domenica 28 febbraio 2016

Maigret 3 - 28 febbraio 2016

Spero i miei assidui lettori, o quelli che ancora restano ad attendere i miei piccoli elzeviri domenicali, non siano troppo restii ad ammirare, come fa il sottoscritto, le belle scritture, ovunque esse si trovino. Simenon, nella sua travolgente carriera omniletteraria, ha scritto di tutto e su tutto. Io, tuttavia, fedele agli amori giovanili, continuo a seguire l’evoluzione del nostro commissario, con questo terzo volume dell’opera omnia pubblicata meritevolmente da Adelphi.
Georges Simenon “I Maigret – volume 3” Adelphi s.p. (regalo di mamma)
[A: 13/04/2014– I: 08/09/2015 – T: 20/09/2015] - &&&&---  
[tit. or.: vedi singoli libri; ling. or.: francese; pagine: 719; anno 2013]
Dopo un altro congruo numero di mesi, eccoci ora al terzo volume dell’opera omnia su Maigret, con ben cinque romanzi scritti in cinque mesi. Notiamo che a scrittore prolifico risponde lettore prolifico. E l’editore Fayard non è da meno, pubblicando i romanzi del commissario anche lui con una cadenza pressoché mensile.
Titolo
Scritto
Uscito
Data
Luogo
La balera da due soldi
Ottobre 1931
Scritto a bordo de l'Ostrogoth, Ouistreham (Calvados)
Dicembre 1931
L’ombra cinese
Dicembre 1931
Scritto alla villa Les Roches Grises, Cap-d'Antibes (Alpes-Maritimes)
Gennaio 1932
Il caso Saint-Fiacre
Gennaio 1932
Scritto alla villa Les Roches Grises, Cap-d'Antibes (Alpes-Maritimes)
Febbraio 1932
La casa dei fiamminghi
Gennaio – Febbraio 1932
Scritto alla villa Les Roches Grises, Cap-d'Antibes (Alpes-Maritimes)
Marzo 1932
Il porto delle nebbie
Ottobre 1931 – Febbraio 1932
Iniziato a bordo de l'Ostrogoth, Ouistreham (Calvados) e terminato alla villa Les Roches Grises, Cap-d'Antibes (Alpes-Maritimes)
Maggio 1932
“La balera da due soldi”
[tit. or.: La guinguette à deux sous; ling. or.: francese; pagine: 9-146 (138); anno 1931]
Dopo l’estate del 1931, Simenon, con il suo cutter, si sposta nella regione del Calvados. Praticamente, dall’attracco sotto Parigi, molla gli ormeggi, risale la Senna sino al mare, e si sposta poco sotto Caen. Questo, ovviamente, non gli impedisce di continuare a scrivere con la solita velocità. Anzi, sembra gli frutti qualche nuova idea, che mette subito in pratica per caratterizzare meglio il suo commissario. I primi dieci scritti, infatti, stanno delineando la figura di Maigret, che comincia ad avere alcune caratteristiche che gli rimarranno nel tempo. Qui, ad esempio, ne vediamo l’empatia con i criminali, ovviamente quelli che hanno seguito le vie del male per una serie di circostanze avverse. Come il caso di Jean Lenoir, bandito ed assassino, con un suo piccolo codice morale, ed una vita oltre le righe. Inciso, notate la somiglianza del nome con quella del sottoscritto. Maigret va a trovare Jean, che ha arrestato e fatto condannare, per comunicargli la mancanza della grazia e la prossima esecuzione. Ed il bandito gli narra di un crimine che ha seguito sei anni prima, e che è rimasto impunito. Da qui, lasciato Lenoir al suo destino, si dipana una storia strana, che Maigret dovrebbe andare in ferie e raggiungere la moglie in Alsazia. Invece, le parole di Jean gli ronzano, come gli ronza la balera da due soldi dove Jean aveva incontrato di nuovo l’assassino in libertà. Indizio vago, che casualmente si collega ad un discorso che Maigret sente da un sarto. Segue allora l’ignaro Marcel nella speranza di trovare la balera. Lo segue quando va con la sua amante in un albergo. Lo segue a casa, dalla moglie e dal figlio. Lo segue quando con loro, per il fine settimana, si sposta nella villetta in riva alla Senna. Lo segue infine nella festa che colà si deve tenere, in una per l’appunto balera. Che guarda caso è quella da due soldi. Qui, nelle villette in riva alla Senna, tutti altri personaggi popolano la storia del commissario. Borghesi, commercianti, grandi bevitori, mogli e amanti. Fa amicizia casualmente con l’inglese James, da anni trasferitosi in Francia, e grande bevitore di pernod. Conosce Madò, l’amante di Marcel. Conosce Feinstein, il marito di Madò, commerciante sempre in ritardo con i pagamenti ed alla ricerca di soldi. Maigret capisce che c’è qualcosa, ma non trova fili da qui dipanare la matassa. Mette il fido Lucas alla ricerca di Victor, uno sbandato amico di Jean che potrebbe sapere qualcosa. E continua a coltivare l’amicizia con James, ed a tornare anche la settimana successiva tra le anse della Senna, dove la vita scorre tra gite in barca, incontri di tennis e partite di bridge. Inciso, Maigret si ritrova ad un certo punto anche a fare il quarto ad un tavolo di bridge. Mitico! Ora però avviene il primo dramma. Si ode uno sparo, Feinstein muore e Marcel si trova una pistola in mano. Assassinio per gelosia o altro? Maigret comincia ad indagare, mentre Marcel fugge. E nelle indagini scopre meglio la condotta sul filo del commerciante. E le sue frequentazioni con Ulrich un usuraio scomparso 6 anni prima. Ulrich che si scopre era noto anche a Marcel. Scopre anche che James aveva avuto anni prima una storia con Madò, anche se ben presto troncata. James non era così ricco da poter mantenere moglie ed amante, al contrario di Marcel. La storia procede molto sul filo dell’ondivagare del commissario, che raccoglie prove a destra ed a manca, ma l’unica cosa che realmente fa è continuare ad incontrarsi con James alle 6 del pomeriggio e bere a lungo con lui. Comunque scopre che il morto citato da Jean è proprio Ulrich. Ma chi era l’assassino? Le tracce convergono verso le possibili soluzioni. Con l’abilità di Simenon di delineare meglio i caratteri. Di James, durante le bevute. Di Feinstein, durante le indagini sui suoi ammanchi finanziari, ripianati prima con i soldi di Ulrich, poi con delle donazioni, grandi o piccole, degli amanti di Madò. Di Marcel, al fine ritrovato. Di Victor, anche lui trovato ma restio a parlare. L’abilità di Maigret sarà quella di condurre tutti ad un punto dalla crisi di nervi. Marcel ricostruisce la morte del commerciante, dovuto in effetti ad un tragico incidente. La pistola, in realtà, era proprio di Feinstein. Poi riunisce James, Marcel e Victor, per trovare il modo di far uscir fuori l’assassino di Ulrich. È sicuramente uno dei tre (cioè i due viventi ed il morto), Victor lo sa ma non lo dice. Maigret esaspera tutti ed arriva alla verità. Quindi, finalmente, può prendere il treno ed andare a riposarsi in Alsazia. Una storia ben congeniata. Ci sono alcuni inseguimenti (siamo ancora negli anni Trenta), ma si sta ampliando la parte mi verrebbe di dire psicologica delle storie, anche se per ora si tratta di caratterizzare meglio i personaggi attori delle vicende, e trovare il modo di far giocare a Maigret il suo ruolo di commissario attento ai dettagli. Ultimo dato, è ancora discretamente solitario, senza i suoi fidi moschettieri a girare per la città in cerca di prove. Come detto compare il solo Lucas, ma marginalmente. Tuttavia, sicuramente una bella costruzione, ed una descrizione di un mondo medio-borghese e corrotto che a Simenon ben riesce.
“L’ombra cinese”
[tit. or.: L’ombre chinoise; ling. or.: francese; pagine: 147-281 (135); anno 1931]
Dopo tanto girovagare con la sua barca, dopo l’estate del ’31, Simenon decide di recarsi nel Sud della Francia, dove trova ospitalità nella villa detta “Les Roches Grises”, sulla corniche d’Antibes. La villa è di proprietà di uno strano personaggio del mondo letterario francese, Henri Duvernois (il cui vero nome era Henri-Simon Schwabacher), scrittore prolifico, anche se a detta dei critici d’allora, un po’ superficiale. Ma di gran successo, e di grandi conoscenze. Scriveva anche per il teatro, ha adattato cinque opere per il cinema, era stato grande amico di Proust, poi di Apollinaire, ora di Sacha Guitry e Mistinguett. E riceveva spesso nella sua villa di Antibes. Qui Simenon, allora ventottenne, si trasferisce per alcuni mesi scrivendo almeno tre romanzi. Il primo è appunta quest’ombra, che ha poco del giallo, se non per un morto e la presenza del commissario Maigret. È in realtà un romanzo molto d’atmosfera, cupa e triste. Una vicenda che si svolge in un palazzo che si affaccia su Place des Vosges (ahi, quanti ricordi) e quindi neanche tanto lontano dalla casa del commissario, che vi ricordo abita da sempre al 132 del boulevard Richard-Lenoir (altro elemento quasi anagrammatico che me lo ha fatto sempre sentire vicino). Un uomo, il signor Couchet viene ucciso con un colpo di pistola. La portinaia chiama il commissario per indagare con discrezione, visto che nel palazzo abita un diplomatico che ha appena avuto la prima figlia dalla sua giovane moglie. Il morto è una specie di gaudente avventuriero dalla strana vita, uno che si buttava in tutte le imprese più pazze, il più delle volte con poco successo. Fino a rilevare una formula per la preparazione dell’anti-emetico del dottor Riviére (io non lo conosco, ma esiste, l’ho cercata, ed è una miscela di acido citrico e bicarbonato di potassio, se qualcuno sa di cosa stiamo parlando). Che gli dà finalmente soldi a profusione. Precedentemente era sposato con una signora, che, sempre in ristrettezze e con sue manie di grandezza, vedendo Couchet perdere soldi ad ogni impresa, chiese il divorzio per sposare l’impiegato all’Anagrafe, signor Martin. Il bello (o il brutto, come volete) della situazione, è che i signori Martin rimangono ad abitare nello stesso palazzo di Couchet, la signora costatando l’ascesa del primo marito e la stasi del secondo. Una persona onesta, ma che non ha molta spina dorsale, che preferisce fare il suo onesto percorso di vita. Ai margini del dramma c’è l’attuale moglie di Couchet, Germaine, sposata per il suo lignaggio ma poco presente nella vita del morto. Che si consolava con una “signorina”, Nine Moinard, forse la più simpatica del trio. Complica il quadro dei rapporti la presenza del figlio di primo letto di Couchet, tal Roger, uno scapestrato capace solo di chiedere soldi al padre. Per tutto il romanzo Maigret si aggira per il palazzo, parla con questo e con quello, dando agio a Simenon di descrivere il modo di vivere parigino degli Anni Trenta, in quel piccolo mondo borghese, pieno di ricordi antichi di modi di vivere, senza che ci siano aperture verso il nuovo. Mondo che Simenon facilmente mette in mostra in tutta la sua bruttezza. Ma l’indagine procede, e si scopre che la cassaforte doveva contenere un’ingente somma di denaro. Che doveva essere stata rubata prima della morte di Couchet, avendo il suo corpo bloccato la cassaforte. I nodi vengono al pettine quando si scopre il testamento del morto che lascia tutto alle sue tre donne, e nulla al figlio. La famiglia di Germaine, altera e bizzosa, impugnerà lo scritto. Nine si accontenta di sapere che Couchet la considerava (e sicuramente non avrà nulla). Roger, ricostruiti gli avvenimenti, si getta dalla finestra dell’albergo. Era lui il ladro e assassino del padre? Era lui che dalla casa dei Martin si poteva vedere aver commesso il fatto? Quando a Maigret (che ovviamente ci fa capire aveva già compreso i fatti) vengono portate banconote di migliaia di franchi trovate alla deriva della Senna, il commissario decide di fare l’ultimo passo. Torna dai coniugi Martin, dove la signora, rosa dall’invidia e da altre malattie, ormai ha dato fuori di testa. Come tutti i gialli che si rispettino, sapremo tutto alla fine, che Simenon nulla lascia al caso. Ma non è il giallo che ci ha avvinto in questa prova scritta al sole della Costa Azzurra, ma la sua cupezza, la sua descrizione dei tristi meccanismi intercorrenti tra persone avide e meschine. Non un gran giallo, ma un discreto romanzo.
“Il caso Saint-Fiacre”
[tit. or.: L’affaire Saint-Fiacre; ling. or.: francese; pagine: 283-422 (140); anno 1932]
Ci dev’essere qualcosa di cupo sulla Costa Azzurra, che anche in questo secondo romanzo scritto ad Antibes, l’atmosfera generale del romanzo è strana, così come l’ambientazione e le azioni di Maigret. O forse, dopo 12 romanzi, Simenon aveva bisogna di far rifiatare un poco il nostro commissario, ed anche di radicarlo meglio, di cominciare a dargli maggior connotati. Nel precedente, infatti, ha cementato la residenza parigina di Maigret. Qui, ci descrive brandelli dell’infanzia. Il tutto nasce da una lettera anonima che, arrivata alla Polizia Giudiziaria, avverte di un assassino che verrà commesso il giorno dei morti a Saint-Fiacre. Nessuno se ne cura, se non Maigret. Perché lui, a Saint-Fiacre, c’è nato. Ora, com’è ovvio, Saint-Fiacre è fittizio, ma ricalca la reale cittadina di Paray-le-Frésil. Dove era un castello di proprietà della famiglia d’Estutt de Tracy, e dove Simenon, tra i venti ed i ventuno anni, trascorse del tempo come segretario del marchese locale. Maigret si reca quindi, solo, nella cittadina. E vi è ovviamente sommerso di ricordi. Sono passati un bel po’ di anni (Maigret sarebbe nato nel 1887, ed ora sta sui 45, anche se Simenon non sarà mai preciso, collocandolo in uno spazio atemporale tra i 40 ed i 60 anni), ma il nostro ritrova le sensazioni giovanile, e ne è travolto. Il padre, Evariste, era stato intendente del Conte di Saint-Fiacre, fino ai 17 anni del nostro, quando morì di pleurite. La madre, Hernance, casalinga, era morta quando Jules aveva 8 anni per delle cure maldestre del dottore locale, in seguito ad una minaccia d’aborto. E qui, a Saint-Fiacre, Maigret ritrova altri punti del suo passato. La contessa, trentenne all’epoca del giovane Maigret. La chiesa ove faceva il chierichetto. La bruttina dagli occhi storti, che ora tiene l’unica locanda. E nella chiesa, durante la messa del giorno dei morti, la contessa di Saint-Fiacre, ormai sessantenne e dedita ad una strana vita per non lasciar passare una giovinezza non più ritrovabile, muore. Di un colpo al cuore, decreta il medico locale. Che Simenon, memore della giovinezza del commissario, dipinge poco attento ed un po’ più dedito alla caccia che alla professione. Sembra tutto naturale, ed il biglietto uno scherzo, ma Maigret non si tira indietro, annusa l’aria, scopre la scomparsa del messale della contessa, riesce a ritrovarlo, e dentro c’è un ritaglio di giornale, fittizio, in cui si annuncia il suicidio del giovane marchese, del figlio Maurice. Il cuore della contessa, già malandato, non può reggere il colpo. Un omicidio che non potrà portare a nessun arresto, a nessun giudizio. Qualcuno ha fabbricato il ritaglio, ma si può sempre giustificare con uno scherzo andato oltre il voluto. Tuttavia, i convenuti nel natio borgo sanno bene che quel giornale è stato come una pistola che ha sparato un bel colpo al cuore. Ed eccoli lì, i possibili assassini. Maurice de Saint-Fiacre, il figlio, dissoluto e sempre a corto di denaro, aveva già spaventato mesi prima la madre per aver dei soldi, ed ora è tornato nella cittadina bisognoso di quarantamila franchi. Potrebbe volere la morte della madre prima che questa dissipi tutto il patrimonio. Con Jean Métayer, prima segretario e poi amante della contessa. Un trentenne che si diletta di linotipia (potrebbe ben aver stampato il falso giornale) e che sta mangiandosi i soldi della vecchia. Potrebbe anche lui voler la morte dell’anziana signora, prima che il figlio, tornado alla carica, riottenga un ruolo in famiglia. Ci sono Gautier, l’intendente del castello, quello che ha preso il posto del padre di Maigret, e suo figlio Emile. Il primo potrebbe voler fermare lo scempio economico prima di perdere tutto, anche il lavoro. Ma potrebbe anche voler nascondere il suo accaparramento dei tesori della contessa, venduti all’asta e che potrebbe aver ricomperato a basso prezzo. In questo coperto dal figlio Emile, sia in quanto questi è un funzionario della banca locale, sia anche perché desideroso, lo stesso Emile, di vendicarsi di Jean, essendo stato anche lui amante della contessa, e da Jean soppiantato tempo prima. Infine, potrebbe essere stato il parroco stesso, integerrimo difensore dell’onore locale, a voler fermare gli scandali che la contessa continuare a perpetrare. La stranezza, ed anche il poco mordente che il libro (anche se molti, invece, lo hanno col tempo rivalutato) è che appunto Maigret, attanagliato dai ricordi, assiste un po’ impotente a tutta la vicenda. La cui conclusione, in un’epica serata alla Maigret, viene invece guidata dal marchese. Che invita tutti, commissario in testa, in una lugubre cena al castello. Triste (pollo al tartufo ed insalata, veramente da mensa popolare), ma bagnata da abbondanti vini e liquori. Maurice fa una scena madre, elencando tutti i possibili colpevoli, lui compreso, ponendo una pistola al centro della tavola, e scommettendo che si sarebbe trovato l’assassino della madre entro mezzanotte. Allo scoccare dei dodici rintocchi, Emile prende la pistola e spara a Maurice. Sembra, e forse lo è, tutto finito. manca solo un ultimo anello per la descrizione della vicenda e la chiusura del cerchio. Far luce sulla vicenda del messale, sul modo in cui è stato ritrovato, e sul perché. Questo sarà l’unico apporto alla vicenda del nostro commissario, che alla fine, pensieroso e carico di ricordi, tornerà alla sua vita tra Quai des Orfevres e boulevard Richard-Lenoir. Come detto, il sole di Antibes non riesce a sciogliere Simenon, che rimane legato in questi due romanzi, a temi tristi e cupi. Si spera torni ad affiorare il Maigret più attivo, o quello, più vicino ai miei ricordi, di Gino Cervi.
“La casa dei fiamminghi”
[tit. or.: Chez les flamandes; ling. or.: francese; pagine: 423-552 (130); anno 1932]
Sono sempre più convinto che l’atmosfera di Antibes lasci in Simenon qualche punto dolente, per cui questa terza prova, che dovrebbe essere baciata dal sole del Sud francese, risulta più cupa e con un problema di fondo neanche tanto piccolo. Sicuramente, la vicinanza con l’oscuro Duvernier, cui il giovane belga guarda con ammirazione, lo porta ad imbastire una trama che, pur nelle sue componenti gialle, lascia più spazio all’atmosfera che al poliziesco. Intanto, la vicenda si svolge tutta nel Nord della Francia, a Givet, cittadina delle Ardenne posta esattamente al confine tra Francia e Belgio. In particolare, al confine con la Vallonia, e dove il vallone, insieme al francese, è la lingua di base. In questo contesto, quindi, sono visti con occhio storto i fiamminghi che vi abitano. E tutto ciò si cristallizza nei fiamminghi Peeters, padre, madre e tre figli (due femmine ed un maschio) che hanno l’ultima casa sul confine, che per di più è la drogheria meglio fornita del paese stesso. E come tutte le drogherie che si rispettino, fornisce acquavite a basso costo, soprattutto ai marinai che transitano con le loro chiatte. La famiglia Peeters è amica di un cugino alsaziano della signora Maigret, e per questo chiede aiuto al commissario al fine di sollevare lumi sulla scomparsa e presunta morte di Germaine, una ragazza locale. Ragazza che ha avuto un veloce flirt con il giovane Joseph Peeters, rimanendo sfortunatamente incinta. Ragazza che scompare dopo una visita notturna alla drogheria. Maigret, per amor di famiglia, si reca quindi sul posto, e comincia ad annusare l’atmosfera e le situazioni. Senza prendere iniziative particolari, visto che non ha incarichi ufficiali, lasciando nel bene e nel male, il filo delle indagini ai poliziotti locali. Tuttavia, è lui che, passo dopo passo, ricostruisce qualcosa. Abbiamo la signora Peeters che gestisce il negozio. Abbiamo Anne, il suo principale aiuto. Abbiamo Maria, la sorella bruttina che insegna e vuole farsi suora. Abbiamo Joseph che studia da avvocato. Abbiamo Marguerite, cugina dei Peeters e petulante promessa sposa di Joseph. Abbiamo infine Gerard, il fratello della scomparsa, che urla e strepita verso i Peeters, anche per una vecchia storia da lui avuta con Anne, e subito finita. Joseph appare fin da subito uno smidollato, che è combattuto tra la vita regolare con Marguerite e l’avventura con la procace ma di poca sostanza economica Germaine. Tutto è complicato dalla mancanza di un corpo per cui si va avanti a suon di “maldicenze”. Questa è l’atmosfera che meglio riesce a descrivere Simenon. Le piccole diatribe locali, gli amori fugaci, i grandi odi, le bevute al bar del paese. Insomma, tutta quella vita di provincia che tanto aveva avuto modo di vedere gironzolando per i canali navigabili con il suo cutter, e che riversa mirabilmente nelle sue opere. Non ci facciamo mancare neanche un battelliere, spesso ubriaco, che forse ha visto qualcosa, che forse sa qualcosa, ma che non si apre con nessuno. L’astuzia di Maigret è quella di stanare le persone con la sua aria sorniona, in special modo, fumando la sua grossa pipa, facendo credere di sapere più di quanto sappia. Come direbbe Poirot, fateli parlare e prima o poi vi condurranno alla verità. Frugando tra le cose del battelliere, Maigret scopre un pesante martello. Ed in contemporanea, nella Mosa viene ritrovato il corpo di Germaine con il cranio sfondato. Mentre invita i poliziotti a fermare il battelliere, questi, sempre squattrinato, trova il modo di fuggire in treno verso Bruxelles, pagandosi il biglietto. E tutti si mettono sulle sue tracce. Non Maigret, che va dalla famiglia Peeters, e costringe chi ha commesso il fatto ad una confessione. Senza valore perché senza prove. Tant’è che Maigret alla fine lascia Givet e torna a Parigi. Un anno dopo, fortuitamente, incontra Anna, ora segretaria in un ufficio parigino. Che lo aggiorna: Joseph ha poi sposato Marguerite, ma non riesce ad andare avanti nella professione ed anche l’unione traballa; Maria, si è presto ammalata ed è morta di lì a poco. Il battelliere non è stato mai ritrovato. Ecco, quello che mi ha lasciato perplesso è l’atteggiamento di Maigret verso la giustizia. Sa chi è il colpevole, sa come si sono svolti i fatti, ma lascia andare avanti tutti nelle loro misere vite. Certo, Simenon ci mostra un ulteriore tratto caratteristico del commissario, la sua empatia verso le situazioni molto borderline. Ma qui ritengo si sia passato un poco il segno. L’assassinio non ha una reale giustificazione, e, seppur con vita grama, i colpevoli (materiali e morali) altra punizione meritavano. Non so, non mi ha convinto del tutto.
“Il porto delle nebbie”
[tit. or.: Le port des brumes; ling. or.: francese; pagine: 553-726 (174); anno 1931-32]

Il bello di seguire l’evoluzione temporale della scrittura che Simenon dedica al suo commissario è anche quello di vedere un poco oltre il testo, di apprezzarne la genesi o, come in questo caso, spiegarsi continuità e discontinuità. In effetti, Simenon comincia a scrivere questo romanzo nell’ottobre del 1931, quando, ancora a bordo del suo cutter, gira per i canali del Nord. E non è un caso che fa svolgere la trama nella cittadina di Ouistreham, dove aveva ormeggiato l’Ostrogoth. Con un inizio accattivante. Un uomo senza memoria e con un taglio in testa viene ritrovato a Parigi. Dopo alcune ricerche si scopre essere il capitano Joris, direttore marittimo della chiusa appunto di Ouistreham, dove vive accudito dalla ragazza Julie. Maigret accompagna Julie ed il capitano nella cittadina, ma il giorno dopo Joris viene trovato morto per avvelenamento. Benché Julie sia subito fuori dai possibili colpevoli, emerge la presenza di un fratello di lei, Louis, un po’ troppo dedito al bere, con un passato per motivi stolti in galera, e su cui si appuntano dei possibili sospetti. Maigret rimane lì, tra il porto e la chiusa, in un ambiente in cui Simenon ha vissuto a lungo in questi anni, e che sa ben descrivere. I marinai, il tempo, le maree, il bar e le bevute, soprattutto grog per scaldarsi, i ben pensanti, molti della vicina Caen (nota, per chi non lo sapesse, per l’ottima trippa, piatto favoloso dove lo stomaco bovino viene messo a bollire per dodici ore nel sidro), a cominciare dal sindaco di Ouistreham e signora. Ma dopo la presentazione dei personaggi, la descrizione dei luoghi e Maigret che si aggira pensoso, la vena si inaridisce. Capita a tutti gli scrittori di non trovare il modo di andare avanti. Così Simenon lascia da parte la storia, si dedica ad altro, e, come detto a più riprese, si trasferisce ad Antibes. Pressato dalla necessità di dare romanzi al suo editore, pensa allora di riprendere la storia di Joris, ma ecco che la cupa atmosfera che contrasta il sole del Sud francese, porta anche qui al nostro scrittore ad imbastire una storia molto legata a dinamiche di vita, ad interazioni tra personaggi, specie se in qualche modo imparentati. Joris, oltre alla ferita in testa, ha anche vestiti con residui di uova di merluzzo norvegese (tanto per fare casino). Louis torna a Ouistreham con la sua nave, dove Maigret scopre la presenza di un clandestino, che sicuramente ha qualcosa da nascondere, e che è sicuramente ricco, visto che perde sul molo una stilografica d’oro. Secondo Maigret il sindaco ha qualcosa da nascondere, anche perché sembra sia caduto dalle scale, ma quando lo va a trovare fa il vago. Si scopre anche che la moglie è andata improvvisamente a Parigi. Maigret riesce a parlare con il misterioso tipo che confessa di essere norvegese. Poi, ecco una novità, Maigret è anche coinvolto in azioni violente, viene preso, stordito, legato e lasciato sul bagnasciuga. Non per ucciderlo, ma per permettere a Louis ed al norvegese di allontanarsi. Ovviamente, tutto ciò fa imbufalire il nostro commissario, che è buono e caro, ma non lasciatelo una notte al freddo. Capisce che il sindaco ha qualcosa di strano da nascondere, scopre che Joris è più ricco di quanto Julie pensasse, salta fuori un figlio del sindaco in collegio a Parigi, ma la moglie è stranamente rimasta a Caen. Anzi è fuggita. Maigret sguinzaglia le forze locali, chiama a soccorso il fido Lucas, che però trova il modo solo di farsi sorprendere e legare al letto per una notte. Ma Maigret è uomo dalle mille risorse. Segue in taxi la pista della moglie, che trova in una capanna con il norvegese, che tutti chiamano Jean ma che lei chiama Raymond. E tutti gli indizi sono su di lui: è ricco, è norvegese, è furtivo. Maigret lo arresta. Poi torna a Caen con il sindaco e la moglie, per indagare nella sede della compagnia marittima gestita dal sindaco. E qui, un vecchio contabile, gli svela alcuni misteri. Jean è in effetti Raymond, un cugino del sindaco, scapestrato in gioventù, artefice di un ammanco in base al quale il cugino gli impone di non farsi più vedere in Francia. E mentre scopre tutto ciò, il sindaco si spara un colpo di rivoltella alla testa. In questa cupa atmosfera, scopriamo quindi che Raymond è il padre del figlio che il sindaco voleva suo, che il sindaco voleva sposare la madre, per questo approfitta delle debolezze di Raymond, ingigantendo il dolo. Raymond, in Norvegia, mette la testa a posto, e diventa ricco. Tanto che vuole comprare una nave e tornare a Ouistreham. Il sindaco, saputolo, lo aspetta con Joris, e nel parapiglia, parte un colpo che ferisce il capitano. Raymond con Louis lo porta via, lo fa operare in Inghilterra, e lo fa convalescente a Tromsø (ah, bei ricordi di capo Nord), poi tornano tutti alla base. E quando il sindaco rivede Joris, per nascondere le sue poco pulite azioni (ma in fondo, ed è questo il male che Antibes fa su Simenon, le motivazioni sembrano ben misere), gli versa la stricnina nel bicchiere. Morto il cattivello, si spera che gli altri vivano meglio. Ci sono anche alcuni altri rivoli di storia (che non a caso è la più lunga di questo primo periodo), ma non risollevano il porto dalle nebbie che lo hanno circondato. Una delle meno riuscite storie di questi primi anni di Maigret, se non fosse, appunto, per lo svelare una delle modalità di scrittura del nostro e pur sempre ottimo autore.
Siamo alla fine di un mese di febbraio dedito a molti convivi, in cui si rinnovellano amicizie e legami, con la speranza che il reciproco scambio continui a rinvigorire la linfa delle idee di ognuno. Purtroppo, almeno per me, nessuna nuova sul fronte viaggi, che le Galapagos sembrano veramente difficili da raggiungere, e le altre mete, tutte, assegnate altrove. Noi no si demorde, e si procede, sorretti dal vostro affetto.

domenica 21 febbraio 2016

Viva le donne - 21 febbraio 2016

Credo siano una quindicina le trame dedicate alle scrittrici al femminile in tutti questi anni, e questa volta non posso mancare di sottolineare come scelta fu più che mai azzeccata. Tutte scritture sopra la media, tra il capolavoro indiscusso di Marguerite Yourcenar e la bella prova d’epoca di Nancy Mitford, mettendo in mezzo l’unico romanzo di Sylvia Plath ed il moderno romanzo islandese di Auður Ava Ólafsdóttir. Certo, ben tre romanzi su quattro hanno tra i quarantacinque ed i settanta anni di anzianità. Ma come tutti i vini di corpo, hanno solo guadagnato con l’invecchiamento.
Sylvia Plath “La campana di vetro” Mondadori euro 9,50 (in realtà, scontato a 7,12 euro)
[A: 05/06/2014– I: 12/07/2015 – T: 14/07/2015] - &&&& e ½
[tit. or.: The Bell Jar; ling. or.: inglese; pagine: 232; anno 1963]
Ci sono coincidenze prevedibili ed altre meno. Avendo una sostanziosa dose di libri (di tutti i generi, sia “classici” che moderni), è abbastanza prevedibile che mi capiti di leggerne su giornali e riviste. L’imprevedibile è leggerne su “Repubblica” in un articolo gustoso di Elena Stancanelli “durante” la mia lettura del libro. Un libro che comincia bianco e grigio e finisce grigio, grigio, quasi buio. Una semi-autobiografia, come scrisse qualcuno meglio conoscitore di me delle lettere inglesi. In cui Sylvia ripercorre e trasmuta il periodo della sua vita dai 19 ai 20 e qualcosa anni. E che comincia quasi come il contemporaneo “Il gruppo” di Mary McCarthy (ed anche qui ci sarebbe da farne alcuni paralleli, e neanche proprio banali). Atmosfera appunto di gruppo, di una serie di post-licenziate da vari college, che si ritrovano a fruire di una borsa di studio a New York nell’ambiente delle riviste di moda. Qui, nei primi nove capitoli (come ci illustra la stringata ma puntuale post-fazione di Claudio Gorlier) c’è la prima fase del romanzo. Quella in cui l’autrice, narrando delle sue presenti difficoltà nel vivere l’ambiente glamour, ci fa andare su e giù nel corso del suo tempo. Dove vediamo i segnali delle sue difficoltà di adattarsi a quel tipo di vita, sottomessa, che si voleva facessero le donne nei primi anni ’50 (e non solo allora, diremmo adesso). Il difficile rapporto con la madre. L’attrazione-odio verso il coetaneo Buddy. La frequentazione con Joan. La scrittrice riesce a farci capire (pur non entrando mai in dettagli esterni, ma sempre in soggettiva; e rimango nella parentesi, che avendo dei disturbi non è facile parlarne come se fossero “fuori da te”; ad esempio quando una persona capisce ed ammette di essere depressa, è il momento che sta guarendo dalla depressione) la sua complessità, che altri diagnosticheranno come “disturbo bipolare”. Gli atteggiamenti maniacali (bellissima la descrizione del pranzo alla moda, e l’indigestione di caviale). L’incapacità di portare a termine i compiti assunti, se non nel breve periodo (scrive piccole recensioni, poi si rifugia nel sogno di poter frequentare un corso di scrittura creativa, solo perché lo desidera, non perché ne abbia le qualità). Con una scivolata da una parte nell’autostima (come poco fa scritto) dall’altra in comportamenti sessuali anomali. Laddove, diciottenne, non accetta di essere vergine mentre Buddy ha avuto un’estate di sesso. Tanto che a poco a poco, lo lascia. E non riesce ad entrare in sintonia con l’ambiente al femminile che frequenta. Né con la “cattiva” Doreen, né con la “buona” Betsy. Tanto che finisce la borsa, e deve tornare dalla madre, senza avere prospettive davanti. Qui inizia la fase dura, la fase in cui, per quattro o cinque capitoli, vediamo come cerchi di suicidarsi, non trovando prospettive alla sua vita. Entrando con tutte le scarpe nella fase depressiva. E vediamo come questi tentativi (alcuni seri, altri al limite del sorriso, benché tragico, come quando pensa di tagliarsi le vene e comincia a provare la lametta sul polpaccio, per poi spaventarsi e fermarsi), siano sempre al limite tra la pratica seria, e l’urlo nella notte: “Sto male, venite ad aiutarmi!”. Tanto che l’ultimo tentativo, lo fa nascondendosi nel lavatoio di casa, sperando (come avverrà) di essere salvata. Così è, e da lì comincia la terza parte, quella degli ospedali psichiatrici. Esperienza che, come sappiamo, anche Sylvia aveva percorso, proprio per un tentativo abortito di suicidio. E che descrive quindi dal di dentro della realtà dei malati mentali. Come tutti i depressi, pur concentrata su di sé, riesce a dipingere con cruda realtà il mondo degli alienati di allora. Con quelle sedute di elettroshock che abbiamo da poco ritrovato nell’altro bel libro di Kesey sul Cuculo. Ospedali dove Sylvia denuncia i cattivi medici (e ce n’erano tanti, e forse ce ne sono ancora). Ma sottolinea anche i buoni e capaci. Ci mostra un momento altro di vita, laddove anche la sua rivale nell’amore di Buddy viene ricoverata. La protagonista fa capire anzi che ci potrebbe essere dell’amor saffico in Joan. Tanto che quando lei finalmente perde la verginità (per pareggiare i conti con Buddy), Joan si uccide. Morte che invece sembra spingere la protagonista ad uscire finalmente dal cerchio in cui si stava rinchiudendo. E come Sylvia, alla fine di quei tre anni tragici, pare ne esca. Qui il romanzo finisce. Ma noi non possiamo non proseguirlo in parallelo proprio con la vita della scrittrice. Con la possibilità di identificare Buddy con il marito di Sylvia, il poeta Ted Hughes. Che proprio poco prima che venga iniziato il romanzo, lascia la poetessa, invaghendosi della comune amica Assia (che Sylvia vorrebbe vedere in Joan). Ed è durante il tormentato periodo delle pratiche di divorzio che viene scritto il romanzo. Che viene pubblicato a gennaio del 1963. Un mese dopo, Sylvia Plath, aprendo il gas del forno, si toglie la vita. E visto che abbiamo parlato di coincidenze all’inizio, mi cade sott’occhio un’ultima casualità. Nel libro Joan-Assia si uccide quando scopre che Esther-Sylvia ha perso la verginità. Nella vita, dopo alcuni anni di tormentati rapporti, Assia si suiciderà anche lei, nell’anniversario del giorno in cui Ted e Sylvia fecero per la prima volta l’amore. Seppur coperto dai grigi di cui si diceva, è un vero buon romanzo, che illustra, con vivida mano, la difficoltà di essere donna e di seguire i propri valori in un mondo dominato dagli uomini, come era (molto) l’America degli anni ’50. Com’è, ancora, purtroppo, buona parte del mondo attuale. Forse in modo diverso. Ma pur sempre ancora così.
“Se nevrotica vuol dire volere nel medesimo istante due cose che si escludono a vicenda, bene, allora io sono infernalmente nevrotica. Continuerò a volare eternamente avanti e indietro tra l'una e l'altra per il resto dei miei giorni." (82)
“Nota mia: peccato che a pagina 53, traducano Walter the Penniless, uno dei due personaggi che guidò la crociata dei poveri in Terra Santa insieme a Pietro l’Eremita, con un ‘normale’ Gualtiero Senzaveri, invece del più corretto Gualtieri Senza Averi”
Marguerite Yourcenar “L’opera al nero” Feltrinelli euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 02/04/2014– I: 01/08/2015 – T: 24/08/2015] - &&&&&
[tit. or.: L’œuvre au noir; ling. or.: francese; pagine: 299; anno 1969]
Non meravigliatevi della lunga lettura. Non è solo per la difficoltà intrinseca del libro, ma anche perché non l’ho portato nei Paesi Baltici, riprendendo la lettura iniziata nell’estate agostana, e terminata solo dopo altri giorni d’intensa applicazione. Anche perché la Yourcenar è comunque un osso duro, tanto che di lei lessi molti ma molti anni fa le “Memorie” e poi non riuscii a leggerne più. Ora, spinto dalle solite libropeute ad allargare confini, ecco che si ritorna alla solida scrittrice ed al suo Zenone. Che non è, come io speravo, quello di Achille, ma è un libero pensatore la cui vita scorre nella tumultuosa Europa del 1500. Nel mio percorso di lettura, dopo il romanzo leggo la quarta e poi, se presenti, prefazioni e postfazioni. Così, leggendo la quarta mi stupivo della ricchezza di dotti particolari sulle connessioni di Zenone con altri pensatori del suo tempo (ed invero anch’io avevo pensato a Campanella e Bruno). Poi la postfazione dell’autrice ha spiegato tutto. Chi ha scritto la quarta ha solo letto (e male) le note di Margherita, rimasticandole per far apparire appetibile il romanzo. Ed invece le suddette note, una volta tanto, spiegano, e bene, la genesi del tormentato scritto. E la genesi della sua scrittura. Che il romanzo comincia a formarsi sin dalla fine degli anni Venti, con dei primi abbozzi di vita fiamminga, poi confluiti nella prima parte del romanzo (dal sottotitolo “La vita errante”). Su quelle pagine la nostra torna e spesso, per poi andare di getto sulla seconda (“La vita immobile”) e sulla terza parte (“La Prigione”). Leggendone, si nota questa genesi, dove la prima parte è un bellissimo e duro affresco della vita del tempo, che non a caso potrebbe essere, come un tempo aveva sottolineato la stessa autrice, un commento ai pittori del tempo, da Dürer a Bosch. Vediamo il crescere, nella Bruges dei primi anni del secolo, la famiglia Ligre, il cui capostipite spande figli a destra e sinistra, con il primogenito che ne seguirà le orme di banchiere efficace e prosperoso, ed il secondo che, senza arte né parte, si avvierà alla carriera militare. Mentre il fratellastro Zenone, dopo alcuni tentativi in vesti ecclesiali, prenderà anche lui la vita errabonda, ma con maggior successo. Scrive libri da “libero pensatore” che ne fanno bersaglio da parte della chiesa ufficiale (Campanella e Bruno dixit). Segue alchimisti vari e studia e professa medicina (Paracelso e Miguel Servet dixit). Ma è presente in tutte le arti liberali, con ragionamenti e disegni (Copernico e Leonardo dixit). Ma su di lui si ritorna, perché nel frattempo ne seguiamo la madre, Hildezonde, sposa ad un buon cristiano, divenuto poi anabattista, e con lei trasferitosi a Munster, dove si svolse la famosa guerra con i “Fratelli in Cristo” nel 1535. La seconda, sulla scia di un invecchiato Zenone (non direi anziano, visto che la seconda parte comincia ai suoi 53 anni) tornato a Bruges, come per chiudere un cerchio della sua vita. Lì, sotto mentite spoglie, esercita la professione medica, filosofeggia con il priore, si trova ai margini di vicende quasi eretiche, ed alla fine, non riuscendo neanche a fuggire, dopo sei anni di vita immobile, viene arrestato. A causa dei suoi scritti giovanili, processato, riconosciuto colpevole di eresia, e condannato a morte. In tutta la parte sulla prigionia, si fa più alto il ragionamento di Zenone, che racchiudendo in sé le molte anime dell’uomo Rinascimentale, testimonia il duro passaggio, anche mentale, dal Medioevo all’Età moderna. Non entro nello specifico delle diatribe che percorrono ed innervano il romanzo di linfe felici, che per mia incapacità non credo aver seguito e capito fino in fondo. Anche se non sfugge l’intolleranza, il piegare la Chiesa ai servigi di stati e potentati. Un lungo percorso, quello esemplificato da Zenone, che allora, appunto, non poteva che finire con la morte del nostro eroe. Ma che mi ha fatto riflettere su intolleranze ed irrispettosità ben presenti nel mondo attuale. Ho sempre pensato (e non credo di essere il solo) che il mondo arabo fosse troppo legato ai dettami della parola coranica, senza riuscire a fare un vero sforzo di “ammodernamento” ed adattamento del pensiero, così come riuscì a farlo la Chiesa, nelle sue varie forme, anche se con un precorso lungo ed in parte non ancora finito. Nella fase cruenta di transizione (quest'epoca così ben dipinta con Zenone), forti furono le iconoclastie, le uccisioni, i martiri di cui oggi ci si vergogna. È con una piccola speranza nel cuore che guardo allora all’Isis-Torquemada. Si riuscirà ad arrivare ad un rinascimento arabo? Che bella speranza sarebbe. Queste le personali riflessioni che alla fine mi suscita questo libro, che come detto, è bello e difficile, ma che deve essere letto e meditato. Forse proprio ora.
“A poco a poco … cessava d’esser per loro una persona, un volto, un’anima, un uomo che vive in qualche luogo su un punto della circonferenza del mondo; diventava un nome, meno di un nome, un’etichetta sbiadita sopra un barattolo nel quale lentamente imputridivano alcuni ricordi del loro passato, incompleti e morti. Ne parlavano ancora. In realtà, lo dimenticavano.” (54)
“Il racconto di poco fa mi dispone a riesaminare la mia esistenza. Non mi lamento, ma è tutto diverso da quello che mi ero immaginato.” (102)
“Morirò un po’ meno sciocco di come sono nato.” (104)
“Si sopporta meno facilmente per gli altri ciò che si accetta abbastanza agevolmente per sé.” (190)
Nancy Mitford “Inseguendo l’amore” Giunti s.p. (regalo di Sara&Giampaolo)
[A: 07/05/2014– I: 05/10/2015 – T: 08/10/2015] - &&&
[tit. or.: The Pursuit of Love; ling. or.: inglese; pagine: 241; anno 1945]
Libro nato dalla congiuntura di una segnalazione delle ormai troppo citate libropeute e dal desiderio dei due carissimi S&G di farmi come gradito regalo un mega-buono feltrinelliano. E libro che non si apprezza fino in fondo se non si segue anche un po’ di contesto. Che ad una lettura diretta (la prima che ho dato) è un libro gradevole con qualche puntata verso il divertente. Poi ho approfondito il personaggio – autore e la lettura si è approfondita di tutto il contorno che Nancy Freeman-Mitford si porta appresso. Come figlia primogenita di David Freeman-Mitford, secondo Barone Redesdale, come una delle sei “sorelle Mitford” che riempirono la scena londinese nel periodo delle due guerre, come pronipote di quel Bertie Mitford (il primo Lord della famiglia) che s’imparentò con la casata di Ogilvy, conti di Airlie, dove un loro discendente sposò la principessa Alexandra, cugina della regina Elisabetta II. Ed a proposito delle “sorelle”, da segnalare da un lato dello “schieramento politico” Diana (che prima sposa un Guinness erede della birra omonima, poi sir Mosley, capo indiscusso del Partito Fascista Britannico, a cui darà il figlio Max ora uno dei grandi capi della Formula 1 automobilistica) e Unity (che cercò la morte per il conflitto di essere inglese e seguace di Hitler) e dall’altra Jessica (fuggita in USA ed una dei leader del comunismo americano). In mezzo a tutta questa confusione (vogliamo ricordare tra l’altro che la figlia della zia materna sposò Winston Churchill, e che il nonno materno fu il fondatore di “Vanity Fair”?) si colloca la nostra scrittrice ed il suo romanzo. Fatte tutte queste premesse, qualcuno si sarebbe aspettato un romanzo alla Casati Modignani o Danielle Stell. Ed invece, pur avendo dei tratti singolarmente convergenti, la scrittura di Nancy ci porta altrove. Sicuramente ad uno sguardo ironico sulla società presente. Non è un caso, che, ironia per ironia, negli anni Cinquanta la scrittrice divenne la maestra dello snobismo inglese scrivendo una dissertazione sulla distinzione tra i termini U e quelli nonU (intesi come Upper e nonUpper class, dove ad esempio i primi usano il termine graveyard ed i secondi cemetery, come da noi i primi userebbero camposanto ed i secondi cimitero). Con questo sguardo ironico, seguiamo allora la vita di una tipica famiglia U, che vive in campagna, con padre alla camera dei Lord, e figlie femmine con istitutrici (perché una donna che studia è nonU). La storia è narrata da Fanny, la cugina che entra ed esce dalla famiglia, che ha i genitori divorziati e vive con la zia Emily. Fanny ci parla un po’ della sua famiglia: quasi nulla del padre, molto di sfuggita della madre molto amata, chiamata in famiglia la Puledra, perché scalpita ed entra ed esce da situazioni amorose le più improbabili. Ma soprattutto, Fanny ci parla di sua cugina Linda, sua coetanea, con la quale condivide gioie e pene dell’adolescenza, con la quale cresce insieme, e che lei prende (inconsapevolmente lei, consapevolmente Nancy) come esempio di rotture nel tessuto borghese degli U. E con lo sguardo di Fanny vediamo Linda convolare a nozze con il banchiere Tony (di progenie tedesca e quindi inviso allo zio Matthew). Fa una figlia, Moira, che non riuscirà mai ad amare. Mentre Fanny sposa un decano di Oxford con il quale condurrà una vita ritirata ed amorosa, Linda, dopo nove anni di matrimonio s’innamora perduratamene di Christian, un comunista di razza. Christian pensa alle rivoluzioni e non agli uomini, s’imbarca in situazioni sempre più improbabili. Siamo nella metà degli anni ’30, e Christian e Linda si trasferiscono a Perpignano, per aiutare i profughi della guerra civile spagnola. Lì incontrano Matt, il fratello di Linda fuggito in Spagna a combattere. Ma soprattutto c’è Lavander, una vecchia amica londinese. Quando Linda si accorge della passione tra lei e Christian decide di lasciarlo e di tornare a casa. Ma a Parigi finisce i soldi, e lì incontra casualmente ma proficuamente il ricco duca Fabrice de Sauveterre, di cui ben presto diviene amante e mantenuta. Scoppia la seconda guerra mondiale. Fabrice, che lavora per i Servizi segreti, rimanda Linda in Inghilterra. Lì Linda si scopre incinta, anche se i medici le avevano sconsigliato un nuovo parto. E durante i bombardamenti si ritrovano tutti riuniti. Fanny, anche lei incinta, la madre di Fanny con il suo nuovo amante, il simpatico cuoco spagnolo Juan, quel che resta dei fratelli Radlett, e Linda. La quale, benché Fabrice sia alquanto stralunato, sa di aver con lui trovato finalmente l’amore che inseguiva da tutta la vita. In una cupa notte, Fanny e Linda partoriscono, ma Linda non sopravvive al parto. Arriva anche la luttuosa notizia della morte in guerra di Fabrice. Fanny allora decide di adottare il figlio di Linda e di chiamarlo Fabrice. Quanti avvenimenti in meno di trecento pagine. Allietati da una scrittura coinvolgente, che alla fine, con le premesse che ho detto in apertura, mi ha convinto ad assegnare un buon posto al libro, ed una menzione alla scrittrice nel mio pantheon letterario.
“I compagni sono molto cari, ma non chiacchierano mai, fanno solo discorsi.” (127)
Auður Ava Ólafsdóttir “La donna è un’isola” Einaudi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 01/07/2014– I: 11/10/2015 – T: 14/10/2015] - &&&&+
[tit. or.: Rigning í nóvember; ling. or.: islandese; pagine: 275; anno 2004]
Appena tornato dall’Islanda, oltre ad approfondire le letture che già avevo e proseguivo di Indriðason e del commissario Erlandur (letture che ancora continuano) avevo trovato, letto e gustato un libro della figlia di Olaf. Al solito, con il tempismo che le case italiane hanno, dopo il successo di “Rosa Candida” esce un secondo libro della scrittrice e storica dell’arte. Che in realtà è stato pubblicato prima. Fatte salve tutte le remore, infine riesco a leggerne, ritornando magicamente al “mio” giro islandese. Che, e poi vedremo come e perché, l’io narrante passa la maggior parte del tempo seguendo il “ring”, la mitica N1, la strada che fa il giro di tutta l’isola. Che io ho fatto, e che rifarei per la bellezza dei luoghi, la poesia delle montagne, la durezza delle spaccature nella terra, la delicatezza bollente dei geyser, l’azzurro in tutte le sue gradazioni del ghiaccio. Pur essendo un libro che i conoscitori della lingua assicurano singolarmente ben tradotto da Stefano Rosatti (anche se, dalle mie letture mi sembra che siano sempre migliori le traduzioni di Silvia Cosimini, di cui consiglio, a chi si vuole “islandesizzare”, quella di “Gente Indipendente” del premio Nobel Halldór Laxness), ha la solita pecca del titolo, che parla della pioggia di Novembre, e non di donne né di isole (ma il titolo italiano è sempre meglio dell’immaginifico titolo inglese “Le farfalle di novembre”). Il libro in sé è, tuttavia, valido, con tutte le impurità di un’opera (quasi) d’esordio. Con qualche elemento di puro piacere: la presenza di una co-protagonista, parte saggia (o quasi) dell’io narrante, che si chiama Auður come l’autrice. Quasi a voler indicare una sorta di dualismo, tra le sue parti razionali e quelle magiche. Con Auður che ha una vita molto libera, continuando a far figli con uomini diversi (caratteristica molto islandese), continuando a fare la pianista e l’insegnante di musica. Ed ora, incinta di due gemelle, non può badare al piccolo Tumi, quattro anni, mezzo sordo, anche un po’ miope, e che si esprime a monosillabi. Lo affida quindi all’io narrante, che, di per suo è già scombinatella anzi che no. Ha trenta anni, sta divorziando da un marito che mi sta notevolmente sui cabasisi (a cominciare da quella parte inziale, in cui, per l’appunto annuncia di volere il divorzio poiché ha messo incinta una collega e vuole andare a vivere con lei). La nostra non ne è particolarmente traumatizzata, anche perché subito dopo vince due volte di fila alla lotteria (e vince una somma ingente che le consente tranquillità), quindi parte per un viaggio in macchina verso il villaggio dell’est in cui viveva la nonna e in cui lei ha passato l’infanzia e l’adolescenza. Viaggio in cui si aggira per la mitica N1, e dove, per l’appunto, si accompagna con Tumi. La prima parte è un po’ incartata, come se si facesse fatica ad ingranare, come se la scrittrice non sapesse decidersi tra una chiave narrativa e l’altra. Con la partenza da Reykjavík e l’immersione nella pioggia dell’autunno-inverno islandese (e del titolo) il libro si ravviva. L’idea del viaggio-conversazione di un adulto con un bambino inadatto alla vita non è originale ma funziona; si avverte inoltre, in tutto il libro, un sotterraneo senso di violenza (ci sono un mucchio di animali morti e di maschi sbrigativi, e qua e là presagi di apocalissi) che forse avrebbe meritato uno sviluppo maggiore. Quando i due arrivano a destinazione, nel villaggio dell’est, la trama torna a sfilacciarsi in incontri e in gesti casuali, stenografati nel diario-romanzo. La protagonista trova un amante, fa il bungee jumping, si rompe un polso, va a vedere “La vita è bella” di Benigni, riceve la visita dell’ex marito, legge dei libri, se ne sta molto per conto suo. Quel che più mi preme è che acquista consapevolezza, è decisa nel trattare con Tumi vedendolo com’è e non come si vorrebbe che i bambini fossero. Sembra in fondo aver capito cosa vuole dalla vita. Tutto, bisogna dire, immerso in un’atmosfera serena, quasi euforica: Ólafsdóttir è lontana mille miglia dal piagnisteo esistenzialista, vive, e fa vivere alla sua protagonista il qui ed ora. Altro elemento gradito la non conclusione. Lei e Tumi salgono in machina, e parte una strana post-conclusione, francamente preferibile, che raccoglie in ordine cronologico tutte le ricette dei piatti menzionati nel corso del libro. Consiglio ai più quella a pagina 272 (la bistecca di balena). Continuerò a leggere autori islandesi, ed anche a sentirne la musica (Bjork e Sigur Ros), consigliando a tutti di visitare questo simpatico ed accogliente (anche se un po’ caro) paese.
Mi preme segnalare la riuscita della prima riunione post-cubana (in attesa della grande reunion di aprile), allietata da una splendida serata musicale per seguire il basso elettrico di (Stanley) Carlo. Non decolla invece la possibile meta sudamericana (cosa di cui ero già consapevole fin dall’inizio) e, per i soliti problemi gestionali dei viaggi avventurosi, non riesco neanche ad ottenere alternative. Ma questa è una trama positiva, e vedremo di sicuro rimettersi tutto nel giusto solco. 

PS: giunge, ma non a ciel sereno, la notizia della morte di Umberto Eco, che ho sempre letto con gran rispetto, e che qui omaggio di un ultimo ma non definitivo saluto. Lui che è salito di uno come tutti i grandi che passano (nato il 5 gennaio 1932 à il numero “due”, morto il 19 febbraio 2016 à il numero “tre”; sfida alle soluzioni).

domenica 14 febbraio 2016

La Signora del Giallo 3 - 14 febbraio 2016

In questa giornata dedicata all'amore (e buon San Valentino a tutt*), torniamo ancora una volta a rivolgere la nostra attenzione alla Signora (e Maestra) del Giallo. Altri cinque romanzi, di cui ben tre dedicati a Poirot, con valutazioni superiori alla media, e due no, con valutazioni inferiori alla media. Sarà un caso? Ribadisco fino alla noia che, contrariamente alla nostra Agatha, preferisco Poirot al resto dei suoi scritti.
Agatha Christie “Il Natale di Poirot” Corriere della Sera 21 euro 6,90
[A: 22/12/2014– I: 24/08/2015 – T: 25/08/2015] - &&& +
[tit. or.: Hercule Poirot’s Christmas; ling. or.: inglese; pagine: 273; anno 1938]
Se avete letto (o ricordate) quanto ho detto per “La domatrice”, qui non possiamo che ripeterci. È un periodo che Agatha scrive molto, e la forma “Orient-Express” ha ormai preso piede. Così che la ritroviamo, e con efficacia, anche qui. Qui la complicazione è dovuta alla difficoltà di spiegare le modalità della morte del personaggio centrale, di quel Simeon Lee, donnaiolo e miliardario, ex trafficanti di diamanti in Sudafrica, patriarca di una famiglia un po’ scombiccherata, e poi super ricco tornato in quel dell’Inghilterra. Ma la situazione inziale è di pura routine “agathesca”. Descrizione della famiglia Lee (oltre al patriarca insopportabile): i coniugi Alfred e Lydia, quelli che sono rimasti per proseguire la tradizione di famiglia; i coniugi George e Magdalena, lui deputato, lei “spendacciona”, fuori di casa, ma il vecchio li foraggia sempre; i coniugi David e Hilde, lui andato via di casa alla morte della madre, e fattosi una vita da pianista, lei molto empatica, ma non ha mai conosciuto il vecchio. Poi c’è Harry, la pecora nera, andato via di casa da giovane in seguito a qualche ruberia verso il padre, e mai tornato. E Jennifer, l’unica donna, fuggita con uno spagnolo e da poco morta, lasciando la ventenne Pilar unica nipote di famiglia. Sentendo che la fine si avvicina, Simeon convoca tutti per il Natale. E tutti arrivano, anche Pilar dalla Spagna, dopo un avventuroso viaggio attraversando le zone della guerra civile ancora alle ultime battute (siamo nel ’38). E dal Sudafrica arriva anche Stephen, figlio di Eb, vecchio amico e socio di Simeon ai tempi dei diamanti. La scrittrice spende una buona metà del libro per descrivere i caratteri dei presenti, incluso il losco maggiordomo Horbury. E la vigilia di Natale, quando sono tutti in casa, e tutti ad un tiro d’occhio o di voce dagli altri, con un gran fracasso ed un urlo belluino, muore il vecchio. Ovviamente la porta della stanza è chiusa dall'interno. Ovviamente, una volta aperta, tutte le finestre sono sbarrate, a parte un filo d’aria che viene dal balconcino, ma da dove non passerebbe neanche un gatto magro. Altrettanto ovviamente, Poirot è ospite del capo della polizia locale, e con lui si precipita sulla scena del delitto, dove il sovraintendente Sugden già coordina le indagini. Anche qui, Poirot tira fuori tutta la sua baldanza, sostenendo (come al solito per il suo modo di indagare) che parlando con gli ospiti della casa riuscirà ad arrivare alla verità. E all'artefice del delitto. Assistiamo così alle felici scaramucce verbali cui tanto ci ha abituato la nostra. Aumentate da un felice scambio di opinioni tra Poirot e Sugden, sui modi, sulle possibilità, sulla ricostruzione del delitto. Altro trucco della nostra signora del giallo, quello che all'inizio sembrava essere, viene a poco a poco smontato. Non l’alibi di Alfred e Harry, rimasti in salone a litigare sul tema del figliol prodigo. Né quello di Lydia, in sala grande e vista dal cameriere. Né infine quello di Horbury, che era al cinema. Resiste anche David, nella sala da ballo al pianoforte. Ma George finisce la telefonata 10 minuti prima dell’urlo. Magdalena mente dicendo che telefonava, invece era il marito al telefono. Pilar sosteneva di stare nella sua stanza da letto, ma da lì non si sarebbe sentito l’urlo. Hilda era nelle sue stanze, ma non sarebbe potuta arrivare per prima. Infine Stephen non è stato visto da nessuno. Inoltre spariscono i diamanti dalla cassaforte, così come Simeon avrebbe detto a Sugden, ultimo ad averlo visto in vita. Poi si scopre che Stephen è solo un amico del sudafricano, che in realtà è morto due anni prima. E la sua posizione si aggrava. E si scopre che Pilar in realtà è la sua amica Conchita, essendo Pilar morta in Spagna sotto le bombe. E perché Sugden ha i baffi finti? Pilar-Conchita dice di aver voluto visitare Simeon, ma che davanti alla porta c’era Hilda. Così si nasconde tra le statue, ma raccoglie un pezzo di plastica sul luogo del delitto. Viene però vista dal colpevole, che tenterà di ucciderla. Anche Magdalena non era dove doveva essere. Nel solito finale con tutti i presenti, Poirot spiega che il trambusto è stato provocato da una fune che, tirata dalla finestra socchiusa, ha fatto cadere i mobili. E l’urlo era provocato dallo scoppio guidato di un palloncino da fiera. Scoprendo così il vero colpevole nella persona di… Piccola suspense, che anche qui, nella trama che solca i binari collaudati, Agatha mette una piccola zeppa, sempre per rendere meno consueti i suoi finali. Ricorda, in minore, il famoso caso Akroyd. Tuttavia, pur nella ripetitività e nel solco di avventure similari, le sue storie hanno il fascino della complicazione degli elementi. Hanno la bellezza dello svelamento totale dei misteri. E fa piacere seguire, a distanza a volte di giorni, a volte di mesi, cosa faranno i protagonisti usciti indenni dalla vicenda. In questi primi romanzi c’è quasi sempre Poirot come abbiamo notato. Con una capacità di soluzione che ammiro. Pavento quando si tornerà a Miss Marple, che ancora non ho inquadrato bene. Vedremo.
“- Tesoro, quanta pazienza hai avuto in tutti questi anni. Sei stata così buona con me. – E sai perché? Perché ti amo!” (272)
Agatha Christie “È troppo facile” Corriere della Sera 17 euro 6,90
[A: 22/12/2014– I: 26/08/2015 – T: 28/08/2015] - && e ½
[tit. or.: Murder is Easy; ling. or.: inglese; pagine: 234; anno 1939]
Concediamoci una pausa da Poirot (e sempre in attesa di attaccare Miss Marple), con un romanzo che viene definite della serie “Sovraintendente Battle”, perché costui compare, ad un certo punto. Ma proprio alla fine, per sancire un quasi scontato finale, e senza che intervenga in tutta la storia, dove l’investigazione è condotta dal poliziotto in pensione Luke Fitzwilliam (in pensione dopo un servizio in Oriente, ma evidentemente giovane se riesce ad imbastire una storia con… beh su questo ci torniamo dopo). La scrittura della nostra ormai però si è incanalata sul binario parallelo dei suoi due eroi, e quando ne esce, i risultati non sono più esaltanti come ad inizio carriera. Questo, ad esempio, né è una tipica dimostrazione. Che potrebbe benissimo essere condotta sul filo delle avventure (almeno quelle a me note) di Miss Marple. Avvengono delle morti in una cittadina di provincia che sembrano naturali. Qualcuno però s’insospettisce, indaga, si aggira. E palando accumula indizi. Che ovviamente, non essendo né Poirot né Miss Marple lo portano a puntare l’indice accusatore verso tutt'altra parte da quella che, e si capisce ben presto, è l’accusa giusta. Tant'è “marpleiana” la scrittura che ad un certo punto, a pagina 173, Luke afferma “Solo le zie capiscono che il Tale è un disonesto perché assomiglia a un cameriere disonesto che avevano avuto in casa, e non importa se la gente di buon senso garantisce che il Tale è un’ottima persona. Le vecchie zie non sbagliano mai.” Una frase che potrebbe essere presa tale e quale da uno dei racconti di “Miss Marple e i tredici problemi”. Comunque qui non abbiamo la signora, né tanto meno il baffuto belga, con il suo format di un cattivo che muore e molti che possono averlo ucciso. Abbiamo appunto il buon Luke che incontra la vecchia Lavinia (una “zia” di cui sopra) che gli dice dei suoi sospetti verso le morti in una cittadina di provincia. Luke non è convinto, ma quando Lavinia viene investita e muore, pensa che potrebbe esserci qualcosa. Con uno stratagemma si reca nella cittadina (si finge cugino della bella Bridget che sta per andare in sposa all’arricchito Lord Whitfield) e comincia ad indagare. Molto cautamente, perché le morti della signora Horton, di Carter, del piccolo Timmy, della bella signorina Abby e del medico dr. Humbleby sembrano tutte naturali. I sospetti di Luke si appuntano prima sul sostituto del dr. Humbleby, ma questi avrebbe avuto la possibilità solo in 2 casi su 5. Poi sul losco antiquario della zona. Ma a parte la poca rassicurabilità, anche lui è coinvolgibile solo in 2 casi. A lungo s’intrattiene con la signorina Waynflete, una che sa tutto di tutti. E che è stata in gioventù fidanzata con il futuro Lord. Ma il loro amore si ruppe con la rottura del collo di un canarino. Ovviamente, anche se come detto non ne sappiamo l’età, è comunque un pensionato, seppur giovane. Allora Luke s’innamora della ventottenne Bridget. E riesce a convincerla di lasciare il redditizio fidanzamento con il Lord, per coronare il loro sogno di amore da “due cuori e una capanna”. In tutto questo, finalmente, scopriamo un filo “nero” che collega tra loro tutte le persone decedute. Sono state tutte in conflitto con il Lord. Chi lo trattava da parvenu, chi ne faceva l’imitazione, chi ricordava i suoi modi arroganti, chi rompeva tazzine del servizio buono, chi infine si opponeva alle sue opere innovative ma redditizie solo per lui. Il Lord è un delirio di egotismo: nel suo mondo esiste solo lui, le sue azioni, e la presenza degli altri serve a riconoscere la bontà della sua vita. Solo la signorina Waynflete sembra resistere al suo carisma. Nel presumibilmente concitato finale, quello in cui Battle da Londra si presenta anche lui sul posto, quando Bridget ha detto al Lord che andava via con Luke, si assiste allo svelamento dei misteri, e chi ha commesso tutti i delitti, mentre cerca di uccidere l’impotente Bridget, svela come e perché questi sono stati commessi. Non vi dirò chi è (ovviamente), ma penso l’avete capito come si capisce dal testo. Comunque Bridget si salva, e convola a giuste nozze con il buon Luke. Come avete visto, non ho dato la sufficienza a questo pur godibile scritto. Troppo sotto tono i personaggi. Troppo scontata la fine, seppur tumultuosa. Sembra uno di quei romanzi che i francesi e gli inglesi dell’Ottocento scrivevano a puntate per i giornali, più sotto la spinta della necessità economica, che per avere qualcosa da mostrare all’inclito pubblico. Vedremo che succede al ritorno di Poirot. Ed all'avvicinarsi della Seconda Guerra Mondiale (siamo ormai al ’39).
“Le persone di una certa età non ricordano più di essere state giovani anche loro.” (85)
“Nessun essere umano può sapere l’intera verità di un altro essere umano.” (94)
Agatha Christie “Poirot non sbaglia” Corriere della Sera 15 euro 6,90
[A: 10/11/2014– I: 26/08/2015 – T: 30/08/2015] - &&& e ½
[tit. or.: One, two, buckle my shoe; ling. or.: inglese; pagine: 214; anno 1940]
Fortunatamente, siamo subito tornati a leggere di Poirot, con un romanzo che introduce, e con maestria, elementi nuovi. Si sente che stiamo avvicinandoci alla guerra, e, latentemente, ne vengono introdotti elementi. Qualche dose di spionaggio, inclusa una capatina nei Servizi Segreti. Qualche elemento nazionalista, come un attentato tentato (scusate il bisticcio) da un indù. Qualche critica, e molta propaganda, intorno ai temi economici. Ma questi sono soltanto alcuni elementi, molti dei quali più atti a gettare fumo negli occhi al disattento lettore. L’elemento innovativo che ci troviamo di fronte non ad uno ma a tre delitti. Apparentemente inspiegabili. Apparentemente non collegati tra loro. E non abbiamo un numero delimitato di sospettabili. All'inizio potrebbero essere tanti. Certo poi si restringono ad un numero gestibile nelle elucubrazioni del nostro investigatore, che qui, non avendo un alter-ego narrante, a volte è costretto ad intavolare disquisizioni anche con George, il suo cameriere personale. Tutta nasce da una seduta dal dentista, cui deve partecipare il magnate Blunt, spesso preso di mira per le sue idee conservatrici (leggete quanto sopra sull'avvicinarsi della guerra). Dentista dove si reca anche Poirot. E dove si ritrovano Ambrotis un faccendiere greco di ritorno dall'India, Mabelle, una signora di media borghesia, anch'essa reduce dall'India e dedita ad opere filantropiche, un impetuoso americano di idee finto-rivoluzionarie, un ex-funzionario del Ministero degli Esteri, un giovanotto scapestrato fidanzato della segretaria del dottore. Non ci si trova invece la fidanzata di cui sopra, allontanata con un falso telegramma. Poco dopo, in sequenza, muore il dentista per un colpo di pistola alla testa, poi muore Ambrotis per un eccesso di anestetico a lento rilascio. E Mabelle scompare. Indizi contrastanti, portano polizia e magistratura a chiudere la prima inchiesta, decretando che il dentista si è suicidato in seguito all'errore nel dosaggio dell’anestetico. Ovviamente, una soluzione che non convince Poirot. Che viene coinvolto dalla famiglia Blunt, vuoi per dritto vuoi per storto, a cercare la verità. Ed a cercare Mabelle che non si trova. La quale Mabelle, secondo la nipote di Blunt, li aveva avvicinati pochi giorni prima, sempre dal dentista, dicendo di aver conosciuto la moglie di Blunt. La quale era ricchissima, capitano d’industria, ed aveva trasmesso al più giovane marito Blunt la passione e le capacità. Tanto da farne un ricco banchiere e finanziere. Poirot è travolto anche lui da indizi contrastanti. E sempre più in difficoltà quando scopre che l’americano è in via di fidanzamento con la suddetta nipote, quando si ritrova una donna morta che si suppone sia Mabelle. Morta in casa di una certa signora Chapman, che il funzionario del Ministero di cui sempre alla seduta odontoiatrica, individua come moglie di un appartenente ai Servizi Segreti. A complicare il tutto arriva anche l’ostilità della cugina di Blunt, madre della giovane impulsiva, nonché quella dell’altra cugina di Blunt, la scozzese in disgrazia Helen. Solo grazie alla filastrocca del titolo (su cui torneremo) Poirot ha il primo elemento di agnizione. Prima si riconosce che la morta è la signora Chapman, grazie alle schede del dentista morto. Poi si cerca di incastrare il fidanzato della segretaria, coinvolgendolo in un ulteriore assurdo tentativo di far fuori Blunt. Tutto perché (ed è qui il fumo negli occhi che finalmente il belga ripulisce e punta nella direzione giusta) si vuol far passare il tutto come una vicenda politica. Poi però si scopre che Blunt avrebbe avuto una prima moglie, da lui sposata in gioventù, e con la quale aveva viaggiato in India. Dove questa aveva conosciuto Mabelle, la quale ne aveva parlato al truffaldino Ambrotis. Ma dov'è questa prima moglie? È possibile che le schede odontoiatriche delle due signore siano state scambiate? Com'è che il funzionario in pensione sa molto delle avventure dell’agente Chapman? Poirot tutto spiega, e tutto collega. Partendo dalla scarpa non allacciata della presunta Mabelle che lui incontra nelle prime pagine, per passare a quelle invece ben strette della morta. Un bel meccanismo, ed un finale che è stato parzialmente inaspettato (avevo solo avuto dei dubbi sulla cugina Helen, ma di diverso tipo). E veniamo alla filastrocca. Perché tutta la storia è basata su di una filastrocca infantile dei bambini inglesi, che serve per imparare i numeri. Noi abbiamo (almeno nei miei ricordi) quella che fa: “Uno e due, l’asino e il bue / Tre e quattro, cane e gatto / Cinque e sei, sono miei / Sette ed otto, c'è un tigrotto / Nove e dieci, pasta e ceci / Quanti siamo? Ricominciamo!” (voi la ricordate?). Gli inglesi invece usano la seguente (di cui metto accanto la traduzione) e che ritma i capitoli del romanzo:

One, two, buckle my shoe
Uno, due, allaccia la mia scarpa;
three, four, shut the door
tre, quattro, chiudi la porta;
five, six, pick up the sticks
cinque, sei, raccogli i bastoni;
seven, eight, lay them straight
sette, otto, mettili in ordine;
nine, ten, a big fat hen
nove, dieci, una grande gallina grassa;
eleven, twelve, dig and delve
undici, dodici, scava e svuota;
thirteen, fourteen, maids a-courting
tredici, quattordici, la ragazza corteggiata;
fifteen, sixteen, maids in the kitchen
quindici, sedici, la ragazza in cucina;
seventeen, eighteen, maids a-waiting
diciassette, diciotto, la ragazza in attesa;
nineteen, twenty, my plate's empty
diciannove, venti, il mio piatto è vuoto.

Non vi sto a ripercorrere i venti capitoli, ma se pensate al primo, ed al fatto che Poirot comincia ad avere sospetti vedendo la scarpa di Mabelle, potete apprezzare la maestria della nostra esimia scrittrice. Obietto solo che, seppur difficile la traduzione per il titolo, si sarebbe dovuto aver più cura nel titolare i capitoli correttamente, mentre a volte (non tante fortunatamente) la traduzione dell’intestazione del capitolo lascia un po’ a desiderare (come se il traduttore non conoscesse la filastrocca). Comunque, alla fine, un bel giallo di costruzione “oulipiana” (per chi riesce a decifrare quest’ultimo accenno; se no, chiedetemelo).
Agatha Christie “Il ritratto di Elsa Greer” Corriere della Sera 12 euro 6,90
[A: 20/10/2014 – I: 31/08/2015 – T: 01/09/2015] - &&&&
[tit. or.: Five Little Pigs; ling. or.: inglese; pagine: 203; anno 1942]
Sono sempre più convinto, leggendo e rileggendo della nostra maestra del giallo, che la sua capacità sia proprio quella di innamorarsi di un elemento, e poi cercare di sfruttarne a pieno le possibilità. Ora, che scrive in tempi di guerra, Agatha ha un amore sviscerato per le filastrocche infantili. E dopo aver utilizzato quella sui numeri, ora utilizza una dedicata ai più piccoli. Quella che serviva a contare le dita, che sono cinque, come i cinque porcellini (e per completezza ve la riporto in fondo). Ma questo è solo un elemento che serve a caratterizzare le cinque persone che potrebbero essere stati colpevoli di un omicidio. L’altro elemento, di molto effetto nella coreografia della Christie, è la richiesta che viene fatta a Poirot di indagare su di un delitto avvenuto 16 anni prima. Un famoso pittore, Amyas Crale, viene ucciso con una dose letale di cicuta, mentre terminava il ritratto del titolo italiano, che ritrae la sua amante Elsa Greer. Uccisione avvenuta nella loro tenuta di campagna, dopo giorni di litigi tra il pittore e la moglie Caroline, sia sull'educazione della sorellastra di lei, Arianne, sia sui rapporti tra Amyas ed Elsa. Caroline viene accusata del delitto, ritenuta colpevole, e con le attenuanti condannata all'ergastolo. Ma dopo poco muore in prigione. Ora si presenta sulla scena Mary, la figlia di Caroline e Amyas, e vuole sapere la verità. Anche se sono passati 16 anni. Qui si rivela la grande maestria della nostra attraverso il suo personaggio Poirot. Perché abbiamo appunto cinque possibili assassini reduci da quell’episodio. Ma l’episodio è lontano, non ci possono essere ricerche sul campo. Si tratta solo di usare le parole. E come dice Poirot, bisogna far parlare le persone, e saranno loro a fornire la soluzione. Abbiamo quindi i cinque porcellini. Philip Blake, il più grande amico del morto, in gioventù infatuato di Caroline, poi sempre presente nelle vicende familiari. Ora è un affermato agente di cambio (il porcellino che andò al mercato). Suo fratello Meredith, che vive di rendita, s’interessa di piante ed erbe varie. Fu lui a far conoscere alla combriccola le proprietà della cicuta, ed è dalla sua dispensa che ne scomparve il flacone, poi trovato nell’armadio di Caroline, e con il quale fu ucciso Amyas, mescolato alla birra. Lui è il porcellino che sta a casa. C’è ovviamente Elsa Greer, all'epoca dei fatti ventenne rampante, che s’innamora del pittore, che è abituata ad avere tutto. E lo vuole, e non solo, ma pensa di poterlo togliere alla moglie. Ora Amyas è un grande donnaiolo, che non sa resistere ad una sottana, ma è anche innamorato della moglie. Quindi, tante scopate, ma si torna sempre a casa. Cosa che Elsa non accetta, e gettando sul piatto il suo amore per Amyas, crea scompiglio nella casa. Scompiglio che porta sicuramente Caroline a rubare la cicuta. Lei sostiene per uccidersi. Poi nel processo, sostiene che Amyas, scoperta la cicuta, decide lui di uccidersi. Intanto Elsa è il porcellino che mangia l’arrosto, quello che ha il piatto migliore. E dopo il pittore, si consolerà con altri uomini, tanto da essere ora, dopo 16 anni, una rispettabile Lady, sposata con un premuroso Lord inglese. C’è la signorina Williams, la governante di Arianne, che adora Caroline, che ha visto questa ripulire le impronte sulla bottiglia di birra, senza dirlo alla polizia. Dopo la morte sarà licenziata, ma rimarrà integra nella sua povertà. Lei, è il porcellino che non ha niente. Infine c’è Arianne, la sorellastra, che Caroline, da giovane, sfigurò lanciandole un posacenere in faccia. E da quel giorno, Caroline è prona ai desideri di Arianne. Lei è l’ultimo porcellino, quello che fa “ahi, ahi, ahi”. Dopo alcune ricostruzioni dei fatti con gli avvocati del tempo, l’idea vincente e divertente della scrittrice è di far scrivere il resoconto dei fatti ad ognuno dei cinque porcellini. Dal loro raffronto, Poirot è convinto di riuscire a tirar fuori la verità. Verità che io, dalla seconda pagina, sono convinto di aver capito. Il colpevole è Arianne, e Caroline, per i sensi di colpa di cui sopra, la copre e subisce la condanna come espiazione. Colpevole forse preterintenzionale, che all'epoca dei fatti era poco più che quindicenne, e non aveva idea reale delle possibili conseguenze dei suoi gesti. Era arrabbiata perché Amyas voleva mandarla in collegio, cosa da lei odiata. E voleva fargli uno scherzo cattivo. Sbagliando però la dose del “veleno”. Molto interessanti sono comunque i cinque scritti, dove la maestria di Agatha si rivela con la capacità di variare i toni della scrittura ad ogni personaggio. Poirot, ovviamente, rivela le contraddizioni in ogni resoconto. Philip è innamorato ma respinto da Caroline, per cui ne mette in luce le qualità negative. Meredith, una volta anche lui preso da Caroline, è al momento dei fatti invaghito di Elsa, e fa di tutto, anche inconsciamente, per non rilevarne la sua grande dote (quella di arrampicatrice sociale). Elsa riporta spezzoni di discorsi sentiti durante il giorno fatale, magari omettendo qualche frase che potrebbe darne significati contrastanti. Arianne fa finta di ricordare poco (era giovane) con l’aggravante di vedere sempre più in pericolo la sua posizione. Solo la governante sembra essere immune da tutto ciò. Ma alla fine, con quel colpo di coda che mi aspettavo, ma che mi ha preso alla sprovvista, Poirot dimostra che Caroline pensava Arianne fosse colpevole, per questo non si era difesa, che Arianne non è il colpevole, che invece è … Beh, leggetelo no, è un vero esercizio di bravura e compostezza stilistica. Se Poirot, come dice lui stesso, è il miglior investigatore che ci sia, Agatha Christie è senz'altro una scrittrice di grande calibro. Ed ecco la filastrocca:

This little pig went to the market.
Questo maialino è andato al mercato.
This little pig stayed home.
Questo maialino è rimasto a casa.
This little pig had roast beef.
Questo maialino aveva l’arrosto.
This little pig had none.
Questo maialino non aveva niente.
This little pig cried "Wee, wee, wee, wee!"
Questo maialino gridò “Ahi, ahi, ahi!”
All the way home.
Per tutta la strada verso casa

Anche qui, comunque, se ci si riflette, tra scritti e porcellini si capisce di più. Sicuramente di più di quanto ne abbia capito io, prima che Poirot mi illuminasse.
Agatha Christie “Il terrore viene per posta” Corriere della Sera 28 euro 6,90
[A: 06/02/2015– I: 04/09/2015 – T: 06/09/2015] - && e ½
[tit. or.: The Moving Finger; ling. or.: inglese; pagine: 197; anno 1942]
Siamo al 48-esimo titolo sulle 130 pubblicazioni della nostra prolifica autrice. Negli anni Venti e Trenta ha dato molto spazio a Poirot, ma ora, in piena guerra, Miss Marple comincia a riguadagnare qualche posizione. Anche se sempre con quell'andamento defilato che non mi ha mai convinto sulle qualità dell’anziana investigatrice. Che più che investigatrice, come dice la stessa Agatha, è una conoscitrice dell’animo umano. Ed utilizza queste conoscenze per capire l’andamento della storia. Qui addirittura con un intervento che comincia solo a pagina 136 (cioè a 2/3 del libro), che si affaccia con due o tre frasi per un’altra quarantina di pagina, e che solo nelle ultime dà quel tocco finale che consente non tanto di dipanare la gialla matassa, ma di comprendere “i come ed i perché”, come diceva qualche poeta cantore. Infatti, per tutto il romanzo seguiamo la storia e le elucubrazioni del buon Jerry Burton, infortunato pilota, che sta passando la convalescenza, insieme alla sorella Joanna, nella piccola cittadina di Lymstock, probabilmente una quieta cittadina nel Devonshire in Cornovaglia (inferenza mia su notizie varie), a meno di 150 chilometri da St. Mary Meads nell’Hampshire (la città dove vive appunto Miss Marple). Per tutta una buona parte del romanzo si disquisisce su delle lettere anonime, che pervengono a diversi personaggi della cittadina stessa. Alla signorina Barton accusata di aver avvelenato la madre, a Owen Griffith, il medico locale per scarsa professionalità, a sua sorella Aimée, per altri futili motivi, all'avvocato Symmington, accusato di avere una storia con la segretaria, al signor Pye, grassoccio e gay, alla seconda signora Symmington, di aver avuto il secondo figlio non dall'avvocato (visti i di lui capelli rossi). Ed altre banalità e pettegolezzi cittadini. Ma come Jerry intuisce, anche se non lo esplicita mai (in fondo è simpatico ma un poco ottuso), tutto questo terrore che viene per posta non è altro che una cortina di fumo. Infatti, tutti nel paese pensano che ci sia qualcosa di vero negli scritti (non c’è fumo senza arrosto). Ma quel fumo serve a depistare dall'obiettivo reale. La morte della signora Symmington, che si suicida con una forte dose di veleno. Si cerca anche di coinvolgere nella trama “cattiva” la giovane Megan, figlia della morta ma in prime nozze, che è una irregolare del paese (si veste male, va in bicicletta, ed altre monellerie, pur avendo già venti anni e quindi dovendosi guadagnare un posto nella vita). Ben presto si arriva ad una seconda morte, quella di Agnes la cameriera, che probabilmente aveva visto qualcosa che poteva far modificare il giudizio sul suicidio. Anche se non lo focalizza, e viene uccisa prima di riuscire a comunicare i suoi sospetti. Finalmente, l’arrivo di Miss Marple consente di mettere in fila alcuni pensieri (il fumo di cui sopra, il fatto che la lettera indirizzata a Joanna Burton sia scritta per Barton, e poi modificata a penna). Tutto fa pensare, a Miss Marple ed a noi, ma non a Jerry, che appunto il vero obiettivo sia la morte della signora, che la morte della cameriera ne sia una conseguenza. Utilizzando allora Megan come esca, Miss Marple risolve il poco intricato bandolo, e tutto si avvia ad uno sdolcinato lieto fine, dove il nostro pilota, ormai guarito, decide di sposare Megan e rimanere a Lymstock. Insomma, una trama esile, un racconto che si tiene su alcuni bozzetti campagnoli, e che risente, appunto, del clima di guerra in cui viene scritto. Anche nelle vicende gialle c’è bisogno di un tocco di speranza e di sorriso. Cosa che la nostra Agatha riesce ad ottenere, scrivendo quasi 200 pagine su quasi nulla. Veniamo allora al secondo grande rimprovero da muovere al libro, questa volta, ed ancora, per la traduzione del titolo. Comprendo che non sia facile, ma intanto, dati gli ultimi libri scritti, sappiamo che Agatha s’interessa a poesie e rime varie. Prima erano filastrocche infantili. Qui, ricorda i suoi trascorsi in Medio Oriente, citando la quartina LI del Rubayyat di Omar Khayyam, che inizia appunto con “The Moving Finger writes, and having writ, moves on”. Una quartina dedicata alla non cancellabilità delle nostre azioni. Che anche se scritte sulla sabbia, e poi cancellate dall'acqua marina, rimangono da qualche parte. Quanto meno nella nostra memoria. Non esiste una traduzione esatta di questa quartina in italiano, ma io, almeno, ne avrei parlato in una nota finale. Ma si sa, io sono un inguaribile filologo. Speriamo che la guerra finisca e che la nostra scrittrice torni su temi più agili.
Come ormai ho abbondantemente scritto e sottolineato, la seconda trama del mese è dedicata, anche, a qualche malattia da curare con letture librarie mirate. A volte più che malattie, sono stati d’animo, o sensazioni che il libro (un libro) ci aiuta a superare. Come in questo caso che cerchiamo di aiutare i nostri conoscenti dalla fatica di essere genitori single.

Cominciata è la quaresima, tant'è che, benché promesse ed ipotesi, lontani sono viaggi ed altro caro ai nostri cuori. Rimangono vicino le musiche degli amici (con i concerti di Carlo e di Vito), e le nostre riunioni conviviali, speriamo sempre più ravvicinate. Per ora a tutti una buona giornata di festa.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

FEBBRAIO 2016
Questo mese passiamo non a curare uno stato di essere, che di certo non è una malattia. Un bel suggerimento per sostenere il peso di essere single e genitori.

GENITORE SINGLE, ESSERE UN

Helen Dewitt             “L’ultimo Samurai”
George Eliot              “La bella storia di Silas Marner”
Harper Lee               “Il buio oltre la siepe”
Nessuno ha mai detto che sarebbe stato facile. E a meno che non possiate permettervi di non lavorare, avere una tata che vive in casa con voi o una nonna sempre a portata di mano, cercare di essere presenti fisicamente ed emotivamente per la vostra prole, e in contemporanea guadagnarvi da vivere, mandare avanti la casa, e avere un minimo di vita sociale, è una sfida anche per l’essere umano più stoico. Alla letteratura piacciono tantissimo, anzi in maniera smodata i genitori single, e c’è molto da imparare da una vasta gamma di strategie genitoriali.
La nostra madre single preferita resta Sibylla ne “L’ultimo Samurai”. Madre del super-intelligente Ludo, non ha abbastanza soldi per riscaldare la casa e passa regolarmente intere giornate sulla Circle Line, da un capolinea all'altro, per tenere lei e il figlio al caldo. Sibylla non permette che la povertà interferisca tra lei e il successo. Sceglie di educare il figlio a casa e Ludo impara a leggere all'età di due anni; a tre è già in grado di affrontare Omero - in greco.
Sibylla condivide in parte la genialità del figlio e asseconda la passione di Ludo per le lingue – negli anni successivi, il bambino aggiunge al proprio curriculum ebraico, giapponese, norvegese antico e inuit.
L’unica cosa che la donna non farà mai e fargli conoscere il padre, preferendo ricorrere al classico di Kurosawa, I sette samurai, per dargli dei modelli maschili. Questo non impedisce a Ludo di mettersene in cerca - ma quale candidato potrebbe essere all'altezza di un samurai? Il romanzo è molto ingegnoso ed è scritto con l’amore per il linguaggio che potremmo aspettarci dalla scrittrice che ha concepito una simile coppia di poliglotti. Alla fine, ogni madre single che si affanna a crescere i figli in assenza di un padre applaudirà in silenzio.
Essere lasciati da soli col proprio bambino è un destino che riguarda più comunemente la donna - ma a volte anche gli uomini si trovano in questa situazione, ottima per rafforzare il carattere. Che siate uomini o donne, il commovente Silas Marner di George Eliot farà in modo che la consideriate una benedizione, se avete qualche dubbio. Amareggiato e solo, evitato dagli altri abitanti di Raveloe, Silas Marner non ha altra ragione per vivere che il proprio oro, che accumula e nasconde sotto le assi del pavimento. Un giorno trova un bambino misterioso addormentato davanti al focolare. A poco a poco, il piccolo Eppie lo intenerisce e gli insegna a volere bene e a superare la distanza che lo separa dagli abitanti del posto. Se non avevate progettato di essere genitori single, e fate un po’ fatica ad abituarvi, questo romanzo servirà a farvi coraggio.
Il miglior padre single in assoluto, comunque, è Atticus Finch ne “Il buio oltre la siepe” di Harper Lee. Per sapere come trattare i vostri figli con rispetto, dare loro la libertà di giocare ed esplorare il mondo da soli, dimostrargli l’importanza di lottare per ciò che pensano sia giusto e contro quello che pensano sia sbagliato, non dovete cercare oltre. Costruitevi una casa con una veranda e metteteci una sedia a dondolo. Sedetevi e accendete la pipa. Leggete “Il buio oltre la siepe” una volta l’anno, prima a voi stessi e poi ai vostri figli, a voce alta. Siate forti, e siate presenti per loro. Il resto verrà da sé.

Bugiardino

Anche questo mese, non ho letto molto delle proposte fatte. Conosco il libro su Silas, non conosco affatto la Dewitt, mentre ho letto, e consiglio a tutti di leggere, il libro della Lee (e di vedere anche il bellissimo film).
Harper Lee “Il buio oltre la siepe” Feltrinelli euro 8 (in realtà, scontato 6)
[ pubblicato il 14 settembre 2008]
Un libro pieno di sorpresa, o almeno tre: la prima è che Harper Lee è una donna, mi ero sempre fissato fosse un uomo. La seconda è la dura gradevolezza. La terza è che Atticus Finch anche nella scrittura ha sempre la faccia di Gregory Peck. Unico libro degno di nota della Harper, anche ora, a quasi 50 anni dall'uscita, mantiene la sua forza, la sua freschezza, la sua dolente attualità. Un libro in fondo pieno di diversi, con i quali fare i conti. E sarà proprio uno tra i più bistrattati a salvare da una sordida fine i “Finch brothers”. Vogliamo parlare del nero accusato solo perché nero? Dei benpensanti che vanno in giro a fare le ronde? Dei padri padroni? Forse sarebbe giusto, come sarebbe giusto proiettare nelle scuole lo stupendo film. A Maycomb, Jem e Scout (figli di Atticus Finch) un'estate conoscono un altro bambino, Dill, e fanno amicizia. I tre sono attirati da Arthur Radley detto Boo, considerato un uomo pericoloso e violento, rinchiuso nella casa accanto alla loro. Ma, col passare del tempo, si accorgono che Boo, senza farsi vedere, si preoccupa dei tre. Atticus spiega che è stato nominato d'ufficio per difendere un uomo nero, Tom Robinson, accusato di violenza carnale su una bianca, anche se sapeva che avrebbe perso. Al processo, Atticus dimostra, senza ombra di dubbi l’innocenza del nero e la colpevolezza di Bob il padre della violentata. Ma Tom viene condannato ugualmente da una giuria di bianchi. Durante una festa di Halloween Scout e Jem stanno andando verso casa, dopo la recita, quando vengono assaliti da un adulto. Nel luogo della lotta, alla fine viene ritrovato il corpo di Bob pugnalato al petto. Ho detto quasi tutto, ma lascio un po’ di buio, infondo alla siepe. Note di merito alla traduttrice (se è merito suo) che ha reso nel titolo molto dell’atmosfera. Infatti in italiano, il titolo è una metafora: il buio oltre la siepe è ciò che è sconosciuto pur essendo vicino. Nel romanzo, è la figura di Boo, il vicino di casa dei Finch che loro non hanno mai visto e che, per questo, non conoscono. E infatti anche Scout afferma che, col tempo, la casa di Boo non la spaventava più, ma non le appariva meno buia. Nel testo, invece, ci sono diversi riferimenti al titolo originale (“To kill a mockingbird” che significa: Uccidere un usignolo). L’usignolo è un uccello innocuo, che delizia con il suo cinguettio. Uccidere un passero è quindi un peccato doppiamente grave.

Conclusioni

Una volta tanto, sono d’accordo “in toto”. Come dicono Ella & Susan un libro da leggere, rileggere e raccontare ad alta voce ai propri figli e nipoti.