domenica 29 maggio 2016

Maigret 5 - 29 maggio 2016

Termino questo intenso mese di maggio con un ritorno alla scrittura del nostro amico belga. Sempre un livello di interesse, con una serie di informazioni sull’intreccio di vita ed opere che ho preferito inserire nelle trame.
Georges Simenon “I Maigret – volume 4” Adelphi s.p. (regalo di mamma)
[A: 16/03/2014– I: 06/12/2015 – T: 16/12/2015] - &&&&   
[tit. or.: vedi singoli libri; ling. or.: francese; pagine: 675; anno 2013]
Siamo così arrivati al quarto volume, che ci regala un piccolo brivido di suspense: tra il 19° ed il 20° romanzo, Simenon sembra deciso nel disfarsi del commissario. Lo manda in pensione, lascia la casa di boulevard Richard-Lenoir. Simenon sembra soffrire dell’ingombrante personaggio che tuttavia gli dà sia una discreta notorietà, che molto da mangiare (i libri del commissario hanno un discreto successo). Una serie di coincidenti congiunture, di cui parlo più avanti, riusciranno tuttavia a riportarci il nostro eroe sulla scena. E ben al centro.
Titolo
Scritto
Uscito
Data
Luogo
Il pazzo di Bergerac
Marzo 1932
Scritto all’Hôtel de France et d'Angleterre, La Rochelle (Charente-Maritime)
Aprile 1932
Liberty Bar
Aprile - Maggio 1932
Scritto alla tenuta La Richardière, Marsilly (Charente-Maritime)
Luglio 1932
La chiusa n. 1
Aprile 1933
Scritto alla tenuta La Richardière, Marsilly (Charente-Maritime)
Giugno 1933
Maigret
Giugno 1933 – Gennaio 1934
Iniziato alla villa Les Roberts, sull'isola di Porquerolles (Var) e terminato alla tenuta La Richardière, Marsilly (Charente-Maritime)
Marzo 1934
I sotterranei del Majestic
Dicembre 1939
Scritto a Nieul-sur-Mer (Charente-Maritime)
15/10/1942
“Il pazzo di Bergerac”
[tit. or.: Le fou de Bergerac; ling. or.: francese; pagine: 9 – 142 (134); anno 1932]
Come si sta evolvendo Simenon e la sua scrittura! Abbandona Antibes ed i fasti mediterranei (ma su cui ritorneremo nel prossimo romanzo) e si trasferisce verso il Nord, laddove la luce gli ricorda quella dei suoi primi momenti di scrittura felice (l’Olanda e la navigazione sui canali tra Francia e Belgio). E si ferma a La Rochelle, sull’oceano Atlantico, tra Bordeaux e Nantes. Con lui sono la prima moglie Tigy e Boule, la “femme de chambre” (nonché sua amante ufficiale). Sta trattando l’acquista di una tenuta in campagna, ed intanto, qui nell’albergo dove trascorre i suoi giorni atlantici butta di getto un nuovo Maigret. Dopo l’abbuffata dei tre anni precedenti, ingolfati da 15 avventure del nostro commissario, ora ne rallenta la scrittura, preso anche da romanzi “puri”, cui lui voleva affidare molto del suo futuro da scrittore, ma che meno gli davano da mangiare dei solidi romanzi del commissario. Visto che si trova in una situazione precaria, fa in modo che anche la vicenda sia discretamente anomala. Maigret, oppresso dal caldo parigino decide di andare a trovare il suo amico ex-commissario Leduc, ora in pensione. Ma non riesce a dormire in cuccetta, si incuriosisce del comportamento del suo vicino di letto. E quando questi, nottetempo, vicino a Bergerac, approfittando di un rallentamento del treno, salta giù dal vagone, Maigret lo segue. E nei boschi intorno, viene ferito gravemente da un colpo di pistola alla spalla. Ricoverato all’ospedale, guarisce ma rimane convalescente. E da qui si dipana la strana storia di una sua inchiesta in cui lui rimane nella sua stanza d’albergo, curato e riverito, cercando di risolvere i misteri della cittadina. Infatti, nei mesi precedenti almeno due morti misteriose sono avvenute nei boschi di Bergerac. Due donne sono state aggredite, e poi uccise con uno spillone al cuore. C’è un pazzo che si aggira per la campagna francese? Il secondo elemento di novità (che non si ripeterà spesso) è la presenza della signora Maigret, che il nostro commissario utilizza sia come spalla / infermiera, sia come elemento indagatore (in mancanza del fido Lucas). Ovviamente Maigret non è convinto della presenza di un pazzo, ma si accanisce ad indagare gli strani rapporti che intercorrono nella cittadina di Bergerac. C’è il procuratore che sembra deciso a chiudere in fretta il caso, con qualche mossa sospetta. C’è il commissario locale che sembra navigare in alto mare. C’è lo stesso Leduc che ha un affaire con una signorina di Bergerac. E c’è il medico, dottor Rivaud, che conduce uno strano ménage con moglie trista e cognata giovane e piacente. In mancanza di motilità, Maigret convoca a turno i vari personaggi in albergo, utilizzando il suo modo d’indagine preferito: il colloquio. Perché sempre sostiene che il cattivo di turno qualcosa si lascerà sfuggire, coinvolgendo di volta in volta sia l’albergatore che la signora Maigret nei suoi procedimenti indagatori. Ben presto nella sua mente, il cerchio si stringe intorno al procuratore ed al medico. Ma inopinatamente viene trovato un morto nei boschi, la cui descrizione coincide con quella del feritore di Maigret. Tutto risolto allora? Maigret deve chiudere scusa? Non sia mai. L’agente – signora Maigret scopre che il morto risulterebbe già morto anni prima ad Algeri (era un truffatore ed assassino) e scopre che il dottore non risulta essersi mai laureato. Possibile? Guarda caso, poi, viene anche lui da Algeri. Come la moglie. Come la cognata. E come la suocera che Maigret con uno stratagemma fa venire da Bordeaux a Bergerac. E qui, in un drammatico finale, si scopre come per l’appunto sia il nostro commissario ad avere ragione. Il morto era il padre del dottore, era certo un bandito ed un assassino. Motivo per cui venne arrestato ad Algeri, ricoverato nella clinica del figlio, che la incendia, ne scambia il corpo e lo fa fuggire in America. Nel frattempo sposa la fragile Germaine, che però è cagionevole. E mentre attende nuovi documenti in Spagna, si innamora della sorella Françoise, di sette anni più giovane e di certo più bella. Sotto le nuove spoglie avvia la convivenza a tre in quel di Bergerac. Peccato che il padre va fuori di testa anche in America ed uccide delle donne con uno spillone nel cuore. Ritorna in Francia, riprendendo una “onesta” carriera di truffatore, spesso foraggiato dal figlio. Traffici che il procuratore scopre. Per tacitare il tutto, Rivaud convince Françoise a circuire il procuratore, fargli credere di aver un figlio da lui (figlio che è in realtà del dottore). Ma il padre “fuori di testa”, torna ancora a Bergerac ed anche qui continua la sua carriera di assassino. Rivaud, nella famosa notte del ferimento del commissario, fa in modo di seguire il padre ed ucciderlo lui stesso. Tuttavia le confessioni della madre stanno mandando tutto all’aria, e, vistosi perduti, Rivaud e l’amante si suicidano abbracciati, lasciando il procuratore con un palmo di naso (e senza figli) e lasciando una famiglia distrutta ma con alcune possibilità economiche (Rivaud era discretamente agiato) in modo che nonna, moglie e nipote possano continuare la loro non più tranquilla esistenza. Il romanzo è decisamente avvincente, si sente che Simenon sta approfondendo la sua tecnica. Non disdegnando appunto di utilizzare elementi nuovi: un’indagine da seduto (come farà vent’anni dopo Hitchcock in “La finestra sul cortile”), la presenza attiva della signora Maigret, il commissario che partecipa alle azioni e viene ferito. E nessuno ci toglie dalla testa che utilizzi modi poco nascosti per ripercorrere i suoi momenti privati (il dottore e le sue donne, come lui, Tigy e Belle?). Un buon punteggio per un romanzo di ottanta anni fa.
“Liberty Bar”
[tit. or.: Liberty Bar; ling. or.: francese; pagine: 143 – 272 (130); anno 1932]
Finalmente la tenuta de “La Richardière” è terminate, e la famiglia Maigret si installa nella grande casa. Georges ha il suo studio, dove continua a scrivere a tamburo battente. Tigy ha un atelier dove continua a dipingere. Belle tiene sotto controllo ed in ordine il resto (compreso Simenon). È anche vero che il nostro scrittore si avvia alla soglia dei trent’anni, e sente sempre più l’impulso di scrivere altri romanzi, più “duri e puri” come scriverà nella sua autobiografia. Intanto Maigret gli dà da vivere, consentendogli la tranquillità economica che gli permette di fare anche altro: scrivere quello che vuole, viaggiare, fare il giornalista. Insomma tranquillità, ovvio, ma in fondo rimane qualche irrequietezza. E questo 17° romanzo ne esemplifica alla meglio i sentimenti. Primo elemento che notiamo, l’ambientazione: da pochi mesi ha lasciato la Costa Azzurra, e qui Maigret viene inviato in missione, al fine di chiarire un omicidio senza troppo muovere le acque, proprio ad Antibes. E tutta la vicenda, in cui il nostro commissario sembra non voler quasi mai prendere di petto le situazioni, si svolge lì, tra Antibes e Cannes, su quei lunghi chilometri di belle ville, grandi alberghi, casinò, ma anche piccoli porti e luoghi “derelitti”. Il secondo è la presenza, in due situazioni speculari sebbene diverse, di una coppia di donne. Da un lato c’è Gina Martini giovane ed un po’ troppo truccata con la madre appesantita dagli anni ma ancora con velleità in spirito (se non in corpo). Dall’altro Jaja, minata da una vita dissipata e dall’alcool, con la giovane Sophie, piccola prostituta di altrettanto piccolo cabotaggio. In mezzo, il morto, William Brown. Anzi, l’ucciso, visto che muore per un colpo di pugnale alle spalle. Segno che, anche se si vogliono calmare le acque, è ben difficile farlo passare pe un suicidio. Perché William è originario di una grande famiglia australiana dedita al commercio della lana, ha lasciato da decenni la patria, in rotta con la famiglia, ed ora da quindici anni vive lì, in Costa Azzurra. Ha anche fatto (pare, ma poi il discorso sfugge) dei lavori per l’Intelligence francese durante la Guerra (siamo nel ’32, quindi la Guerra è una sola). Ma ora la famiglia gli ha tagliato i viveri, e lui si rintana, con Gina e la madre, nella villa di Antibes. Salvo assentarsi una volta al mese, per qualche giorno, tronando ubriaco ma con i soldi per tirare avanti un altro mese. Il sornione Maigret, girando, guardando, annusando l’aria, trova il buon rifugio dell’australiano. Una volta al mese va a Cannes, al Liberty Bar gestito da Jaja. Dove ritrova la sua vecchia indole, quella di accumunarsi agli altri senza domande e senza parlare. Quella di bere fino a stordirsi. Quella di passare dalle rudi grazie di Gina a quelle di … E qui cominciano i dubbi, che Sylvie è giovane, piacente, ma un po’ traviatella. E Jaja è materna ma molto poco attraente. Comunque William lì si trova e si ritrova. E sa anche che prima o poi morirà, e per tirare un ultimo colpo alla famiglia australiana, redige un testamento in favore delle sue quattro donne. E lo fa al Liberty. Qui, ovviamente, luogo comunque di malaffare, comincia a precipitare la situazione. Sylvie ha un protettore, il losco Joseph, che si impadronisce del testamento e tenta di venderlo ad Harry, il figlio di William, che una volta al mese passa per Cap Ferrat dove mantiene una sua lussuriosa amante. Ma la vendita non basta, che William potrebbe scriverne altri. E benché Harry tenti di assoldare Joseph per l’assassinio, William viene ucciso prima. Perché le due donne del Liberty si accorgono di averlo entrambe nella carne se non nel cuore. Ed una, più gelosa dell’altra, lo pugnala mentre William trona versa Antibes, dove arriva e muore sulle scale di casa. Qui, Simenon torna anche all’antico, ai primi momenti in cui Maigret ha empatia per i suoi personaggi diseredati. E poiché gli era stato detto di non sollevare troppa polvere, lascia andare tutto com’è. Le donne Martini avranno la casa ed una piccola rendita. Jaja ha il fegato a pezzi e pochi mesi di vita, che trascorrerà curata da Sylvie, entrambe alla ricerca di una consolazione ed un reciproco perdono. Sylvie continuerà la sua triste vita, magari senza Joseph che Maigret fa arrestare per il ricatto. Harry pagherà a tutti qualcosa, ripulendosi la coscienza. Un romanzo tutto d’atmosfera, ma dove la scrittura prende già un piglio diverso. Le frasi sono un po’ spezzate. Non c’è il didascalismo del primo Maigret, quasi nel tentativo appunto di utilizzare una letteratura colta. Il risultato è comunque apprezzabile, di sicura e buona fattura.
“Quando uno ne aveva visti di tutti i colori e sperimentato ogni sorta di vizio, non gli restava, come estremo rifugio, che il Liberty Bar.” (185)
“La chiusa n. 1”
[tit. or.: L’écluse n° 1; ling. or.: francese; pagine: 273 – 406 (134); anno 1933]
Allora, sebbene installato nella campagna della Charente come detto nella precedente trama, il nostro Georges è irrequieto, e si regala un lungo giro in Africa, che dura quasi un anno. Quindi inizia il ’33 con una nuova “gita” verso il Nord, passa in Germania, scrive articoli, ovviamente sul nazismo che avanza. Ma soprattutto, sta trattando a suon di franchi il passaggio dalla casa editrice Fayard a quella più prestigiosa e letteraria di Gallimard. Inizia a buttar giù altri romanzi, senza Maigret. E quando torna al suo commissario, sente quasi di volersene staccare. Come fece, senza riuscirci, Conan Doyle con il suo Sherlock. Ecco allora che impianta questo ottimo romanzo praticamente di scarso giallo e di mota umanità. Dove tra l’altro Maigret annuncia che alla fine dell’inchiesta andrà in pensione, e si ritirerà in campagna, con la moglie, lasciando, dopo tanti e tanti anni, la casa di boulevard Richard-Lenoir. Ed è un’inchiesta che riporta Maigret ai primi passi, quando veniva chiamato fuori Parigi, ad indagare nel mondo dei marinai d’acqua dolce (andate a rileggervi “Il cavallante della Provvidenza” ad esempio). Un’inchiesta dove ricompare anche il fido Lucas, in un ruolo tuttavia ben marginale. Ora però, le chiatte e le chiuse (ed anche i pedinamenti di Lucas) sono invece a Parigi. Siamo alla chiusa n.1, vicino al Canal St. Martin, dove dalla Senna ci si allontana verso la Villette. E scendendo per di là, si prendono i canali che portano al Nord, verso il Belgio, l’Olanda ed il mare. Ma si può anche passeggiare sul lungosenna, arrivando in un paio di chilometri (ma forse anche meno), all’Ile de la Citè, ed alla Taverne Henry IV, foriera di buon tabacco, di buoni vini, e per chi ha voglia di curiosità, scendendo i gradini verso il fiume, anche dell’originale della Statua della Libertà. Ma questi sono i miei ricordi parigini. Perché Maigret è chiamato ad indagare, almeno all’inizio, sul tentativo di uccidere Emile Ducrau, ora armatore di una delle più grandi flotte di chiatte del posto, che nasceva come battelliere, e che, con ingegno, sudore, e giusti investimenti, è diventato una potenza nel ramo. E tutti lavorano per lui, anche Gassin che fu compagno di chiatte agli inizi. Solo un “problema” ha il nostro Ducrau. È attratto dalle, e non sa rinunciare alle, donne. Ha una moglie, affettuosa ma scialbina, che lui tratta come serva, ma nelle cui braccia sa trovar rifugio. Ha installato un’amante al piano di sopra della casa sul fiume, stancandosene presto, quando questa, tolta dal mondo dorato di Chez Maxim, a casa diventa anch’essa una donna che bada a stirare, cucinare e riposare. È anche andato a letto con la moglie di Gassin, mettendola incinta della piccola Aline, che sfortunatamente nasce un po’ ritardata. Ducrau non dice nulla, la signora muore, e Gassin alleva la figlia, forse con sospetti, ma con tanto affetto. Ducrau va e viene per i canali, va a trovare anche Aline, che nella sua innocenza ne ha paura (e tutti pensano che lui ci vada per sesso e non per amore). Ha anche due figli Ducrau: Berthe antipatica, con marito antipatico anche di più, e Jean, fragile, forse gay, ammalato che passa messi nella chiatta con Aline, senza mai toccarla (appunto, timidezza e gaiezza?). E quando Jean pensa che il padre abbia violato Aline, che appunto partorisce e si prende cura del suo piccolino, va fuori di testa. Ducrau viene spinto nel fiume con una coltellata, e Jean si autoaccusa del fatto e si impicca. Ma Ducrau sa che non era il figlio. Che aveva sorpreso un guardiano della chiusa più a monte (quello che aveva anche messo in cinta la povera Aline) a spiare sua figlia da un oblò. Nella prima colluttazione Ducrau ha la peggio. Ma si rifà, e pochi giorni dopo, uccide il casellante. In tutto ciò, il pensionando Maigret si aggira lungo il fiume. Guarda tutti negli occhi, parla nei bar e nelle taverne, e ben presto si fa un’idea di cosa sia successo. Si fa anche l’idea che Gassin, accumulando rabbia, tenti di uccidere Ducrau. Ma il nostro sciupafemmine ha una personalità talmente forte che schiaccia anche il povero Gassin. In una domenica di pranzo conviviale, l’ultima domenica del commissario Maigret, Ducrau, stanco e deluso, confessa le sue malefatte a Gassin e Maigret. Il primo si uccide anche lui. Il secondo chiude la sua carriera arrestando Ducrau. Siamo al 14 aprile 1933. Se questa è la narrazione, tutta la storia è invece d’atmosfera. Ci sono pagine in cui Simenon descrive. Parla del fiume. Parla della vita dei bassifondi parigini. Alcuni brani sembrano a metà tra un racconto ed un articolo di giornale. Uno stile che già fa pensare a “L’uomo che guardava passare i treni”, ed altri romanzi che scriverà da lì a poco. E ribadisco, la scrittura è potente ed in salita. Il nostro ormai ha 30 anni, e sono anni che mette in fila righe su righe. Ovviamente, nella mania di non discostarsi poi tanto da sé stesso, Ducrau, nell’ossessione verso le donne ha molto della medesima ossessione di Simenon. E forse anche dalla medesima assertività, per portare avanti un proprio io, una propria essenza che nulla deve giustificare. Vi ho già detto che Simenon è un Acquario? E che è nato un venerdì 13 febbraio?
“Maigret”
[tit. or.: Maigret; ling. or.: francese; pagine: 407 – 533 (127); anno 1934]
È proprio un momento di difficoltà tra Simenon ed il “suo” Maigret. Ormai sta andando in porto il contratto milionario con Gallimard. E Simenon, dopo alcuni giri tra Africa e Nord Europa, torna nei suoi “retiri” decentrati (rispetto a Parigi, ovvio). Verso l’estate del ’33, la famiglia Simenon torna nuovamente al Sud, nell’isola di Porquerolles, poco distante da Marsiglia. Un’isola che la coppia aveva scoperto nel ’26, quand’era un buon paradiso, assolutamente poco frequentato. Anche il nostro, probabilmente, si sente un po’ gentiluomo di mare e di campagna. Come vedremo nel testo. Soprattutto, date le sue aspirazioni verso la letteratura non di genere, pensa di abbandonare il nostro commissario. Già nel precedente, il 14 aprile 1933 aveva fatto andare in pensione Maigret, e questi si era trasferito in campagna con la moglie. Ma Simenon deve ancora un romanzo nel contratto con Fayard, ed allora ecco l’invenzione di una nuova discesa in campo per togliere dai problemi il nipote Philippe. Inscenando una trama intima, dove compare il nipote, che lui biasima a fondo per le scelte avventate, ed anche la cognata, in un cammeo di vita parigina dove il nostro ex-commissario la porta a cena sui Grands Boulevards, a teatro al Palais Royal finendo la serata in un locale notturno. Tutto era cominciato giorni prima, quando si precipita in campagna Philippe, lasciandoci straniti quando chiama il nostro Jules “zio”. Zio Jules ha fatto entrare nella Squadra del Quai des Orfèvres il nipote, ma questi è impulsivo ma anche timoroso, tanto che, durante, un pedinamento, si distrae. L’uomo che seguiva viene ucciso. Lui preso dal panico prende in mano la pistola fumante. Ovvio che in poco tempo sia lui ad essere accusato del delitto. E non può far altro che chiedere all’illustre zio di dargli una mano. Qui Simenon comincia a giocare su due registri. L’indolenza della situazione pensionistica di Maigret che non può condurre interrogatori, che si aggira per le stanze che per anni lo avevano visto protagonista senza poterlo di nuovo essere, con alcuni ex-subalterni che non gli danno più retta come una volta. Solo il fido Lucas, pur marginale nell'indagine, gli sta sempre vicino, facendolo in qualche modo sentire ancora sulla cresta dell’onda. Questa parte è tutta giocata sul filo della nostalgia, volendo convincere sé stesso ed i lettori che è giusto così, che ormai il tempo di Maigret è passato. L’estate finisce, Simenon ritorna nella tenuta de “La Richardière”, e qui termina il romanzo, dandogli un po’ della vivacità che fino allora mancava. Anche se la storia diciamo poliziesca non ha nulla di intrigante né c’è veramente nulla da scoprire. Siamo nel mezzo di alcune lotte di quartiere tra malavitosi e piccoli capobanda locali. Al centro il rampante benché oscuro Cageot, che a poco a poco sta mettendo su un racket di night-club, con annesse prostituzione e droga. Cageot si contorna di personaggi di piccolo cabotaggio, ma anche di alcuni che tentano di allargarsi a sue spese. Poco prima viene ucciso Bernabé. Ora, è la volta di Pepito, quello della cui morte è accusato Philippe. Accusato soprattutto da uno scagnozzo di Cageot, che viene trovato morto anche lui. Maigret sa che Cageot è al centro di tutto, ma non riesce a trovare le prove. Il pezzo di bravura finale, dal punto di vista stilistico, è il lungo confronto tra Cageot e Maigret, giocato in punta di fioretto e di fine psicologia. Dove Maigret ha la sua svolta vincente quando capisce che Cageot, pur bramoso di emergere, ha comunque terrore del sangue, e paura primordiale di commettere omicidi in prima persona. Una volta capito il modo di vivere e di ragionare di Cageot, lo incalza e lo induce alla confessione di essere il mandante. Confessione che non avrebbe valore, visto che Maigret non è più un funzionario, ma che il nostro trova il modo di far ascoltare al fido Lucas manomettendo un apparecchio telefonico. Certo una modalità che ora sarebbe stigmatizzata come non accettabile, e che un buon avvocato odierno smonterebbe in poco tempo. Ma siamo nel ’33, molto è permesso. Cageot va in prigione, Philippe, riabilitato, si dimette dalla polizia e torna in Alsazia, dove ben presto si sposerà. E Maigret con la fida moglie, torna nella sua casetta sulla Loira, tra campagna e pesca sul fiume. Con un finale in cui Simenon sembra volerci fare l’occhiolino e dire: qui mettiamo la parola fine. Questa pervicacia nel voler dimissionare il suo personaggio pervade tutto il romanzo, e lo rende poco avvincente. Ci sono scatti di bravura, ma il tono complessivo è decisamente minore. Tanto che Simenon decide di intitolare il libro solo con il nome del nostro, senza appellativi, senza richiami, solo Maigret.
“I sotterranei del Majestic”
[tit. or.: Les caves du Majestic; ling. or.: francese; pagine: 535 – 675 (141); anno 1942]
Dopo aver “pensionato” Maigret ed essere passato a Gallimard, Simenon e famiglia decidono di fare il giro del mondo: New York, Panama, le Galapagos, Tahiti, l’Australia, l’Oceano Indiano e il Mar Rosso. Questo serve a concentrarsi sui suoi nuovi personaggi. E dimenticare l’ingombrante commissario. Al ritorno a Parigi, quindi, si getta sui “roman dur”, come li chiama, s’immerge nel “Tout Paris”, s’incontra ed instaura un sodalizio con André Gide. Passeranno così cinque lunghi anni di romanzi altri, e di fatica. Che Simenon si accorge anche che è più difficile e più lungo scrivere i romanzi “di letteratura”, come gli chiedeva Gallimard. Non c’era più la fluidità dei quasi venti Maigret scritti nei primi cinque anni. La vita che conduce la famiglia Simenon è tuttavia ben dispendiosa, tanto che si allontana da Parigi, per tornare in riva all’Atlantico, a Neuily (solo a 3 km da La Richardiére). E lì nasce il suo primo figlio, Marc. E sempre lì decide di tornare al suo nonostante tutto amato Jules. Senza transizione, scrive di getto una nuova opera, ricollocando indietro il commissario (che qui si dice abbia 25 anni di anzianità di servizio). E la scrittura altra di quegli anni gli serve per confezionare un buon romanzo, pieno di caratteristi. Si direbbe anzi un romanzo corale, in cui non c’è un centro altro rispetto a Maigret, che riesce a prendersi il centro della scena, sostenendola per tutto il romanzo. Benché Gallimard continui a pagargli regolari assegni (oltre alle royalty sui romanzi usciti) è l’editore stesso che decide di non riprendere la pubblicazione di Maigret. Aspetterà che il nostro ne scriva altri, pubblicando poi una trilogia che uscirà solo il 15 ottobre 1942. Quasi a voler evocare una nemesi, dove il suo personaggio si vendica dell’autore, quasi tutto il romanzo si svolge poi nell’Hotel Majestic (e molto nei sotterranei del titolo). Lo stesso hotel che fu teatro del primo romanzo di Maigret, il famigerato Pietro il Lettone (di cui ho già parlato a lungo). Lì al Majestic lavora Prosper, il capo barista. Lì lavora il contabile Jean Ramuel dall’oscuro passato. Lì lavora anche il portiere di notte, Joseph Calleboeuf. Lì balla Eusebio “Zebio” Fualdés, ballerino professionista di vero nome Edgar Fagonet. Lì, nei sotterranei viene trovata morta una signora americana, la signora Clark, alloggiante al Majestic con figlio, marito, segretaria del marito e governante del figlio. Prosper che va al lavoro in bicicletta, facendosi ogni mattina 10 km da Saint Cloud agli Champs Elysées. Prosper che vive con la grassa Charlotte, ex-entraineuse a Cannes. Dove viveva anche Prosper. Maigret occupa subito il proscenio, aggirandosi per l’albergo e cercando di capirne i meccanismi, quasi fosse un essere vivente. Poi lo troviamo addirittura a fare una lunga passeggiata in bicicletta con Prosper. Vediamo come istiga Charlotte, rivelando che la suddetta signora Clark, in realtà è anche lei originaria di Cannes, ove lavorava con il nome di Mimì. Utilizzando lo stesso trucco illegale del romanzo precedente, scopre quindi l’esistenza di tal Gigi, con cui Mimì (questo il vero nome della morta) e Charlotte facevano sodalizio. Lunga corsa a Cannes in treno, dove trova Gigi fuori di testa per una dose un po’ forte di coca, ma che gli rivela molti retroscena. Mimì era un’arrivista, che si divertì con Prosper, per poi trovare l’americano Clark, ricco sfondato, e sufficientemente fesso da essere incastrato con un figlio, che in realtà è di Prosper (ed è facilmente dimostrabile, poiché il nostro barista ha una folta capigliatura rossa, e così anche il piccolo). Mimì si fa sposare, e sparisce in America. Prosper ne trova tracce, e scrive lettere d’amore. Mimì riceve anche lettere ricattatorie, come se Prosper fosse una specie di Mr. Hyde. Ed altre amenità di contorno. Ma tutto si va concentrando nell’albergo, dove prima o poi tutti passano. Con il ballerino che esce di notte di nascosto. Con il contabile che aveva avuto passati leggermente burrascosi. Con il signor Clarke che ha una tresca con la segretaria. Con Calleboeuf che viene anche lui ucciso. Vi tralascio tutti i passaggi intermedi, pe arrivare al grande epilogo, dove Maigret trionfa nella sua pièce teatrale di ritorno sulle scene. Dimostra l’innocenza di Prosper e la colpevolezza di un bravo falsificatore di firme. Fa capire a Prosper che è innamorato di Charlotte. Convince il fesso a ridare il figlio “pel di carota” al legittimo padre. Ed ha anche quel tocco di umanità che d’ora in poi sarà sempre presente, quando dà una piccola dose di coca alla povera Gigi, che stava andando in crisi d’astinenza. Insomma, Maigret è tornato, direi alla grande. Anche se abbiamo dovuto aspettare anni (in retrospettiva, ovvio), il commissario ha beneficiato di questa attesa, maturando lui, ed entrando meglio tutti gli altri nei personaggi di contorno. La signora Maigret, innanzi tutto. Ma anche Lucas, Torrence e Janvier, i suoi infaticabili moschettieri. Ci aspetteranno altre e gustose avventure, anche se i prossimi anni non saranno facili per il grande Georges.
Chiudiamo il mese con queste buone letture, rimandando ad altri momenti le indicazioni di tutti (saranno almeno 3) gli scrittori islandesi che è assolutamente d’obbligo leggere. Io li lessi, e parto con la speranza di leggerne ancora. 

domenica 22 maggio 2016

Libri in cucina - 22 maggio 2016

Iniziamo questa settimana una nuova collana, uscita per i tipi del Corriere della Sera e dedicata al rapporto con la cucina. Presenta libri di diverso genere, vuoi romanzi legati al mangiare vuoi dissertazioni sul cibo e sul cucinare. Queste prime rame sono divise in due: le prime in minore, una dei fratelli Carofiglio poco coinvolgente, ed una d’annata, di una esimia scrittrice di cucina, che però non mi ha coinvolto. Meglio la seconda parte, con il pedante cuoco Barnes, già protagonista di ben alte (non è un errore, alte non altre) letture, e con Pollan, che ci coinvolge in una lunga dissertazione sul cibo e sul nutrizionismo.
Gianrico & Francesco Carofiglio “La casa nel bosco” Corriere della Sera – Cucina 5 euro 7,90
[A: 20/02/2015– I: 14/10/2015 – T: 15/10/2015] - &&     
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 156; anno 2014]
Dopo aver acquistato con grandi speranze per l’interesse di entrambi i lati della collana, tutta la serie dedicata alle “Storie di Cucina” edita del Corriere della Sera, questo è il primo libro che ne leggo. E non nego di aver provato una prima delusione. Non mi aspettavo un libro di ricette, altrimenti avrei acquistato altro. E questo non lo è. Mi aspettavo però che non ci si discostasse dal titolo della collana. Immaginavo qualche avventura o qualche storia, che s’incrociasse con uno dei luoghi della casa dedicato al piacere. Dedicato, in fondo, ad uno strumento che, nel corso degli anni, ho utilizzato per conoscere meglio la gente che andavo incontrando. Pensavo infatti ad una scrittura dedicata al cibo ed al suo utilizzo. In questa prima lettura, invece, c’è una trama, inframezzata da cenni a piatti ed altre avventure culinarie. Di cui alla fine vengono presentate e commentate alcune ricette. Tuttavia senza unire i due elementi in qualcosa di organico. Questo per la collana. Anche dagli autori mi aspettavo uno spunto più coinvolgente. Sono fratelli, hanno esperienze artistiche simili, anche se fanno due percorsi diversi, l’una dalla magistratura l’altro dall’architettura. Qui, messi insieme per doveri familiari, in una macchina che va verso la vecchia casa familiare dell’infanzia, non trovano di meglio che scrivere un capitolo a testa, ognuno con i propri pensieri e con i propri ricordi di una crescita che dall’infanzia (nella casa del bosco) li porta sino all’età adulta (qui, ora, in auto). E dal racconto a due voci non può che emergere quello che ci aspettiamo. Due fratelli che già da piccoli non si erano mutualmente simpatici o empatici, passando il tempo non possono che approfondire le divergenze, sino a sfiorare (o raggiungere) una reciproca insofferenza, quasi senza rimedio. La vendita della casa li porta a ripercorrere momenti di vita, e soprattutto ad esaminare gli oggetti lì rimasti, ognuno che rimanda a momenti di vita ed a memorie. Anche divergenti. Un inventario di oggetti, che diventa una scusa per ripercorrere le proprie esistenze e le proprie scelte. Un tuffo nel passato, a scandagliare i profumi dell’infanzia, le avventure, grandi e piccole, gli amici comuni, e le comuni inimicizie, i sapori (culinari) della giovinezza. Ma questo non basta a farne un libro avvincente, non basta a farcelo entrare nel cuore. La traccia che stava venendo fuori dalle prime battute poteva essere sfruttata meglio. Invece rimane lì, con i suoi rimandi, con dei piccoli affondi, ma come in una partita di calcio dove si pensa più a difendersi che a segnare. Si segna, poco, forse solo con la storia della busta con le vecchie figurine, busta che potrebbe contenere quella mitica del “Dottor Destino”, ma non vi dico se ci sarà.  Certo, alla fine, i due fratelli sembrano ritrovare, oltre ai conflitti, che sono quelli che poi si ricordano di più, i momenti di grande affetto e reciproco sostegno. E non posso non pensare a quanto siano complicate le relazioni tra fratelli. E posso ben sostenerlo, con i molti ricordi di tanti anni trascorsi a non parlarsi. Per poi ritrovare elementi inaspettati di comunanza. Il viaggio mi porta alla memoria quello che, alla fine, proprio in fondo, dovremmo fare, sperando sia il più tardi possibile, io e mio fratello quando si tratterà di decidere il futuro della sempre più inutile casa di campagna. Chissà cosa potremmo trovare tra quei vestiti, quelle carte, ed anche quei giochi, se non nostri, dei nostri figli. Come detto, anche le ricette finali sono in tono minore, non vengono dispensate con la giusta tensione, ma quasi con sufficienza. Solo una, gli spaghetti all’assassina, mi ha colpito e mi ha dato voglia di provarla prima o poi. Soprattutto per quel tocco forte ed a me congeniale di “molto peperoncino”. Tirando le somme, tuttavia, un po’ poco per farne un libro da ricordare.
Mary Frances Kennedy Fisher “Biografia sentimentale dell’ostrica” Corriere della Sera – Cucina 15 euro 7,90
[A: 18/05/2015– I: 16/11/2015 – T: 19/11/2015] - &&-- 
[tit. or.: Consider the Oyster; ling. or.: inglese; pagine: 117; anno 1941]
Seconda lettura della collana “cucinera” del Corriere della Sera, ed ancora non ci siamo. Non sono convinto, non mi prende come pensavo. Forse sto leggendone le parti peggiori? Non credo, anche perché questo libro, pur nel diverso gradimento che ne ho avuto, è un caposaldo della “food writing” e la sua autrice, una donna ed una scrittrice interessante. Sicuramente risente dei 75 anni trascorsi dalla scrittura (gusti, sentimenti, ristoranti, quanto sono cambiati in tutti questi anni?). E di quel titolo italiano “appiccicato”, perché non rimaniamo all’originale di pensare alle ostriche? Certo, Mary prende spunto dall’ostrica per parlare di sé, della sua vita, dei suoi sentimenti. Mary che ha avuto una vita interessante e complicata. Nasce in America nel 1908 in una famiglia che, se fosse collocata negli anni Settanta, sarebbe stata etichettata come “famiglia hippie”. Studia poco, legge molto, a ventun anni si sposa con Al, che per completare i suoi studi si trasferisce in Francia. Qui, Mary scopre “LA” cucina, senza dimenticare le sue radici americane. Anno dopo anno si intristisce il rapporto con Al, fino ad innamorarsi dell’amico Tim, sposarlo nel ’36 e trasferirsi con lui in Svizzera. Lì, purtroppo, Tim ha un embolo, gli amputano una gamba. Lei per distrarlo comincia a scrivere dell’ostrica. Ma Tim non supera lo choc, si spara. Mary termina il libro, ha un gran successo editoriale, si trasferisce ad Hollywood, dove tenta inutilmente la carriera di scenografa. Lì avrà come soli amici i fratelli Marx, metterà alla luce la sua amata figlia, senza mai dire chi ne sia il padre. Altre avventure avrà la sua vita, ma dagli anni Cinquanta alla morte (1992) mi rimane impresso il suo fare su e giù tra le sue due amate sponde: Francia e California. Il libro, come detto, mi prende e mi lascia. A volte coinvolge, ma non so, non ho ancora compreso quale sia il modo migliore di abbinare cucina e scrittura. Ricordo solo che il miglior libro di questa tipologia lo lessi in gioventù, mentre cercavo di confezionare pranzi “letterari”, senza troppo riuscirvi. Dopo aver spulciato il libro di Courtine sulla cucina della signora Maigret, m’innamorai del “Libro di cucina di Alice B. Toklas”, che rimane il mio faro assoluto. Ma torniamo alle ostriche. Come dicevo, la parte che più mi ha coinvolto ed interessato sono stati i primi capitoli, che raccontano la storia della bivalve. Con un attacco fulminante: “l’ostrica conduce un’esistenza terribile e al tempo stesso eccitante”. Citando l’ostrica detta “giapponese”, ermafrodita ciclica, un anno maschio ed un anno femmina. E come mi suggerirebbe il mio amico Ciccio, mia fonte principale per animali e simili, avendo nature diversissime: l’ostrica forata è ovipara, l’ostrica piatta è vivipara. In questa parte apprendiamo come e perché l’ostrica sia stata sempre considerata, sin dall’antichità, un cibo speciale. Si sente lo stacco, quando Tim muore, e si passa a momenti più personali, quasi a lenire il dolore. Ai ricordi: uno stufato di ostriche alla Rockefeller cucinate dal miglior chef della Louisiana, di ostriche gustate in piedi alla stazione di Norimberga, di un pane alle ostriche mangiato in collegio, di notte. Alla fine, contornata da ricette varie, si delineano due elementi che mi rimangono: i nemici delle ostriche ed i mangiatori. Tra i primi, senza che ve li elenco tutti, il primo in assoluto (ed è stata una sorpresa per me) è la stella marina (che ho scoperto essere un animale assassino). Sul secondo punto, Mary ci avverte che esistono tre categorie di mangiatori d’ostriche: i tipi dalla mentalità aperta che le mangerebbero in tutti i modi, calde, fredde, vive, morte, in brodo o in zuppa, basta che siano ostriche; quelli che le mangiano solo e soltanto crude e quelli che, con lo stesso rigore, le gustano cotte e in nessun altro modo. Io personalmente sono ben collocato nel secondo gruppo, anche se non mi tirerei indietro nell’assaggiare ostriche cotte (e mi domando se le stesse ricette non possano andare per le cozze, che mangio volentieri anche cotte). E ricorderò sempre la scorpacciata di ostriche al saloon bar di New Orleans, or sono trenta anni, nel French Quarter, in una città viva, palpitante, ancora molto lontana dal tifone Katrina. Quindi, bello il ricordo di Mary Frances Kennedy Fisher, belle alcune spigolature, ma niente di particolarmente salvabile a livello di ricette o a livello di “food writing”. Vedremo cosa ci riservano gli altri libri.
Julian Barnes “Il pedante in cucina” Corriere della Sera Cucina 17 euro 7,90
[A: 25/05/2015– I: 23/12/2015 – T: 25/12/2015] - &&&
[tit. or.: The Pedant in the Kitchen; ling. or.: inglese; pagine: 125; anno 2003]
Julian Barnes è uno scrittore che ho amato subito e senza riserve per quel libro che rimane uno dei miei preferiti (“Il senso di una fine”). Penso che leggerò altro di lui, intanto mi sono dedicato a questa divagazione di cucina, dove il mio amato scrittore si mette ai fornelli. E mentre cucina, comincia a riflettere sulla cucina e sulle sue implicazioni. In questo libretto, riproposto nell’esimia collana del Corriere facendone risalire le sorti iniziate un po’ al ribasso, sono riportati alcuni articoli che nel corso del tempo Barnes ha pubblicato sulla “Guardian Review”, l’inserto colto del Guardian. Qui esce fuori il lato ironico di Barnes, che affronta la cucina con il suo rapporto ironico con la vita, gli ingredienti, la spesa, tanto, appunto, che da pedante qual è nello svolgersi dei giorni, intitola i suoi elzeviri, per l’appunto, “Il pedante in cucina”.  Ho amato l’idea di questo libro, anche se il libro in sé, non sempre è stato all’altezza delle mie aspettative. Spesso troppo infarcito di citazioni di libri e situazioni anglosassoni che non sono riuscite a penetrare la barriera dei miei interessi. Barriera invece subito bucata dalle domande fondamentali che si fa il pedante, e che mi sono spesso fatto anch’io leggendo i libri di cucina. Quant’è grande “una cipolla media”? Quant’è “uno schizzo di limone”? E “una presa di sale”? Quanta uvetta occorre per fare “qualcheduna uvetta di Corinto”? Questo perché Barnes (ed io con lui) non avendo un terreno fertile di cucina alle spalle non può fare a meno dei libri di cucina. E spulciandone le ricette, alla fine, riesce a convivere con lo scritto, soprattutto “interpretandolo”. Perché all’inizio, invece (come io continuo a fare tuttora), Barnes rileva come un manuale di cucina dovrebbe essere preciso e pratico. Come sostiene fortemente: “Perché un libro di cucina dovrebbe essere meno preciso di un manuale di chirurgia?”. Non è tramabile un tale libro, se non dandone un senso, una direzione. Per questo vi suggerisco alcuni punti salienti su come scegliere un libro di cucina, elenco che ci dà il polso della scrittura di Barnes. Ecco allora che ci consiglia di non comprare mai un libro per le sue immagini. Né tanto meno uno con le impaginazioni furbette (che ci dovrebbero consentire di fare infiniti pranzi di tre portate). Bisogna evitare libri troppo ampi (“I grandi piatti del mondo”) o troppo ristretti (“Il pesce del Mar dei Sargassi”). Non ci si deve azzardare a comprare un libro sui succhi di frutta se non si possiede una centrifuga. Bisogna infine resistere al fascino delle antologie di ricette regionali (come anche per i viaggi all’estero): i piatti migliori della Bolivia sono cucinati in Bolivia. E conclude, ed io con lui, che il miglior libro di ricette è il proprio quadernetto di ricette personali, dove si sono appuntate le nozioni verso i piatti che abbiamo appreso. E dove, anche se lo conosciamo a memoria, grati ritorniamo per aver il conforto delle nostre scelte. Infatti, non bisogna comunque vergognarsi di seguire lo scritto, per poi interpretarlo. Barnes se la prende a morte con coloro che sostengono di non seguire mai le ricette. ribattendo fulminante: “come se cucinare seguendo un libro fosse come fare l’amore con un manuale di sesso aperto sul comodino”. Riprendendo un commento che mi è molto piaciuto proprio sul ricettario personale, Barnes consiglia di incollare le ricette trovate in giro solo dopo averle provate un paio di volte, certi della buona riuscita del piatto. In tal modo il quaderno di ritagli terrà traccia, anno dopo anno, dello strano percorso della vostra cucina. E infine, proprio come un album di fotografie, vi farà rivivere alcuni momenti passati: davvero preparavo questo piatto? E questa torta di verdure? Sarete sorpresi da quanta storia emotiva e psicologica potrete immagazzinare incollando innocentemente un ritaglio di giornale con qualche macchia d’unto. Con quel pizzico di autobiografia che non manca, e con quel tanto di gratitudine verso la sua compagna (che battezza “Colei per la Quale”) è uno scritto non imperdibile, ma gradevole, e castigante per un cuoco mancato come me (cioè che avrei voluto sempre saper cucinare, senza trovare quel guizzo interiore per farlo). Per fortuna che c’è al mondo chi lo fa. E bene (vero Ale?). Un solo appunto: a pagina 92 si parla (negandola) della doppia frittura delle patatine. Ebbene io l’ho visto fare (e le ho mangiate) in Belgio.
“Gli scrittori di libri da cucina non sono diversi da tutti gli altri scrittori: molti di loro hanno dentro di sé un solo libro (e alcuni, tanto per cominciare, non avrebbero nemmeno dovuto farlo uscire).” (32)
“Ogni libro è, nelle sue intenzioni più intime, una lettera aperta agli amici di colui che scrive.” (68)
Michael Pollan “In difesa del cibo” Corriere della Sera Cucina 8 euro 7,90
[A: 19/03/2015– I: 09/02/2016 – T: 12/02/2016] - &&& e ½
[tit. or.: In Defense of Food: An Eater’s Manifesto; ling. or.: inglese; pagine: 226; anno 2008]
Michael Pollan è un giornalista, impegnato, da sempre attivista nel campo della difesa del cibo, scrivendo articoli di giornali e libri su quest’argomento. Per inciso, è il fratello maggiore di Tracy Pollan, ex-attrice e moglie del sempre a me caro Michael J. Fox (chi può dimenticare “Ritorno al Futuro”?). E finalmente, dopo alcune alterne prove, una buona riuscita della serie sulle “Storie di Cucina” del Corriere. Da fare il paio con la precedente letta di Barnes. Qui, in particolare, si parla essenzialmente di cibo, e non di ricette. Anche se lo fa partendo dalla sua ottica, ovviamente americano-centrica, gli strali che Pollan lancia colpiscono il segno, ed una serie di suggerimenti in positivo sono da prendere e meditare. Tutto nasce, tra l’altro come ci confessa nei saluti finali, da un suo “fortunato” articolo sul cibo, pubblicato il 28 gennaio 2007 sul New York Times, dal titolo “Unhappy Meals” (“Pasti Infelici”, sia per ribattere alla pubblicità ossessiva dei McDonald sia per entrare nello specifico problema di cosa mangiamo; se volete andare alla fonte ecco il link http://michaelpollan.com/articles-archive/unhappy-meals/). In entrambi c’è il grido inziale di sfida e la summa finale di consigli/suggerimenti su come affrontare il cibo. La sfida si condensa in tre slogan sintetici (e quindi efficaci come marketing): “Eat food. Not too much. Mostly plants”. Che traduciamo con “Mangiare cibo”, “Non troppo”, “Per lo più piante (verdi, quindi vegetali)”. Partendo da questi punti, per poi tornarci alla fine, Pollan fa un lungo, per me convincente, excursus sul “nutrizionismo”. Forse, tra l’altro, questa prima parte, più generale e meno specifica, risulta meno “americanizzata” del resto. Tutti, io per primo, abbiamo avuto a che fare con nutrizionisti, che scindevano al capello le proprietà degli alimenti, per poi riaggregarne (parte) in consigli nutritivi che, secondo loro, avrebbero anche migliorato la salute. La più semplice critica di Pollan è: facile suddividere un cibo nei suoi componenti “nutritivi”, impossibili, allo stato attuale delle conoscenze, aggregare componenti elementari per riottenere il cibo. Perché l’alimento è maggiore della somma dei suoi componenti. Ci sono interazioni tra i vari elementi (e qui si fermano le mie scarse cognizioni chimiche) che neanche si riesce ad elencare. Molto spesso, inoltre, il discorso è a doppia facciata (ed entrambe deleterie). Una è la moda, che passa e va: meglio i grassi insaturi, meglio gli omega3, e via “megliando”. L’altra è l’industria alimentare che deve guadagnare, e lo fa producendo “cibo artificiale”. Non mi soffermo sugli OGM, che altri ne possono parlare meglio di me. Mi soffermo su tutti quei cibi che troviamo negli scaffali del supermercato e che (soprattutto in America, ma ora spesso anche da noi) contengono di tutto, meno cibo che proviene dalla natura. Un esempio su tutti: il cioccolato bianco che NON contiene traccia di cioccolato. Tutto ciò provoca guasti irreparabili alla salute (aumento di tumori, di cardiopatie, di diabete). Essenzialmente di tutto ciò che si voleva “guarire” con gli additivi “nutrienti” nel cibo. Se tutta la lotta al nutrizionismo mi trova concorde, ho difficoltà a seguirlo nella polemica con le multinazionali (per mia ignoranza e per la differenza di fondo tra Italia e America su questi temi di difesa del consumatore). Non entro nel dettaglio e nelle spiegazioni, ma vorrei terminare con la sua lista di consigli alimentari: 1. Mangiate cibo (ovvio, non additivi); 2. Evitate i prodotti che si pubblicizzano come benefici per la salute; 3. Evitate prodotti che contengono ingredienti: a) sconosciuti, b) impronunciabili, c) ed in numero maggiore di cinque; 4. Abbandonate i supermarket; 5. Paga di più, mangia di meno (e su questo ritorno); 6. Mangia vegetali in foglia ed evita i semi; 7. Cucina; 8. Mangia come un onnivoro. Il punto 5 è quello che mi ha lasciato perplesso. Sebbene abbia un fondamento (meglio, ad esempio, bere, poco, un vino costoso che, molto, un vino dozzinale), ci si ritrova a combattere con la salute per i ricchi. Chi ha soldi può spendere di più in cibo, chi non li ha spende di più in medicine. Questo è il mio personale paradosso, che non ho ancora superato. Lo stesso motivo che mi ha fatto allontanare dagli elitari “slow food”, che trovo come Pollan un po’ snob, anche se Carlo Petrini fa e spero continui a fare una battaglia giusta e di lunga durata per arrivare a quell’assunto finale di Pollan, anche questo da condividere in toto: “Le scelte migliori per la nostra salute [in termini alimentari, nota mia] sono anche le migliori per il pianeta”. Su questo chiudo, lasciandovi solo un ultimo neologismo che potrebbe entrare sempre più in auge nel prossimo futuro: flexitariano. Cioè un vegetariano flessibile, che può cedere alla tentazione di qualche caloria animale, pur mantenendo di fondo la propria dieta vegetariana. L’elemento decisivo che mi fa piacere questo stile di vita “brand new”, è l’assunto, sfatato da Pollan, che non è la dieta vegetariana che fa bene tout court alla salute. Ma il fatto è che, in generale, i vegetariani non fumano e fanno più attività fisica dei non vegetariani. E mi piace perché è l’assunto meno dogmatico che ci possa essere in termini alimentari. Io che sono anti-dogmatico ormai per costruzione di anni ed anni di lavoro su me stesso.
“[Nutrizionismo o la scienza del parcheggio] un tale ha perso le chiavi in un parcheggio e va a cercarle sotto un lampione non perché è lì che le ha perse, ma perché è l’unico punto illuminato.” (72)
“Il contesto nel quale il cibo viene consumato può essere importante quanto il cibo stesso.” (177)
Un bel paradosso, infine, parlare di cibo ora che sto preparando il viaggio in Islanda che mi terrà occupato il mese di giugno. Una terra dove la maggior parte del cibo (a parte il pesce e poco altro) viene importato, e dove andare al ristorante equivale ad accendere un piccolo mutuo. Ma ci ripagherà una natura strepitosa.

domenica 15 maggio 2016

Donne sopra la media - 15 maggio 2016

Abbiamo in effetti quattro libri di donne, non solo buoni, ma direi ottimi, da leggere e meditare, con tutte le differenze e le complicazioni del caso (o dei casi). Tutti scritti in inglese, ma nessuna di nascita britannica. Doris nasce in Iran e vive gran parte della vita in Zimbabwe, Marina è un’ucraina che nasce in un campo profughi in Germania prima di emigrare in Inghilterra, Chimamanda è nigeriana. Solo Rona ha un vero retroterra anglofono, essendo americana e nata a Brooklyn. Ma tutte e quattro scrivono libri che non si possono tacere: sui vecchi, sugli immigrati, sui rapporti privati, sul colonialismo. Volendo si potrebbe allungare e di molto la lista delle buone qualità, ma tanto vale che ne leggiate, sia delle mie trame, ma soprattutto dei loro libri.
Doris Lessing “Il diario di Jane Somers” Feltrinelli s.p. (regalo di Sara & Giampaolo)
[A: 07/05/2014– I: 19/10/2015 – T: 23/10/2015] - &&&& e ½    
[tit. or.: The Diary of a Good Neighbour; ling. or.: inglese; pagine: 254; anno 1983]
Lunga ma forse spiegabile la storia di questo libro e della mia lettura. Intanto, come vedete dal titolo, l’originale riporta “Diario di una Buona Vicina”, che con questo titolo uscì, con la firma “Jane Somers”. L’autrice, infatti, scrivendo un libro diverso dai suoi precedenti usò uno pseudonimo per sfidare, in un certo senso, il mondo delle lettere. Come sarebbe stato accolto un libro di una sconosciuta? Un libro che non rimandava subito ad una autrice nota ed affermata? L’accoglienza, pur se non entusiastica, fu buona, anche se non facile l’uscita, che i suoi editori storici lo rifiutarono, con un commento lapidario (“troppa angoscia”). Solo due anni dopo Doris svelò il mistero, ed il libro ebbe da allora una sua buona riuscita. Il secondo passo è la mia lettura, che alla fine degli Ottanta ero “innamorato” della scrittura della Lessing, e cominciai a leggerlo. L’ho abbandonato dopo 30 pagine, non riuscivo ad entrare. Ora, sotto altre spinte motivazionali, l’ho ripreso. E l’ho letto. Angosciato, ma l’ho letto. Ed è un buon libro. Con alti e bassi, ma con una scrittura potente, che ti lega non agli avvenimenti (che poco succede) ma al susseguirsi dei ragionamenti della Jane Somers che scrive un diario degli avvenimenti della sua vita intorno al suo cinquantesimo compleanno (Doris l’ha scritto a 65 anni). L’io narrante è una donna di successo, redattrice di una rivista alla moda. Da poco è morto il marito Freddie, di cancro, ma sarà per le paure della morte sarà per un legame lasco, sembra che Jane non sia partecipe in modo particolare. Come non lo è alla successiva morte della madre. Continua a fare la vita mondana, incontri, sfilate, serate di sesso senza importanza, lunghe ore di relax e meditazione nella vasca da bagno. Poi, improvvisamente, l’incontro con la novantenne Maudie. Malata (soprattutto di vecchiaia), antipatica, bisbetica, eppure tenacemente attaccata alla vita. È un incontro fulminante, dove la cinquantenne Jane, nel momento di riflessione sulla sua vita, si trova davanti una soluzione, difficile, inattesa. Diventare amica di Maudie. Non, come dice il titolo inglese, una “Buona Vicina”, che è una figura esistente nella gestione degli Affari Sociali a livello locale in Inghilterra. Che è una figura come dire di supporto, come i pensionati che aiutano gli alunni ad attraversare la strada vicino a casa mia. No, lei diventa proprio amica, ed è tutto il percorso del rapporto tra una specie di intellettuale, e la povertà di anziani soli, che pervade il libro. Lo rende pieno di interrogativi. Cosa fanno gli anziani che non hanno nessuno, e che i servizi sociali vorrebbero “rinchiudere” in strutture lontano dagli occhi? Il percorso comune di Maudie e Jane è duro ma pieno di folgorazioni. Quando Maudie se la fa sotto e Jane, vincendo repulsioni e paure, la lava, è uno dei momenti forti, che tanti echi, anche personali, riporta alla mente. E poi Maudie (ma anche altre vecchie intorno) “parlano di sé”, delle loro vite, giovinezze, amori, paure e desideri. Da qui, ogni tanto, si diparte la coralità dei romanzi di Doris Lessing, quelli poi pieni di critica sociale (e qui ce n’è, anche se stemperata dal bisogno personale di comprendere la propria vecchiaia). C’è la storia di Maudie, e poi di Anne, e poi di Elize, e poi di Bridget, e poi, e poi. In mezzo, sempre anche la storia di Jane, che riflettendo sul progredire lento ed inesorabile del tempo, si accorge di poter dare cose diverse alla vita. Non solo essere la capo redattrice di una rivista. Così, dalle fantasie di Maudie, le nascono bisogni e realizzazioni di romanzi. Ed un avvicinamento alla famiglia (soprattutto alla nipote), un allentamento dei vincoli con il lavoro, l’accorgersi che anche lei è “senza amici”, dove l’unico rapporto era con Joyce, che ormai se n’è andata in America. Doris per mezzo di Jane ci fa ragionare sulla nostra vita che scorre, sul “preteso” intellettualismo della nostra vita, sulla frattura che si può creare tra l’idea di sé ed il sé di ogni giorno, quello che fatica a fare le scale, che ha un “colpo della strega”, che magari fuma troppo, che quando ha l’influenza sta in casa e non c’è nessuno che gli faccia un brodo caldo. Ed il rapporto con gli altri, non quello di carità ma quello di empatia. Insomma, ora ho apprezzato il libro. Forse, come dice il mio amico Roberto, c’è un tempo giusto per leggere ogni cosa. Ora che le persone che conosco invecchiano e muoiono (saluti Zap), ora Doris mi colpisce nel vivo con un pugno allo stomaco. Perché, ed è ovvio, Maudie a 94 anni muore anche lei. Lasciando Jane e noi a riflettere su cosa fare del resto del nostro tempo.
“Quanti errori sto commettendo nel tentativo di fare la cosa giusta,” (31)
“Noi facciamo le nostre scelte molto tempo prima di renderci conto di averle fatte!” (72)
“Io non sono mai stata capace di tirar via sul lavoro. Dovevo fare tutto per bene.” (100)
“I vecchi sono i peggiori nemici di sé stessi.” (135)
“Ormai lo so che è inutile dare consigli alla gente.” (217)
Marina Lewycka “Breve storia dei trattori in lingua ucraina” Mondadori euro 10 (in realtà, scontato a 7 euro)
[A: 10/05/2014– I: 28/10/2015 – T: 30/10/2015] - &&& e ½ 
[tit. or.: A Short History of Tractors in Ukranian; ling. or.: inglese; pagine: 320; anno 2005]
Tra ricordi di guerra e presente di immigrati, una favola agra, comica e triste su di uno spicchio di comunità ucraina che vive in Inghilterra. Primo e riuscito romanzo di Marina Lewycka, di certo autobiografico. Ma come tutte le autobiografie intelligenti, capace di uscire spesso dal puro privato per affrontare temi universali. A parte i consigli di Ella e Susan, avevo pensato al suo acquisto fin dalla strana combinazione del titolo. A proposito, un aneddoto: quando Amazon lo mise in vendita, finì tra i manuali tecnici, e per i primi mesi vendette quasi sotto zero; solo dopo aver corretto l’errore, ebbe una buona risalita di pubblico (avendola già di critica e di premi vari). Torniamo al titolo, che sembra ironico, ma che, alla lettura, nasconde sfumature drammatiche inaspettate. Il romanzo descrive le reazioni delle sue due figlie, quando il padre Nikolai, 84 anni, vedovo, annuncia di voler sposare la trentaseienne Valentina, immigrata ucraina, molto procace. Preoccupate a causa di Valentina, Nadia e Vera, le figlie, dopo un lungo periodo di allontanamento, tornano in contatto, coalizzate per far fronte al nemico comune. Il vecchio sa che non ha molto da offrire a Valentina, ma l’idea di avere qualcuno accanto che si prenda cura di lui, vedovo, lo seduce. Gli basta una palpatina giornaliera alle tette di Valentina per convincersi della bontà della sua scelta. Le figlie sono di tutt’altro parere, vedono in Valentina la grande ladra, colei che ha osato rubare il posto della madre e che, non contenta vuole i, pochi, soldi del loro vecchio e tonto papà. Valentina che, noncurante delle rappresaglie, si trasferisce con figlio e bagagli a casa dell’idealista eccitato ottantenne e ne svuota il conto in banca per acquistare tutti i simboli dell’agognato capitalismo (e mi rimanda a tristi narrazioni rumene). Il matrimonio si fa e la battaglia legale diventa sempre più difficile, viste anche le appassionate lettere d’amore che l’ingenuo ottuagenario semina per casa. L’idillio del povero Nikolaj dura poco e la giunonica Valentina passa agli insulti e al disprezzo per quel marito che, nemmeno tanto ricco, arriva a definire una "reliquia di merda secca di una vecchia capra", per non citare i più coloriti epiteti sessuali. Ad aggiungere spasso concorre una divertente storpiatura dell’inglese-ucraino, per chi avesse voglia di leggere la versione originale. La vicenda precipita, ma Nikolaj “moscio floscio” non si lascia scoraggiare e pensa addirittura di essere il padre del nascituro figlio della disinvolta Valentina. Facciamo un salto di lato, ricordando che Nikolai è un ex ingegnere, anche lui emigrato in Gran Bretagna nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale. E sta scrivendo una storia dei trattori nella sua lingua madre, l’Ucraino. Estratti del saggio compaiono qua e là nel testo, illuminando le figlie, anche, su quanto succedeva ai loro genitori ed alla loro terra, prima che ne avessero piena coscienza. Durante tutto il periodo in cui le due cercano di sganciare Valentina da Nikolaj, ed alla fine riescono, Nadia trova il modo di farci partecipe dei segreti della storia della sua famiglia e noi impariamo a conoscere le loro dure esperienze durante la carestia ucraina e le purghe staliniane. La storia, come detto, ha molto di autobiografico: il padre della Lewycka non solo ha realmente scritto un saggio sui trattori, ma ha anche sposato in seconde nozze e in età avanzata una giovane immigrata. La leggera vena comica prevale indubbiamente, ma il lettore si troverà anche a riflettere su immigrazione e fragilità della vecchiaia. Da notare il tono molto critico nel confronto degli immigrati da parte delle due sorelle, che pur essendo loro stesse immigrate, non esitano a denunciare Valentina nel tentativo di liberarsene. I temi sono scomodi, il mezzo con cui vengono affrontati è la commedia, il fondo è piuttosto amaro. C’è un assurdo di fondo in tutto il libro: è difficile trovare un personaggio realmente simpatico, sia nella squadra dei buoni sia in quella dei cosiddetti cattivi. C’è la brava Nadia, corretta, renziano – buonista, quella che poveri gli immigrati. C’è Vera la cattiva sorella maggiore, divorziata, avida, eppur piena di dolori che vengono dal periodo bellico e mai sopiti. C’è Nikolaj, geniale e tuttavia completamente scemo. C’è Valentina, intenzionata a sposarlo, avere la cittadinanza e sperare che il vecchio muoia presto. Valentina andrebbe fatta fuori nelle prime dieci pagine, poi si pensa che sotterrare il rimbambito sia meglio, ma in fondo anche le due figlie del rincoglionito non sono mica tanto simpatiche. Alla fine, via, salviamo tutti, con i loro tic e la loro cattiveria, perché ognuno di loro ha buoni motivi per essere così. Un libro ironico, che ti fa anche pensare (a volte non molto a fondo, però) che c’è gente poco simpatica (direi quasi stronza), e che forse ha una ragione per esserlo.
Chimamanda Ngozi Adichie “L’ibisco viola” Einaudi euro 11 (in realtà, scontato a 9,90 euro)
[A: 20/05/2014– I: 21/11/2015 – T: 29/11/2015] - &&&& 
[tit. or.: Purple Hibiscus; ling. or.: inglese; pagine: 276; anno 2003]
Altro mirabile libro proveniente dalla fucina dei consigli libropatici di Ella & Susan. Libro che durante la lettura ed appena chiuso riporta subito dentro la più buia Africa che ho frequentato e di cui ho letto negli anni. In quella Nigeria che uscì dal buio con il grande Wole Soyinka (premio Nobel esattamente trenta anni fa) e ne senti sempre la forza leggendo del purtroppo scomparso Chinua Achebe. La bella Adichie, ancora under 40, scrive di sicuro nel solco del secondo, operando un duplice viaggio: nell’infanzia di ragazzi africani e nella giovinezza della democrazia di un popolo che esce (anche se non sempre) dai solchi delle dittature militari. Sebbene narrato con la voce di Kambili, che sicuramente con noi va scoprendo le realtà intorno a sé, la forza narrativa viene da quel doppio solco anzidetto. E seguiamone subito il solco pubblico, ambientato nei luoghi natii della stessa Chimama (la maggior parte delle azioni si svolge nella città di Enugu, all’interno di un’enclave di etnia Igbo, e puntate a Nsukka dove c’è l’Università) dove Eugene, il padre di Kambili e Jaja, conduce una battaglia incessante per la legalità, i diritti civili, la democrazia per l’affermazione delle libertà politiche e civili. Il ricco Eugene è l'editore di un giornale, e spinge il suo direttore Ade Cocker alla pubblicazione di inchieste e denunce. Subendo varie volte i contraccolpi della giunta militare. Eugene è anche profondamente religioso, convertito dagli animismi locali al cristianesimo, comunità di cui è un membro di spicco, e non manca mai a una celebrazione con i suoi oboli generosi, la sua religiosità severa (odia le tradizioni pagane della sua terra al punto che impedisce di fatto ai figli di frequentare suo padre, il loro nonno, perché l'uomo non si è convertito al cattolicesimo, ma si ostina a professare la fede dei suoi avi) e il suo esempio specchiato. Questo il lato pubblico di Eugene e della sua famiglia, che Kambili ci narra con ammirazione e partecipazione. Famiglia che ha il suo contraltare con quella della zia Ifeona, allegra, spigliata, vedova con tre figli, sempre a corto di soldi, benché insegni alla locale Università. Dove subisce anche lei le ingiurie per non sottostare alla corruzione imperante (ed anche per essere parente di Eugene). Tanto che alla fine, stremata, rinuncerà alla lotta, decidendo di emigrare verso gli Stati Uniti, anche perché Eugene … Lasciamo questa parte in sospeso, e veniamo invece al privato di tutti questi modi di vivere. Perché Eugene è in realtà uno psicopatico, che affligge la famiglia di punizioni corporali terribili, che tutti loro accettano proprio per l’aurea di generosità e disponibilità che Eugene ha verso il mondo. Punizioni nate soprattutto in nome della rigida moralità e della religione fanatica che segue Eugene. Tra silenzi, ipocrisie, interessi economici e dolore, la famiglia della giovane Kambili fa finta che il problema non esista, finché - quando il fratello Jaja raggiunge la pubertà e inizia a ribellarsi alla figura paterna - la situazione precipita, fino all'imprevedibile (o forse prevedibilissimo) finale... Con gli occhi spauriti di Kambili seguiamo tutto l’evolversi della vicenda, in parte crescendo con lei. Seguiamo il fanatismo dei neoconvertiti, il conflitto tra il mondo postcoloniale e la cultura tradizionale, e soprattutto e fino in fondo uno dei temi sempre presenti negli scritti della Adichie: la condizione della donna, in difficoltà in entrambi i mondi (non è un caso che intitola uno dei suoi più duri saggi “Dovremmo essere tutti femministi”). La scrittura prende nella descrizione dei vari personaggi, ovviamente con le figure femminili che vengono sicuramente meglio, come la zia Ifeona, o la figlia di lei Amaka. Ma bella e dolente è anche la drammatica grandezza del nonno, con le sue storie incantatrici e ricche di umanità (nonostante il suo paganesimo, come direbbe Eugene). Una bellissima lettura, che ci ricorda, se ce ne fosse bisogno, i come ci si dovrebbe rivolgere ancora ora verso i paesi africani, spingendone le voci libere e pure ad uscire fuori, ad incoraggiarne la pubblicità, a difenderle dagli attacchi di tutti fanatismi che, purtroppo, stanno risorgendo. Fanatismi militari, ma, purtroppo e soprattutto, anche religiosi. Cerchiamo tutti di fare uno sforzo, pubblico e privato, per aiutare tutte le Kambili del continente martoriato (e penso a tutta l’Africa dalla Libia alla Nigeria al Sudafrica, e chi mi conosce sa quanto ne soffra).
Rona Jaffe “Il meglio della vita” Beat euro 9
[A: 01/08/2014– I: 28/02/2016 – T: 04/03/2016] - &&&&    
[tit. or.: The Best of Everything; ling. or.: inglese; pagine: 543; anno 1958]
Considerato dai critici uno dei migliori romanzi per chi compie trenta anni, ho letto con piacere filologico questo quasi sessantenne romanzo della scrittrice americana Rona Jaffe. Probabilmente risente dell’età in qualche parte, pur rimanendo, con molti decenni di anticipo, un prodromo di “Sex and the city”. Scritto e pensato con lucidità dalla non ancora trentenne Jaffe, che butta giù il romanzo quando anche lei, come la Caroline del libro, uscita dalla Radcliffe (una delle Università americane) trova lavoro presso una casa editrice, la “Fawcett Pubblications”. Edizioni non eccelse ma di importanza storica fondamentale: sono loro che hanno inventato i “tascabili”, e solo per questo dovrebbe avere un posto luminoso nel pantheon della scrittura. Senza contare che negli ultimi trenta anni hanno avuto nelle loro pubblicazioni autori polizieschi degni come Anne Perry o P.D. James. Ma torniamo alla scrittrice. Negli ultimi tempi presso la Fawcett, Rona diventa amica di tal Jerry Wald, manager di un’altra casa editrice, che la spinge a scrivere, leggere, rileggere e poi ripulire il romanzo. Wald ne fa anche una campagna pubblicitaria serrata, prima ancora che il libro esca (potenza del marketing nella creazione dei best-seller). Fatto sta che nel ’58 il libro vede la luce, diventa per un paio d’anni un faro della classifica dei libri più venduti e diventa anche un film, non eccelso, ma diretto da uno dei maghi della sofisticated comedy, Jean Negulesco (autore, anche, di quel divertente film “Come sposare un milionario”, con Lauren Bacall e Marylin Monroe). Rona Jaffe continuerà a scrivere tutta la vita, anche se non raggiungerà la diffusione di questo primo libro (un giorno o l’altro, bisognerà parlare degli autori “di un solo libro”). Intanto, in questi più di cinquecento pagine si snodano tre anni e molta vita di cinque ragazze americane, tutte poco oltre i venti anni. L’idea della scrittrice è di descriverci e farci vivere con loro alcuni grandi sogni americani, ma anche alcuni dei problemi, a volte insormontabili, che le donne devono affrontare. Seguiamo allora le loro vicende, dove le nostre cinque ragazze passano del tempo nella casa editrice Fabian. Mary Agnes Russo è bruttina, capace di origliare ogni più piccolo pettegolezzo, dattilografa efficiente, ha l’unico scopo di mettere da parte i soldi per sposare il suo Bill, licenziarsi e vivere una serena (e squallida) vita familiare. Non ha grandi sogni, incarna la voglia di famiglia, ed il suo ottenimento usando il profilo più basso che c’è. Barbara Lamont, diciottenne, aveva raggiunto il “traguardo” di Mary, con l’aggiunta di una bella bambina. Peccato che il marito si impaurisca e fugga. Barbara si rimbocca le maniche, lavora, con profitto alla Fabian, pensando di non poter trovare più l’amore. S’illude che il quarantenne Sidney possa darle il futuro ormai perduto. Ma Sidney, oltre che più grande (cosa marginale) è anche sposato. Dilemma: divorzierà per far felice Barbara o rimarranno due binari che s’incrociano per poi lasciarsi? Gregg Adams vuole fare l’attrice, passa pochi giorni alla Fabian, tanto per sbarcare qualche mese d’affitto, e per convincere Caroline a dividere una casa troppo costosa. Lei s’innamora del regista David, che come (molta) gente di spettacolo è piena di sé stessa e di problemi. David non vuole legami, non vuole controlli, ha forse avuto un amore maschile in gioventù, ma sa essere dolce con Gregg, quando i due convergono verso mete comuni. Tanto che Gregg non vede altro nella vita, avendo il torto, da innamorata obnubilata, di non mollare mai la presa, di dimenticare sé stessa per dedicarsi all’altare “David”. Così che quando lui, stufo, la molla, perde la testa. Anche lei non vede altro che il matrimonio con David, iniziando una vita da stalker che non potrà che finire male. April Morrison è la “campagnola del Texas” che per il diploma chiede al padre 500 dollari ed il permesso di andare a New York fino a quando basteranno. Si prende tanto nella vita della City, che, prima della fine dei soldi, entra alla Fabian. April è una bellezza alla Marilyn, da togliere il fiato. Tanto che il porco Shalimar, dirigente della Fabian, tenta subito di metterle le mani addosso. Lei resiste, venendo ovviamente emarginata. Si rifà incontrando il ricco Dexter, che con lo specchietto dell’anello nuziale le fa fare quello che vuole. Sesso, innanzi tutto. Poi un aborto, quando lei rimane incinta. Ma Dexter ed April sono di classi sociali differenti, e Dexter non la porterà mai nella sua cerchia. Anzi, la umilierà pesantemente. April, distrutta, rischia di cadere nella monomania alla Gregg, ma si salva prima dandosi al sesso con tutti, poi trovano in Ronnie una spalla su cui appoggiarsi ed un bastone per uscire fuori dalle sabbie mobili. Caroline Bender è sicuramente il personaggio più forte, ma anche più “colpito” dalle traversie. Dopo due anni di fidanzamento, Eddie la lascia per sposare una ricca signorina. Lei, per distrarsi, entra alla Fabian. È una lettrice accanita e competente, ed in una tale casa editrice, sgomitando un po’, ma senza ferire nessuno, pian pianino si fa strada. Ha rapporti con i colleghi, scontri con i superiori, però va avanti. Sino a quando, tre anni dopo, incontra nuovamente il mai dimenticato Eddie. Sempre sposato e non divorziante. Ci si avvia verso il suo dilemma finale: fare l’amante felice o continuare come donna in carriera? Un bell’affresco, una coralità dosata con giusta alchimia. Tornando, al fine, alle domande iniziali, sulla donna – sposa, sul valore della verginità (siamo pur sempre negli anni Cinquanta), sul crinale tra carriere e famiglia. Un ultimo appunto agli editor italiani: perché “Il meglio della vita”, quando il titolo varrebbe “Il meglio di ogni cosa”. Deriva infatti dagli annunci di lavoro del NYT che invogliavano le signorine al lavoro, perché “You deserve the best of everything”,
“Le donne sono uguali agli uomini, solo che non vogliono ammetterlo … Noi uomini quando vediamo una bella ragazza che cammina per la strada … pensiamo: ‘Mi piacerebbe andare a letto con quella ragazza’. È una semplice constatazione, senza nessuno scopo preciso.” (121)
“Sposa soltanto qualcuno … del quale non puoi fare a meno. Ma soprattutto, sposa soltanto un uomo che rispetti.” (123)
“Ci vogliono sei anni per farsi un amico e sei minuti per perderlo.” (258)
“Tenersi per mano [è] un Braille inventato da quelli che ci vedono per capire cose che non si vedono.” (317)
“Ognuno ha diritto di comportarsi da idiota, se è veramente innamorato.” (403)
“Non siamo responsabili di aver incontrato le persone sbagliate; possiamo solo dirci fortunati quando incontriamo quelle giuste.” (463)
Siamo solo al 15, ma è già il terzo fine settimana di maggio. Abbiamo prima pubblicato le letture, poi le cure, ed ecco ora i “libri felici”, dedicati tra l’altro ad uno dei numi tutelari dei mei cinquanta anni, Nick Hornby.
Continuiamo quindi ed ancora ad accumulare crediti per i prossimi viaggi, per le prossime ristrutturazioni, per le amicizie, per gli incontri, per le richieste. Chissà se ci sarà un momento in cui i crediti saranno riscossi. 

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

MAGGIO 2016
Come avevo accennato nell’introdurre questo libro, tutta la prima parte è dedicata agli acciacchi d’amore, e quindi anche in questa seconda puntata parliamo delle relative terapie.

TERAPIE D’AMORE (II)

ALTA FEDELTÀ di NICK HORNBY (1995)

Pillole di trama
Rob ha trentacinque anni e al momento gli va tutto storto: è appena stato lasciato dalla ragazza, il suo negozio, dove romanticamente e anacronisticamente vende solo vinili, non naviga in buone acque e lui, per dirla alla Woody Allen, «si sente poco bene». Precipitando in una comica spirale di paranoia, insicurezza e autocommiserazione, nel disperato tentativo di rimettersi con la sua Laura, Rob passa in rassegna tutta la sua vita, gironzolando per Londra, stilando classifiche sugli argomenti più vari, ponendosi domande, rimuginando sulle sue scelte, analizzando la recente rottura e tutte le precedenti, chiedendosi dove abbia sbagliato ogni volta con il dubbio di essere lui quello difettoso.
Supposta-saggezza
Rob è il prototipo del trentenne di oggi. In realtà è nato come prototipo del trentenne degli anni Novanta, ma da allora poco è cambiato: stessa precarietà di vita e sentimenti, stessi dubbi, interrogativi e fragilità. Tormentato da problemi esistenziali, sentimentali e lavorativi, è confuso e cerca di mettere ordine nella sua vita stilando classifiche. È lui stesso a definirsi un tipo normale che piace non per le virtù che ha, ma per i vizi che non ha. Ed è proprio la sua normalità a creare, fin dalle prime righe, una forte empatia con il lettore. Con ironia disinvolta e pungente, Nick Hornby racconta i pensieri, le illusioni, i sogni, gli amori e le relative delusioni di Rob, facendo confluire in lui tutta una generazione confusa, stanca e piuttosto provata ma non perduta né arresa. Ciò che rende simpatico il protagonista è sicuramente il suo carattere amletico. Non fraintendete, Rob non ha niente ma proprio niente della tragicità dell’eroe shakespeariano, se non il fatto che dubita ed è insicuro di tutto. La sua titubanza esistenziale non è la diretta conseguenza della recente rottura con la fidanzata (anche se l'essere scaricati comporta sempre un’impennata d’insicurezza) ma è un tratto del suo carattere che nasconde goffamente quell’incertezza paralizzante che è diventata un elemento generazionale. Con uno sgangherato e disordinato flusso d’incoscienza, Rob si confessa senza imbarazzo, condividendo con il lettore pezzi di vita, inconsapevoli perle di saggezza e bizzarre ma condivisibili riflessioni del tipo: ascoltiamo musica triste perché soffriamo o soffriamo perché ascoltiamo musica triste? Al romanzo va anche il merito, non indifferente, di sfatare il falso mito che soffrire per amore sia una prerogativa esclusivamente femminile. Nick Hornby ha la straordinaria capacità di scavare nella psicologia maschile e Rob è la dimostrazione che al termine di una relazione anche gli uomini piangono, si disperano e, udite udite, si mettono perfino in discussione. Certo lo fanno da uomini, che non vuol dire necessariamente in modo coraggioso e stoico ma con il sesso sempre in testa, per esempio. Per una donna, quindi, Alta fedeltà è una passeggiata istruttiva e divertente nella mente di un ragazzo, per sghignazzare un po’ alle sue spalle ma anche imparando qualcosa di più su sé stessa. Si scopre, per esempio, che quel velo di cellulite che ci terrorizza viene a mala pena notato quando, sotto le lenzuola, la maggioranza degli uomini è paralizzata dall’ansia da prestazione, quello sì, un vero problema. Uomo o donna, quindi, la fine di una relazione è traumatica per tutti e tutti ne soffriamo. Non ci si abitua mai e la sensazione di fallimento, le delusioni e le arrabbiature si sommano diventando un bagaglio così pesante che spesso richiede il sovrapprezzo per permetterci di salire di nuovo a bordo dell’aereo delle relazioni sentimentali (beati quelli che viaggiano solo con il bagaglio a mano!). Ed è inutile illudersi che, crescendo, i rapporti maturino e noi con loro perché non è così e si soffre quasi sempre come la prima volta. Però, dopo fallimenti, delusioni e arrabbiature, l’unico vantaggio è imparare a gestire meglio le cose. Come Rob che, indolente, cialtrone, pigro, disincantato, confuso e un po’ arrabbiato, dopo pagine e pagine d’inconsapevole autoanalisi riesce a guadagnarsi il suo insperato happy ending.
Posologia
Alta fedeltà è un antinfiammatorio per uso topico da usare per il trattamento locale degli stati dolorosi di natura traumatica causati dalle fratture post rottura. Si consiglia di applicare più volte al giorno, frizionando leggermente. Il quantitativo dipende dal dolore e dalla dimensione della lacerazione. Grazie alla sua consistenza leggera e gradevole, penetra in profondità rilasciando una piacevole sensazione di benessere. La presenza dell’autoironia come principio attivo garantisce un’elevata capacità di ripristinare l’equilibrio del PH emotivo, trasformando il dolore in buonumore. Se, stanchi di crogiolarvi nella tristezza, cercate una rapida guarigione da traumi amorosi, Alta fedeltà è il rimedio giusto: provocando il rilassamento a livello muscolare, contribuisce a riprendere le normali attività (anche sociali), distraendo dal dolore.
La fine di una relazione provoca generalmente stati d’ansia e di stress che possono alterare l’equilibrio fisiologico della flora intestinale, causando fastidiosi mal di pancia (si passa dalle farfalle nello stomaco alla presenza molesta di un verme solitario e depresso). Ironico, sarcastico, profondo, a tratti amaro, mai cinico e sempre sincero, Alta Fedeltà riporta la quiete nell’animo e nell’intestino in subbuglio depurandolo dalle scorie se anche voi condividete con Rob quella patologia gastrointestinale per la quale «è da quando ho quattordici anni che ragiono con le viscere. E per dirla tutta, ma che resti fra voi e me, adesso ho capito che nelle viscere c’è materia fecale, non cerebrale».
Effetti collaterali
È stato osservato che la somministrazione del farmaco può contribuire a scatenare attacchi di risate.
Tra gli effetti collaterali più comuni, c’è il rischio di essere contagiati dal protagonista e dalla sua mania di stilare classifiche. Rob ha la bizzarra, immatura, spassosissima e molto umana fissazione di ordinare la sua vita in classifiche assurde, come se questo lo aiutasse a darle senso compiuto. Se tenuta sotto controllo, questa controindicazione potrebbe tornare utile per affrontare la fine di una relazione stilando la top five dei film, delle canzoni e dei cibi che trovate più confortanti per farne indigestione fino a che non vi sentirete un po’ meglio. Ovviamente non può mancare la classifica dei libri che aiutano a vivere felici.
Consigli
Se, indipendentemente dagli affanni di cuore e dai dolori di pancia post rottura, avete bisogno di risollevarvi il morale, consiglio di immergervi tra le pagine dello scrittore inglese per beneficiare della sua effervescenza. Tra i romanzi più riusciti segnalo Febbre a 90°, Un ragazzo e Non buttiamoci giù.
Terapia cinematografica sostitutiva
L’ironia leggera e sottile di Alta fedeltà si ritrova intatta nella sua trasposizione cinematografica. Non ci si poteva aspettare di meno da un regista esperto come Stephen Frears che con Nick Hornby condivide le doti di narratore e la capacità di cogliere lo spirito dei tempi. Il film è una commedia brillante, portatrice sana di buon umore, divertimento intelligente e tanta buona musica.

Commenti

Ho detto altrove, e lo ripeto qui, Nick è stato un nume tutelare, immancabile nelle mie letture intorno ai cinquant’anni, ed un poco oltre. Poi la sua stella ha cominciato per me ad offuscarsi, e, seppur continuando a leggerne, non ha raggiunto le vette delle prime uscite. Soprattutto del bellissimo primo libro che lessi, e che riporto nella sua essenziale brevità di commento. Un libro che va assolutamente letto, così capirete la domanda che vi faccio. Per una volta, non ve la spiegherò altrimenti. Meno interessante, più di maniera “Non buttiamoci giù”. E mi aspettavo senz’altro di meglio nel libro sulla passione calcistica. L’ultimo e non citato libro (“Un ragazzo”) l’ho letto tanti, tanti anni fa, e non trovo più traccia dei miei commenti.
Nick Hornby Alta fedeltà Guanda 7,50
[pubblicato il 24 dicembre 2006]
Il primo Hornby. Mitico per le sue liste. E per la speranza: chi ci farà un regalo che vale il cambiamento della propria vita?
Nick Hornby “Non buttiamoci giù” Guanda euro 8,50
[pubblicato il 13 maggio 2007]
Libro in prestito. Idea carina (racconto a quattro voci, sempre in soggettiva). Altalenante. Bene la prima parte (se suicidarsi risolve), debole la parte centrale (angeli ed altre invenzioni inutili), risale nel finale (forse un po’ troppo “consolatorio”, da lieto fine film americani anni ’30). “tutto in fin dei conti (anche fracassare la macchina nuova) è più facile che dire la verità” “al grande Capo chiederei di diventare una persona disposta ad accontentarsi di quello che è, invece che di quello che vuole essere” “devi essere sicura di te stessa per entrare nei posti piccoli con i clienti abituali” “come fa quella gente che deve prendere l’aereo, non so, una o due volte l’anno…”.
Nick Hornby “Febbre a 90’” Guanda euro 7,50
[pubblicato il 06 maggio 2012]
Mi è discretamente piaciuto, anche se sono contento di averlo letto ora e non allora, quando Nick lo scrisse una ventina di anni fa, e che vidi alla metà degli anni Novanta. Perché in realtà non è un romanzo (ed io avevo appena letto “Alta fedeltà” che ho trovato e trovo stupendo). Non è una cronaca sportiva. Non è un’autobiografia. È un ibrido, in effetti. Contiene un po’ di tutto, anche se il filo conduttore è comunque il pallone. Il calcio. La nascita di una passione. I guasti che ne derivano a chi ne rimane “addicted”. L’autore, ormai trentacinquenne, sta cercando di praticare la sua autentica passione, quella di scrivere. Ma, come tutti gli aspiranti scrittori, dovrà passare sotto mille forche caudine di illusione e delusioni prima di riuscire a trovare una sua via per vivere con quelle che ama fare. Ha già fatto tanti mestieri (insegnante, impiegato, giornalista) e nell’attesa di sfondare, decide di buttare su carta quello che conosce meglio. Quello che lo accompagna ormai da venti anni: il calcio e la passione per la squadra della Londra del Nord, l’Arsenal. Ne esce fuori questo ibrido, che, seppur maggiormente dedicato al calcio, nel filo dei ricordi, partita dopo partita, ricostruisce da un lato la biografia di Nick (il rapporto con il padre, soprattutto quando questi divorzia e va a vivere con un’altra donna, dalla quale avrà altri figli, il rapporto con il fratellastro, le tante storie di lavori iniziati e lasciati, le tante storie di donne, prese e da cui veniva lasciato) e dall’altro la biografia mentale di una persona cui entra il calcio nel sangue e cerca di convivere con questo demone. Difficile, a volte, per chi non mastica di calcio, districarsi tra le partite di campionato inglese, di coppa, partite internazionali e partite della nazionale. Ma se si finge di capire queste parti, e ci si lascia cullare dagli interventi “sociali” di Nick, si riesce ad entrare in alcune possibili discussioni che prescindono dallo specifico arsenaliano, in particolare sulla violenza negli stadi (e qui l’autore fa delle interessanti digressioni sia sull’Heysel che su Hillsbrough) e sulla psicologia del tifoso (non dell’hooligan, ma del tifoso appassionato di calcio, anche sciovinista se vogliamo, ma non violento). Mentre sulla prima lascio la parola all’autore (“non ci sono rimedi e costrizioni, ma solo possibilità di cambiamento della mentalità”), la seconda mi ha intrigato. Perché, se estrapoliamo dal contesto calcistico, è anche un po’ la metafora di chi lega sé stesso ad avvenimenti esterni, di chi (anche se non segue dal vivo) vede una vittoria della propria squadra come un segnale positivo per la propria vita o una sconfitta (di una squadra, di una macchina, di un tennista, di uno sciatore, a seconda delle proprie passioni) come un monito che anche qualcosa d’altro andrà male. Ed è interessante seguire il percorso che ci fa fare Hornby, cominciando dalle prime partite cui lo porta il padre divorziando. Partite che diventano l’elemento che lo accomuna a qualcosa che sta perdendo. Per poi diventare un feticcio (se non vado, la mia squadra perde; se vado, anche se perde, posso sfogarmi con i miei amici a me sodali). Ed alfine una malattia, un elemento cui ruotano pomeriggi o sere importanti della propria vita. Ne riconosco i sintomi, quelli che vidi negli anni sessanta, quando fui costretto dalla cerchia familiare a trovare qualcosa da tifare (tutti seguivano il calcio, ed io dovevo omologarmi). Per poi, con il senno della maturità, allontanarsene in modo critico (mentre padri, madri e cugini continuavano ad accapigliarsi). Con l’orecchio sentire gente parlare ore ed ore di quello che avrebbe fatto l’allenatore, il portiere, o altro legato alle partite. E non capire come si possa buttare tanta parte della propria vita in simili “palliativi”. Per poi alla fine riconoscere che, se la tua squadra (di calcio, di bridge) vince, sei comunque più contento ed affronti meglio il futuro. Mi accorgo di aver parlato poco del libro in sé, ma forse non c’è molto da dire. Meglio averne discusso sugli stimoli che propone. Un solo accenno: mi ha fatto piacere ricordare nelle sue pagine la figura di un bravo calciatore come fu Liam Brady. Alla fine, non è il miglior Hornby che conosco, ma un bel prodotto, degno di aprire una bella discussione su tifosi e sportivi.
“Gli ossessionati [del calcio] … devono mentire. Se dicessimo sempre la verità, non riusciremmo a mantenere rapporti con chi vive nel mondo reale.” (8)
“Una volta credevo … che crescere e diventare adulti fossero due cose analoghe. … Adesso penso che diventare adulti sia una cosa dominata dalla volontà, che si possa scegliere di diventare adulti.” (97)

Finalino

Diciamo che non eccelle in tirate grosse, ed in frecciate che colpiscono forte il bersaglio, ma il tono è garbato, e “Alta fedeltà” un libro che non rimpiango di aver letto. Anzi direi che metterei senz’altro nella top five dei libri che mi hanno spinto a leggere, insieme a… (e mica ve lo dico!).