domenica 27 novembre 2016

Italians do it ... - 27 novembre 2016

Qualche volta meglio, qualche volto peggio. Un po’ come tutto. A volte va, a volte non va proprio. Ora, questa settimana, abbiamo una trama in ascesa. Cominciamo carburando male, con un libro di Elda Lanza che mi ha lasciato freddo. Poi ci si scalda con un libro così così di Rosa Mogliasso, che tuttavia alla successiva prova decisamente migliora. Finiamo con una bella volatona in salita dalle parti piemontesi di Balostro (e della mia amica AntonellaP).
Elda Lanza “Il matto affogato” Salani euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,41 euro)
[A: 12/06/2015– I: 29/04/2016 – T: 04/05/2016] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 412; anno 2013]
Pur non stravolgente, e con qualche dubbio, non mi era dispiaciuto il primo libro della “signorina buonasera”. Purtroppo questa seconda uscita va in calando, e di molto. Soprattutto nella scrittura, che sembra più faticosa, che non scorre bene. Si accumulano avvenimenti, passano giorni e mesi, a volte si seguono da vicino delle giornate, a volte ci sono salti, che almeno in una occasione non mi sono sembrati logicissimi (ma forse, l’introversione del linguaggio rende distratto anche il più accanito dei lettori). Certo Elda Lanza ha sempre dimostrato di avere una scrittura quanto meno al passo con i tempi. Ed il suo esordio ad 88 anni nei panni di giallista (dopo aver anche per anni vestito quella di esperta di galateo) ne è stato un buon esempio. Poteva finire così, anche perché il protagonista, Massimo “Max” Gilardi alla fine si era ben incartato: risolve l’indagine, si sposa una poliziotta, la mette incinta, poi la moglie ed il nascituro vengono balordamente uccisi. Quasi a ripercorrere, con le dovute distanze, alcune vicende dell’ispettore Lynley di Elizabeth George. Sembrava difficile rimettere quindi in moto il meccanismo. Ecco allora che Elda effettua alcune scelte epocali: Max si dimette dalla polizia, fa un giro in Tunisia nei luoghi natali della moglie (dove c’è una prima incongruenza, citando Abu Simbel e la Valle dei Re egiziani, ma senza farne una tappa del viaggio: dimenticanza o errore?), torna nella Napoli natia per riprendere a fare l’avvocato, come suo padre ed il padre di suo padre. Ma Gilardi è Gilardi, e non può rinnegare i motivi per cui ha fatto le scelte che percorrono il primo libro, così farà (forse) più un avvocato alla Perry Mason, che indaga oltre che dibattere in aula. Max ritrova subito il suo vecchio mondo, quello dei compagni di Legge dell’Università. Ma molti hanno fatto altre scelte, e non ci si trova a proprio agio. Solo con Giacomo Cataldo si ritrova, ma questi ha scelto veramente di fare l’investigatore, e sarà, per il nostro Max-Perry il vero aiutante Drake (e forse la diplomanda Laura potrà diventare Della?). Immergendosi nella vita napoletana, cercando di riprendere i punti di contatto perduti dopo la morte della moglie amata, Gilardi si imbatte in nuovi casi. In particolare, saranno due le vicende che percorrono il suo stanziamento a Napoli: la morte del giovane Carlo e la richiesta della sua giovane amante Elena di riaprire il caso della morte del fratello Alessandro avvenuta cinque anni prima. I casi si intrecciano temporalmente, ma rimangano tuttavia sempre separati nello svolgimento e nella loro risoluzione, parziale o totale. Carlo sembra essersi suicidato fermando la macchina sulle rotaie di un treno che lo travolge. Era un bulletto di scuola, con una storia, più o meno palese, con la coetanea Cinzia. Max (e Giacomo con lui) non sono convinti della dinamica, anche perché Max sa che Carlo non è un cuor di leone. Assunto dalla madre di Carlo, Max scopre ben presto che Cinzia è incinta, ma sa anche dalla madre che Carlo ha la sindrome di FRÖHLICH, cioè i genitali sottosviluppati per cui non può avere la “potentia coeundi”, quindi tanto meno “generandi”. Scopre quindi il vero padre del nascituro, ma a questo punto è bloccato dalla madre, che vuole riabilitare l’impotenza del figlio. Si ritira in buon ordine, come suggerisce il titolo su cui torneremo, anche se farà condannare il vero assassino (benché preterintenzionale). Inciso medico: peccato che la sindrome suddetta porti anche a ritardi nello sviluppo mentale, cosa che Carlo non sembra avere, e che forse era meglio scegliere un’altra malattia. Procede anche l’inchiesta sulla morte di Alessandro, dovuta allo scoppio del motoscafo sperimentale, cui stava lavorando. Qui le cose si fanno un po’ ardite, che sono passati cinque anni. E nonostante questo Giacomo trova delle prove sfuggite a suo tempo alla polizia. Lettere di Alessandro ad una sua amante inglese con la quale voleva andare a vivere, lasciando la malcapitata Rosina. Lasciando anche il padre nelle mani delle cosche pugliesi di droga e riciclaggio. Mentre decide di lasciare la bella Elena, che troppi sono gli anni che li dividono e lui ritiene di non poter andare oltre un certo punto, mentre Elena vorrebbe casa, chiesa e figli, ricostruisce anche questa vicenda. La bomba era, poteva essere, un avvertimento mafioso. Ma lo scoppio ritardato uccide Alessandro. Perché? Probabile che la bella Rosina abbia più di uno zampino nella vicenda. Ed anche i pugliesi, che continuano a far scoppiare bombe ed incendiare parti del cantiere. Max fa mettere tutti in salvo, ci presenta (anche se con qualche salto logico, del tipo le vicende del padre di Alessandro, o del figlio del marinaio morto anche lui nello scoppio). Ma risolti i due casi, avuta una storia con la bella Costanza, trovato un suo studio lontano dal padre, Max si sente finalmente a casa. Noi ci sentiamo invece un po’ spaesati, con queste vicende che vanno avanti per mesi, procedendo a salti, spezzettandosi, e talvolta costringendoci a ricordare nomi e situazioni che avevamo accantonato pagine (e mesi) prima. Un ultimo punto ancora di gradimento, che porta quel mezzo libro in più, è per il titolo che prefigura una situazione presente più volte nel libro. Il titolo deriva da un finale degli scacchi, dove “il matto affogato” è uno scacco matto portato a termine da un cavallo e nel quale il re non può muoversi poiché è circondato (e quindi soffocato) dai propri pezzi. Qui Max lo usa dicendo che la ricerca delle verità a volte è ostacolata proprio da coloro che l’avevano richiesta. So che Elda Lanza ha scritto altri due o tre libri con Max protagonista, ma non so se ne leggerò, data la parziale delusione di questo. Si sperava meglio.
Rosa Mogliasso “L’amore si nutre d’amore” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 03/04/2015 – I: 02/07/2016 – T: 03/07/2016] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 258; anno 2011]
Mi aveva positivamente colpito il primo romanzo che ho letto della piemontese Rosa, tanto da includerla nelle possibili liste di lettura. Anche perché avevo scoperto una sua passione (o dei suoi editori) per titoli discretamente accattivanti, almeno per me. Ricordo che l’esordio era un simpatico “L’assassino qualcosa lascia”. Seguito dal presente che andiamo narrando, e poi da “La felicità è un muscolo volontario”, “Chi bacia e chi viene baciato”, “Bella era bella, morta era morta”. Felicità dei titoli, che si riflette in un divertente panegirico di titoletti dei capitoli, che, per la nostra scrittrice, fanno parte integrante della trama del libro stesso. Detti quindi i principali punti a favore, cominciamo con gli “appunti”. Il primo riguarda il sottotitolo che indica “Un’indagine dei commissari Gillo e Zuccalà”. Niente di più falso, che se è vero che nel primo libro i due indagavano insieme, finendo anche per imbastire una bella storia di amore e sesso, qui Zuccalà è (momentaneamente) trasferito in Sicilia, ed è presente solo perché tutti ricordano alla nostra Barbara che sicuramente le sta mettendo copricapi cervidi. Almeno fino alle ultime tre pagine, in cui si incontrano a Torino e… Ma questo ve lo lascio leggere a voi, perché noi si torna alla trama. Il secondo elemento è un girare troppo intorno, o in tondo, volendo affastellare storie, mentre i filoni principali si perdono. Ci vorrebbe, probabilmente, un po’ più di linearità. Dove la storia prende le mosse dalla scomparsa di Tanzio, giovane di buona famiglia torinese. Ovviamente subito ricercato dall’apprensiva famiglia. Seguendo le sue tracce ci si muove tra Torino, Montecarlo e la Costa Azzurra. Dove si scopre, invece che il buon Tanzio, la cui auto piena di bottiglie alcoliche viene trovata in Val di Susa (e si potrebbe parlare anche di TAV/NoTAV), il corpo della signorina Sabrina. Ovvio che Barbara Gillo comincia ad incuriosirsi, e ad approfondire i dilemmi. Dove è stata Sabrina? Che rapporto ha con Tanzio? Di chi è la barca su cui si è ubriacata? E il volpino di Pomerania? Passo dopo passo, cominciamo a scoprire che Sabrina è stata accompagnata via dalla barca da Gino l’autista. Fabio è il capitano dello yacht, di proprietà del marito di Sabrina, che invece è invaghita proprio di Fabio. Mentre Gino è l’autista al servizio della signora Filippa. Ed è sulle tracce di quest’ultima, vera mantide religiosa del libro, che convergono domande e sospetti. Sposa del ricco anglo-libanese Santo (certo con un nome così…), organizza loschi traffici, coinvolgendo, con la sua bellezza e, perché no, con la sua voglia di sesso, giovani di bell’aspetto e di poco cervello. Come Fabio, come Tanzio, e via alfabetando. Benché ci siano altre morti ed altre scene ad ingarbugliare le matasse, il filo principale da seguire è sempre quello del titolo. Ed a tirare il filo è, come ovvio, la bella ed intrigante Filippa. I cui traffici non svelo, ma nei quali ha ben coinvolto il bellimbusto Fabio, da tempo partner storico di queste malefatte, ma che, messo alle strette, comincerà a cantare. E vi ha anche travolto l’ingenuo Tanzio, che, accortosi con molto ritardo di tutto, farà finalmente ritorno a casa, proteggendosi con un buon avocato (lui è sempre di buona famiglia, no?). In mezzo ci si è trovata la sciacquetta Sabrina, amica svampita di Filippa, innamorata non riamata di Fabio, e finita in un gioco di cui non capirà la portata, facendo la sua brutta fine, che sappiamo, ma non il suo perché, che scopriamo solo alla fine. Aiutati, come lo sarà la polizia, dal volpino di Pomerania. Ma, bene o male, tutto questo è anche un contorno per girare intorno a Barbara Gillo, alle sue propensioni, qui molto poco praticate, verso Zuccalà. Dove invece giriamo di più intorno ai suoi infiniti colloqui con il vicecommissario Peruzzi, con il quale, nel filo delle pagine, intesse interessanti discorsi sulla fisica quantistica, sui gatti chiusi in una scatola, nonché, e qui non possiamo che ringraziarla vivamente, sul cinema, su Truffaut, e sul suo bellissimo film “Finalmente domenica!”, e sull’amore che nasce tra Jean-Louis Trintignant e Fanny Ardent, quando lui, dal sotto interrato dove è nascosto, le guarda le gambe. Una scena da antologia, che ci dà anche una bella chiave di soluzione dei misteri (anche se non vi dico in che modo). Non è ben riuscito e bilanciato come il primo, ma rimane affascinoso per i dialoghi (ben scritti) e la figura di Barbara Gillo, ironica, ma forte e capace di mettere gli uomini al loro posto (ed anche le donne, come la petulante sorella Meri). Ma che ha, come tutti e tutte, le sue debolezze, visto che invece non riesce a mettere al giusto posto il (lontano) Zuccalà.
“Tutte le cose eccellenti sono tanto difficili quanto rare.” (131)
Rosa Mogliasso “La felicità è un muscolo involontario” TEA euro 9 (in realtà scontato a 5,76 euro con Feltrinelli+)
[A: 13/07/2015 – I: 03/07/2016 – T: 04/07/2016] - &&& -
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 259; anno 2015]
Risale un po’ questa terza prova della torinese Mogliasso (che tanto piace non solo a me, ma alle torinesi doc Margherita Oggero e Luciana Littizzetto). Anche se non pienamente, che la vicenda ingarbugliata si sbroglia quasi da sola come neve al sole. Ed anche perché si continua a sottotitolarla come un’indagine di “Grillo e Zuccalà”, mentre il secondo sempre a Palermo e lontano sta. Risale anche perché viene dato un po’ più di respiro corale alla vicenda, non rimanendo sul filone principale giallo ed anche qualcosa in più. Alcune critiche, addirittura (ma io non mi ci ritrovo) tendono ad inserire questa scrittura in quell’ambito letterario di quest’ultimo millennio definito “Chick Lit” (cioè chicken literature, romanzi da pollastrelle). No, umorismo si, pollastrelle no. In altri autori, il contorno tende ad annacquare il filone principale. Mogliasso mi sembra riuscire a gestire egregiamente i due. E sul contorno abbiamo la sempre sospesa storia d’amore tra la nostra Barbara ed il palermitano Zuccalà, che non si decide a tornare al Nord. Viene anche fuori di maggior peso la figura della sorella Meri, sia perché tenta di portare Barbara su strade “leggere”, verso amori improbabili. Sia, e soprattutto, perché protagonista di un mini filone, con furto annesso, che il nostro commissario brillantemente risolve in poche battute. Da antologia la cena catering a base di sushi ed altre giapponeserie. Anche se Meri cerca poi di coinvolgerla con il suo personal trainer, che però non ci convince fin da subito. Ed a ragione. Inoltre, e per finire con l’insalata, cresce il peso del vicecommissario Peruzzi, che serve a Barbara come specchio per provare le sue teorie, come bersaglio di malumore, ma anche, per noi lettori, come fonte di citazioni e di spunti ironici. Il tutto per tornare alla vicenda principale, imperniata sulla strana morte della contessa Elsa Prunotti Mappei e sulla altrettanta strana morte, anche se all’inizio poco collegata al resto, di una barbona. Guarda caso, però, che muore a pochi passi propri da Barbara. Questo è il filone che, nonostante la poca impressione che ne ha il commissariato intero, Barbara segue ed approfondisce. Come segue la vicenda di Ruggero, figlio della Mappei, che dopo tanti anni di onesto libertinaggio, sembra aver preso una sbandata per il misterioso “Clemente”. Uomo misterioso, tanto che suor Pilar, del Pronto Soccorso, lo definisce “più diavolo che clemente”. Indagando, indagando (anche con qualche aiuto del lontano, fisicamente, Zuccalà), esce fuori che nella famiglia Mappei è presente anche una figlia, tal Serena, bellamente scomparsa dopo gli anni di piombo. Anni in cui era un’esponente di punto dell’estremismo torinese (autrice del libello “Basta parolai, armi agli operai”). Con difficoltà, ma anche con tanta pazienza (sia sua, che di noi lettori costretti questa volta dall’autrice a fare spesso dei salti su e giù per la scala temporale), il commissario Gillo ricostruisce molti degli avvenimenti. Serena Mappei, vista la mala parata della rivoluzione mancata, fugge dall’Italia. Prima in Germania, sulle orme di qualche terrorista della RAF (Rote Armee Fraktion). Quando anche questa avventura finisce, trascina la sua anima non irreggimentata per le vie d’Europa, sia con Domenico, suo ex-spasimante poi misteriosamente scomparso, sia trovando l’amore in una bella francesina. Purtroppo la francese si ammala e muore. Per curarla, tuttavia, Serena aveva cominciato a chiedere soldi alla madre, su di un conto svizzero, che poi le era stato stornato dallo scomparso Domenico. Serena si ritrova così sola e senza soldi. Sentendosi morire tenta di tornare a Torino, di ricucire il rapporto con la madre. In questo ostacolata, come ovvio, dal figlio rimasto, Ruggero, e dal suo nuovo amico, Clemente. Finirà male, Serena, così come la madre, ed in un doloroso flashback anche noi lettori verremmo a sapere tante cose. Per lo sbroglio completo della matassa, tuttavia, vi lascio al piacere dell’agile lettura di queste 250 pagine, scritte anche larghette. Ripeto, quello che cresce in questo terzo volume, risalendo alle spalle del primo, è l’umanità che tutto avvolge. Certo abbiamo morti, brigatisti, spie e via elencando. Ma anche commissari, sorelle, amanti e varia umanità. Mogliasso ci ricorda che siamo tutti uomini (o meglio, siamo tutti umani), e questo è un merito che traspare dalle sue righe. Come traspare dai titoli dei capitoli, anche loro parte integrante della storia. Purtroppo, rispetto agli altri volumi, questa volta non vengono riportati in un indice finale. E ce ne dispiace. Però leggetelo, e, se vi va, leggete anche altro di Rosa Mogliasso.
Claudio Balostro “Il vigile Rollo” Fratelli Frilli s.p. (regalo di AntonellaP)
[A: 09/04/2016 – I: 04/08/2016 – T: 08/08/2016] - &&& +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 286; anno 2007]
Parlarono tanto Anita e Marcello di libri e letture, anche dimenticandosi di fare il bagno nella Fontana di Trevi, ma cercando motivi di scambio di idee su treni e traghetti. Devo quindi iniziare inviando un grazie gigante alla mia amica Antonella di quel del Piemonte per avermi parlato prima e spedito poi il libro di questo suo concittadino che è stato gradito in ricezione ed in lettura. Non possiamo ipotizzare una lettura stravolgente, ma Balostro usa bene la penna (o il computer) per portarci nel mezzo di vicende provinciali quantunque universali. Come un piccolo sottoprodotto, ringrazio inoltre i Fratelli Frilli, che, con cura, pazienza e dedizione, si mettono alla ricerca di piccoli talenti locali. E quanti ne hanno fatti uscire dalla loro fucina ed affacciare su palcoscenici più ampi. Per non fare troppi nomi (scusandomi per eventuali torti dovuti solo alla mia memoria “anzianotta”) ricordo solo Annamaria Fassio e Bruno Morchio. Torniamo allora a Balostro e a Valle Scrivia. Come in molte storie a me care, l’idea è avvincente: condire una serie di piccole storie e bozzetti di gente con un legante altro, ad esempio con una storia blandamente nera. Questa forse è la parte più debole, personalmente parlando. Abbiamo una morte ed il nostro esimio vigile della cittadina che, poco convinto del corso degli eventi, comincia ad indagare personalmente ed in modo non ufficiale. Che la morte è giudicata naturale, e solo piccole incongruenze convincono Rollo che qualcosa ci sia. Indagando, parlando, girando, anche viaggiando, alla fine Rollo ricostruirà la storia del suicidio di Maria abusata dal giovane Sgroi. Della fuga del fratello Matteo che perseguita Sgroi presentandosi sempre vestito di bianco verginale e che viene perseguitato dagli scherani fascisti di Sgroi (il suicidio avviene nel 1939). Del nulla che succede nel frattempo, fino al presente narrativo del 1972. Dell’arrivo inaspettato di uno strano personaggio vestito di bianco. Di una pistola senza pallottole trovata in un albero. Della morte per infarto di Sgroi, che però viene trovato nudo nella sua casa, con vicino un bicchiere d’acqua. Dei sospetti di avvelenamento (sollevati da qualcuno), di appuntamenti erotici finiti male, o di altro. Quando, collegando gli elementi a disposizione abbiamo il nero ai nostri piedi, ma senza possibilità di avere colpevoli. Non ce ne sono, ora. Forse, in realtà, ci dice Claudio ed anche Rollo, il colpevole è proprio il morto. Tuttavia, ed è questa la parte che piace a me e che fa del libro un piccolo regalo di istantanee, come fosse una presentazione di tipologie di vita provinciale. Abbiamo così tutti i personaggi “di contorno”, ognuno con la sua storia, ognuno con il suo pezzo di mondo da vivere. Ne vogliamo ricordare qualcuno, così come affiora dalla memoria. I gemelli benzinai, chiamati entrambi Geme (abbreviazione appunto di gemello), una volta calciatori dilettanti (un centrocampista, l’altro attaccante), ora gestori della pompa di benzina del paese. Aperta notte e dì, dove un gemello face il giorno e l’altro la notte. I due barbieri, il Manda, cacciatore e comunista, il Cino, pescatore e democristiano. E altri che bozzettano le pagine di Balostro. Sino all’Emilia, il sostegno dell’anagrafe, insostituibile e che fornisce i primi elementi a Rollo per ricostruire la vicenda nata dalla morte della sua amica Maria. E più di tutti Sauro, il pazzo del paese (ma quanto pazzo e quanto portato alla deriva da tanti avvenimenti in gioventù). Una felice intuizione, ed una difficile realizzazione, i salti verbali di Sauro, che tutti ormai chiamano Lioneliofante dal ritornello che citava ad ogni piè sospinto (“il leone … il liofante … il serpente a sonagli!”) innescati da input di Rollo. Che con la loro mancanza di capo e coda, portano (sempre) brandelli di verità. Rimane alla fine un po’ misteriosa, per me, la passione del vigile Rollo per i ponti (che forse sono anche una fissazione di Balostro?). certo, se ne parla con bravura, competenza, ma non sono per me elementi architettonici su cui mi soffermo a lungo. Faccio solo un salto logico, portando Rollo ad essere un ponte tra una verità non esponibile a tutti ed il mondo che lì, nella cittadina, si vive. Comunque ammiro, come spesso, la capacità di tutte queste persone di riuscire a concentrarsi, a buttare giù parole, ed a costruirci intorno più di duecento pagine leggibili e godibili. Bravo Claudio. E grazie ancora, Antonella.
Mentre chiudo queste trame, da quel di Alessandria, mi giungono immagini di piogge e quasi esondazioni, che spero non abbiano recato danno ai miei amici valligiani. Come giunge anche, ma qui la aspettavamo da tempo, la notizia della morte di Fidel Castro. Che non commento, essendone troppo parlato in rete, se non con la felicità (relativa) di aver visto Cuba prima della sua morte. Penso che tutti quanti stiamo aspettando con ansia la fine di questo anno bisestile.

domenica 20 novembre 2016

Seriali ... - 20 novembre 2016

E sì, una bella trama di personaggi seriali. C’è l’avvocato Mickey Haller, c’è il poliziotto Hieronymus Bosch, c’è l’ispettore islandese Erlendur Sveinsson ed infine l’alter nomine mio, lo scozzese John Rebus. Dove Michael Connelly lo preferisco con Bosch (cattivo rapporto con gli avvocati?), dove Arnaldur Indriðason scende un po’ in basso quando si incarta nei ricordi del suo ispettore, dove infine Ian Rankin, in questa che è una delle prime uscite (e lo spiego sotto) è ancora di un buon livello noir e, soprattutto, scozzese.
Michael Connelly “Il quinto testimone” Piemme euro 13 (in realtà, scontato a 12,35 euro)
[A: 01/03/2015– I: 21/03/2016 – T: 24/03/2016] - && e ¾  
[tit. or.: The Fifth Witness; ling. or.: inglese; pagine: 485; anno 2011]
Siamo nel lato “legal thriller” di Connelly, quello con Mickey Haller per protagonista. Purtroppo il nostro autore, che in molte uscite ho trovato di un livello comunque più che sufficiente, qui mi si propone in un romanzo molto “legal” e poco thriller. E non è che riesca a coinvolgere più di tanto. Certo, e ben lo sappiamo dai lavori eponimi di Grisham, che la parte legale ha un suo svolgimento avvincente in America, pieno di risvolti che, per la nostra legislatura italiana ed europea, risultano fantasiosi e spesso capziosi. Tuttavia, non sono riuscito ad appassionarmi alla vicenda della preparazione e dello svolgimento del processo che vede sul banco degli imputati Lisa Trammel, accusata dell’omicidio di Mitchell Bondurant, dirigente dell’Istituto di credito che voleva espropriarla dalla casa di cui non aveva finito di pagare il mutuo. Certo, il thriller non può mancare in uno scritto di Connelly, e sicuramente, arrivando all’ultima delle cinque parti del libro, il lettore avrà tutte le risposte (o gran parte delle risposte) che si aspettava. Si troverà chi ha organizzato tutto, si capiranno molti motivi e moventi. Tuttavia in modo molto affrettato e sommario (non a caso questa parte occupa 12 delle quasi 500 pagine del libro). Tutto il resto è legato, bene o male, al processo. Ed alla vita di Haller. Ai suoi rapporti con l’ex moglie Maggie, dove i due si trovano e si lasciano diverse volte qui e altrove, in particolare per le due opposte barricate su cui militano (uno avvocato difensore, l’altra nell’ufficio di Procuratore Distrettuale) e sulle differenti visioni che da quelle ne hanno. Ai suoi, questa volta scarsi, incontri con la figlia. Al cammeo del fratellastro Bosch che interviene con la figlia solo alla festa di compleanno di Haller. Tutto il resto è per l’appunto nelle maglie delle procedure legali americane. Prima le modalità di rinvio a giudizio, dove l’esorbitante cifra chiesta per la libertà su cauzione viene pagata da un losco figuro, che cerca di accompagnarsi a Liza per tutto il libro. Si scoprirà, ben presto, ma solo dopo la metà, con i particolari, che oltre ad essere losco, aggirantesi nei meandri del sottobosco hollywoodiano di produzioni un po’ ai limiti, e senza soldi, è alle dipendenze economiche di tale Louis Opparizio, italo-americano di sicura scarsa luminosità. Non solo, ha molti contrasti con Bondurant per le modalità che utilizza, e per i suoi legami alle famiglie italo-americane di New York (mi avete capito, no?). Haller avrà il suo bel da fare per emarginare il tizio, e per riprendersi da una bella pestata che due tizi da lui assoldati (ma per conto di chi?) gli fanno a metà romanzo. Poi c’è lo scontro tra accusa e difesa, con l’avvocato Andrea Freeman che è anche amica della Maggie di cui sopra, quindi con un potenziale conflitto con il di lei ex Mickey. Haller ci spiega le strategie che si usano in aula, le modalità di scelta dei giurati, cercando di tirarli dalla propria parte, gli interrogatori ed i controinterrogatori, il conto dei punti che idealmente accumulano le due parti durante il dibattimento. L’accusa inizia in sordina, tirando fuori, in un paio di occasioni, elementi probanti ma non precedentemente mostrati alla difesa. E questa sembra essere una grave colpa. L’accusa trova il martello con cui è stata colpita la vittima, con il DNA della stessa, ed è un martello probabilmente proveniente dagli attrezzi di Lisa, trova un paio di scarpe altresì macchiate di sangue, e, nel garage della nostra imputata, anche un dispensatore di elio per gonfiare palloncini. Haller ribatte punto su punto, ma il momento cruciale viene dalla dimostrazione della difficoltà per una persona alta 1 metro e 57 di colpire in cima alla testa una persona alta 1 metro e 90. Ripeto, è bello ed istruttivo leggere il dibattere delle varie prove, al termine delle quali la giura andrà a deliberare se Lisa ha commesso il reato o esiste un ragionevole dubbio. Non ve lo dico, ma ripeto, che alla fine Connelly spiegherà tutto. Ma dopo aver ripetuto la gradevolezza del leggere, ribadisco anche il poco coinvolgimento nello svolgimento delle azioni. Infine, un ultimo elemento, questo sì da “tirata d’orecchi” verso il sempre attento Connelly. Parlo della scivolata sulla citazione del pezzo di musica classica che secondo Haller fa da colonna sonora alla costruzione del processo da parte dell’accusa. Viene descritto, e su questo concordo, come un lungo montare degno del Bolero di Ravel: prima strumenti isolati, poi un lungo crescendo verso l’esplosione finale. Ma si indica come titolo del pezzo Shèhèrazade. Ora, non sono d’accordo su chi, in rete e altrove, prende di mira lo svarione di aver confuso Ravel con Rimsky-Korsakov. Piuttosto, credo che abbia confuso il pezzo di Ravel con il titolo che compare nel disco nel 1992 vinse il Grammy Awards, dove, oltre al Bolero, compare la Shèhèrazade di Manuel Rosenthal. Entrambi eseguiti dalla pluripremiata e benemerita Orchestre Lamoureux. Caro Michael, meglio tornare al jazz, e soprattutto a Bosch, dove senz’altro ti muovi più a tuo agio.
Michael Connelly “La caduta” Piemme euro 13 (in realtà, scontato a 11,05 euro)
[A: 12/06/2015– I: 18/04/2016 – T: 21/04/2016] - &&& e ¼  
[tit. or.: The Drop; ling. or.: inglese; pagine: 344; anno 2011]
Fortunatamente torniamo subito a Bosch! Devo dire che non mi ha convinto completamente, ma è intrigante, ben costruito, e, al solito, aperto a successivi sviluppi. Sono al 24° volume della produzione di Connelly, e non è poco. E siamo anche al 17° episodio che ha per protagonista il detective Bosch. Quante ne abbiamo passate con lui. Gli inizi, la scoperta del personaggio, il matrimonio con Eleanor, il divorzio, la scoperta di avere una figlia, la scoperta delle sue radici familiari, e di conseguenza del fratellastro Mike, la morte di Eleanor, l’invecchiamento. Ed eccoci qui, dove, reintegrato nei ranghi, si occupa dei casi irrisolti, quelli che abbiamo anche imparato a chiamare, seguendo le serie televisive, “Cold Case”. Non solo, ma nelle prime pagine, il suo capo gli comunica che tra 3 anni andrà in pensione. Sarà interessante vedere come l’autore americano riuscirà a svolgere le prossime trame, magari facendo convergere il sodalizio con il fratellastro. Anche se il loro rapporto, pur pacifico, non sembra idilliaco. Più sprint potrebbe avere l’accenno della figlia Maddie di voler entrare anche lei nei corpi di polizia. In questo romanzo è presente solo in poche pagine, ma con due dettagli importanti: rivela al padre le intenzioni di un indagato analizzandone il linguaggio del corpo e indirizza il padre verso una poesia, che Bosch aveva dimenticato, dedicata a Chet Baker. Facciamo un inciso su questo cameo, che se tutti (o quasi) conosciamo il grande trombettista americano morto cascando (suicidio? Incidente? Altro?) da un hotel ad Amsterdam, pochi (e non io) conoscevamo la bella poesia a lui dedicata da John Harvey. Quella citata nel libro. E John Harvey è un personaggio reale, un discreto scrittore di gialli inglese, che ha scritto anche un paio di libri di poesie, compresa quella di cui stiamo parlando. Tornando alla trama. A Bosch viene affidato un caso irrisolto, di una ragazza strangolata, perché il DNA trovato sulla vittima corrispondente ad un bambino di otto anni. Errore del dipartimento o altro? Mentre Bosch inizia la sua indagine, il capo della polizia gli affida un secondo caso, non “cold” ma molto “hot”. Il figlio del potente lobbysta Irving, molti episodi fa in contrasto duro con Bosch, muore precipitando dal balcone della suite di un albergo esclusivo. Suicidio? Incidente? Omicidio? Irving ha qualcosa da nascondere e sa, come noi sapremo ben presto, che ci sono macchie scure sulla vicenda. Per questo vuole Bosch, di cui conosce l’integrità, anche se i due appunto si sono spesso scontrati. Analizzando la morte del giovane Irving, Bosch nota che questi non ha lanciato grida cadendo (quindi escludiamo subito l’incidente), e che aveva uno strano segno sulla schiena, da lui presto ricondotto ad una presa da arti marziali utilizzata dalla polizia per mettere fuori combattimento un pregiudicato, ma dalla polizia stessa bandita all’epoca del caso Rodney King (che tutti dovremmo conoscere, in quanto mise a ferro e fuoco Los Angeles). Proseguendo le indagini, Bosch scopre inoltre: una lotta di lobby per un appalto di taxi, che una delle lobby era guidata dal morto, che l’aggiudicazione dell’appalto fa capo ad Irving, che i taxi in difficoltà sono comandati da un ex-agente di polizia, allontanato dal corpo proprio inseguito a quella presa assassina, che la moglie del morto gli aveva appena comunicato di volere il divorzio, che il migliore amico del morto lo aveva lasciato proprio in conseguenza delle strane manovre sui taxi, che il morto aveva comperato un biglietto aereo per il figlio per il giorno dopo la sua morte, e che infine l’ex-agente era stato nella suite poche ore prima della morte. Certo, tutta l’indagine è costellata da altri colpi di scena, che lascio ai volenterosi lettori. Ma, non esprimendomi comunque sulla ricostruzione finale dell’accaduto, è certo che il politico Irving ne esce inguaiato con la sua rielezione messa in bilico. È ovvio poi che Bosch non tralascia l’altra indagine. Dove scopre che il sangue del bambino poteva risiedere sulla cintura con il quale questi era colpito a sangue dal patrigno. Dove risale, con un po’ di fortuna, al patrigno stesso, scoprendo un killer seriale che potenzialmente potrebbe aver commesso più di trenta omicidi. Il problema di queste morti è la mancanza di cadaveri, a parte quello di cui all’inizio del caso. Sarà sufficiente per incriminarlo? Anche perché, al solito, Bosch ottiene confessioni ed ammissioni non sempre in modo ortodosso. Infine, indagando su questo caso, viene a contatto con la dottoressa Stone, con la quale, sembra, poter iniziare una nuova storia, lui che da tanto ormai sembra aver rinunciato ai rapporti con l’altro sesso. Insomma, un bel pamphlet nello stile di storie complesse, intriganti ed intrigate, una buona traccia per una serie televisiva. Con la solita, accattivante scrittura, e le solite incursioni musicali, in particolare sul lato jazz, che a me piacciono sempre. Un solo commento finale per una reprimenda sulla quarta di copertina. Non è vero che i due casi sono intrecciati, ma c’è solo una minaccia del potente Irving di usare il caso irrisolto per mettere in difficoltà Bosch e il corpo di polizia. Quindi, probabilmente, saranno collegati in un prossimo episodio. Tuttavia, se si legge prima la quarta, si creano aspettative che, in questo libro, vengono deluse. Quindi un po’ più della sufficienza per Connelly, un voto negativo alla Piemme.
“Si era ancora una volta inimicato un potente, ma non se ne curava. Non sarebbe stato capace di vivere in un mondo senza nemici.” (267)
“A volte è necessario imboccare la strada sbagliata per arrivare a quella giusta.” (273)
Arnaldur Indriðason “Le abitudini delle volpi” TEA euro 10 (in realtà, scontato a 8,50 euro)
[A: 01/11/2014– I: 16/06/2016 – T: 22/06/2016] - && e ½  
[tit. or.: Furðustrandir; ling. or.: islandese; pagine: 303; anno 2010]
Come esimersi dal leggere un nuovo episodio della saga dell’ispettore Erlendur Sveinsson quando si è nuovamente impegnati in un bello e coinvolgente tour proprio in Islanda? E mentre nella piazza della capitale la gente impazza per le vittorie della nazionale di calcio, io mi gusto questo ritorno alle sue radici dell’ispettore, sempre alla ricerca del motivo della scomparsa del fratello quando lui aveva 8 anni. Ferita che non si rimargina (e ben lo capiamo!). Lo leggiamo, lo portiamo anche sotto la pioggia battente, e ne terminiamo brillantemente la lettura, anche se poi il risultato è leggermente inferiore alle mie attese. Intanto, penso di non svelare nulla, soprattutto a chi ha già letto almeno un libro di Arnaldur Indriðason, se dico che l’ispettore Erlendur da sempre è tormentato da un episodio avvenuto nella sua infanzia: la scomparsa del fratellino Bergur durante una tempesta di neve. Loro due con il padre erano usciti nella brughiera per tentare di radunare le loro pecore. Erlendur e il padre erano stati ritrovati semiassiderati, del fratello nessuna traccia. Per questo motivo l’ispettore è sempre stato attratto dalle storie di sparizione delle persone, fino al punto di indagare per conto suo, al di fuori delle indagini ufficiali della polizia. Sappiamo da alcuni romanzi precedenti (dove Erlendur lascia il primo piano delle indagini ai suoi sottoposti), che il nostro commissario ha preso un periodo di ferie. Non si sapeva che fine avesse fatto, ed ora qui scopriamo che si è andato a stabilire nel rudere che era stata la loro casa, prima che la famiglia, dopo la disgrazia, si trasferisse a Reykjavík. C’era tornato varie volte nel corso degli anni, ma ora, dopo trentacinque anni, vuole andare fino in fondo alle sue ricerche e cancellare dalla propria testa tutti i fantasmi che la popolano. E cerca che ti ricerca, al nostro commissario, coadiuvato da alcune presenze locali, viene in mente che potrebbe (dovrebbe?) seguire le abitudini delle volpi, che nel loro peregrinare nei boschi, raccolgono di tutto, portandolo nella loro tana. E quando in una tana Erlendur trova delle ossa comincia a sospettare che, forse, la storia di Bergur possa avere una fine. Noi lo speriamo con lui, che, va bene l’ossessione, ma stava portando il nostro ad una via senza ritorno. Forse nel prossimo volume se ne capirà di più. Questa parte, inoltre, consente agli esimi editori italiani di travisare il titolo ed uscirsene con questo “Le abitudini delle volpi”, ben lontano dall’originale “Furðustrandir”. Il titolo fa riferimento ad una striscia costiera probabilmente situata nel Labrador canadese, che viene citata a lungo nella saga islandese di Erik il Rosso. Ed ha tutto un altro senso. Primo, perché è una terra scoperta dai vichinghi nel loro peregrinare, come se Erlendur finalmente potesse scoprire un nuovo modo di vivere. E secondo, e ben più importante, il termina in islandese significa “spiaggia splendida”. Dove ben vediamo il contraltare con la tormenta di neve che ha portato via Bergur. E che risulta anche il motivo dominante di una storia che a quella di Bergur idealmente si intreccia, e che fortunatamente dà quel poco di sapore poliziesco alla vicenda. Dove infatti vediamo che in una tormenta di neve, nel lontano 1942 scompare nel nulla una giovane sposa, Matthildur. Durante la stessa tormenta che aveva bloccato nel passo sopra il paese una colonna di soldati. Si disse allora che Matthildur fosse fuggita con uno di loro, ma interrogando e tormentando Ezra, uno dei pochi sopravvissuti a quel periodo, ad Erlendur vengono dubbi. Parlando e scavando nelle memorie, scopre che la giovane aveva sposato tal Jakob, che la riempiva di botte. Jakob ed Ezra erano anche soci nella pesca. Dal fatto che i due, alla scomparsa di Matthildur si allontanano, e che Ezra non si avvicina più ad una donna, il nostro intuisce motivi di gelosia dietro la storia. Tanto che riesuma la bara di Jakob, scoprendo che è stato sepolto semi-congelato ma ancora vivo. Facile sarà per voi capire chi lo ha sepolto, perché, e tutta la storia collegata, che il nostro scrittore ci fa rivivere anche con passeggiate interessanti su e giù nel tempo. Eppur tuttavia la storia è un po’ moscia, non prende, e soprattutto risultano a me fastidiosi i salti onirici notturni di Erlendur quando sogna e rivive i momenti della morte del fratello. Spero, per lui e per noi, che si torni presto a Reykjavík ed alle sue più organiche storie.
“Ci convivo da allora … con il disprezzo di me stesso che non sono mai riuscito a sopportare.” (263)
Ian Rankin “Morte grezza” Tea euro 12 (in realtà, scontato a 10,20euro)
[A: 12/05/2015– I: 29/09/2016 – T: 06/10/2016] - &&&--    
[tit. or.: Black&Blue; ling. or.: inglese; pagine: 522; anno 1997]
Pur ringraziando la buona volontà delle edizioni TEA, non posso che rimarcare con dispiacere che questa è l’ottava inchiesta dell’ispettore John Rebus, e che già sono uscite da anni (e ne ho già parlato) le ultime inchieste dell’esimio ispettore, arrivate credo alla ventunesima puntata. Inoltre, sempre per dovere di completezza, delle prime nove inchieste solo la prima, la terza e questa sono uscite in italiano. Peccato, che in queste prime si andava forgiando una tipologia interessante del personaggio, che nelle successive si evolve, si incarta e quasi deflagra (ma non ci torno sopra, che ne ho tramate ben otto). Altro punto di domanda riguarda quel “neroazzurro” del titolo, che, nel gergo poliziesco, si riferisce alle ecchimosi, soprattutto facciali. E Rebus non ne smentirà il significato, in molte parti del libro. C’è anche un riferimento all’album dei Rolling Stones (si parla anche marginalmente di musica, citando una sconosciuta banda scozzese che piacque in gioventù a Rankin, i Dancing Pigs). Infine, il titolo si scompone nel Black del petrolio e nel Blu riferito alle forze di polizia. Tutto ciò si banalizza in italiano con una morte grezza, che penso voglia alludere al petrolio ed ai guasti con esso perpetrati nei Mar del Nord. Ultimo appunto editoriale (ma quand’è che faranno ammenda?), riguarda l’inopinato cambiamento di sesso del morto che dà inizio alla vicenda, e che nella quarta di copertina diventa “il caso della morte di una giovane” (sic!). Ma nonostante tutto, rispetto ad altre inchieste di Rebus e ad altri scritti di Rankin, questo libro è comunque un classico nel suo genere. Infatti con questo libro lo scrittore scozzese darà il via ad un filone che i critici letterari ribattezzeranno ben presto “Tartan Noir” o, per noi continentali, “Nero scozzese”. Che tartan è ovviamente riferito al particolare disegno dei tessuti in lana delle Highland scozzesi. E questo, come i libri degli altri autori che seguiranno, è intrinsecamente scozzese. Si beve birra, si va spesso su e giù tra Edimburgo e Glasgow, con qualche puntata ad Aberdeen, si parla del petrolio, grande ricchezza locale, si parla delle forze di polizia che allora si chiamava “Lothian and Borders”, si parla di cibo scozzese, tra cui il fantomatico “haggis”. Per chi non ne fosse a conoscenza, l'haggis è un insaccato di interiora di pecora, macinate insieme a cipolla, grasso di rognone, farina d'avena, sale e spezie, mescolati con brodo e bollite tradizionalmente nello stomaco dell'animale per circa tre ore: una delizia! E si parla di violenza, di morti, di scazzottate (black&blue, appunto). Come in molte storie di Rankin, molti sono i piani che si intersecano. C’è il giovane della quarta di copertina che viene ucciso nelle prime pagine, ed il cui caso viene affidato a Rebus. C’è il suicidio in carcere di un ergastolano che sostiene nelle sue memorie di essere stato incastrato anni prima da Rebus e da Gaddes allora capo del nostro. Ci sono prove che sembrano incastrare Rebus a questo caso, tanto che viene affidato al suo vecchio amico Jack in modo che non possa inquinare le prove. C’è il suicidio anche di Gaddes che sembra sempre più incastrare Rebus. Ci sono morti di donne che sembrano ricalcare un serial killer che proprio di Gaddes era diventato l’assillo prima che questi andasse in pensione. E che ora diventa l’assillo di Rebus. Tra l’altro i due serial killer hanno un andamento talmente omologo che, essendo il vecchio serial soprannominato “Bible John”, quest’eponimo viene chiamato “Johnny Bible”. E c’è anche Bible John, che vuol trovare il suo Emulo, per ribadire la sua primarietà in quelle tipologie omicide. Sembrano tanti fatti slegati, ma la bravura di Rankin, dribblando le facili scorciatoie, è proprio quello di ricondurle (quasi) all’unità. Il tutto legato al petrolio, ambiente in cui lavorava Alan il primo morto. Dove il magnate del petrolio, facendo affari con un ras delle Highland, convince un accolito di questo a farlo fuori (anche perché Alan si era legato alla figlia di lui, anche se da lui diseredata). Ma quando Rebus si avvicina a questa soluzione, il nipote del ras fa piazza pulita del primo cattivo. Cercando anche di mettere fuori gioco lo zio. Non ci riuscirà, e sarà una bella lotta di interrogatori (e scazzottate) che porterà Rebus a risolvere questa parte. Che come sottoprodotto, lo porterà a capire i legami tra le morti perpetrate da Johnny Bible, e trovandolo poi, anche se già morto e forse ucciso da Bible John. Che farà in modo anche di uscire allo scoperto (anche se non volontariamente). Ci vorrà una lettera d’addio scritta da Gaddes prima di uccidersi a mettere molti puntini sulle “i” della vicenda. Intanto, scagionando Rebus da tutte le accuse. E facendo capire (e facendoci capire) le ossessioni di Gaddes. Il tutto per dar modo a Rebus di stanare Bible John, anche se questi farà in tempo a far perdere le sue tracce. Probabilmente. Il tutto con un finale abbastanza aperto da consentire al nostro di prevedere l’inizio di un plot per una successiva puntata. E per finire abbiamo Rebus che cerca di smetter di bere, abbiamo Rebus che sicuramente ha avuto una storia con Gill, ma che per ora no, abbiamo la comparsa di Siv, l’aiutante delle forze di polizia che tra molti libri uscirà meglio definita. Non manca naturalmente anche una frecciata alla corruzione delle forze di polizia. Molto per un libro solo, ma so già che Rankin non si risparmia mai, anche in queste più di 500 pagine. Che sono una sempre utile lettura del mondo scozzese, degno contraltare delle letture facili dell’epigono opposto degli scrittori locali, quell’Alexander McCall Smith, che poi è stato il primo che ho seguito con piacere.
Anche questo mese si riesce a riempire le tre settimane, ed allora eccovi un bel regalo sulle terapie d’amore con la mia cara Audrey.
In questo novembre tra estate di San Martino e primavera inventata, sono ancora combattuto tra Hans Fallada (“Ognuno muore solo”) e John Donne (“Nessun uomo è un'isola …  La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell'umanità). Forse dovrei solo scrivere di più, e magari con voi ridere di più.

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

NOVEMBRE 2016
In questo novembre forse troppo da estate indiana (per chi ha frequentato l’America) eccoci immersi nelle “dolci e fresche acque”, non di Petrarca né di Capote, ma nel cortile di Audrey Hepburn, ascoltandola cantare “Moon River”.

TERAPIE D’AMORE (IV)

COLAZIONE DA TIFFANY di TRUMAN CAPOTE (1959)

Pillole di trama
Un giovane aspirante scrittore rievoca il suo incontro con l’evanescente Holly Golightly, ragazza disinvolta e misteriosa che conduce una vita sregolata tutta feste, cene e appuntamenti. Si circonda di personaggi strampalati almeno quanto lei, uomini ricchi e facoltosi da cui farsi mantenere come il gangster mafioso Sally Tornato, l’antipatico miliardario Rusty Trawler, il potente agente di Hollywood O.J. Berman e un politico brasiliano che promette di sposarla ma poi la scarica. È a quel punto che Holly abbandona Manhattan per sempre, facendo perdere le sue tracce e lasciando al giovane scrittore solo il suo incancellabile ricordo.
Supposta-saggezza
Il biglietto da visita di Holly non potrebbe essere più chiaro: «Signorina Holiday Golightly. In transito». Il suo nome d’arte, Holiday, vuol dire “vacanza”, mentre il cognome, Golightly, “andare con leggerezza”, “viaggiare leggeri”. Holly è così: perennemente in vacanza dalla vita reale e sempre di passaggio, vola su tutto e su tutti con un candore spiazzante. Sfuggente e misteriosa, è effervescente come le bollicine dello champagne che scorre a fiumi durante le numerose feste a cui prende parte. Impossibile restare indifferenti al fascino misterioso di questa donna inafferrabile. Ne viene travolto anche il protagonista, ma ne è solo affascinato o anche innamorato? Difficile a dirsi perché tra i due s’instaura una relazione platonica e indefinibile come non potrebbe essere altrimenti vista la natura di Holly, sempre di passaggio nella sua vita e in quella degli altri. Per scelta non si affeziona a niente e a nessuno, detesta vedere gli animali in gabbia e il suo gatto non ha nome così come il protagonista del romanzo. Perde sempre le chiavi di casa e disturba regolarmente i vicini citofonando a ogni ora del giorno e della notte. Il suo appartamento sembra un campeggio, pieno di casse e valigie sempre pronte. All’essere «normale» preferisce di gran lunga l’essere «naturale», è falsa ma «autenticamente falsa» e non si abitua a niente perché «chi si abitua a tutto tanto vale che muoia». È come se pattinasse sul ghiaccio, piroettando intorno ai problemi con sublime leggiadria ma graffiando la vita delle persone che lastricano la sua pista, scivolando con incosciente disinvoltura e noncuranza sui sentimenti e sugli affetti. Di fatto Holly è un angelo crudele la cui leggerezza si trasforma in un peso per gli altri, almeno per le persone sensibili, le uniche che possono essere ferite (le altre, tutt’al più possono essere scalfite), le uniche che non se lo meritano. Come suo marito, un anziano veterinario di provincia abbandonato senza spiegazioni dopo averla sposata, giovanissima, adottandola, prendendosi cura di lei e amandola, forse l’unico fra tutti gli uomini che la ragazza colleziona uno dopo l’altro. Holly non si fa problemi per questo “go lightly”, ma la sua incoscienza, la sua distrazione o, peggio, la sua indifferenza diventano un macigno per gli altri. Il mondo è pieno di Holly, persone terrorizzate dal pensiero di perdere la propria libertà e che, fuggendo da qualsiasi tipo di legame, finiscono con il costruirsi una gabbia e rimanere sole, profondamente sole anche in mezzo alla gente. Sole, tristi e malinconiche come Holly, che sotto la sua esuberanza nasconde un vuoto che la risucchia. Esemplificativo della natura fuggevole e sfuggente del personaggio è anche il suo rapporto con Tiffany, la mitica gioielleria che ha il potere di rassicurarla quando è afflitta dalle paturnie ovvero quando è inquieta (cioè sempre). A lei non interessano tanto i gioielli (ma se arrivano in regalo non li disdegna) né i diamanti. Perché, come si dice, un diamante è per sempre e la parola “sempre” non esiste per chi è perennemente “in transito”. Ma muoversi in continuazione senza una destinazione, partire e non tornare, non vuol dire viaggiare ma fuggire. E non si può ruggire da sé stessi. Così, anche la spensierata Holly che non si lega a nessuno, finisce per legarsi da sola rinchiudendosi in gabbia. C’è una parola che può riassumere l’essenza della protagonista e del romanzo: spiazzante. Holly è tutto e il contrario di tutto: è ingenua ma calcolatrice, generosa ma avida, sincera ma bugiarda, allegra ma inquieta, libera ma prigioniera di sé stessa, trasgressiva ma incastrata nei compromessi. Altrettanto contraddittoria ma irresistibilmente affascinante è New York, la città che fa da sfondo alla storia e all’umanità brancolante tra illusione e disillusione che racconta. Spiazzante e affascinante è il romanzo come lo è il suo autore.
Posologia
Colazione da Tiffany è una pomata da applicare sulle ustioni di vario grado causate dalle infatuazioni per quelle anime evanescenti e intriganti come Holly, al cui fascino è impossibile resistere ma che sono la principale causa di scottanti delusioni amorose. Nonostante possa provocare un po’ di dolore durante la somministrazione, grazie alla sua azione emolliente e lenitiva il romanzo aiuta a cicatrizzare rapidamente le ferite. È consigliato anche per garantire un immediato sollievo a quella sensazione di pesantezza che affligge chi prima di fare qualsiasi cosa, pensa e ripensa fino a dimenticarsi cosa deve fare, chi pianifica tutto nei minimi dettagli e se qualcosa va storto entra in crisi, chi è così abitudinario da essere immobile, chi di natura è pesante come il cotechino con le lenticchie a ferragosto, chi prende tutto troppo seriamente, anche le barzellette, e carica cose e persone di eccessive aspettative. Se prese nelle giuste dosi, le componenti caratteriali di Holly stimolano la circolazione di sana spensieratezza (da non confondere con la superficialità) e incrementano la capacità di godere appieno del momento presente senza preoccuparsi eccessivamente del domani, che tanto «di doman non c’è certezza», diceva il Magnifico. O per dirla come Truman Capote, “go lightly” ovvero “take it easy”.
Colazione da Tiffany è uno psicofarmaco naturale per affrontare le paturnie. Altra cosa dalla tristezza, che viene per ragioni precise come il fatto che si sta ingrassando o che piove, le paturnie sono un’improvvisa e apparentemente inspiegabile paura di non si sa cosa. Per Holly l’unico rimedio è andare da Tiffany, dove ha l’impressione che niente di brutto possa accadere. Ai primi sintomi di paturnie, si consiglia di andare in qualsiasi luogo ci si senta al sicuro, anche da Tiffany. Non è necessario entrare e comprare (è scontato che se poi qualcuno vi regala un gioiello, la paura potrebbe anche passare prima). In caso Tiffany non sia a portata di mano, il rimedio più pratico è accomodarsi sul divano e godersi il film tratto dal romanzo: un vero gioiello, magari da vedere sorseggiando un bicchiere di champagne.
Terapia cinematografica sostitutiva
La lettura di Colazione da Tiffany non può essere disgiunta dal superbo adattamento cinematografico di Blake Edwards. E questo non solo perché per tutti Holly ha il volto e il fascino di Audrey Hepburn, ma perché proprio le differenze tra il romanzo e il film, tante e consistenti, sono utili ai fini di quel la sensazione di felicità che è l’obiettivo principale del nostro percorso terapeutico. Commedia sofisticata per eccellenza, che ha consacrato la divina Audrey a icona di stile ed eleganza, il film vanta una regia impeccabile, attori straordinari, dialoghi brillanti, un’ambientazione raffinata e una colonna sonora indimenticabile (la canzone Moon River rende perfettamente la cifra malinconica che pervade tutta la pellicola). La differenza sostanziale rispetto al romanzo è la storia d’amore tra i protagonisti. Mentre il libro lascia l’amaro in bocca, il film scioglie la malinconia in un finale a base di lacrime, pioggia e un bacio appassionato. E la scritta «the end» mette fine all’inquietudine di Holly e alla nostra.
Effetti collaterali
Nel caso di Colazione da Tiffany gli effetti collaterali più diffusi sono stati riscontrati in seguito alla somministrazione del film piuttosto che del libro. Per via del suo lento e graduale rilascio di emozioni positive (che contrastano la malinconia del romanzo), il primo e più eclatante sintomo verificato su larga scala è il manifestarsi di una forma di dipendenza piuttosto forte, con conseguente compulsione a vedere e rivedere il film a ogni buona occasione (cioè sempre). Altrettanto comune è il rischio di venire contagiati dal fascino di Audrey Hepburn, sviluppando la pericolosa mania di imitarne lo stile. Tra le controindicazioni c’è la possibilità di ritrovarsi vestiti con tubino nero, guanti lunghi, tiara in testa, filo di perle, lungo bocchino in una mano e bicchiere di champagne nell’altra, ma l'effetto potrebbe essere diverso da quello provocato dall’attrice. Lo dico per mettere al riparo da eventuali delusioni scottanti. Ricordatevi che Holly cura le paturnie guardando le vetrine di Tiffany, non entrando dentro la gioielleria. Voi fate lo stesso guardando il film e Audrey, non calandovi nei suoi panni, per quanto irresistibilmente glamour.

Commenti

Non ho mai particolarmente amato Truman Capote, ma ho sempre venerato Audrey, per cui, in omaggio al Toro che è in lei (nasce il 4 maggio, ragazzi!), ho letto anche questo tomo.
Truman Capote “Colazione da Tiffany” Repubblica Novecento euro 4,90
[pubblicato il 31 luglio 2011]
Il fatto è che Holly sarà sempre legata ad Audrey, e leggere ora il racconto lascia un po’ spaesati (si potrebbe aprire un dibattito su libri e film?). Sarà poi che Capote non riesce a piacermi; certo non ho letto tantissimo, e soprattutto non ho ancora affrontato “A sangue freddo”, ma questa colazione non mi è piaciuta troppo. Comunque facciamo uno sforzo di dimenticarci di Audrey, dei “Vermi” (nelle meno di cento pagine del libro, il termine compare verso pagina 80), ed anche della colazione (che si cita a pagina venti, in meno di due righe). E rimaniamo per ora al libro. Un racconto dolente di un piccolo spaccato della bohème di New York. Scrittori spiantati, fotografi giapponesi, miliardari arroganti, ambasciatori brasiliani, amiche balbuzienti e baristi saggi. Tutti gli ingredienti per fare una piccola miscela calibrata, un buon gin fizz (non un martini cocktail). E lei, ingenua o forse no, illumina con i suoi tocchi di lucida follia questo mondo un po’ squallido, un po’ chic. In realtà, non succede gran che, è solo un filo di ricordi, che, saltando qua e là, andando avanti ed indietro nel corso del tempo, ci fa innamorare di questa ragazza in cerca di successo, ma in un mondo cattivo e torbido. Capote infioretta le pagine di qualche sentenzina, e tenta di inzeppare il testo con tiepidi aforismi. Ma non graffia, non affonda. A volte sbaglia il tiro (come quando bolla il brasiliano spaesato di essere ‘fuoriposto come un violino in un’orchestra jazz’: ma Stéphane Grappelli allora? O Joe Venuti? Per non parlare di Jean-Luc Ponty, che verrà però qualche anno dopo?). Sembra girare un po’ in tondo (ma mi piace di più quando lo farà Paul Auster in atmosfere compatibili qualche anno dopo). Il vero punto forte (rispetto al film) è il suo essere non consolatorio, al fine. Qui niente lieto fine, niente gatto ritrovato sotto la pioggia. No, qui Holly scompare, ed è proprio grazie a poche sparse notizie che arrivano vuoi dal Sudamerica vuoi dall’Africa che lo scrittore alter ego ce ne parla e ci racconta questa storia. Che anche altro afflato avrebbe avuto se, come Capote aveva suggerito, fosse stata impersonata da Marylin. Altra storia. Altro film. Film che, a parte Audrey, non ha altri grossi atout. Perché al solito, Hollywood qui stravolge, fa dello scrittore Paul un gigolò mantenuto, e sparisce l’amica balbuziente. Ma si sa, il Cinema americano stravolge tutto pur di fare cassetta. L’unica cosa di veramente buona è la colonna sonora con quel Moon River da favola. E l’unica cosa veramente esilarante è Mickey Rooney nella parte del fotografo giapponese. Ma qui si parlava del libro. E della scrittura di Capote, che, alla fine dei conti, a me irrita. Boh, speriamo in altro. Ma ora vado a rimettere la punta ideale sul vinile consumato e sentire ancora una volta “…Wherever you're going, I'm going your way…”.
“La patria è dove ci si sente a proprio agio. Io la sto ancora cercando.” (87)
“… non sapere che cos’è tuo finché non lo butti via.” (93)

Finalino


Non so se ci sia modo di curare la tristezza con Truman, con Audrey, o con Grazia Fiore, ma riprendo le ultime righe, senza andare a vedere le vetrine di Tiffany, e canto “Two drifters, off to see the world / There's such a lot of world to see … Wherever you're goin' / I'm goin' your way” (Due vagabondi, in giro per il mondo / Ci sono tante cose da vedere … Dovunque andrai / io sarò con te). Lacrime e “The end”.

domenica 13 novembre 2016

E così vorresti ... - 13 novembre 2016

Un bel duello italo-francese a suon di saggi e di assaggi. Seppur vinto dai francesi, che approfittano della mia passione per Augé e del bel libro sulla vecchiaia senza età. Ma anche non dimentico di pubblicare il piccolo scritto di Leiris ad un anno dalla strage del Bataclan. Mi ha un po’ deluso il memoir di Feltrinelli. Mentre non mi delude mai (finora) Culicchia. E così vorresti fare il saggio? Meglio continuare a scrivere le trame.
Carlo Feltrinelli “Senior Service” Feltrinelli s.p. (prestito di Fako)
[A: 03/12/2015 – I: 30/04/2016 – T: 08/05/2016] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 430; anno 1999]
Mi aspettavo molto di più dalla lettura di questo memoir familiare. Alla fine però il figlio Carlo non riesce, se non in piccola parte ed in alcune situazioni, a restituirmi l’immagine della figura interessante e controversa del padre Giangiacomo. Innanzi tutto perché la scrittura non coinvolge, non ci fa partecipi. Quasi che Carlo veda il padre nello scorrere di un film, di cui conosce gli interpreti ma sono degli attori, e non delle persone a lui vicine (e presumibilmente care). Idealmente è come se il racconto si spezzasse in tre fasi: dalla notte dei tempi alla presa di coscienza di Giangiacomo, da qui alla rottura con il partito, contemporanea o quasi con le due grandi avventure editoriali (Zivago e Gattopardo), e poi l’ultima parte fino alla clandestinità ed alla non ancora completamente acclarata morte. La difficoltà, nella lettura, oltre a quell’aria “esterna” che dicevo, è anche la presenza di numerosi inserti con brani, testimonianze, racconti in prima persona di persone presenti agli avvenimenti. Nell’intento di creare un’atmosfera di verità oggettiva in una vicenda che più soggettiva non potrebbe essere. Facciamo parlare Tizio o Caio, in loro avrete fede, più nelle mie parole che forse, in quanto figlio, sono di parte. Così sembra dire Carlo. Ma l’intento riesce solo in minima parte. Quello che più riesce è appesantire il discorso. La parte migliore, quella che più rimane, è la vicenda feltrinelliana dal ‘45 al ’56. Cioè dalla fine della guerra (e GG aveva 19 anni, essendo nato nel ’26) cui aveva partecipato alle ultime battute come partigiano in Toscana, acquisendo quella coscienza di un mondo altro rispetto a quello “dorato” sia del padre Carlo che del patrigno Luigi Barzini jr. Se vogliamo invece ripercorrere le tappe cronologicamente, la prima parte, pur interessante e ben fatta, si perde un po’ nella memoria. Le origini della famiglia, nei meandri dell’Ottocento, con la nascita della “Fabbrica Legnami Fratelli Feltrinelli”, che tanta fortuna fece, e consentì alla famiglia di avere un inizio del Novecento agiato. Con il nonno Carlo (nonno dello scrittore) che assume tante cariche, presiede la Banca Feltrinelli, poi entra nei consigli d’Amministrazione dell’Edison, e di tante industrie all’avanguardia. Carlo che sposa Giannalisa, da cui nel ’26 avrà Giangiacomo e nel ’27 Antonella. Poi un ricordo personale, quando si descrive il viaggio al Cairo di Giannalisa e Carlo Feltrinelli nel 1928, con sosta all’Hotel Semiramis, hotel sempre presente nelle mie memorie (ed in molti scritti). Un albergo che sono contento di aver visto più e più volte. Carlo è comunque un liberale, non si allinea al fascismo imperante, e nel ’35 muore d’infarto. Le industri rimangono in mano allo zio, in attesa che GG cresca. Poi viene la guerra, viene la maturazione del nostro, la sua iscrizione al PCI, e tutta la parte di vicenda che segna le basi dell’impero Feltrinelli come lo conosciamo ora. Dicevo la parte migliore, anche se, qui come altrove, il Feltrinelli privato è sempre lasciato in ombra. Si accenna di sfuggita alle mogli. Ben quattro, alla fine. Bianca Delle Nogare dal ’47 al ’56, poi Ninni De Stefanis dal ’56 al ’64 (ma si separarono già dopo un anno, senza che GG pensasse a scioglimenti o divorzi), Inge Schöntal dal ’60 (sposata in Messico) al ’69, ed infine Sibilla Melega dal ’69 fino alla morte. Solo Inge sarà solidale con il Feltrinelli uomo, solo Inge gli darà un figlio (appunto Carlo, il cui nome completo è in realtà Carlo Fitzgerald, forse per lo scrittore forse per Kennedy, chissà?), solo Inge, con Carlo continuerà l’avventura editoriale, quella che continua tuttora anche se Inge ha 85 anni (e GG a giugno ne avrebbe fatti 90!). Sono i dieci anni cruciali, quelli dei rapporti (tesi) con Togliatti, quelli dell’Ufficio Studi, quello dei tanti personaggi che giravano allora per il mondo (quelli che vissi all’inverso, essendo invece gli anni in cui mio padre, la mia antenna in quella parte di mondo, si era ritirato dalla politica, prima di tornarvi, attivo, pimpante e partecipe, solo a metà degli anni ’60). Personaggi che portano uno strano manoscritto alla casa editrice, di un autore russo che non riesce a pubblicare in patria. Non entro nelle vicende, ma è la parte migliore, quella che porterà alla pubblicazione de “Il dottor Živago”. Ed a ruota con la scoperta anche del manoscritto di Tomasi di Lampedusa e l’uscita de “Il Gattopardo”. Momenti epici, che faranno della casa editrice un punto fermo nell’editoria mondiale. Poi arriva il ’56, le vicende d’Ungheria, l’allontanamento progressivo dal partito, la vicinanza alla sinistra radicale. Tutta la vicenda dell’ultima parte della vita di GG. Il fallito colpito di stato del ’64 (di cui si seppe solo molto a posteriori, ma che GG aveva indicato in alcuni suoi libelli). Il ’68, ma soprattutto la reazione a quelle vicende, con le bombe di Piazza Fontana, e con il progressivo passaggio alla clandestinità di GG. Sino alla morte, indecifrabile ancora, lì su quel traliccio di Segrate, il 14 marzo del 1972. Il figlio Carlo tenta di farci seguire il percorso umano e politico del padre. Tenta di ricostruire anche tutte le vicende ancora oscure degli anni dal ’69 al ’72. Ma a me questa parte, pur vicina nel ricordo, è rimasta più oscura nell’analisi. E non entro qui in tutti i risvolti che sono presentati. Non entro nei giudizi posti su vari personaggi pubblici: uno su tutti, Valerio Riva, che Carlo sembra indicare più come spia che come giornalista. Non entro nell’idea terzomondista di GG, che sta in Centroamerica proprio negli anni dell’inizio della rivoluzione cubana, quando cercando di incontrare Hemingway, si “innamora” del castrismo e del terzomondismo (per non dimenticare che a ruota nel ’60 sposa la fotografa Inge in Messico). Sono tutte parti che vanno lette, magari discusse sul filo dei ricordi e di altre testimonianze di parti diverse. Quello che so, ma che sapevo anche prima, è che la verità in questi frangenti non emerge, né potrà mai farlo. La storia è fatta dai vincitori, gli sconfitti avranno sempre una figura monca nel grande affresco della vita. Alla fine, devo dire che la storia contenuta nel libro mi ha fatto piacere leggerla. Meno la scrittura, tanto che il giudizio complessivo non raggiunge la sufficienza. Però non posso esimermi dal ringraziare il mio amico Fako che, con il suo prestito, mi ha costretto a leggere un libro che andava in ogni caso letto.
Giuseppe Culicchia “E così vorresti fare lo scrittore” Laterza euro 9,50 (in realtà, scontato a 8,07 euro)
[A: 01/09/2015 – I: 07/05/2016 – T: 11/05/2016] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 150; anno 2013]
Il titolo non ha il punto interrogativo, così che non si possa cadere nel plagio con il libro di Bukowski. Che poi è un libro di poesie uscito postumo, con tutti i temi cari al nostro scrittore ubriacone. Un titolo che Culicchia trasforma in affermativo, per poi dedicarsi ad una scrittura a ruota libera sui fasti (pochi) ed i nefasti (tanti) del mestiere di scrittore. Lasciando in finale, ed è un bene, e bisogna leggerla, la poesia di Bukowski (ne troverete senz’altro una versione online, che è molto diffusa, per cui non ve la riporto). Il libro è in ogni caso di difficile catalogazione, una sorta di gradita affabulazione, con qualche ridondanza, ma anche con spunti da riprendere. Non è certo un saggio (anche se in mancanza di altri posti l’ho avvicinato ad altri di altrettanta difficile collocazione), né un manuale per scrittori. Forse, come sottintende l’autore, un avvicendarsi di pensieri durante la propria vita di scrittore. Laddove, partendo dal suo personale, Culicchia prova (spesso azzeccando, sempre con gusto) a generalizzare le proprie esperienze. Culicchia è inoltre un autore che a me sta simpatico a pelle, anche se ho letto un solo suo libro (“Torino e casa mia”, un viaggio amoroso e piacevole in una città che ho scoperto solo in tarda età). Prima o poi leggerò altro, quindi non entrerò a gamba tesa sparando giudizi drastici, del tipo questo libro è meglio di quello, il tal altro libello è una cagata pazzesca. Altri lo fanno, ma io recensisco e solo tangenzialmente critico. Per tornare al nocciolo duro della narrazione, le scarne 150 pagine passano in rassegna i tre stadi attraverso i quali si estrinseca la carriera di una persona che riesce a farsi pubblicare i propri libri. Come tutti, al primo libro, ed in particolare se il primo libro è pubblicato in giovane età, si viene etichettati come “Brillante promessa”. Uno stadio duro, in cui il pubblicato autore si crogiola di belle critiche, di bei dibattiti, ed è assediato da potenti invidie. Da chi non riesce a pubblicare, da chi ha appena pubblicato, è diventato una brillante promessa, ma questo primo libro di questo nuovo autore l’ha subito declassato al secondo stadio. Lo stadio, ampio, forse il più grande di tutti, quello di “Solito stronzo”. Lo stadio di tutti coloro che pubblicano il secondo libro, ed ovviamente ne ricevono critiche in genere e per svariati motivi, negative. I due principali motivi delle critiche negative sono poi uguali ed opposti. Hai scritto un libro che riprende i temi del primo, allora stai scrivendo sempre la stessa storia. Hai cambiato registro, allora hai tradito lo spirito del primo libro. Solo in veneranda età, solo passando forche caudine a volte insormontabili (e spesso invalicabili ai più) raggiungerai la pace del terzo stadio, quello di “Venerato maestro”. Ma sempre, in ogni stadio, in ogni situazione dovrai: combattere con i responsabili editoriali, sottostare alle dittature dei responsabili del marketing, sorbirti, con il sorriso sulle labbra, le sempre uguali domande dei sedicenti lettori alle presentazioni pubbliche delle tue opere. Quelli che si alzano dicendo “Vorrei fare una domanda provocatoria” e poi si biforcano in domande banali (“quanto c’è di autobiografico nel suo libro?”) o in dissertazioni che non arrivano mai ad una domanda. A questo punto, quello che si può estrapolare con un po’ di fantasia, saltabeccando tra le pagine, sono alcuni consigli, ed alcuni suggerimenti. Primo fra tutti, passare direttamente dal primo al terzo libro, facendo saltare le contumelie sulla mancata coerenza tra il primo ed il secondo. Altro chiodo fisso di Culicchia è l’avversione (caustica ma coerente) al “Fabio Fazio show”, non perché sia fatto male, ma vedendolo nell’ottica (forse a volte radical-chic) di un “Maurizio Costanzo show” del terzo millennio. E poi tirarsela alla David Foster Wallace (ma su DFW ci sarebbe da fare un discorso lungo e contorto, che non essendo io mai riuscito a separare l’autore dall’uomo, non sono ancora mai riuscito a leggerne un libro). Fino alla tirata che riporto sotto, che esemplifica il difficile rapporto tra l’autore ed il contesto letterario (ma è un discorso che va oltre la carta stampata, indirizzandosi a tutti i miei amici ed amiche che sono personaggi pubblici o quasi, e sulle cui frasi bisognerebbe fare una riflessione seria, migliore di quella che, ad esempio, se ne può fare paragonandone gli esiti al libro di Corrias “Dormiremo da vecchi”). Un libro gradevole, un autore a me simpatico, una lettura distensiva che non annoia. Mi sembra che ci siano tutti gli ingredienti per una sana lettura. Che consiglio, salutando amichevolmente Culicchia, sperando anche lui legga queste righe con l’affetto con cui io ho letto il suo libro.
“Dato che per carità tutto può darsi, se proprio ci si tiene l’unica è cercare di farsi accettare dal milieu intellettuale … Il che comporta non di rado una serie di piccoli accorgimenti. Occorre infatti imparare a praticare l’arte del paraculismo ed eccellere in quella del salamelecco, o se preferisci delle pubbliche relazioni, facendo in modo da agganciare le persone giuste, ovvero quelle che detengono il potere all’interno dell’industria culturale, politici e assessori compresi, e come usa dire sapersi muovere. Fondamentale è cercare di fare il possibile per non crearsi nemici, ma al contrario tessere alleanze, in un gioco all’insegna del do ut des che alla fine porta sempre i suoi frutti. Cerca quindi di essere sempre gentile e disponibile a trecentosessanta gradi almeno con coloro che contano, e di salutare sempre tutti con grandi baci e abbracci, e con trasporto, entusiasmo, il sorriso sempre pronto, gli occhi che brillano. Comprese le compagne, le amanti, le mogli. O i compagni, gli amanti, i mariti. Se poi un giorno ti venisse offerto un qualunque incarico, non limitarti a ringraziare, ma tramutati in zerbino. Solo così avrai qualche possibilità. Sempre che la cosa t’interessi davvero, naturalmente. E dando per scontato che tu abbia lo stomaco per guardarti allo specchio, la mattina, quando ti svegli.” (100)
Antoine Leiris “Non avrete il mio odio” Corbaccio s.p. (regalo di Alessandra)
[A: 07/05/2016– I: 11/05/2016 – T: 13/05/2016] - &&&& e ½  
[tit. or.: Vous n’aurez pas ma haine; ling. or.: francese; pagine: 120; anno 2016]
Non avendo collocazioni precise per un “instant book”, lo colloco tra i saggi, perché come i saggi è un libro che fa riflettere. Premetto subito che non è un “bel” libro, e che sicuramente sconta qualche forzatura editoriale. Ma è un libro che esce quasi a caldo, a valle di avvenimenti recenti, e sui quali, in vario modo, ci fa riflettere. Per questo “instant book” (che come ci suggerisce l’Enciclopedia Treccani, è un “libro scritto e pubblicato in tempi strettissimi, nel quale viene raccontato, interpretato e commentato un noto avvenimento della cronaca recente”) l’avvenimento cui ci si riferisce è l’uccisione, nella famigerata “strage del Bataclan” di Luna- Hélène Muyal-Leiris, una, appunto, delle 130 vittime della strage. Lei era andata al concerto degli Eagles of Death Metal. Lui, Antoine, è rimasto a casa con il piccolo Melvil di 17 mesi. Hélène non tornerà più, vittima dell’insensato terrorismo. Antoine, pochi giorni dopo, pubblica un breve messaggio su Facebook, un messaggio dolente e forte. L’unico momento anche, in tutto il libro in cui si rivolge agli assassini, a coloro che immeritatamente pensano di combattere per un Dio che non può che essere anche lui ferito a morte da quelle pallottole. Antoine grida forte che tutto ciò non scatenerà in lui odio insensato, anche se certamente non ci sarà mai neanche il perdono. Ci sono troppe cose da portare avanti. C’è Melvil. Ma soprattutto c’è il suo amore per l’amata che esce forte in tutte le parole del messaggio. Dal messaggio forte, ripreso da tutti i media ed i social network del mondo, Antoine torna a guardare in sé, alla sua vita. A farsi domande, come quella, forte, lunga, grande, che riporto alla fine. Per sé stesso, per esorcizzarsi, per cauterizzare le proprie ferite, Antoine, giornalista, comincia a ripercorrere in forma di diario i giorni che trascorrono, a partire dal 13 novembre 2015. Lo fa in forma privata, perché Hélène è il suo grande amore ed ora è la sua grande mancanza. Non pontifica, non parla dei massimi sistemi. Sono i problemi giornalieri, l’andare avanti ogni giorno che affollano le sue righe. Potrebbe essere un’operazione di mercato, potrebbe uscire meno di quello che ci si aspetta. In realtà, c’è meno, ma c’è anche di più. Come ho detto, non c’è, volutamente, coscientemente, un’analisi del perché è successo, del come è successo, di cosa succederà dopo. Forse è monca in tutto ciò? Probabilmente, ma è anche una mancanza voluta. Antoine si concentra sulla sua vita, cioè sulla vita che comunque continua a scorrere dopo il 13 novembre. C’è Melvil, c’è il nido, ci sono le pappe, ci sono attività minute cui non si dava peso prima, tipo tagliare le unghie al bimbo. E c’è la vita stessa di Antoine, il funerale, gli amici che ci sono e che riescono a non essere pesanti e lugubri, come sarebbe troppo facile. C’è l’amico che stava con Hélène e che si è salvato. Appunto, poteva essere un libello di analisi delle tensioni che hanno portato al Bataclan, e ad altri attentati, e che ne porteranno ancora. In fondo Antoine Leiris è un giornalista di France Info e France Bleu, anche se lavora alla cultura, poteva partire in una pontificazione generale su tutta la materia. Ma lui fa una scelta minimale, ma essenziale. Sono altri quelli che faranno quel mestiere. Lui, come Pavese, pensa al mestiere di vivere. Vivere significa accudire Melvil, significa alzarsi la mattina, leggere il giornale, fare la spesa, mangiare, scrivere, sentire musica, prendere Melvil al nido, giocare con lui, fargli da mangiare, fargli il bagnetto, fargli le coccole, metterlo a letto, preparare la cena, leggere, ed infine cercare, spesso senza riuscire, di dormire. Per tutto questo ci vuole un coraggio che Antoine cerca di avere. Per tutto questo ci vuole un collante che lo tenga insieme. L’amore per Hélène. Non c’è tempo per odiare, che tutto fa sparire in una nuvola di buoni propositi e di cattivi pensieri. C’è solo la necessità di continuare a viere. Non ho mai, fortunatamente, auto un lutto così forte come quello di morti violente. Non so come io, come voi, reagireste a tutto ciò. Probabilmente non lo sa neanche Antoine, come riporto nella frase finale. Ma ne ammiro l’umanità. E penso sia la cosa migliore che ognuno possa mostrare di sé.
“E, tutt’a un tratto, ho paura. Paura di non essere all’altezza di quello che ci si aspetta da me. Avrò ancora il diritto di non essere coraggioso? … Il diritto di non essere capace.” (90)
Marc Augé “Il tempo senza età. La vecchiaia non esiste” Raffaello Cortina Editore euro 11
[A: 28/05/2016 – I: 01/06/2016 – T: 08/06/2016] - &&&&
[tit. or.: Une ethnologie de soi. Le temps sans âge; ling. or.: francese; pagine: 104; anno 2014]
Sempre piacevole e stimolante leggere gli agili volumi di Augé, soprattutto ora che, con l’avanzare dell’età (mia o sua?), preferisce pubblicare corte memorie piuttosto che ponderosi saggi ed io mi continuo ad interrogare sulla percezione personale del tempo. Vorrei solo iniziare con la solita critica ai titoli, dove tra l’originale e l’italiano, pur rimanendo un nucleo comune, sparisce il riferimento all’etnologia (ed è un peccato che questo libro andrebbe messo insieme a tutti quei riferimenti di Augé ai non-luoghi, ecc.) e compare quel richiamo sulla vecchiaia che è il leitmotiv del libretto, ma messo così in copertina, rischia solo di essere un inutile richiamo per le allodole. Augé, etnologo e scrittore, da intellettuale ed erudito ci invita infatti a riflettere su cose che a volte cerchiamo di ignorare, ci porta per mano a metterci di fronte a quello specchio che anno dopo anno rifletterà un volto diverso, irriconoscibile, lontano dall’immagine che ognuno di noi mantiene dentro (come da una delle frasi sotto riportate). Ed oltre le frasi-ricordo che sotto riporto, non posso fare a meno di citare lui ed altri con lui, perché qui le frasi sono difficili da esorcizzare per un povero tramatore come me. Stefan Zweig ne “Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo”, scriveva: “Così gli anni scorrevano, lavorando e viaggiando, imparando, leggendo, collezionando e gustando. Una mattina del 1931 mi sono svegliato: avevo cinquant’anni”. Augé prende, cita, riflette ed approfondisce il discorso, partendo dalla sua gatta e citando e commentando altri che attraverso la scrittura esorcizzano l’andar del tempo. La cosa che più mi ha colpito, sin dall’inizio è questo invito alla riflessione su come sia relativa la rappresentazione mentale della vecchiaia e su come questa muti a seconda della prospettiva dalla quale la si considera. Augé pensa alla sua gatta Mounette che lo ha accompagnato in una parte del suo percorso di vita, dall’infanzia all’affacciarsi all’età adulta, invecchiando mentre lui cresceva, senza mutare troppo nell’aspetto. Da giovane Mounette graffiava le braccia del ragazzo che incauto la provocava, e sceglieva come rifugio privilegiato il piano più alto della credenza, per poter dominare la situazione. Con gli anni – maturando il padrone e invecchiando la gatta – smisero le provocazioni e i graffi, mentre il luogo del riposo diventava sempre meno ardito: dall’alto della credenza allo schienale della poltrona, poi alla seduta della poltrona, finché la poltrona stessa funse da soffitto. Mounette ha attraversato placida le età della sua vita, adeguandosi nei comportamenti alle diminuite capacità fisiche, senza per questo mostrare segni di disagio. La disamina della vitta della gatta ci conforta quindi nell’affermare che la vecchiaia esiste, e dunque va accolta con il dovuto rispetto. Augé ci ricorda, a questo proposito, quanto già Cicerone affermava nel De Senectute: La vecchiaia “non ha il monopolio della debolezza e della cattiva salute, che possono affliggere anche i giovani. D’altro canto, le persone anziane devono avere cura della loro salute fisica e intellettuale, quelle che in età avanzata regrediscono nell’infanzia venivano considerati poveri di spirito. Certo, la vecchiaia limita alcune attività e tuttavia non esercita alcun effetto nocivo sulla mente di chi non ha trascurato di conservarne la vitalità. In altre parole: dimmi come invecchi e ti dirò chi sei stato.” “Conosco la mia età, posso dichiararla, ma non ci credo”, scrive Augé, facendo notare che la nostra età è definita dalla percezione che abbiamo di noi stessi – e spesso questa non coincide con l’età anagrafica. Tutto il libro lo sento allora come un invito a vivere pienamente il presente, se non altro per evitare, per quanto possibile, di rimanere vittime di due perniciose nostalgie. La prima: “Mi piacerebbe ritrovare quei giorni felici”. La seconda: “Se avessi osato agire”. No, io sono felice più ora che sono consapevole che allora quando, forse, non osavo agire. Ed ora, consapevole, agisco. E con motivo d’orgoglio affermo la mia età. È questa, è ora. E non accetto giudizi su di lei. Ma non ci si nasconde però dietro un dito. Ora, “canuto e stanco”, penso a chi si ritira, ed a chi muore. “Non si può invecchiare a lungo senza vedere molti amici cari e parenti allontanarsi o scomparire”. E con loro un pezzo di noi. Al tempo stesso subentra un’indifferenza crescente nei confronti della contemporaneità e degli altri. Alcuni riescono ad affrontare tutto ciò e adattarsi, domandando al loro corpo e alla mente solo quello che sono in grado di fare. Sono senza dubbio quelli che vivono meglio, l’esempio da seguire, se possibile. Ma dentro, io, tu, noi, siamo sempre gli stessi. Si, mio caro etnologo di quel non-luogo che sarò io dopo che non ci sarò, sono d’accordo con te. Tutti muoiono giovani.
“Scrivere è un po’ morire, ma un po’ meno soli.” (54)
“La visione di un film in una sala cinematografica è un’esperienza totalmente diversa da quella che si vive guardando un DVD o la televisione.” (75)
“È necessario leggere e rileggere [un libro n.m.] la relazione con un testo è viva.” (82)
“Tuttavia, quando mi guardo allo specchio e mi dico che sono invecchiato … ricompongo e riunifico il mio corpo … Invecchio, dunque vivo. Sono invecchiato, dunque sono.” (85)
“Che ce ne si rallegri o che lo si deplori … bisogna ben ammetterlo: tutti muoiono giovani.” (104)
Seconda domenica di novembre, ed allora eccovi una bella lezione di lussuria in allegato, con quadri, orecchini ed altri colori.

Mentre per il resto si continua a mettere in ordine le proprie carte, si pensa a qualche viaggio asiatico (di cui vi terrò conto se si concretizza), e si riflette su tutti i propri amici e sulla voglia di stare con loro. Sempre. 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

NOVEMBRE 2016
Una grande storia, un grande pittore, una ragazza e le sue decisioni. Un mese di lussuria per le nostre cure

LUSSURIA

Tracy Chevalier   “La ragazza con l’orecchino di perla”
Anche la lussuria ha la sua importanza, ovviamente. Senza non ci sentiremmo vivi. Eppure, quando si tratti di prendere decisioni, sarebbe meglio che restasse in secondo piano. Il desiderio umano è immensamente potente, ma è anche del tutto irragionevole, privo di buon senso e capacità di giudizio (e se è questo il vostro problema, in generale, v. Buon senso, mancanza di). Permettere alla lussuria di influenzare le vostre scelte, francamente, è altrettanto sensato che dare a un tredicenne le chiavi della vostra nuova Aston Martin e invitarlo a farci un giro.
Seguite l’esempio di Griet, la riflessiva, misurata domestica e musa di Johannes Vermeer nella ricostruzione che Tracy Chevalier fa del periodo che precede la realizzazione dell’omonimo quadro. La ragazza, di carattere umile, attira l’attenzione del pittore quando gli fa notare che ha sistemato il cavolo rosso e le carote in modo tale che i colori non contrastino tra loro, dimostrando di avere un occhio da pittrice. La prenderà come modella, e i due si rispetteranno a vicenda e lavoreranno tranquillamente nello studio di lui, fianco a fianco. Griet adesso parla di Vermeer come del suo «padrone» o, in modo ancora più eloquente, come di un anonimo «lui». Entrambi hanno insegnato all’altro nuovi modi per vedere le cose, e tra loro c’è stato un momento assai importante, significativo: Vermeer ha messo la propria mano sopra quella di Griet per mostrarle come usare il pestello e ridurre in polvere un pezzo di avorio carbonizzato per ottenere del pigmento nero, suscitando nella ragazza un brivido erotico tanto forte da farle perdere la presa. È l’inizio del corteggiamento; quando il quadro sarà finito, il desiderio sessuale - di entrambi - è lì alla luce di tutti, nel bianco scintillante degli occhi, nelle labbra umide e socchiuse, nel tessuto del copricapo, delicatamente avvolto e fermato intorno alla testa e, ovviamente, nello splendore, sul collo in ombra, di quella perla tanto incongrua quanto brillante.
Griet sa bene che nella Delft del Seicento una ragazza con le sue origini non può legarsi a un uomo dello status sociale di Vermeer. È un territorio molto pericoloso, e con la tensione sessuale che ribolle dalla pagina, capiamo che è in gioco il futuro stesso di Griet. La prosa attenta e concisa di Chevalier rispecchia la moderazione che si richiede a entrambi. Saranno in grado di trovarla, o prevarrà la lussuria?
Oh caloroso lettore, quando i tuoi ormoni minacciano di avere la meglio sulla tua testa, vattene in un posto tranquillo insieme a “La ragazza con l'orecchino di perla”. Lascia che quelle frasi eleganti e disciplinate temperino la tua passione e tengano a freno la tua lussuria. Fermati, rallenta, rifletti. Sei attratto da qualcuno con cui potresti condividere carote e cavoli? Altrimenti, prendi la tua eccitazione per quello che è, fai un respiro profondo e volta pagina.

Bugiardino

Ho letto con piacere il libro della Chevalier, nonostante il mio non grande amore per i romanzi “storici”. Che poi direi più che storico, pittorico e d’ambiente.
Tracy Chevalier “La ragazza con l’orecchino di perla” Neri Pozza euro 9,90
[trama pubblicata il 27 settembre 2015]
Ho un rapporto ambivalente con il romanzo storico. Da un lato mi intriga la costruzione di un intreccio a partire da elementi storici veritieri (cosa che spesso poi mi porta ad approfondire gli elementi stessi con lunghe ricerche wikipediche). Dall’altro mi deprime se l’aspetto romanzesco prende il sopravvento intrecciando storie poco verosimili. La signora Tracy Chevalier mantiene un corretto equilibrio da questi due poli, con una prosa scorrevole (non a caso è anche Master in Scrittura Creativa), lasciando solo un po’ a desiderare sul fronte pittorico in senso stretto. Che qui, come penso si sappia, si parla di pittura olandese del 1600, e di uno dei maestri del colore, Johannes van der Meer, noto a noi con la sua firma Jan Vermeer. Intrecciando una trama diagonale, incentrata sulla figura della giovane Griet, forse presa a modella dal pittore per uno dei suoi quadri più noti (“La ragazza col turbante” nota anche, appunto, come “La ragazza con l’orecchino di perla”), con l’intento di portarci nella cittadina olandese di Delft nel 1664, e con l’atelier e la pittura del maestro olandese. L’autrice ha buon gioco nel parlare del pittore, che poco di lui si sa storicamente. Si lascia però irretire da alcune teorie (verosimili ma non provate) sulle modalità della sua pittura minuziosa, aderendo a quella che è nota come "tesi Hockney-Falco", dal nome dei due pittori che l’hanno elaborato, sull’utilizzo di strumenti para-fotografici per entrare nel dettaglio dei propri modelli (come l’utilizzo della camera oscura). Lo fa con troppa incuranza della delicatezza del dettaglio. E questo mi ha lasciato un po’ perplesso. Di certo gli effetti di luce di Vermeer sono sorprendenti, come anche l’effetto di “fuori fuoco” presenti in alcuni suoi quadri. A parte questa tiratina d’orecchi, lo scritto scorre in maniera piacevole, facendoci realmente calare, a parte forse con qualche mancanza nel finale, dentro le atmosfere complesse dell’Olanda dell’epoca. Ma torniamo alla storia narrata dalla sedicenne Griet, giovane dalle grandi capacità percettive dei colori (ereditate dal padre esimio piastrellista) che, essendo la famiglia in ristrettezze economiche, viene inviata, controvoglia, a fare da cameriera presso la potente famiglia Vermeer. Che si sa le cameriere hanno la dubbia reputazione di rubare e soprattutto di dormire con i loro padroni. In casa Vermeer, la nostra fa amicizia con l’altra servetta, Tanneke, ma entra presto in contrasto con Cornelia, la più piccola di casa. Mentre il giovane macellaio locale, Pieter, comincia a farle una corte discreta, il freddo pittore scopre l’occhio artistico di Griet e comincia a chiederle aiuto nel mescolare i colori e, a volte, da fare da modella sostituta in alcuni quadri. Suscitando un po’ di gelosia in Catharina, la moglie del pittore, ma essendo protetta sia da nonna Maria, che da alcuni amici del pittore stesso. Ma la ruvida bellezza di Griet non sfugge invece a Van Ruijven, il magnate di Vermeer, che vorrebbe un dipinto insieme alla ragazza. Sapendo che in altre occasioni ciò ha portato scandalo, Vermeer arriva ad un compromesso: dipingerà Griet regalando il quadro a Van Ruijven. Nasce così il quadro che dà il titolo al romanzo. Ma gli orecchini sono di Catharina, che, sobillata dalla perfida Cornelia, decide di cacciare Griet. Qui la narrazione fa un salto di dieci anni, arrivando alla morte di Vermeer (morto appunto nel 1675 a 43 anni). Griet è sposata con Pieter, hanno due bambini (uno dei quali somiglia stranamente al pittore, anche se non sappiamo cosa Griet e Jan abbiano combinato). Alla morte di Vermeer, comunque, Griet è convocata a casa dell’artista, e la moglie le consegna i famosi orecchini. Vermeer era rimasto affezionato, così ci fa credere l’autrice, alla modella dall’occhio artistico, anche se non l’aveva mai più avvicinata. La parte migliore ritengo sia il nucleo centrale, con le descrizioni di alcuni quadri dell’artista (Tanneke che posa per “La lattaia” o Van Ruijven e la serva sedotta in “Il bicchiere di vino”) e le possibili tecniche da lui utilizzate per rendere vivaci i colori, e ben rappresentare le figure umane (che in genere sono donne). Un po’ tirata per i capelli la parte finale con l’eredità degli orecchini, quasi a voler saldare un debito d’onore di cui si può intuire ma non si sa. Una scrittura ed una lettura discrete, solo poco al di sotto di un gradimento pieno. comunque al fine ringrazio le mie libropeute (che spero non mi facciate ogni volta ripetere chi siano), per avermi suggerito questo libro. E se ne riparlerà ancora nel momento della cura. 

Conclusioni

Se lussuria, etimologicamente, sta per incontrollata sensualità, direi che la nostra Griet si ferma un passo prima. Forse non sarà la virtù opposta, quella temperanza che vuole avere un controllo, di testa, sulla propria pancia. Ma io ho letto il libro in ottica diversa. Lascio a voi la decisione.