le dissolvenze, ci porta avanti nel tempo, ci fa vedere qualcosa dietro le quinte, poi ci riporta sulla scena maestra. E quel camminare di cui dicevo, sarebbe perfetto ripreso con tecniche moderne, con un bel piano sequenza all’indietro, che si allontana dal centro della scena per poi richiudersi lontano, sul nulla. Ecco, due storie disperate, due storie che distruggono alla base tutte le possibili illusioni. Ma non hanno la forza di stroncare. Non danno la stoccata definitiva. Alla fine, mi viene quasi da dire: tutto qui? E non viene neanche la voglia di seguitare a fare rivivere i personaggi nella memoria, come in altri romanzi mi succede. Quel chiedermi, e poi che farà lui? Che farà lei? Che succederà alla principessa incantata quando dovrà lavare i piatti? Qui non viene da chiederselo. Viene solo da cercare di trovare subito, in libreria, un libro non dico comico, ma che tolga dall’animo un po’ di questa tristezza bagnata. Sarà meglio un’altra volta, Irène.
Passiamo ora all’austriaco di cui poco ho letto, che sicuramente scrive e riesce a recepire umori e situazioni molto in profondità. Certo, l’allegria la rimandiamo alle prossime trame.
Stefan Zweig “Storia di una caduta” Adelphi euro 10
[in: 27/11/2010 – out: 09/03/2011]
[tit. or.: Geschichte eines Untergangs. War er es?; ling. or.: tedesco; anno 1910/2002]
Un piccolo Adelphi con due racconti dell’austriaco non notissimo, che accosto subito con l’Iréne sia per il tema del primo racconto (ed il rapporto tra le due cadute) sia per l’epoca vissuta ed infine per la morte. Lei scomparsa ad Auschwitz, lui suicida lo stesso anno nell’esilio brasiliano per la disperazione delle speranze ormai cadute. Zweig è una figura ormai poco nota, ma che tra le due guerre fu uno scrittore di spicco (e cominciò con il primo romanzo nel 1910 quando già stava sulla trentina), poi dovuto scappare dall’Austria natia in quanto ebreo, e, dopo aver scritto una mirabile biografia che tratteggiava con acume il percorso dalla decadenza della Bella Epoque all’avvento della barbarie nazista, rifugiatosi in Brasile si  uccide insieme alla moglie. Qui, un po’ casualmente, troviamo accostati due racconti. Uno ben noto, dei suoi primi tempi (pubblicato sempre intorno al ’10), l’altro rimasto inedito, e pubblicato solo pochi anni or sono. Ma questo secondo, intitolato in originale “Era lì?” e tradotto con un banale “Legittimo sospetto”, è un racconto finto borghese, che cerca di far l’occhietto anche al giallo (ma non è un giallo), narrando di pacifici inglesi viventi in campagna, la cui vita è sconvolta dall’arrivo di un cane. Sconvolta e lacerata, con un finale un po’ troppo noir. Ma forse è solo un pretesto, per far vedere in controluce dove possa portare un entusiasmo senza intelletto. Un raccontino a tema, ma leggero, molto leggero. Mi è piaciuto di più il forte racconto del titolo, quello che riesce a tinteggiare con pagine sapienti, la caduta di una Marchesa della Corte francese. Che per qualche motivo (probabilmente si è appropriata indebitamente di qualche somma reale) viene esiliata in campagna. E lì, con lei ripercorriamo le sue vicende, in flash-back di ricordi, forse di sensazioni. E lì, sì, esce fuori con forza, il ritratto di un mondo vacuo, dedito all’esteriorità, ai riti dell’esserci (e del tramare). Quando la Marchesa si trova sola in campagna si perde e si sperde. Cerca di ritrovare ancillarmente qualche vecchio fasto, ma non può che rotolare, gradino dopo gradino, verso un non ritorno inevitabile. Ricordo il tema di “Ida”, da poco letto. Lì c’era una persona che non voleva rassegnarsi allo scorrere del tempo, e questo, inevitabilmente, la porterà alla disfatta. Qui c’è una persona che non si rassegna all’ostracismo, perché non lo capisce. Non capisce che regole ha infranto. È tanto presa dal suo sistema (così come lo era Ida) da non accorgersi di condotte eticamente giudicabili. Ma qui, le pagine di Zweig, sono forti, sono macigni contro chi non accetta sé stesso. Sembra che si voglia scagliare contro chi ha cacciato la bella Marchesa. Ma alla fine è tutto il sistema che Zweig manda a monte: la Marchesa, i fatui bellimbusti di corte, i contadinotti finto astuti. Niente e nessuno si salva, in questa cupa dolenza. E se la Marchesa ha un gesto di sussulto che per lei ha un forte significato di rivincita, cadrà anche’esso in un vuoto totale e doloroso. Non vi dirò del gesto, né delle sue conseguenze (un minimo di interesse per leggere le ultime di queste brevi 70 pagine). Ripeto, Zweig vede tutto senza ottimismo e senza speranza. E non ci sorprendono le scelte che farà trenta anni dopo.
Giorni di febbrile lavoro, che come sapete il progetto europeo è alla fine, ma sto lavorando al viaggio attraverso il Sudamerica. Ancora molto da lavorarci, sperando che gli amici cileni trovino qualche scorciatoia tra le Ande e il Deserto. E forse qualche altra idea, magari per aumentare ancora il tasso viaggiatore. Ma soprattutto, un po’ di letture di relax, che la testa s’è impegnata un po’ troppo…

venerdì 27 aprile 2012

Torniamo sui classici - 22 maggio 2011

In questo giorno multi - doppio (22 maggio del 2011 e 2x11 fa 22 e 22^ trama dell’anno) torniamo ai classici, quelli della biblioteca di mia madre, come i miei attenti lettori sanno. Ci vuole ogni tanto un respiro più ampio rispetto all’inseguire libri e notizie sul filo dei giorni. E molto bello è il respiro tedesco di Bernhard. A me meno congeniali invece, sia il classico giapponese (che ho letto per tigna più che per piacere) sia il decano ex-pubblicitario americano, tanto osannato, ma che a me lascia molti dubbi e pochi momenti di meditato pensiero.
Ma andiamo a cominciare.
Thomas Bernhard “Il soccombente” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2003 – out: 11/01/2011]
[tit. or.: Der Untergeher; ling. or.: tedesco; anno 1983]
Avevo sempre avuto difficoltà a leggere Bernhard, ma qui mi ci sono messo di punta, ed ho vinto. Mi spaventava quel modo ininterrotto di fluire delle frasi, senza respiro, seguendo i pensieri. Cosa che è ovviamente presente anche in questo, laddove però la trama e l’idea base mi hanno coinvolto e tenuto appeso alle pagine. Rispetto ad altre prove, questo, tra l’altro, mi è sembrato anche molto “personale”. Anche Bernhard come l’io narrante ha studiato musica. Anche Bernhard come i personaggi che si intersecano, si è ritirato in campagna, e da lì ha scritto dal ’60 al ’90 i suoi romanzi ed i suoi lavori teatrali. Torniamo però all’idea di partenza, che coinvolge, oltre all’io narrante ed al soccombente, il terzo personaggio, il grande genio del pianoforte Glenn Gould. Tra realtà e finzione, i tre si trovano in gioventù a studiare pianoforte con il grande Horowitz. E le loro vite ne vengono cambiate e segnate. Glenn diventerà l’astro inarrivabile, il genio delle Variazioni Goldberg. Loro due, pur ottimi pianisti, ed eventualmente destinati a carriere di tutto rispetto, ne vengono annientati. In modi diversi, perché diverso è il narratore dal soccombente, ma distrutti entrambi. Di fronte alla perfezione assoluta, loro non accettano di essere secondi, e di conseguenza, abbandonano la musica. L’io narrante, al centro della scena (me lo immagino già teatralizzata e forse lo è stato, e se non lo è stato, lo merita), che per 2/3 del libro sta in piedi nella locanda di campagna, a riflettere ad alta voce (interiore) su questa vicenda che ha segnato la loro vita. Ora che si ritrova solo, perché Gould è morto di un ictus, e Wertheimer si è suicidata. Così in questo flusso ininterrotto si viene a scoprire tutta la vicenda. Dove Gould passa come una meteora, arriva, suona e torna in America. L’io narrante regala il suo pianoforte e pensa di dedicarsi alla scrittura. Ma in venti anni non riesce che a cominciare ininterrottamente (e poi a gettare) un libro dedicato a Gould. Riesce solo a sradicarsi da Vienna, ed a trovare il suo buon ritiro a Madrid. Wertheimer invece rimane lì, per dedicarsi alla filosofia. Accudito ma tiranneggiante la sorella, che alla fine scappa con uno svizzero (e per di più cattolico). Wertheimer era stato da Gould soprannominato il soccombente la prima volta che si erano visti, con quella lucidità di giudizio adusa dei geni. E Wertheimer soccombe per tutta la vita: a Gould, alla filosofia che non riesce a gestire, al mondo cupo di Vienna, alla campagna dove si ritira ma che non gli dà sollievo. Ed alla fine, dopo la morte di Gould e la fuga della sorella, ha un ultimo sprazzo di lucidità, suona per due settimane le Fughe di Bach su di un pianoforte scordato, poi prende il treno e si impicca davanti alla casa della sorella. Ecco, tutto qui, con una tristezza infinta del vivere. Con la possibilità di slanci sempre tarpati, con l’impossibilità di comunicare. Con le maledizioni che mandano ai loro genitori perché li hanno fatti nascere in un mondo così senza speranze. È un libro di una tristezza indicibile, e certo non adatto a momenti di depressione interna. Ci si domanda perché ed in base a quale utilità vivere in questo mondo (ogni tanto Bernhard si lancia anche in digressioni sugli austriaci, sui politici, e su altro che, nonostante i quasi trenta anni trascorsi sono sempre di utilità). Ma non è questa la cifra che mi ha fatto riflettere (anche se potente). È l’altra, quella di avere un dono (suonare, scrivere, o altro) e misurarsi con il mondo. E non trovare l’umiltà di portare la propria piccola briciola nel paniere comune. Io che ho letto tanto, ogni volta mi trovo davanti a righe che mi piacerebbe aver scritto, ma che so che non riuscirei mai a scriverle. Eppur continuo a leggere, e continua a pensare che il mio rimando, flebile e solitario, possa essere di utilità a qualcuno. Forse non lo sapremo mai, ma rimandare agli altri qualcosa che si è sentito dentro, anche se non sarà Gould, anche se sarà il soccombente Wertheimer, potrebbe far sì che, il ricevente ne faccia un miglior uso. Ed allora grazie Bernhard, anche per questa tristezza. Ed io tramerò ancora un po’.
“Ha ragione chiamandomi sempre camminatore di strade asfaltate … è vero che io cammino solamente sull’asfalto, in campagna non cammino … mi annoia infinitamente” (27)
“Dopo aver superato la soglia dei cinquant’anni, ci sentiamo infami e senza carattere … si tratta di vedere quanto ancora riusciremo a sopportare un simile stato. Molti si uccidono nel corso del loro cinquantunesimo anno.” (34)
“Esistere, in sostanza, non significa che questo: essere disperati” (46)
“Non appena esaminiamo un argomento qualsiasi, rischiamo di soffocare nell’enorme quantità di materiale che in ogni campo è a nostra disposizione … e pur sapendo tutto ciò, riesaminiamo da capo i nostri cosiddetti problemi intellettuali e ci lasciamo sedurre da un’idea impossibile: creare un prodotto intellettuale. Questa si che è follia!” (64)
“Chi non è capace di ridere non va preso sul serio” (77)
Yukio Mishima “Confessioni di una maschera” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2003 – out: 04/02/2011]
[tit. or.: Kamen no hokuhaku; ling. or.: giapponese; anno 1949]
Mi ricordavo che Mishima mi era ostico (dopo tanti anni non ho ancora digerito “Il sapore della gloria”), ed ora posso ribadirlo con forza: una palla mega-galattica. È vero che bisogna scindere due momenti della lettura di un testo “storico” come questo: il testo nel contesto (scusate il bisticcio) dell’epoca in cui è stato prodotto e il testo in sé, atemporalmente recepito. Ora, se è vero che la prima lettura dà forza e sostanza allo scritto, la seconda me lo ha reso talmente lontano che, devo dire, l’ho finito solo per tigna. Comunque, è un merito, rispetto ad altri testi storici che ho dovuto abbandonare prima di prendere a male parole l’autore o la sua memoria. Dicevo forza e sostanza, perché è un testo del 1949, scritto dall’autore allora di 24 anni. Che cerca, con tutte le difficoltà che potrebbe avere un ragazzo analogamente oggi, di capire prima la sua sessualità, e poi di accettare la sua omosessualità. Ed immagino lo scandalo di un tale testo nel Giappone da poco uscito dalla guerra, con una sconfitta che ha scardinato tutti i principi secondo i quali da millenni viveva la società giapponese. Con questo ragazzo che vede cadere le bombe su Tokyo e si preoccupa di più sul fatto che vedere una donna nuda non lo eccita. Penso sia stato un vero pugno nello stomaco. L’idea che appunto qualcuno potesse nascondersi dietro una maschera, e cercare di portare avanti una vita rispettosa dei canoni ufficiali, ma che dentro aveva tutti altri sentimenti. Ma detto questo, il testo in sé mi è pallosamanete scorso via. Come non pensare a manierismi ed effettacci quelli per cui si comincia citando qua e là Oscar Wilde, si passa per una disamina approfondita del San Sebastiano di Guido Reni (sempre per brancolare tra sacro e profano) e si vibra di turbamento al vedere le ascelle pelose del compagno di scuola. Effettacci gay un po’ scontati, forse troppo scontati. E quando si arriva alla soglia dei ventanni, e si dovrebbero affrontare (certo con turbamenti, ma almeno con serietà) i propri sentimenti, ecco tutta la seconda parte del libro incernierata sull’infatuazione (finta e di maniera) per l’ambigua Sonoko. Il tentativo di capire fino a dove arriva la propria maschera. L’incapacità di decidere. La ricerca che qualcuno trovi una soluzione al suo posto. E via discorrendo. Lasciando intendere che scegliere di sposare Sonoko avrebbe continuato a mascherare il proprio essere. E scegliere di lasciarla l’avrebbe ferita in modo insopportabile. Non vi anticipo la scelta di Mishima, anche se so che pochi avranno la voglia di leggerlo dopo queste parole di incoraggiamento. Ma se ne può riparlare, magari con qualcuno che ebbe il coraggio (che io non ho avuto) di leggerlo in gioventù. Sarà che anche qui si ribadisce la mia lontananza con le modalità di ragionamento e di atteggiamento verso la vita che hanno gli orientali, e che io non capisco, ma mi riesce molto più facile leggere pagine crude di Pasolini, o anche di Tondelli, piuttosto che questo mattoncino in salsa sushi. Speriamo di tornare alla brava Banana, che, pur in questa diversità, riesco a comprendere.
Don DeLillo “Rumore bianco” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2003 – out: 16/02/2011]
[tit. or.: White Noise; ling. or.: inglese; anno 1985]
Mi ero sempre rifiutato di accostarmi a DeLillo, che in qualche misura accostavo a Leavitt e Bretton Ellis. Ebbene, facevo bene a continuare così. Che libro inutile! Ovviamente ha vinto mucchi di premi, soprattutto in America, e i critici lo accostano pesino a Paul Auster (!). Io ci sento un abisso. Certo, non è un minimalista, anche perché scrive sempre romanzi fiume di pagine e pagine. Ma l’aspetto di toccare lievemente le cose, di stare lì a guardare, un po’ rimane. Ma poi viene preso dal fiume impetuoso di volere dire e fare. Comincia così ad inzeppare le pagine di tutte le tematiche calde della fine dello scorso millennio: il consumismo rampante, la saturazione mediatica, l'intellettualismo spicciolo, le cospirazioni sotterranee, la disintegrazione e la reintegrazione della famiglia, fino ad arrivare alle qualità potenzialmente positive della violenza umana. Usando quel tono tra l’alto ed il basso, tra l’umorista ed il dissacrante. Creando momenti di piacere (devo confessarlo) ma tutto di testa, quando il protagonista Jack è preso dai vortici di discussione con il figlio maggiore Heinrich. E tutta la trama viene imbevuta in questa estremizzazione dei modi, tanto per essere veracemente americana. Il protagonista è un professore di una piccola università americana, che si è costruito il suo spazio fondandovi il Centro di Studi Hitleriani (benché non sappia una parola di tedesco). Ed all’Università è in continua discussione con il suo amico Murray che cerca di fondare un analogo centro ma sulla figura di Elvis Presley. È sposata con Babette, sua quinta moglie, e vivono insieme in una casa con una marea di ragazzi, due figli di lui e due di lei, poi lui ne ha altri due sparsi per il mondo. E tutto il romanzo scivola, per le sue quasi 400 pagine, tra questi personaggi che si vivono, che sentono radio e televisione, che vanno al supermercato (tutti elementi che producono quel rumore di fondo, quel “rumore bianco” del titolo, che è, questa sì, una delle caratteristiche negative del mondo moderno), che girano per le strade e si chiedono se prima dell’avvento della televisione fosse tutto così perdutamente inutile, che hanno paura di morire e cercano di trovare e provare di tutto (anche psico-farmaci) per vincere questa paura, che vedono la loro città invasa da una nube tossica (siamo poco prima di Chernobyl) che però non fa grandi vittime. Alimenta soltanto le paure e le fobie del bel modo di vivere americano. Da manuale, l’uscita della famigliola a cena, che compra cibo-spazzatura e se lo mangia in macchina. Mentre ne scrivo, raccontandone brandelli, sembra quasi interessante. Quello che mi lascia indifferente è invece proprio questo. Scivola via, pagina dopo pagina, cercando di toccare emi eccelsi, ma non lasciandomi una briciola di moto dell’anima da nessuna parte. Forse i 25 anni passati non sono stati clementi con i temi ed i modi del suo scrivere (ma quanti scrittori con più e più anni lasciano il segno? E come non ricordare il coevo “Soccombente” da poco letto…). Per di più, è trascinato nel mio negativismo la non accuratezza della confezione, che speravo voluta, ma forse no. Titoli di capitolo a volte in numeri romani ed altri in numeri cosiddetti arabi, il capitolo XVIII che perde la V, e diventa XIII. No, non mi è piaciuto. L’ho letto per vedere se, prima o poi, scattasse qualche meccanismo positivo. Purtroppo, sono arrivato alla fine e l’unica cosa che mi rimane sono qualche battuta qua e là dei due figli, Heinrich e Denise, che, forti dei loro 14 ed 11 anni, dicono le cose più sensate del libro. Cerco qualcuno, ora, che mi faccia cambiare idea. Per ora, il buon DeLillo torna nell’ombra cui lo avevo lasciato per tanti anni.
“Fotografano il fotografare.” (19)
“I medici perdono interesse per coloro che si contraddicono … Gli studi medici mi deprimono ancora più degli ospedali.” (87)
“Si passa la vita a dire addio agli altri. Come si fa a dirlo a se stessi?” (316)
Ed ora torniamo alla routine quotidiana, con un mese di fuoco davanti. Il progetto europeo che da tre anni mi tiene compagnia si avvia alla sua fine al volgere del mese. Poi si tratterà di scriverne, di tirarne le fila, e di essere interrogati dalla Commissione Europea il 23 di giugno. Giusto in tempo, si spera, per poter ripartire per altri lidi, magari sudamericani.