domenica 25 giugno 2017

Torniamo a Roma (antica) - 25 giugno 2017

Ultima trama del breve (per trame) mese di giugno. In attesa di capire se vedremo presto il Medio Oriente, se torneremo presto verso il Nord Europa, se la Cina sarà sempre vicina, in questa settimana riposante torniamo all’antica Roma, con quattro romanzi imperniati su Publio Aurelio Stazio, l’investigatore-senatore romano inventato dalla ben documentata penna di Danila Comastri Montanari. Sembrano un po’ invecchiare nell’impianto e nella resa, tanto che si avvicinano ad una scarsa sufficienza. Sono comunque ottime letture estive da ombrellone.
Danila Comastri Montanari “Saturnalia” Mondadori euro 9,90 (in realtà, scontato a 6,93 euro)
[A: 28/11/2014 – I: 07/04/2016 – T: 09/04/2016] - &&&-- 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 241; anno 2002]
Una sufficienza stiracchiata per la nuova avventura dell’investigatore dell’antica Roma Publio Aurelio Stazio, come recita il lancio pubblicitario di Mondadori. Una casa editrice che continua a pubblicare tante cose, anche interessanti (non mi riferisco solo a questi libri, ovvio), ma che continua altresì a fornire notizie fuorvianti al lettore. Infatti, nei risvolti editoriali si cita come copyright il 2014, anno in cui Mondadori ha acquisito una serie di diritti sull’opera della nostra Danila. Ma questo libro, come riporto sopra, è stato scritto nel 2002, uscendo per i tipi di una sotto-casa editrice, la “Hobby&Work”. Ristabilite quindi le proporzioni editoriali, possiamo passare alla disamina del romanzo, che, pur nel solco della sempre degna scrittura della nostra possiamo quasi dire amica, storica e scrittrice, raggiunge con un po’ di fatica la mia sufficienza di gradimento. Sembra quasi un passaggio, da una serie di romanzi, ognuno dedito ad un qualche aspetto della vita nell’Antica Roma, ad un momento quasi di secondo piano. Certo, c’è il contesto che rimanda ad un momento della vita del tempo di sicuro interessi: le feste saturnali. Intanto abbiamo l’indicazione di quando comincia l’azione narrata: il sedicesimo giorno prima delle calende di gennaio del 799 aUC. Cioè, tradotto in termini “nostri”, il 17 dicembre del 46 dopo Cristo (ricordo che aUC sta per ab Urbe Condita, cioè anni trascorsi dalla fondazione di Roma). I Saturnali (seppur codificati in maniera fissa nel calendario solo sotto Domiziano nell’81 d.C.) erano una festa (poi sovrappostasi alle festività natalizie) in cui si lasciavano andare un po’ i costumi, ci si scambiava regali, e, soprattutto, c’era un momento di inversione dei ruoli. Gli schiavi venivano serviti dai loro padroni, in una giornata di feste e banchetti. In questo contesto si inseriscono alcune morti “sospette”: un augure, Caio Catulo, poi un piccolo ladruncolo, Tiberillo, infine un antesignano del sinistro Fagin di Dickens, il cattivo Adriatico. Il nostro Aurelio viene coinvolto in queste morti da Quinzia Metella, la Virgo Maxima delle Vestali. Perché queste erano le depositarie dei testamenti degli onorati romani. E Catulo, nel suo, disereda i suoi due figli, viventi, in favore di un poco noto figlio avuto dalla sorella di Quinzia, poi morta di parto. Aurelio non può sottrarsi dal coinvolgimento perché (come sappiamo da uno dei primi romanzi) ebbe una storia con una vestale, e se questa fosse risaputa potrebbe andare della sua incolumità. Ovviamente Quinzia ha le prove della “marachella” di Aurelio. Che inizia quindi le sue indagini. Che non ci coinvolgono più di tanto, ma che rivelano altri due aspetti (a me poco o per nulla noti) della vita romana. L’importanza della casta degli auguri, di cui faceva parte Catulo, come interpreti della volontà degli dei attraverso l’osservazione del volo degli uccelli. Meno nota invece la pervicace usanza di sposarsi e divorziare in uso tra tutte le alte classi. Per legare tra loro le diverse famiglie, attraverso vincoli di sangue. Ed altre complicate interrelazioni, che riusciamo a seguire in un lungo intervento di Pomponia, l’amica gossippara di Aurelio. Alla fine si rivelano intrecci perversi tra famiglie diversi, i Catuli, gli Enni, i Metelli. Apprezziamo le doti di Aurelio che da un lato sventa un tentativo di depauperare le riserve auree dell’imperatore, attraverso un lungo giro di ruberie e monete false facenti capo ad Appio, il primogenito di Catulo (poi anche lui morto) ed a Publio Comniano, tutore della secondogenita dei Metelli. Dall’altro imbastisce una possibile ricostruzione del figlio perduto della Metella morta, convincendo che in realtà possa essere una figlia, e favorendone le nozze con Mamerco, secondogenito dei Catuli. In realtà non tutto è come appare, ed alla fine verranno fuori altre possibili spiegazioni. Ma queste le lascio a voi volenterosi lettori, che vi dedicherete con piacere alla scoperta di altre spigolature della vita romana. Nonché a fare il tifo affinché il nostro Aurelio (che confessa di avere quarantatré anni) continui le sue conquiste amorose delle belle matrone romane (e non solo). Però, come detto all’inizio, manca un po’ quella tensione verso la scoperta di intrecci tra momenti alti e bassi della Storia che era presente in altre e migliori prove. Rimanendo tuttavia una lettura di svago certo, ma che consente, a chi lo voglia, di far funzionare i nostri pochi neuroni rimasti.
Danila Comastri Montanari “Ars Moriendi” Mondadori euro 9,50 (in realtà, scontato a 7,15 euro)
[A: 18/03/2015 – I: 04/07/2016 – T: 06/07/2016] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 262; anno 2003]
Proseguiamo nelle intense letture (in quanto a numero almeno) delle storie “romane” della professoressa bolognese. Qui abbiamo una “special edition”. Nel senso che è un libro omaggio alla città di Pompei (ed all’ambiente napoletano in genere), che già si concretizza nella dedica del libro che riporto. “A tutti coloro che si battono contro il tempo, l’incuria, i furti, i vandalismi e l’esiguità di risorse economiche per studiare Pompei e tramandarla ai posteri”. Già questo dovrebbe predisporre benevolmente al libro. Ma lo sforzo di Danila si concretizza anche in una minuziosa ricostruzione della città 32 anni prima della devastante eruzione. Quest’amore per Pompei, ed alcuni elementi sulla costruzione del giallo che qui si evidenziano (e che più avanti citerò) danno una piccola sufficienza ad un libro dove invece la trama in sé è di una complicazione unica, tanto che non so se riuscirò a farvela apprezzare pienamente. Ma dicevamo di Pompei. Nella ricostruzione storica che ci fa Danila, troviamo ad esempio che l’alloggio di Publio Aurelio Stazio è noto come “Casa della Venere in Conchiglia”, anche se il dipinto citato da Castore fu dipinto solo dopo il 69 dc. La casa dove il nostro incontra la moglie del decano è la “casa della Fontana Piccola”, mentre Pomponia, l’amica gossippara di Aurelio, alloggia nella “Casa del Fauno”. L'ambulatorio di Pustula si trova presso la Casa del Chirurgo: gli scavi della domus portarono alla luce il corredo di bisturi e altri strumenti medici che Aurelio offre in dono al cerusico. Il forno sulla Via Consolare dove Aurelio si reca alla ricerca di Luccio si caratterizza per essere stato ricavato da una precedente domus familiare e vi sono ancora visibili le grandi mole per la macinazione dei cereali e la bocca dove veniva messo a cuocere il pane. Lo spaccio di Abinerrico deriva dal nome di origine giudea Abner, e da lì ci sono arrivate sedici anfore di vino con il suo nome. Inoltre oltre al garum normale (salsa piccante di spezie e pesce) sono state ritrovate sei anfore di garum castum, ovvero garum rigorosamente kasher. Infine per non essere prolisso e pedante, la statuetta della dea indiana Laskmi, che Sara mostra al senatore venne trovata in una casa di Via dell’Abbondanza. Mentre è inventata la via centrale delle vicende, il Vico del Sacello Bianco, dove invece il nome echeggia il nome londinese di Whitechapel, teatro delle nefande imprese di Jack lo Squartatore. Qui, invece siamo molto prima delle vicende Ottocentesche inglesi, anche se siamo coerentemente poco dopo il romanzo precedente. L’azione si svolge infatti in dieci giorni nel febbraio del 47 d.C. Notiamo la consecutio con “Saturnalia”, anche perché Pomponia risente ancora di una caduta che avviene nel precedente libro. Questo ci dà modo di tornare sul punto che si diceva della costruzione degli elementi fondanti del giallo (o di questo tipo di giallo) seriale. Ad esempio è importante che le azioni non siano tanto diluite nel tempo, perché molta della messa in scena del “detective Stazio” dipende dal suo mentore, l’imperatore Claudio. Ora siamo nel 47, ed è vero che Claudio impera sino al 54, ma a Danila serve come contraltare dell’imperatore la dissoluta Messalina, che però fu condannata a morte da Claudio nel 48, quindi molte vicende devono restringersi nel tempo per avere efficacia. Inoltre, Danila alterna gli scenari, che mantenendosi troppo nelle stesse location, si avrebbe un congelarsi delle caratteristiche degli “attori” che, anch’esso, sebbene possa essere consono ai due personaggi principali, Aurelio e Castore il suo (in-)fido segretario, non lo è per il contorno. Ad esempio per le avventure amorose di Aurelio, che con questo stratagemma riesce ad avere una “storia” per libro sempre con donne diverse. Quindi, se “Saturnalia” si svolge in Roma, qui ci si deve spostare. La scusa, che capziosamente si può leggere in controluce nell’exergo da “Ars Amandi” di Ovidio, dove si disquisisce del corretto comportamento delle donne maritate, è un’indagine che lo stesso Claudio commissiona direttamente ad Aurelio: in gioventù, lo zoppo futuro imperatore aveva rapporti più che altro con “lupe” (termine del tempo per indicare donne praticanti sesso dietro compenso). Una delle sue più fedeli, Fortunata, di nome se non di fatto, viene trovata barbaramente uccisa in quel di Pompei dove si godeva la pensione elargitale da Claudio come compenso delle sue opere giovanili. Giunto nella cittadina in incognito, il senatore Aurelio si trova subito ad affrontare l'omicidio di un'altra donna: Velasia, donna libera datasi al meretricio e rampolla di una delle famiglie più in vista di Pompei. Quest'omicidio e quello successivo di Mulvia, madre di Velasia, getta la gaudente cittadina nel panico su cui si staglia tenebrosa l'ombra di un serial-killer che si accanisce esclusivamente contro le donne. Aurelio scopre anche che ci sono altre morti di altre donne a complicare lo scenario. La trama è alquanto ingarbugliata, seppure i nostri si muovano (e noi con loro) nella cittadina napoletana, mangiando nelle taverne, ma soprattutto usufruendo delle famose terme, uno dei gioielli dell’epoca. Come detto, la trama non è delle più lineari. Danila si diverte a complicare gli scenari, mettendo in campo lupe, donne maritate, avventurieri ed altre storie di contorno, che lascio ai fedeli lettori di dipanare. Quello che risalta è il crogiolo di civiltà che convergono in quei porti di mare, in articolare con qualche tocco di esoteriche credenze orientali. Come quella dedicata al dio Attis, dove i sacerdoti, per ingraziarsi gli dei, si eviravano pubblicamente. Sono molti i personaggi accusati e poi (quasi tutti) assolti: il procuratore dei Tiburzi, il losco Sepurio Orbato, il super dotato decurione Cullelolo Afro, il decano Settimio Occio ed anche la sua stessa moglie Amanda. Ovvio che Aurelio sfrutterà le sue doti investigativa per capire che l’omicida non può che essere un liberto proveniente da Oriente, che ha i denti guasti, al contrario dei pompeiani che, usando la benefica acqua locale, sono tutti forniti di bellissime dentature. Inoltre, la morte di tante donne, ed in maniera efferata, non può che orientarci verso qualcuno privo dei giusti attributi. L’avete capito no? Pur cercando di sgarbugliare la trama, del libro preferisco ricordare appunto le parti descrittive, la vita pompeiana ante catastrofe, ed i bei luoghi intorno a Baia, Bacoli e Pozzuoli.
 “L’ha conosciuta a Baia, il luogo peccaminoso per eccellenza, noto per trasformare le più fedeli delle Penelopi in ardenti Elene di Troia.” (74)
Danila Comastri Montanari “Olympia” Mondadori euro 12 (in realtà, scontato a 8,40 euro)
[A: 13/07/2015 – I: 20/08/2016 – T: 23/08/2016] - && e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 243; anno 2004]
Se ricordate quanto detto nella precedente trama, sul modo di concatenare le storie, in maniera da non rimanere incartati in trame poco gestibili, questo nuovo romanzo (ricordo che la storica bolognese ne ha fatti uscire per un lungo periodo uno ogni anno) avrebbe potuto svolgersi di nuovo in Roma. L’autrice però preferisce prendersi una pausa, e riandare un po’ indietro nel rullo del tempo. Tanto che torniamo al 41 d.C., giusto al tempo in cui Claudio prende il posto di Caligola assassinato. Poiché il giovane senatore Publio Aurelio Stazio è meglio rimanga fuori dagli eventi, ci spostiamo un po’ verso Oriente. In particolare ad Olimpia, per assistere alla 205sima edizione dei Giochi Ellenici. Quelli che ora, nella nostra prospettiva storica, chiamiamo “Olimpici” in lode al luogo ove si svolgevano. La bella prova di scrittura, è darci la sensazione di come questi giochi si svolgevano, noi che a ben altre Olimpiadi siamo adusi. Solo un piccolo dubbio da pignolo. Poiché siamo nel 41 d.C. e l’ultima Olimpiade si tenne nel 393 d.C., essendo questa la 205esima, l’ultima avrebbe dovuto essere la numero 293, mentre in realtà fu la numero 292. A parte questa domanda, Danila ci dice correttamente che i vincitori venivano premiati con fronde di oleastro, il progenitore selvatico dell’olivo. Pianta che era talmente sacra in Grecia che chiunque veniva sorpreso a danneggiarlo veniva punito con l’esilio (bisognerebbe riproporlo). Quindi olivo e simili, non alloro, cioè foglie di lauro, che invece erano di discendenza romana e non greca. Altri elementi che ci sottolinea la scrittura, e che sono da tenere in mente nel corretto inquadramento storico delle vicende, sono le gare che si svolgevano: il pugilato, la corsa, il pentatlon – l’insieme di 5 gare il salto in lungo, la corsa, il lancio del disco, il lancio del giavellotto, la lotta - e la corsa dei cavalli. Altro elemento caratterizzante, è la partecipazione riservata ai cittadini greci maschi liberi. Elemento che molte città-stato elleniche tentavano di aggirare, adottando atleti provenienti da ogni dove. Tanto che si mise presto anche un secondo codicillo: dovevano essere uomini (e si sa che le donne non potevano neanche assistere, dato che gli atleti gareggiavano nudi) che parlavano la lingua greca. Alla faccia delle competizioni internazionali. Dopo questo excursus, che mi diverte dandomi modo di spigolare qua e là nel mondo dei pettegolezzi di alto profilo, veniamo allora alla trama in sé. Come sappiamo dalla tradizione i giuochi si svolgevano d’estate, quindi erano solo sei mesi che Claudio aveva preso il titolo di imperatore (Caligola fu assassinato il 24 gennaio) e la moglie Messalina di conseguenza divenne la prima donna dell’impero. Claudio entrò in rotta di collisione con il Senato, per cui il nostro giovane senatore accetta di buon grado l’invito della matrona Pomponia di guidare la delegazione dei suoi cavalli per conquistare l’oleastro. Pomponia non può muoversi da Roma, e Aurelio dovrà badare di scongiurare atti di sabotaggio (ben frequenti all’epoca). Aurelio, con il fido Castore, segretario, ma ancora schiavo e tuttavia il migliore contraltare del senatore (una specie di duetto investigativo ante-litteram tra Holmes e Watson e tra Wolfe e Goodwin). Castore è pronto ad approfittare delle opportunità (anche economiche derivanti da scommesse) ed Aurelio ad indulgere nel suo passatempo preferito (corteggiare belle donne, portando a buon fine i suoi assedi). Invece vengono presto coinvolti in una serie di morti. In rapida sequenza vengono assassinati: prima, a coltellate, un tifoso, poi un pentatleta, sgozzato con un disco da competizione dal bordo tagliente, ed infine un velocista, trucemente trafitto da un giavellotto. Sembrano le azioni di un serial killer, votato ad eliminare possibili concorrenti. Tanto che gli indizi si concentrano su di un discobolo di Corinto, Pirro. Sia per le armi usate, sia, soprattutto, perché risulta irreperibile. Aurelio, in quanto senatore, viene invitato dai giudici di gara, che dovrebbero sovraintendere alla moralità delle gare, ad indagare. Cosa che il nostro compie con zelo, non solo coinvolgendo una serie di personaggi più o meno loschi che si aggirano per i campi atletici, ma anche indagando sul conto dei giudici stessi. Qui al solito Danila comincia ad intorbidire le acque. Mettendo in mezzo tante storie, con lo smaccato intento di metterci in difficoltà. C’è Diagora, giudice che possiede tutti i terreni che affitta per le gare con enorme profitto e che vede minacciate le sue entrate. C’è Busiride, che ha un figlio segreto che partecipa alle gare e che probabilmente lo vorrebbe vincente. C’è Zarzas, un cartaginese che ha in odio tutti i romani, ancora memore della sconfitta nelle guerre puniche. C’è Tullia che sta brigando affinché il fratello Tadio, esiliato da Roma per brogli economici, venga riammesso entro i confini dell’impero. C’è Ermete, matematico orgoglioso ed irascibile, reduce da una terribile sciagura familiare dove furono trucidati tutti i componenti della sua famiglia, eccetto il suo secondogenito Frisso. Aurelio riesce a risolvere tutti i nodi delle varie storie, primo fra tutti quello di Ermete, dove si domanda la sua strana attrazione per Frisso (che spaventa Castore, il quale provvede a fargli avere subito un incontro con l’etera Aglaia). Fortunatamente Frisso è in realtà una donna travestita, anche se non esente da colpe. Risolve anche il dilemma di Tullia, nonché fa la pace con il cartaginese. Il quale lo aiuta anche nel momento che il vero colpevole stava per assalire anche Aurelio. Colpevole che aveva ucciso il tifoso che aveva assistito ad una sua transazione con Pirro, ucciso Pirro per poterlo incolpare della morte del pentatleta, ucciso il pentatleta davanti a tutti, usando un trucco simile a quello utilizzato in un vecchio racconto dalla stessa autrice, ma che non vi svelo. Insomma tutto al proprio posto, con Aurelio e Castore che possono trionfalmente tornare nella Roma delle congiure e delle trame. Meglio la parte che descrive le gare e l’atmosfera che si respira ad Olimpia. Meno bene la trama gialla, o le trame, un po’ ingarbugliate. Con l’unico pregio che, alla fine, Aurelio ci svela tutti i misteri che sono intercorsi nei cinque giorni di gara. Speriamo risalga presto che ultimamente, pur riconoscendone le bellezze esteriori, le storie di Aurelio si stanno fermando. Parafrasandone il nome, stanno diventando stazionarie (terribile battuta).
Danila Comastri Montanari “Tenebrae” Hobby&Work euro 17 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 12/04/2016 – I: 25/05/2017 – T: 27/05/2017] - &&& --
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 303; anno 2005]
Con questo nuovo libro, la nostra ormai amica storica bolognese riprende invece il corso degli eventi, tornando “al tempo presente”. Ovviamente tra virgolette, perché il tempo è quello cui ci ha abituato lo scorrere della vita del senatore nonché investigatore dell’antica Roma, Publio Aurelio Stazio. Torniamo allora al 47 d.C., per immergerci in nuove avventure. Metto non a caso il plurale, perché qui trattiamo di quattro racconti, cosa che, purtroppo, fa scendere un poco il gradimento del testo. Infatti, ho già avuto modo di dire più volte, che Danila riesce meglio nella gestione di storie medio-lunghe, piuttosto che in brevi racconti. Direi anzi, che il racconto lungo o romanzo breve è la sua misura ideale: nel racconto, spesso ci sono parti affrettate e non risolte, nel romanzo, a volte si nota una certa stanchezza, quasi a voler riempire delle pagine con altro, rispetto alla trama principale. Fortunatamente, qui, i racconti sono tuttavia ben intrecciati temporalmente. Quattro episodi, che scorrono, e che, anche quando vanno indietro nel tempo, sono funzionali alla storia di vita del senatore romano. C’è una storia di fondo che fa da collante al testo (“Il caso della finestra sul cortile”) da cui si dipartono due avventure coeve ed un ricordo di una investigazione precedente (anche se solo di un anno), che serve tuttavia ad illustrare meglio il carattere ed i modi usati da Publio Aurelio nel suo procedere. Il collante nasce dalla richiesta di Pomponia, amica storica del nostro, di far luce su quello che a lei sembra un crimine. Che ricorda, come suggerisce il titolo, uno dei più bei film di Hitchcock. Da una finestra, Pomponia vede un assassinio, ma quando arrivano Aurelio e il comandante dei vigili Mummio Vero, poco si trova. Mentre Aurelio mette in un angolo la questione (facendo alterare non poco Pomponia), arriva l’invito di una sua cugina a festeggiare un genetliaco nell’agro laziale (“Il caso delle sette sorelle”). Ma Ocellina muore prima dell’arrivo di Aurelio e del fido Castore. Per cui non resta che indagare sulla morte violenta della cugina. Dove ad essere indagate sono le sue sette figlie: Petronia, Ermione e Petronilla figlie del primo marito Petronio; Bibula figlia di Bibulo Blando, aristocratico senza il becco di un quattrino; Fabia e Fabiola figlie di Fabio un liberto; Alba figlia di Albo Fulcino, anch'egli senza danari. Certo che il nostro, sempre cedevole al fascino muliebre, si trova una bella congerie di donne pronte a cascargli nel letto, vuoi per calcolo vuoi per altro. Meno Petronilla, cieca dalla nascita. E meno Alba, il cui unico intento è capire che abbia ucciso suo padre Fulcino. Una volta capito che fu la stessa Ocellina a volerne la morte prima che questi dissipasse i suoi averi, aiutata da Apuleio, che poi risulta essere il vero padre di Petronilla, molti tasselli tornano al loro posto. Ed Aurelio può tornare a Roma, dove lo attende una misteriosa lettera da una sua tenuta in Toscana, in cui si parla di delitti. Parte allora di nuovo, lancia in resta (“Il caso dell’Etruria”), adottando per la seconda volta il travestimento usato nella sua prima impresa. Fa finta di essere schiavo al servizio di Castore, al fine di introdursi tra gli schiavi della sua proprietà. Scoprendo le malversazioni del nuovo padrone, le angherie dell’aguzzino Micione (con cui avrà uno scontro atletico ma vincente), e sventando una finta rivolta tesa soltanto a mettere ai ferri gli schiavi buoni. Con uno stratagemma degno di von Clausewitz (dare ai tre sospettati tre indizi diversi, e quindi scoprire il colpevole), riesce a concludere tutto per il meglio, restituendo la sua proprietà ad un prospero futuro. E mentre nella sua dimora, riflette ancora sul primo caso, quello della finestra, Castore gli ricorda un caso analogo dove sembrava acclarato il colpevole ma tutto era un inganno. Era l’anno prima, nella sua casa di Baia (“Il caso della fullonica”), dove Aurelio accoglie le richieste della schiava Ianira, a torto accusata della morte della moglie di Pisandro, proprietari di una ‘fullonica’ (nome romano per lavanderia e tintoria, derivata da passaggi vari a partire da follare, opera di finissaggio della tintura, passata per il lavoratore ad essa addetto, fullone, e quindi nella casa dove egli lavora, appunto fullonica). In pochi passaggi, aiutato dalla bella Cissa (con cui ha anche una piccola parentesi non proprio da investigatore) scopre le losche trame proprio di Pisandro, avido figuro alla ricerca di un modo per avere tutta per sé la tintoria. Salvando nel contempo Ianira e soprattutto il di lei fratello Belo. Ritornando al presente, questa trama gli permette di far luce sugli avvenimenti visti da Pomponia, dove anche lì si trattava di eredità, di persone non viste, e di altri stratagemmi. Così tutto torna al proprio posto, e noi ci prepariamo, in futuro, a gustare altre prove di Aurelio (e soprattutto di Castore). Rimarcando la precisione filologica che l’autrice mai cessa di perseguire, sia nell’andamento storico (seguiamo sempre passo dopo passo i vari mesi del regno di Claudio) sia nella precisa ricostruzione delle attività dell’antica Roma. Dopo tante avventure, tuttavia, mi viene anche il dubbio, sollevato da quella finestra e dalle sue citazioni, che Danila cerchi anche in altri posti alcuni “debiti di scrittura”. Tanto che, come in molte opere di investigazione, abbiamo sempre l’eroe principale ed un suo aiutante. Ma non nella versione attiva di Conan Doyle, quanto (con le debite proporzioni) nella versione semi-passiva di Rex Stout, dove il nostro Castore-Archie viene coinvolto nelle trame di Aurelio-Nero senza mai comprendere bene cosa debba fare e perché. Sarà un paragone azzardato, per ora, ma ci si tornerà sopra, prima o poi.
“In breve, si vede sempre e soltanto quello che ci si aspetta di vedere.” (216)
Seconda trama, e come si aspettano i miei più affezionati lettori, eccovi allora anche un po’ di cure per le vostre malattie letterarie. Questa volta cercheremo di curare la crisi della mezza età con un bel libro finlandese.
Nel nostro mondo sempre più crudele, finisco questa trama e questo mese con nient’altro che un saluto alla cagnetta Trilli, che, benché onusta, ci ha lasciato anzitempo. Sicuramente ora a passeggio con Gastone, sperando di salutare Franco che tanto avrebbe voluto un cane. Mestamente vi saluto.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

GIUGNO 2017
Giugno è stato sempre un mese di viaggi, almeno negli ultimi anni. Cosa non mancata anche questo, con il bel ritorno a Gerusalemme. Si potrebbe prima o poi tornare anche sui passi delle trame di Arto, a prescindere dalle crisi che ci narrano le nostre libropeute.

MEZZA ETÀ, CRISI DI

Arto Paasilinna                   “L'anno della lepre”
Vorreste partire verso il tramonto su una potente, palpitante auto sportiva, fieri sul vostro sedile rivestito in pelle, con in mano la leva del cambio, rigida e lucida? Avete pensato alla vostra segretaria come potenziale passeggero? Risparmiatevi questa vergogna. Fate scivolare questo volumetto nella vostra ventiquattr’ore la prossima volta che partirete per un viaggio d’affari e riprendetelo in mano ogni volta che sarete presi dalla crisi di mezza età.
Si potrebbe dire che Vatanen, il giornalista eroe di questo romanzo picaresco, soffre dell’archetipo della crisi di mezza età. E uno di due uomini «cinici e insoddisfatti» - l’altro è un suo collega fotografo - che «si avvicinano alla mezza età». Nessuno ci spiega perché Vatanen senta il bisogno di andarsene da Helsinki per vivere un’avventura con una lepre; succede e basta. Quando durante un incarico insieme al fotografo la loro auto investe una lepre, lui scende e scopre che la povera creatura si è rotta una gamba. Mentre si prende cura di lei, rifiutandosi di rispondere alle domande del collega rimasto in macchina, quest’ultimo perde la pazienza e riparte senza di lui. Non importa; Vatanen non ha comunque molta voglia di tornare a Helsinki da sua moglie.
Si imbarca dunque in una serie di avventure che lo portano fino in cima alla Finlandia, facendo lavori saltuari lungo la strada. Tra le altre cose viene coinvolto in un incendio nella foresta, vive per un po’ nella casa di campagna di un commissario di polizia che, davanti a una bottiglia di vodka, condivide con lui la prova inquietante che il presidente della Finlandia forse non è quella meraviglia che tutti credono, e viene arrestato perché sembra sospetto quando, con la lepre in un cestino, bussa alla porta di qualcuno in mezzo alla foresta, sperando di aver trovato un posto dove dormire. Ci sono anche momenti di estrema ubriachezza (che in un caso dura otto giorni), un giro in elicottero e una drammatica caccia all’orso.
Tutto questo è allegro, energico e stimolante. Leggete L’anno della lepre: contiene tutta l’avventura che cercate ed eviterà che facciate gesti inconsulti e combiniate chissà quali guai. Anche se, ovviamente, se portaste con voi un bell’animale selvatico invece delia segretaria riuscireste forse a salvare capra e cavoli e vivere la vostra crisi senza conseguenze.

Bugiardino

Ho letto del grande finlandese, ed ammiro la sua ironia e causticità. A volte forse un po’ criptica per noi poveri “sudisti”. Ma lo ritengo un autore di cui tutti dovrebbero leggere almeno un libro.
Arto Paasilinna “L’anno della lepre” Iperborea euro 13 (in realtà, scontato a 9,75 euro)
[trama pubblicata il 01 maggio 2015]
Se non avessi letto “Piccoli suicidi tra amici” (ancora grazie, Emilio) non avrei avuto una così alta ed intensa partecipazione a questo libro (uno dei primi) del grande scrittore finlandese. Durante un viaggio in macchina con un suo collega Vatanen investe un leprotto; l'animale benché ferito ad una zampa posteriore riesce a scappare ed a nascondersi tra l'erba di un piccolo campo poco distante dalla strada. Vatanen scende dall'auto e trovata la lepre, ormai immobile per la frattura all'arto, la prende in braccio. E da quel momento, come toccato dalla magia della natura, Vatanen si lascia andare, abbandona la moglie, il lavoro e il caos della civiltà per iniziare un lungo viaggio all'interno della natura più incontaminata, sicuramente molto familiare all'autore, il quale prima di affermarsi come scrittore faceva il guardaboschi. E come per i “suicidi”, il bello ed il buono del romanzo sono nei mille incontri, nei mille piccoli bozzetti di personaggi, talvolta buoni, talvolta meno, e pur tuttavia emblematici del modo di vivere finlandese.  Non a caso, Arto, qui e nei suoi migliori libri, è l’ideatore di quel filone di letteratura che andrà sotto il nome di “umorismo ecologico”. Per tutto il romanzo, seguiamo Vatanen e la sua lepre partire da Heinola, e continuare il loro viaggio visitando Mikkeli, Kuopio, Nurmes Sonkajärvi, Kuhmo, Posio, Rovaniemi e Sodankylä (e che poesie rievocano questi nomi ignoti). Sconfinerà anche in Unione Sovietica, per alcune avventure estranianti, per poi completare il cerchio tornando a Helsinki. Cercando di prendersi cura della sua lepre, inoltre, Vatanen impara a poco a poco a comunicare con la natura. Il suo incontro con la natura si riflette anche in alcuni episodi: una lotta contro un grande incendio nei boschi, l’assistenza al parto di una vacca, farsi assumere come boscaiolo, lottare per salvare il suo pasto assalito da un corvo vorace. La sarabanda di incontri tra folli e casuali raggiunge i suoi punti magistrali con le discussioni con l’ex Commissario Hannikainen, convinto che nel 1968 il presidente simbolo della Finlandia, Urho Kekkonen sia stato sostituito da un sosia. E poi il parroco Laamanen di Sonkajärvi, che distrugge la sua Chiesa a colpi di fucile per cacciare il leprotto di Vatanen. E Kurko un suo collega boscaiolo, un po’ bracconiere, un po’ imbroglione, che vende illegalmente rottami di materiale militare abbandonato dai tedeschi in ritirata durante la Guerra della Lapponia. O Kaartinen, l’esaltato dei boschi, che riprende le credenze delle antiche religioni arboricole finlandesi e cerca di sacrificare il povero leprotto. Dopo un episodio in cui mette in ridicolo le forze armate finlandesi, e punteggiato dall'attacco di un orso, Vatanen si sveglia in compagnia della giovane Leila, con la quale, da ubriaco, si era fidanzato. Ma non è un incontro sterile, che anche Leila è orientata ecologicamente. E dopo una caccia all’orso, che lo porta a sconfinare ed essere arrestato oltre cortina, al suo ritorno nelle patrie galere, lui, la lepre e Leila, fuggono e fanno perdere le loro tracce. Uno dei momenti “alti” dell’eco-umorismo di Paasilinna si ha a pagina 187, dove le autorità finlandesi fanno l’elenco dei reati da lui commessi, in pratica quasi un riassunto del libro. E noi vediamo come le autorità, la burocrazia e l’insipienza possano travisare i fatti, presentarli sotto luci improbabili. Insomma, in una specie di sommario il nostro scrittore decritta il libro, e ce ne fa meglio apprezzare i pregi. Certo, è un libro datato (scritto nel 1975, nel pieno del terzo ed ultimo mandato presidenziale di Kekkonen), ed è anche un libro molto finlandese (con quel luteranesimo dei paesi scandinavi, per cui non si beve durante la settimana, ma ci si ubriaca il venerdì, per poi essere riaccompagnati a casa da un tassista). A me dispiace averlo scoperto tardi, ma ritengo che possa valere uno sforzo di lettura. Ed anche uno sforzo di viaggio, che Helsinki e la Finlandia presentano comunque interessanti lati da scoprire. Vi lascio quindi alle peripezie di Vatanen, (riportando in allegato il farsesco “riassunto”) con la sua “lepre bianca” (questo sarebbe il nome italiano del “Lepus timidus”) e la sua ecologia ante-litteram (e se il mio amico Ciccio non lo ha letto, gliene consiglio vivamente un ripasso).

Conclusioni

Non so se per “alleviare” la mezz’età sia il caso di fuggire e ricostruirsi. So di certo che, se si arriva ad un punto morto della propria esistenza, che sia adolescenza, mezz’età o vecchiaia, bisogna fermarsi, pensare e soprattutto cambiare. Grazie Arto per i tuoi pensieri in libertà che ci permetteranno di sicuro di cambiare qualcosa.

Allegato - RIASSUNTO IMMAGINARIO DELL’ANNO DELLA LEPRE
Le accuse dei “ridicoli” sovietici che ci fanno scoprire il “viaggio” di Vatanen.

Vatanen è stato accusato: 1) di adulterio, 2) di aver ingannato le autorità per non aver segnalato un cambiamento di indirizzo, quando in estate aveva 3) abbandonato la casa coniugale. 4) È stato quindi accusato di vagabondaggio. 5) Vatanen aveva tenuto un paio di giorni un animale selvatico in suo possesso, senza autorizzazione. In Nilsiä (6) Vatanen aveva illegalmente pescato con la fiocina insieme ad un tal Hannikainen senza licenze di pesca; 7) nel corso di un incendio boschivo, aveva violato la legge consumando bevande alcoliche distillate illegalmente, 8) Inoltre, durante lo stesso incendio, Vatanen aveva trascurato le sue mansioni per ventiquattro ore per consumare alcool con un uomo di nome Salosensaari; 9) a Kuhmo, Vatanen aveva profanato un defunto; 10) nel villaggio di Meltaus, Vatanen è stato coinvolto nel trafugamento e nella vendita illegale di un bottino di guerra tedesco; 11) a Posio, Vatanen aveva torturato un animale 12) al Ruscello-del-Cacchio aveva malmenato un maestro di sci di nome Kaartinen; inoltre 13) Vatanen aveva omesso di informare le autorità in tempo per la presenza di un orso nella zona delle Gole-Ansimanti, a Sompio; 14) ha preso parte ad una illecita caccia all'orso, senza il porto d’armi: 15) aveva partecipato, senza invito formale a una cena organizzata dal Ministero degli Affari Esteri; 16) aveva fatto curare la sua lepre in un istituto di ricerca pubblico a Helsinki senza pagare le tasse corrispondenti; aveva inoltre (17) malmenato nel bagno di un ristorante di Helsinki il Segretario della Federazione Giovanile del Partito Conservatore; 18) aveva guidato una bicicletta in stato di ebbrezza, sulla strada per Kerava; 19) si è fidanzato, essendo ancora sposato, con una tale Leila Heikkinen; Vatanen era ancora (20) recidivo avendo di nuovo cacciato un orso senza il porto d’armi; e 21) nel corso della caccia, aveva oltrepassato il confine tra la Finlandia e l'Unione Sovietica, senza passaporto e senza visti; era allora colpevole dei fatti che aveva confessato (22) alle autorità sovietiche.

venerdì 16 giugno 2017

Israele e altri luoghi - 16 giugno 2017

Cosa di meglio, per festeggiare il ritorno da un bel viaggio in una terra che sempre ci accoglie, se non iniziando proprio con un autore israeliano. Che non sempre mi piace, ma che qui, ringraziando Nico, mi ha fatto trascorrere giorni epifanici lieti. Per gli altri luoghi, si torna prima nel Nord Europa, con quel Bjorn che tanto di mare scrive, facendomi tornare all’infanzia dei tesori. Finendo poi nell’America del Sud, del grande Gabo, che non sempre mi piace. Come qui: due libri e due giudizi, buoni eppur diversi.
David Grossman “Qualcuno con cui correre” Mondadori s.p. (regalo natalizio di Nico)
[A: 25/12/2016– I: 05/01/2017 – T: 07/01/2017] - &&& e ½  
[tit. or.: מישהו לרוץ איתו Misheu Laruz Ito; ling. or.: ebraico; pagine: 362; anno 2000]
Avevo letto questo Grossman al tempo dell’uscita, ma era rimasto dimenticato nelle pieghe della memoria, sia come libro (che non trovavo più nelle mie librerie) sia come storia, benché non sia facile farla uscire di mente. Ma si sa che il mio cervello ogni tanto ha dei salti quantici che non immaginate, per cui, va bene così. E va bene che l’ottima Nicoletta me lo abbia omaggiato nelle nostre scorribande natalizie. In realtà non ho letto molto di Grossman, che nelle sue prime espressioni trovo difficile da seguire. Mi trovo a mio agio più con Amos Oz che con lui, anche se del buon David seguo sempre con interesse le prese di posizione, gli articoli politici pubblicati qua e là. Devo quindi convenire che questo romanzo “di formazione” come sarebbe chiamato dai critici ortodossi, è un buon romanzo, si legge con facilità, anche nelle sue improbabilità. Perché non è probabile certo la corsa di Assaf per le strade di Gerusalemme, dietro alla cagna Dinka alla ricerca di una fantomatica Tamar, improbabili gli incontri (Teodora, il poliziotto cattivo, Sergej, Leaf), improbabile alla fine l’incontro con Tamar, e la soluzione, per fortuna, ottimistica di tutta la storia. Tanto improbabile da essere vera, appassionata, in molti sensi adorabile. Anche se mi lascia più freddo tutta la storia di strada degli artisti maledetti e senza futuro che si aggirano per un’Israele che, all’epoca dello scritto, avevo appena visitato. E già, proprio nel 2000 e nella sua Pasqua feci un grande giro per tutto Israele, dal deserto del Negev sino ad un kibbutz nel nord, verso il Libano, rimanendo, a lungo, e spero di tornarci presto, in una sempre adorabile ed amata Gerusalemme. Città di tutte le razze e le religioni. Questo è quello che qui mi manca un po’. Un racconto che potrebbe essere ovunque, che dribbla i problemi locali, per tirare fuori, e con grande capacità certo, i problemi di tutti, dei giovani, della vita che cresce, della droga che invade il terreno dei giovani. Che li devasta, che li cede in pasto ai delinquenti che ci sono ovunque, qui, lì e in Israele. Ma qui siamo ovunque, e siamo alla storia di Assaf e di Tamar. Che, come altrove in Grossman, si intrecciano, percorrendo le loro vie prima di congiungersi in un finale comune. Assaf lo seguiamo in diretta, sedicenne introverso, ma pieno di sensibilità, che viene incaricato di trovare il padrone della cagnetta Dinka, persa in una calda estate israeliana. Dinka porta il nostro in giro per la Gerusalemme ebraica, prima da un pizzaiolo che gli confeziona una pizza olive e capperi, poi dalla suora greca Teodora, che da quaranta anni aspetta i pellegrini della sua natia Lyksos che non arriveranno mai. Ma che conosce Tamar (primo tassello) e che comincia a parlarne. Per far sì che Assaf continui la ricerca, che Tamar è scomparsa. Dopo giri diversi, incontri cattivi (il polizotto ottuso, il mafiosetto russo, e altri di poca importanza), finalmente riesce a trovare un indizio reale, il ristorante di Leaf, ed il rifugio di Tamar. Che invece seguiamo in retrospettiva, vivendo questo suo ultimo mese pericoloso, quando decide di ritrovare il fratello caduto nella spirale della droga e delle cattive compagnie. Seguiamo il suo immergersi nel mondo degli sbandati, dei mendicanti di strada, che cantano agli angoli delle strade. E nel racket che li gestisce, per soldi e per droga. Seguiamo la sua paura di cantare, ma anche la sua volontà, dura, forte, ferma. Vediamo la meteora di Shelly, unico sostegno in questa caccia notturna. Fino a ritrovare Shay, il fratello, a fuggire con lui, a rintanarsi nelle grotte vicino alla città, per una cura, dura, di disintossicazione. Qui, finalmente, si ricongiungono le loro storie. Tamar la dura, improvvisamente, si accorge che con Assaf è diverso. Non è come i suoi irraggiungibili sogni precedenti. Un ragazzo gentile, che l’ha cercata senza conoscerla, che ha letto i suoi diari con la delicatezza di chi si apre ad un segreto. Un ragazzo che non ha paura di aiutarla. Un ragazzo che scopre un giovane donna piena di dubbi, piena di interrogativi, ma che ha deciso di salvare il fratello. E che farà di tutto, anche le cose più difficili, per raggiungere la meta. A costo di sacrificare una parte di sé. A quanto può la decisione! Ci sono tanti bozzetti, in questa Gerusalemme alle soglie del nuovo millennio. Ci sono tante strade, come Ben Yehuda, che ben ricordo. Ci sono tanti luoghi, come Mea Shearim. E ancora, e ancora. Ma c’è la bellezza di un rapporto che dalle prime righe speriamo che sbocci, perché per la loro complementarietà, Assaf e Tamar sono destinati a capirsi ed a fare un percorso insieme, come capiamo dalle ultime righe. Dopo che tanto è trascorso sotto i ponti. Non solo di Tamar, della famiglia dura che scacciò Shay drogato. Ma anche di Assaf, della sorella emigrata in America, dal suo ex rimasto in Israele. Sono stato conquistato dall’ottimismo nonostante tutto di Grossman. Una volontà positiva, che ci fa bene, che ci serve. Soprattutto quando tutto va in altre direzioni. Ottimismo della gioventù, direte voi. Sì, ma l’ottimismo va bene a qualsiasi età!
“Ogni storia, in qualche punto profondo, si rifà a una grande verità, anche se questa non sempre ci è chiara!” (32)
“Talvolta è più offensivo essere apprezzati per i motivi sbagliati che essere disprezzati per quelli giusti.” (159)
“Pensò che non aveva mai incontrato nessuno con cui si sentiva tanto bene tacendo.” (362)
Björn Larsson “La vera storia del pirata Long John Silver” Iperborea euro 18,50
[A: 01/10/2015– I: 28/02/2017 – T: 06/03/2017] - &&&&
[tit. or.: Long John Silver; ling. or.: svedese; pagine: 504; anno 1995]
Eccoci qua, allora, dopo una lunga cavalcata per i sette mari, a ritrovare la bella scrittura di Larsson ed una storia che vale molte storie. Peccato solo non aver mantenuto l’asciutto titolo originale, ed essersi dilungati nell’aggiungere “vera storia” e “pirata”. Inutili e ridondanti simboli qualificativi, che servono solo a cercare di attirare lettori ad una storia che, devo dire, si attira e si commenta da sé. Anche se l’originale svedese, che i nostri traduttori neanche riportano, implica un bel sottotitolo che val la pena menzionare: “Den äventyrliga och sannfärdiga berättelsen om mitt liv och leverne som lyckoriddare och mänsklighetens fiende” (cioè “La storia avventurosa e veritiera della mia vita e delle mie avventure di uomo libero, di gentiluomo di fortuna e di nemico dell’umanità”). Che, infatti, il nostro svedese Larsson è uno scrittore di intriganti capacità complicative di trame e situazioni. Che è solo cognonimo del compianto Stieg (quello di Millennium) e della giallista Åsa. Che ho imparato a conoscere nel tempo per due caratteristiche: l’abilità nell’ideare trame (come quella, cui rimando, del primo suo libro che ho letto, un poliziesco letterario dal titolo “I poeti morti non scrivono gialli”) e l’amore per il mare. Che traspare in molti suoi scritti (che consiglio al mio amico Renato), e dalla sua vita, visto che passa la maggior parte del suo tempo sulla sua barca, un Rustler 31 di nome “Rustica”. Dove, al largo delle coste galiziane, ha anche ideato e scritto questo romanzo biografico su di un personaggio inventato. Già questo me lo rende simpatico: prendere a prestito da Robert L. Stevenson uno dei personaggi più emblematici de “L’isola del tesoro”, e fargli ripercorrere in prima persona le tappe della sua vita. Mescolando, sapientemente, vero e falso, facendo intervenire a lungo Daniel Defoe (coevo delle vicende narrate) sia come scrittore sia come conoscitore di pirati. Anche se l’opera cui si fa spesso riferimento (“Storia generale dei pirati”) è scritta sotto la firma “Captain Johnson” che per molto tempo si pensò fosse uno pseudonimo dello stesso Defoe (ma pare non lo sia). E facendo intervenire anche altri pirati famosi, veri o letterari. Dal vero Edward England (sodale di Silver) al falso capitano Flint (uscito dalla penna di Stevenson). Tutta la finzione, tuttavia, è al servizio di un’idea di fondo del nostro Bjorn: parlare degli uomini, dei loro sentimenti, del loro modo di vivere, in quei primi 40 anni del 1700. Gli anni che seguirono la grande guerra tra Inghilterra e Spagna, laddove gli inglesi utilizzarono le navi da corsa per attaccare le galee spagnole (da cui i famosi “corsari”). E dove questi, una volta assaporati soldi e donne, non si tirano indietro, si impadroniscono di quel vessillo che diventerà famoso (il teschio con le due tibia incrociate, chiamato in inglese “Jolly Roger”). Larsson usa Silver per farlo diventare eponimo di quest’epoca. Mozzo in fuga dalla natia Bristol, girellando per i mari ad “imparare il mestiere”. Sempre padrone del suo destino, per cui deciderà di non diventare mai capitano di una nave, tuttalpiù quartiermastro (che è una specie di secondo ufficiale, con il compito, importante per quelle imprese, di tenere anche la contabilità). A lungo ancora in Scozia, per sfuggire ad una falsa accusa di ammutinamento, a lungo in compagnia del suo primo grande amore, Elisa. Scoperto, di nuovo in fuga, di qua e di là degli oceani. Coinvolto nella tratta dei negri, ma di cui diventa amico. Soprattutto del capo Jack e di una mulatta fiera che ritroverà dopo qualche anno, libererà dalla schiavitù e diventerà la compagna dell’ultima parte della sua vita. Non la donna, che Dolores non chinerà mai il capo a nessuno (tanto che aveva ucciso un capitano che voleva violentarla), ma che deciderà di unire le sue forze alla declinante vecchiaia di Silver. Larsson ci spiega anche l’origine del soprannome “Long”, non per l’altezza, ma come pseudonimo per sfuggire alle guardie. Si fece chiamare John Long, per un periodo, divenendo poi facilmente Long John, e finalmente Long John Silver. Ci dice come perse la gamba, non per una palla nemica, ma per un tiro mancino dell’invidioso Deval. Cui, per ripicca, farà tagliere dal medico di bordo una gamba sana! E poi il lungo sodalizio con Edward England, un pirata che realmente aveva poca voglia di uccidere i nemici sconfitti, tanto che alla fine il suo equipaggio si ammutinò e lo lasciò su di un’isola deserta verso il Madagascar. Infine, l’ultima parte, dove (grande momento di meta-letteratura) scorre la storia del tesoro del capitano Flint scritta da … Jim Hawkins, ormai gentiluomo in Londra con i soldi del Tesoro. Silver sa che quella storia segnerà la sua fine, e si affretta a finire la sua e spedirla a Jim. Per poi finire come tutti i pirati. O forse no? Larsson ci lascia un’ombra di mistero, che non svela (né io a voi). Perché quello che piace, che rende godibile le 500 pagine non è solo la storia dei pirati sulle onde dei sette mari, ma la figura stessa di Long John. Che Larsson prende da Stevenson ampliandone i lati ambigui. Se ricordate, il grande scozzese aveva sempre messo su due binari il pirata da una gamba sola. Un po’ con Jim e molto con sé stesso. Qui Larsson ci presenta un pirata che, come dice sempre lui stesso, volendo “essere padrone del mio destino”, usa tutti i mezzi per farlo. Sfrutta i suoi studi giovanili (è uno dei pochi che sa leggere e scrivere). È empatico con gli schiavi negri (che una volta liberati saranno con lui sino alla fine), è crudele con i capitani inglesi, è tenero solo con due donne (Elisa e Dolores). Ruba, tradisce, ed alla fine, come tutti, si ritrova solo. A cosa serve aver girato tutta una vita, per poi essere lì, forse sui sessant’anni, con la pirateria che è ormai morta da venti. Solo a pensare di non aver trovato, di non riuscire a trovare, di non trovare mai, la sua posizione. Questa la riflessione personale che poi tutte le belle pagine mi lasciano. Mentre io lascio ai miei amici che amano il mare il godimento di seguire le navigazioni per i sette mari. Anche a chi, purtroppo, le sentirà solo da queste righe. Ed a lui brindo con un colmo bicchiere di rhum!
“Se tanta gente muore prima di aver imparato a vivere, è perché vive come se non dovesse mai morire” (12)
“Mi dissi, in tutta onestà, che tra i milioni e milioni di donne che popolano la nostra terra, dovevano pur essercene altre come … Ma a incontrarne una, in tutta la mia lunga vita, che io sia dannato se ci sono riuscito.” (141)
“Vi confesso dunque che, di tanto in tanto, ho desiderato che … scrivere non fosse un’attività così dannatamente solitaria.” (184)
“La mia vita non è stata che una navigazione stimata, ma forse, chi lo sa, arriverò a trovare la mia posizione, prima di affondare.” (220) [dicesi navigazione stimata quella tecnica di navigazione a mezzo della quale è possibile determinare la posizione stimata della nave in mare, utilizzando gli elementi del moto quali: la velocità, la direzione ed il senso.]
“Se c’è una cosa da cui ci si deve tenere lontani, se si vuole restare sani di mente, è … la scrittura.” (403)
Gabriel Garcia Marquez “L’amore ai tempi del colera” Mondadori euro 9,50 (in realtà, scontato a 7,15 euro) 
[A: 03/03/2015– I: 28/03/2017 – T: 02/04/2017] - &&&& --  
[tit. or.: El amor en los tiempos del cólera; ling. or.: spagnolo; pagine: 376; anno 1985]
Mi ero accostato con un po’ di timore ad un ulteriore libro di Gabo, dopo che le ultime letture mi avevano sinceramente deluso. Non che volessi tornare all’epifania interna che mi sconvolse con “Cento anni”, ma mi sarebbe bastato tornare al piacere di una bella lettura come quella del giovanile “Racconto di un naufrago”, dopo aver passato le pene a sopportare la candida Erendira o il tramonto del patriarca. Timore che era un po’ mitigato dalla spinta verso la lettura che mi stavano dando sia le libropeute di “Curarsi con i libri”, che lo consiglia ai settantenni, sia l’allegra Giulia Fiore che lo consiglia come antidoto a “Il grande Gatsby”. Buoni consigli, ed altrettanto buona lettura. Qui, il quasi sessantenne Gabo riprende il bandolo dei suoi giri infiniti, dei suoi mille personaggi, che poi a ben vedere si riducono a due o tre, e ci trascina in meno di quattrocento pagine alla ricerca di uno sbocco ad una vicenda che, bene o male, durerà una sessantina di anni. Lo fa con la sua vecchia maestria, cominciando da un punto A, spostandosi a B, poi a C e D, ed intessendo tutto un intreccio di situazioni e di svolgimenti, che mi hanno tenuto incollato alla pagina più di quanto mi aspettassi. All’inizio ero un po’ dubbioso, seguendo le pagine sulla morte dello strano Jeremiah de Saint-Amour, starno personaggio, piombato all’improvviso nella cittadina teatro della vicenda, ricucitosi uno spazio di vita come fotografo e di relazioni come giocatore di scacchi. Personaggio che decide di non dover invecchiare ed a sessanta anni si uccide. Morte che coinvolge il suo compagno di scacchi, il dottor Juvenal Urbino. Di cui vediamo i turbamenti per la morte, che cominciamo a seguire con le sue manie di vita, con le sue esuberanze sociali, conosciamo di sfuggita la moglie Fermina Daza. Veniamo ben presto coinvolti nella vita del dottore, nel ricordo dei suoi viaggi giovanili a Parigi, delle sue dotte lezioni di medicina, delle sue letture. Venendo all’improvviso coinvolti nella sua morte, lo stesso giorno dell’amico, per una caduta accidentale e ben ridicola. Prende allora il centro della scena la moglie Fermina, che sembrava sino ad allora vissuta nell’ombra del marito importante, ma che esegue i giusti passi per il funerale, per il ricordo, per il rapporto con il figlio Urbino Daza, anche lui dottore, e con la figlia Ofelia. E nel momento culminante di questo inizio pirotecnico abbiamo lo squarcio che farà girare tutto il romanzo. L’anziano a sua volta Florentino (sia lui che Fermina sono poco oltre i 70), che alla fine del funerale dichiara il suo imperituro amore a Fermina. Un amore che dura quasi nascosto da 53 anni, 7 mesi ed 11 giorni. Dichiarazione che permette all’autore una capriola appunto di più di cinquanta anni all’indietro, dove ritroviamo la giovane Fermina, assediata dalle lettere e dalle poesie di Florentino. Siamo nella fine dell’Ottocento, non facili sono i rapporti tra maschi e femmine. Inoltre Fermina è figlia di un oscuro malversatore, che finirà i suoi giorni tornando scornato in Spagna, mentre Florentino è figlio naturale di uno dei maggiorenti locali. Ma non riconosciuto, quindi di poco peso sociale. Inoltre Florentino ha un suo aspetto triste, è aiuto-telegrafista, miope. Ha solo la parola dalla sua, novello Cyrano di sé stesso. Seguiamo allora Fermina che decide di lasciarlo per sposare senza amarlo il ricco Juvenal, con cui costruirà un rapporto bene o male felice nel corso degli anni, con picchi di bellezza e di amore e con abissi non proprio di dolore, ma di crisi. Che verranno superate, avendo sempre ormai la nostra buona Fermina seppellito il ricordo del giovane amore con Florentino. Che invece non si rassegna, che decide, lì sui venti anni che quella sarà sempre la sua donna. E che comincerà la sua scalata sociale, aiutato dalle sue capacità e dal padre naturale che gli offre la possibilità di sfruttarle. Vediamo Florentino perdere la verginità del corpo su di un battello fluviale. Ma anche salire, gradino dopo gradino, proprio le fortune dei battelli, di cui alla fine diventerà il capo e padrone indiscusso. Avrà anche la capacità di soddisfare i suoi ardori, andando a letto con 622 donne come puntigliosamente registra nei suoi diari. Il funambolismo di Gabo ci fa quindi saltare di donna in donna, seguendone brevemente il fugace rapporto con Florentino, ma dipingendole a tutto tondo. Anche l’ottima Leona, l’unica con cui non andrà a letto, ma che sarà il motore segreto della sua ascesa. Dopo questa lunga cavalcata, allora ritroviamo i nostri due eroi, anziani ma non vecchi. Dove vediamo Florentino riprendere il leggero corteggiamento, delicato e pieno di un tatto sempre presente nelle sue manifestazioni, anche quando sembra non essere capace di mantenersi centrato. Vediamo Fermina leggere le sue lettere, capire i percorsi suoi e del suo amor di gioventù. Gabo ci infioretta tutta una bella parte su queste basi, mettendoci dentro anche i corpi di questi due settantenni, il loro scivolare verso la inevitabile morte, che fortunatamente non vedremo. Fino però ad imbarcarsi su una delle navi della flotta di Florentino, quasi a ripercorrere una fuga giovanile di Fermina verso parenti che le facessero passare i dolori e quel momento d’amore di Florentino. Cosa succederà sulla nave, dovrete leggerlo, perché è il momento chiave del libro. E non vi anticipo cosa succederà. Tutto il libro è corso via su questi binari, l’ho letto legato alla pagina nei pochi momenti liberi di queste giornate ad altro dedicate. E vi confesso che avrei anche dato maggior punteggi, se non ci fossero alcuni passi che mi hanno lasciato un po’ di dubbi. Uno su tutti, il famoso diario di Jeremiah, di cui tanto si parla nelle prime pagine, che mi aveva solleticato, ma di cui poi se ne perde traccia. Con dispiacere. Un libro sulla vecchiaia e sull’amore e sul fatto che comunque possano convivere. A dispetto di tutti.
“Era ancora troppo giovane per sapere che la memoria del cuore elimina i brutti ricordi e magnifica quelli belli, e che grazie a tale artificio riusciamo a tollerare il passato.” (116)
“Un uomo sa quando comincia a invecchiare perché comincia ad assomigliare a suo padre.” (183)
“Con lei … aveva imparato quello che aveva già provato più volte senza saperlo: che si può essere innamorati di diverse persone al contempo … senza tradirne nessuna.” (293)
“È incredibile come si possa essere tanto felici per così tanti anni, in mezzo a tante baruffe, a tante seccature …  senza sapere in realtà se è amore o se non lo è.” (356)
Gabriel Garcia Marquez “Memoria delle mie puttane tristi” Mondadori euro 10 (in realtà, scontato a 7, 05 euro) 
[A: 25/03/2016– I: 12/04/2017 – T: 13/04/2017] - &&& --  
[tit. or.: Memoria de mis putas tristes; ling. or.: spagnolo; pagine: 139; anno 2004]
Si legge in un sospiro, rimane però dentro con qualche passaggio indimenticabile, anche se alla fine ha una stentata sufficienza, o come direbbe l’autore, una sufficienza triste. Perché l’impianto generale, ed almeno un passaggio, sono una rivisitazione in salsa sudamericana del bellissimo “La casa delle belle addormentate” di Kawabata Yasunari (scritto però più di 40 anni prima). È anche l’ultimo romanzo scritto da Gabo, già quasi ottantenne. Poi niente più romanzi negli ultimi dieci anni della sua lunga ed intensa vita. Qui appunto, riprendendo l’idea giapponese di una casa di “signorine” (capite a me) che dormono contemplate da persone (anziane o meno) che stanno al nadir della loro virilità, ne fa un elemento cardine per l’avvio alla conclusione della propria vita di un giornalista eccentrico novantenne, che in molti tratti ripercorre momenti e modi della vita stessa del nostro amico colombiano. L’abilità, indubbia, di Gabo è quella di restituirci l’immagine di un percorso che inesorabilmente porta alla morte, con la delicatezza della descrizione di un fiore. Anche con parole crude (come quelle del titolo), anche con richieste e momenti che ci spiazzano. L’io narrante ha amato molte donne, e spesso, nelle more dei suoi percorsi amorosi (che se volete ripercorrono in pochi tratti quelle di Florentino da poche descritte) si ritrova a frequentare bordelli di tutte le risme. Ed a questo si rivolge, questo della sua di poco più giovane tenutaria Rosa, per chiedere di festeggiare il suo compleanno con una vergine. Richiesta soddisfatta, ma la quattordicenne Delgadina dorme tutta la notte. Il nostro giornalista però rimane affascinato dal corpo, dalle visioni, e sommerso dai ricordi che un corpo nudo risveglia nel suo corpo anziano. Mentre procede il rapporto con la sempre dormiente e sempre vergine Delgadina, affiorando ricordi, seguiamo i brevi tratti della vita del protagonista. La vita felice della gioventù, accanto alla tanto amata madre italiana. La crescita, la morte dei genitori, la scrittura, soprattutto di piccoli elzeviri e di recensioni di brani di musica classica. Le piccole storie più di sesso che d’amore. Le paure, in particolare quella di mettere al mondo dei figli. Perché sarebbe disposto anche a sposarsi, come sta per fare con la bellissima Ximena. Tuttavia bloccato dalla possibilità di procreare, anzi spaventato, non si presenta il giorno delle nozze. Vediamo l’anziana Damiana, che lo avrebbe amato, ma di cui lui si accorge solo perché lo accudisce ora che è sì vecchio e stanco. Poi le baruffe per incomprensione con Rosa, l’allontanamento da Delgadina, ed il definitivo ritorno, con quell’immagine in cui pensa di potersi mettere a lavorare scarpette per neonati all’uncinetto. Certo, è un po’ tardi per decidere di avere una progenie, quasi che potesse farlo solo ora che il tempo tiranno non può più tollerarlo. Finisce così la cronaca di questo anno tremendo, in cui allo zero dei novanta finalmente si sostituisce il primo numerale. Con il protagonista che, pacificato nell’animo, guarda radioso al futuro, ed alle sempre più vicina dipartita, circondato dall’amore di Delgadina (benché mai consumato), dall’affetto di Damiana e da un gatto che pur vecchio anche lui non verrà simbolicamente soppresso, ma rimarrà a fare da terzo incomodo nella casa avita. Se tuttavia la storia è breve e lineare come consentono le poco più di cento pagine del libro, Gabo riesce ad infiorettare dei momenti, da anziano, che diventano in ogni caso, momenti eterni per tutti noi. Come le frasi che ho sotto riportato. Come la descrizione di quella fotografia presa al giornale quando aveva trenta anni, ed era uno dei momenti forti della stampa locale (per qualche evento poco importante, ora). Con quelle crocette che qualcuno ha segnato accanto alla testa di tutte le persone che in questi sessanta anni sono morte. E lui guarda e ci dice che sono rimasti in quattro. O come la visita al medico, nipote di quello che lo aveva visitato una volta nel volgere dei suoi cinquanta. E che fisicamente ed anche operativamente risulta identico al nonno medico, anche nella diagnosi che gli fornisce (“Lei è perfetto, rispetto all’età che ha”). Di passaggio riporto anche altri due momenti di ricongiunzione con lo scritto di Kawabata: entrambi constano di cinque capitoli ed in entrambi, ad un certo punto, muore una persona all’interno del bordello frequentato dal protagonista. Forse se non avessi notato tutte queste rivisitazioni, poteva il libro avere più consistenza nella mia memoria? Non so, di certo mi ha lasciato sconcertato, anche se, capisco, che, come qualcuno ha scritto, tutti scrivono lo stesso libro: quello pieno delle parole che vogliamo sentire. A volte ci accorgiamo delle similitudini, a volte no. Come direbbe Borges.
“L’età non è quella che si ha ma quella che si sente.” (75)
“Scrivevo … con la voce di un uomo di novant’anni che non ha imparato a pensare come un vecchio.” (83)
“È impossibile non finire per essere come gli altri credono che uno sia.” (117)
“Sto diventando vecchio … Il fatto è che non lo si sente dentro, ma di fuori tutto lo vedono.” (120)

Essendo il primo invio con trama del mese di giugno, ecco che vi riporto l’elenco dei libri letti nel mese di marzo. Dove si è ricominciato a leggere ai ritmi usuali. E dove abbiamo due libri che su gli altri si staccano: il pirata di Larsson, di cui parlo ampiamente sopra, ed il salmone di Eco. Ed un libro che, invece, cola a picco: l’ultima poco esaltante prova di Wilbur Smith.

#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Leif GW Persson
Uccidete il drago
Corriere della Sera Svezia
7,90
3
2
Bjorn Larsson
La vera storia del pirata Long John Silver
Iperborea
18,50
4
3
Wilbur Smith
La legge del deserto
TEA
12
2
4
Camilla Läckberg
La sirena
Marsilio
14
2
5
Umberto Eco
Come viaggiare con un salmone
La Nave di Teseo
10
4
6
Camilla Läckberg
Il guardiano del faro
Marsilio
14
2
7
Wilbur Smith
Vendetta di sangue
TEA
12
2
8
Ian Rankin
Dietro la nebbia
TEA
12
3
9
Isabel Allende
Afrodita
Corriere della Sera Cucina
7,90
2
10
Olivier Truc
L’ultimo lappone
Corriere della Sera Svezia
7,90
3
11
Andrea Camilleri
Le vichinghe volanti e altre storie d’amore di Vigata
Sellerio
14
2
12
Patricia Cornwell
Polvere
Mondadori
13
2
13
Wilbur Smith
La notte del predatore
Longanesi
s.p.
1
14
Gianni Simoni
Lo specchio del barbiere
TEA
9
3
15
Gianni Simoni
La morte al cancello
TEA
9
3

Tornato, abbastanza, pacificato dalle terre delle tre religioni, ecco che affrontiamo l’inizio torrido di questa estate mettendo a posto scritti, finalizzando case, e pensando ai prossimi viaggi. Soprattutto a quello, pensato/sperato, verso le terre patagoniche.