domenica 18 maggio 2014

Noir Italia, seconda parte - 18 maggio 2014

Torniamo, dopo un mese, alla collana di autori noir italiani di cui vi avevo parlato prima di Pasqua. Qui gli autori sono tutti “nuovi” (almeno per me), e devo dire, purtroppo, di resa più modesta delle aspettative. Partiamo dalla Liguria di Roberto Negro, che tocca uno dei punti più bassi di gradimento, per poi salire (di latitudine e gradimento) alla Vicenza di Antonio Caron, per poi scendere, in tutti i sensi, alla Palermo di Antonio Pagliaro. In questo alternarsi di scorribande, le prove finali rimontano la penisola (anche se non il piacere) verso la Modena di Luigi Guicciardi e la Milano di Massimo Cassani. Come dicevo al primo commento, una virata al noir delle passeggiate italiane di Laterza. Scopriamo nuove scritture, anche se queste non al meglio. Ma ce ne saranno di migliori.
Roberto Negro “Oltre la giustizia” Sole 24 ore – Noir Italia 17 euro 6,90
[A: 15/11/2013– I: 30/01/2014 – T: 31/01/2014] - & e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 139; anno 2012]
Bruttino e banale, nella parte bassa dei gradimenti della collana de “Il Sole” dove, pur nella novità e nell’inusuale, nelle letture ha finora rispettato un buon andamento. Purtroppo questo (ed il precedente Crocetti) stanno trascinando questi libri verso la categoria dei poco attraenti. Ma vediamo meglio in dettaglio il contenuto di questo Noir, ed il perché del mio duro giudizio. Cominciando, come mi insegnò la mia mentore, dall’elencare le cose positive. Certo non ci aspettiamo da meno, venendo da uno scrittore astigiano, che citi a profusione Paolo Conte. Ottimo, e buona scelta dei testi. Così come il testo di Fossati, che non può mancare se ci aggiriamo per la Liguria. Facendo con questo un doveroso omaggio a Ventimiglia (città che conosco solo di passaggio) ed in particolare a Dolceacqua, borgo limitrofo, con uno splendido Rossese, uno dei migliori doc liguri. Invece, la storia, ed il modo di presentarla, hanno buchi, passaggi veloci, ed ovvietà a profusione. Intanto, il filone principale è dato dal matto del paese, che per anni violenta la moglie davanti alla figlia di sette anni. Scoperto ed imprigionato (ma per molto poco) dal maresciallo Oliva, Checu l’abelinau (il tontolone, se tradotto; peccato che dovrebbe essere “abelinou” come riporta la canzone tormentone dei Buio Pesto) viene liberato poco dopo. E non ci mette molto a tornare in paese e far fuori moglie e figlia del maresciallo. Storia che si poteva comprendere dalle prime righe, proprio dal modo finto ingenuo di descrivere Alice ed Elisabetta, sapendo che da lì a poco ci avrebbero lasciato. Giocando sull’infermità mentale, l’avvocato di Checu riesce a fargli dare solo 8 anni di Ospedale Psichiatrico. E quando esce, qualcuno lo sequestra e brutalmente lo uccide (dopo lunghe torture). Tutti gli indizi, com’è ovvio, ricadono sull’ex-maresciallo, che, per metterci il carico da undici, cerca di suicidarsi e, non riuscendovi, di farsi uccidere dai suoi ex-colleghi. Le indagini, in tutto ciò, sono affidate ad un commissario palermitano, Vittorio Scichilone. Commissario che compare oltre la metà del libro, peccato che il suo nome sia nel sottotitolo del romanzo, a sottolinearne la presenza. Sarà forse che il Negro ha scritto vari romanzi con il sunnominato? A saperlo, saperlo… Anche noi, onesti lettori, abbiamo dei dubbi, che vediamo l’assassino bearsi appunto delle canzoni di Conte, cosa che non avrebbe mai fatto il normale maresciallo. E viepiù quando, con modalità analoghe, viene trovato ucciso e seviziato un pedofilo da poco anch’esso uscito dal carcere. Questa vicenda poteva dare una svolta a noi osservatori, peccato che del pedofilo si parli solo nelle ultime venti pagine. E sempre nelle stesse pagine, molto velocemente, rispetto al centinaio passato prima tra le storie del maresciallo, ed i sommovimenti del cuore del commissario, si chiuda tutta la vicenda. Scichilone scopre il vero assassino, sta per essere ucciso anche lui, ma il suo vice lo salva, ed il colpevole, quello che appunto come dice il titolo stava andando oltre la giustizia pensa bene di spararsi un colpo di pistola in testa. Ripeto, quindi, vicenda trita, già vista, senza particolari spunti. Anzi con spunti laterali, e parti poco funzionali alla trama, che un buon editor avrebbe convinto l’autore o ad eliminarle o a renderle più organiche alla vicenda stessa. Come le cinque pagine dedicate alla vicenda di una rapina con dei personaggi che più non entrano nella storia stessa. O le vicende sessuali del buon commissario che rivede la moglie divorziata al funerale del padre (cui assiste di lontano, essendo il padre un avvocato mafioso e lui un poliziotto onesto) e viene ripreso da rigurgiti amorosi, che sazia, con soddisfazione di tutti, con la bella Aurora. Ma che poi riprende quando sembra innamorarsi dell’ispettrice Guendalina (ma dove li va a prendere i nomi il nostro scrittore?). E mentre con queste inutili divagazioni si riempiono le pagine, si lasciano scorrere per la strada elementi che potevano essere più interessanti. Che fine fa, ad esempio, Anna la figlia di Checu che tanta parte aveva avuto nella prima incriminazione? Sparisce dopo trenta pagine e non se ne parla più. Quindi rimane un veloce libretto, da leggere al massimo in metropolitana per estraniarsi dalla folla, tanto non necessita nessun neurone da sollecitare. Dimentichiamolo.
Antonio Caron “La lustraressa di Vicenza” Sole 24 ore – Noir Italia 23 euro 6,90
[A: 13/12/2013– I: 12/02/2014 – T: 12/02/2014] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 233; anno 2004]
Nonostante il nome molto veneto, lo scrittore Caron, Toni per gli amici, è piemontese di nascita e genovese (o quasi) di residenza. Per puro caso, la collana del Noir italiano, ce ne propone una delle prime prove, ambientata in quel di Vicenza. E non a caso, Caron, abitando a Bogliasco, ha pubblicato una decina di romanzi sul maresciallo Vitale, presso la rinomata e benemerita casa editrice dei Fratelli Frilli (quella che per prima pubblicò la Fassio delle prime imprese di Franzoni e Maffina, per chi se ne ricorda). Ora, la scrittura e la trama non sono malaccio, unico appunto, forse, un’eccessiva lunghezza dovuta al “vezzo” che ha l’autore ad ogni capitolo di fare un riassunto delle “puntate precedenti”, proprio come se fosse un romanzo pubblicato a puntate sui quotidiani dell’Ottocento (un po’ alla Dickens o alla Dumas). Il secondo punto un po’ dolente è il restare di maresciallo e moglie presso gli amici vicentini un po’ troppo per essere degli amici in visita. È vero che Vitale sta facendo una sorta di inchiesta senza dar troppo nell’occhio, tuttavia questa permanenza sembra un po’ forzata. Ma cos’è successo? Allora, Vitale e signora vanno a trovare dei conoscenti vicentini, partendo dal natio borgo di Cherasco, dove il maresciallo comanda la stazione dei carabinieri (e per tutto il romanzo ci sarà il contraltare di cosa succede a casa, con pedinamenti, assalti e ferimenti cui il nostro Seb assiste da lontano un po’ impotente un po’ incazzato). Si trovano quindi nel bel mezzo del mondo dorato vicentino, quello del Palladio, sì, ma anche dell’oreficeria e del lusso un po’ troppo ostentato. Fatte salve le stoccate su questo versante a griffe ed altro, e registrato che almeno si giri un po’ per la regione, andando a riscoprire gioielli come Marostica, Bassano del Grappa, Asolo, Treviso, ma anche Malo (quella di “Libera nos…” di Luigi Meneghello), veniamo alla trama, al noir. Con un colpo di ingegno, l’autore ci ricorda che Vicenza è anche sede di basi militari americane. Onde per cui, oltre ai problemi dei rapporti tra locali e cugini d’oltreoceano, c’è subito (anche se non se ne parla) odore di trame spionistiche ed altro. Il tutto nasce un po’ casualmente: Vitale incontra una donna di colore, che butta un pacchetto in un cestino, e poi si allontana in macchina piangendo. Il giorno dopo si scopre che è morta, uccisa da un colpo di pistola. Omicidio? Suicidio? O cosa? Vitale (per il fatto di averla vista) si sente coinvolto. Anche perché la morta viene scippata subito dagli americani, riportata in patria, e fatto scomparire anche il marito. Vitale recupera il pacchetto, che è una catena d’oro, e comincia ad indagare, aiutato dall’ospite Alvise, un po’ chiacchierone, ma ben ammanicato. Incontra il grande industriale orafo della zona, che lo aiuta con qualche dritta, ma senza esporsi. Tuttavia lo fa incontrare con la lustraressa del titolo, o meglio ex (tanto per farlo sapere al colto e all’inclita, la lustraressa è il mestiere di chi si metteva a “lustrare” cioè lucidare l’oro appena lavorato), ora padrona di una fiorente industria laterale all’oreficeria. Ma anche e soprattutto, ex-amante di tale Redento Xoso, detto Dento. Grande traffichino d’oro ed affini, che finisce poco dopo anche lui morto sparato, dopo che Vitale scopre che era l’amante della donna di colore da cui tutto ha avuto inizio. Faticosamente, ricapitolando ad ogni decina di pagine (il libro alla fine poteva essere lungo la metà), e mettendo in mezzo Sandri, un simpatico giornalista, la Olga, un’infermiera in cerca di sesso facile e senza problemi, e usando di sponda i servizi segreti americani, tutta la trama si svolge e si riavvolge, portando ad una facile conclusione. Dento era una spia al servizio di ambigui personaggi libanesi, in particolare tal Mogul Amin, ladrone di Beirut, che iniziò la carriera stuprando suore in un convento (suore che ora sono rifugiate proprio nel vicentino, ma quant’è piccolo il mondo). Spediva oro e segreti militari in Medio Oriente. Peccato che una spedizione sia tornata indietro, dall’industriale di cui sopra, che scopre le tresche ed innesca un meccanismo ad “effetto domino”. Licenzia lo Xoso, fa sapere alla Patricia di colore che è stata usata, questa si uccide con la pistola di Dento, Robert, il marito di Pat, attira in un’imboscata l’amante della moglie, e lo uccide, Amin lo scopre, lo sequestra, e lo tortura per trovare un CD con le info che Dento aveva reperito nel tempo, e poi lo uccide. Vitale, tramite la lustraressa, entra in possesso del CD, lo fa avere sottobanco ai servizi segreti americani, trova il modo di far capire (ma dopo 16 lunghi capitoli dove le forze di polizia vicentine non sono neanche interpellate) ai poliziotti chi sia Amin, come si sia invaghito di tale Celeste (anch’essa lustraressa), e via continuando tra ladri, contrabbandieri, spie ed altro. Alla fine, senza che Vitale si sporchi troppo le mani, tutto va per il verso giusto, anche il rapporto con la bella moglie Marisa (che alla fine rimedierà un bel paio d’orecchini d’oro). Insomma, con un buon editor può diventare un romanzo agile e simpatico. Così è un bel romanzo da leggere se, come me, si sta dentro il letto con la febbre e il raffreddore.
Antonio Pagliaro “Il sangue degli altri” Sole 24 ore – Noir Italia 10 euro 6,90
[A: 13/09/2013– I: 17/02/2014 – T: 19/02/2014] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 267; anno 2007]
Sicuramente, pur non essendo uno scrittore di professione (risulterebbe un ricercatore in fisica), Antonio Pagliaro sa scrivere bene e sa maneggiare un’idea complessa come quella che sta alla base del ponderoso decimo volume dei Noir italiani del Sole 24 ore. E pur tuttavia, ne esce un romanzo “né carne né pesce”. Forse proprio perché troppa carne ha messo al fuoco. Ambientata, di base, nella sua natia Palermo, la storia non può prescindere da mafia e malaffare. Ma per complicare il tutto, oltre ai malavitosi locali, lo scrittore inserisce una complessa vicenda di mafia russa (e ben sappiamo, da Saviano in poi, che la mafia russa sta cercando e riuscendo ad inserirsi nel tessuto criminale italiano). E per soprannumero, l’autore ci mette anche conflitti interni russi, tra russi puri, ucraini, lettoni e, mettendoci il carico da 11, i ceceni. Inoltre, cercando collegamenti “alti”, il protagonista della vicenda non è un poliziotto, un carabiniere, un investigatore, ma un giornalista. Facendo un po’ un omaggio (tra l’altro facilmente intuibile) alla Politovskaja (e su questo, sicuramente ci associamo). Quindi, il centro della vicenda è Corrado Lo Coco, free lance legato a “L’ora” di Palermo, che aveva indagato poco prima una vicenda legata all’apertura di casinò in Sicilia. Vicenda ovviamente malavitosa, che tutti sanno il gioco d’azzardo essere un modo dei più semplici per ripulire il denaro sporco. La Trinacria, la società locale, che doveva vincere l’appalto, legata ai politici locali (e nazionali) viene però travolta da scandali, e sostituita da una cordata capeggiata da un gruppo lettone di provenienze poco chiare. E da qui si scatenano morti ed altre vicende oscure. Viene ucciso il capo della Trinacria (perché stava per sbugiardare il sindaco di Palermo ed altri politici). E viene ucciso un “russo” (che si pensa sia un ex-militare, o un profugo lettone, o un ucraino, insomma situazione confusa). Uccisione cui assiste Cinzia, la fidanzata di Corrado. Lo Coco, che, appoggiandosi al suo amico Nino tenente dei carabinieri, comincia a scoprire qualche altarino. Che il morto era un ufficiale russo, implicato in stragi cecene, poi fuggito in Lettonia, cambiata identità e diventato capo del casinò di cui sopra. Scoperto dalla polizia tedesca, cede nominalmente tutto ad un suo sodale lettone, e cerca di cambiare identità. Interviene allora un gruppo d’azione ceceno che vuole il corpo ricattando Corrado, ma fornendogli un corposo dossier sulle malefatte russe in Cecenia, ed in particolare del cattivo Kovalev. Lo Coco, da buon giornalista, vuole usare queste info per articoli ed altro. E decide (ma sembra la trama sfuggire all’autore) di andare in Cecenia, per parlare con gli uccisi dal cattivo. Si apre quindi una parentesi, un po’ forzata, ma utile per la conoscenza, che ci porta da Palermo a Mosca, poi a Grozny. Pagliaro (sicuramente ben documentato) ci parla di quelle tristi vicende, e sono belle (e cupe) le immagini che ci rimanda. Per non farci dimenticare le tristi vicende cecene. Ma non solo quelle, che tornando a Mosca incontra “le madri dei soldati”, un gruppo di donne cui i soldati (tra cui il Kovalev di cui sopra) hanno ucciso i figli. Finalmente Lo Coco e tutti i nodi poi tornano a Palermo per scoprire: che i ceceni non sono tutti buoni, che il morto non è Kovalev, che muore un altro russo, che il capo del casinò di Riga è anche lui un poco di buono, che rapisce Cinzia per non essere immischiato in interrogatori vari, che Anastasja, poliziotta russa buona, aiuta Corrado a trovare chi è morto e chi no. Alla fine, Cinzia si salva, ma i lettoni aprono comunque i casinò, con il beneplacito della Regione Siciliana, e… Insomma non possiamo certo raccontare tutto lo svolgimento. I mafiosi hanno sempre la meglio. E Pagliaro non è così cattivo da far morire i buoni. Come vedete, un po’ troppa carne, con il rischio di bruciarne un po’. Dimentichiamoci la storia noir, ma rivolgiamo ancora un saluto referente alla Politovskaja ed a tutti i giornalisti uccisi per aver cercato la verità.
Luigi Guicciardi “La morte ha mille mani” Sole 24 ore – Noir Italia 11 euro 6,90
[A: 20/12/2013– I: 28/02/2014 – T: 11/03/2014] - && e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 299; anno 2010]
Questa volta il nostro nero italiano si sposta a Modena, dove viva anche l’autore, insegnante e storico. E qualcosa anche qui ritorna, in alcune parti centrali, e trattorie, e passeggiate, nel ricordo delle (purtroppo rare) visite al cugino fisico. Ritorna anche l’atmosfera emiliana. Meno il feeling con i personaggi, ormai da cinque – sei romanzi protagonisti dei gialli di Guicciardi. Fortunatamente, l’autore non cade nelle trappole di citare altre storie, per cui, alla fine, ci possiamo accontentare di come escono fuori i personaggi da questa forse un po’ troppo lunga storia. Che comincia con un morto che non si capisce se ucciso o solo incidentalmente travolto da una macchina. Morto eccellente, che è uno dei più noti chirurghi estetici della città. E che si trovava stranamente ad una festa di laurea di una sua allieva. C’è del torbido? Tradimenti? L’autore gioca un po’ su queste righe, per poi farci seguire la specializzanda Daniela in sue strane visite ad un malato terminale di cancro. L’ispettore Cataldo, aiutato dal fido Muliere, cerca di tenere a bada tutti i fili. La clinica del dottor Zanasi, con le sue pratiche non proprio alla luce del sole. La moglie del morto, ed i due figli, soprattutto il maschio veramente indisponente. Ma anche il malato, Francesco, un altro dei personaggi ben in vista della Modena bene. Con lo strano ed inconcludente fratello di lui Antonio, ed i suoi due figli, lo spostato Yves e la studiosa Jasmine. La storia tra Zanasi e Daniela è inesistente, che ben presto si scopre che la giovane è incinta ma di Francesco. Le cose si complicano quando viene scoperto un nuovo morto, la belloccia Clara, che si faceva fare ad anni alterni ritocchi da Zanasi, e che ne era profondamente innamorata, ma non ricambiata. Cataldo brancola, ma una prima svolta, nei suoi ragionamenti, si trova quando si cerca di far fuori anche Daniela. L’ispettore comincia ad interrogarsi sul concatenarsi degli eventi. Non sarà che le prospettive sono sballate? Anche perché Yves si comporta in modo strano, un po’ drogato un po’ innamorato. Ma di chi? L’unica che rimane fredda è la studiosa Jasmine, quella cui piacciono i gialli. Le scatole si incastrano, si ritrovano strumenti dei delitti. E la macchina investitrice è sintonizzata su una stazione che trasmette rock duro. Con molta lentezza (in effetti, il libro potrebbe essere snellito un po’), Cataldo riesce a farsi un’idea plausibile. Daniela, allieva di Zanasi, si innamora di Francesco, ricco e senza eredi diretti. Rimane incinta, e questo potrebbe creare una linea ereditaria diversa. Zanasi, distratto da sue malattie non pertinenti la trama, va alla festa di Daniela. Qualcuno (e non vi dico chi) scopre la storia tra Daniela e Francesca. Pedina Daniela, ma si fa scoprire dalla vicina Clara. Si impaurisce e prima uccide Clara, poi investe una persona che pensa sia Daniela perché andava ad aprire la macchina della studentessa. Quindi cerca di uccidere Daniela con il gas, fortuitamente salvata dall’intervento di Cataldo. Alla fine quindi i sospetti si restringono alla cerchia di Francesco. Il fratello? I nipoti, insieme o separatamente? La fine sarà in linea con i nostri ragionamenti, anche se qualche sorpresa cerca di mettere in campo l’autore, tanto per confondere le acque. Ma la fine si avvicina stancamente, e senza molto interesse. Troppa carne al fuoco, troppi tentativi di dire, mescolare, fuorviare. E troppe intenzioni da mettere dentro. La chirurgia plastica, l’ambiente “ricco” della città, gelosie, rancori. Insomma, un quasi polpettone che rimane mezzo crudo. Certo, Guicciardi non si impantana troppo. Ma neanche risolve troppo. Una via di mezzo, che alla fine non soddisfa molto il palato. Rimane la voglia di tornare a mangiare tortellini. Forse un po’ poco.
“Tutti crimini … che dimentichiamo subito. Perché … [diventano] … delitti abituali. Ecco, io dico invece che non voglio abituarmi.” (106)
“- Come te la cavi con le cipolle? – Benissimo. Quando le taglio io, sono loro che piangono.” (149)
“Sì, leggo [molti] gialli.  E stranamente, a parte l’intreccio o i misteri, ciò che mi piace di più è quello che uno meno si aspetterebbe di trovare in quelle storie lì, cioè lo sfondo monotono della vita quotidiana … quell’analisi microscopica della vita … che contiene il segreto dei fatti eccezionali che vengono a sconvolgerla.” (248)
Massimo Cassani “Pioggia battente” Sole 24 ore – Noir Italia 5 euro 6,90
[A: 08/08/2013– I: 16/03/2014 – T: 19/03/2014] - &&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 327; anno 2009]
Una delle prime uscite della collana del Sole meritoriamente dedicata agli scrittori italiani di noir (e affini). Che ricordo è non solo dedicata agli autori, ma anche ai luoghi italiani (e ci torneremo sopra in una prossima trama). Qui si parla di Milano, dove l’autore vive, e qualche scorcio ne viene ben fuori. Qualche scorcio centrale (la passeggiata sotto la pioggia tra il Duomo e San Babila), qualche periferia (il Giambellino, per esempio), e qualche dintorno (vogliamo parlare di Lambiate Sant’Elsa?). E si parla del commissario Sandro Micozzi. Dove si apre la forbice tra la volontà dello scrittore di maneggiare una trama complessa e la resa che ne viene fuori. Intanto si evince dal testo che non è la prima uscita del commissario, dati i ripetuti accenni ad un’indagine precedente relativa alla scomparsa di qualcuno ed altri misteri, che qui vengono disvelati ma se non si è letto l’altro libro rimangono decontestualizzati. In seguito a quella vicenda il nostro protagonista è emarginato e la sua vecchia squadra dispersa. Ma un nuovo delitto, che rischia di coinvolgere personaggi in vista convince Procura e Questura a rimettere in pista, seppur di nascosto, il commissario. Esce fuori una trama di ricatti che non si spiegano, coinvolgendo un balordo ubriacone, poi ucciso nella casa dell’avvocato Bessi. Micozzi ed i suoi (l’ispettore Lariccia coinvolto in una storia extra-coniugale, l’ispettore Sodana, legatissimo al questore e per questo inviso a Micozzi, l’agente Teneriello, mago dei tabulati e dai tanti contatti, e l’agente Della Vedova, l’unica donna, dall’aspetto un po’ forte, e forse segretamente innamorata di Micozzi) vengono messi in ferie forzate e dedicate all’indagine. Che si dipana in una fine di primavera piovosa (da cui il titolo). Con la difficoltà di non sapere chi sia il morto. E con i legami (scoperti solo dopo 150 pagine) tra il morto stesso ed una escort vicina di casa del commissario. La Procura prende la palla al balzo, incrimina la povera Sofia e cerca di smantellare la squadra. Ma Micozzi è preso dai dubbi. E da altre “paturnie”: Margherita, la sua ex-moglie, cerca di coinvolgerlo in una storia illegale di adozioni, l’escort Mariolina (ma quante ce ne sono in giro) gli si attacca come un francobollo (per aiutarlo o per tenerlo d’occhio?), la bella Corinna (protagonista dell’altro libro) entra di soppiatto, scopa alla grande con il nostro, poi sparisce di nuovo, la giornalista Ambra lo coinvolge con l’amico Sigismondo in strani contesti (vuole scoop o c’è altro sotto?). Ecco tutte le storie che escono fuori dal filone principale. Che invece dovrebbe legarsi viepiù all’avvocato ed alle sue tre figlie: la dura Liliana, l’insicura Gigliola e la piccola Rosa (tutti fiori quindi). Pagina dopo pagina i misteri tendono a svelarsi (in tutto o in parte). Si scopre l’identità del morto. Si scopre che aveva tentato quindici anni prima di stuprare la bella Sofia. Si intuisce che il morto era stato ingaggiato per mettere paura all’avvocato coinvolgendo una “firma ombra” che stava in quel di Bologna. Si scopre che il numero di cellulare della bolognese e di Sofia differiscono di solo una cifra. E che il morto scriveva proprio male. Tutto confluisce poi in quel di Lambiate dove l’avvocato è anche sindaco. Dove si tenta di uccidere il commissario da parte di un ceffo che poi è l’amante di Mariolina, che nel suo appartamento ha un quadro di Sigismondo, che è un pedofilo, ed è anche confidente della Procura, e che, inopinatamente, si impicca. Con facilità (gli indizi disseminati sono tanti) si restringe il cerchio dei cattivi alle tre figlie dell’avvocato, dove qualcuna di loro lo voleva togliere di mezzo e prendersi tutto il mazzo (studio ricco, contatti politici, nonché case e coltivazioni agricole annesse). Ma quale delle tre? Non sarà la più ovvia, vi dico subito. E non quella su cui puntavo io. Alla fine questa storia avrà una sua conclusione, ma come detto sopra erano tanti i fili e non tutti si sciolgono. Chi è il procacciatore di fanciulli di Margherita? Che fine fanno Corinna e Mariolina, ad un tratto desaparecide? Perché Procura e Questura si fanno la lotta? Come proseguirà la storia lavorativa del nostro commissario? Queste le domande principali, anche se altre ce ne sono (una su tutte, ma Sigismondo chi era in realtà?), il tutto per un nero che alla fine, pur leggibile, non regge le trecento pagine di intrecci complessi. Alla fine è un po’ stancante e poco coinvolgente. Una prova in minore. Un solo commento a margine, per lodare la cultura musicale (a me affine) di Sigismondo che in un breve intervento sulla musica italiana riesce a citare: i Nuovi Angeli, gli Homo Sapiens, i Collage, Umberto Balsamo e niente popò di meno Michele Pecora. Un punto in più (ma solo) per questo.
Mi sa che per questo mese di maggio dovremo salutarci, che sabato si parte per dieci giorni in Turchia, tra Istanbul e la Cappadocia. Per il resto, amici – lettori, tutto procede, zoppicando, con un po’ di stanchezza, e lamentandosi (perché no) di trovare poco tempo per fare tutte le cose che si vorrebbe.

sabato 10 maggio 2014

Gialli, non Libri Gialli - 11 maggio 2014

Continuiamo la polemica, iniziata qualche trama fa, sui libri polizieschi di autore italiano. Lì avevo parlato (e non troppo bene) dell’esimia collana Mondadori, foriera di ben migliori uscite nella sua lunga storia. Qui abbiamo altri autori, usciti in altre collane ed altre edizioni. Ed il livello si innalza subito. Sarà che abbiamo qualche autore e autrice ben avvezzi allo scrivere, come la torinese Oggero (e la sua impagabile professoressa Baudino) o il milanese Tuzzi (con il bravissimo commissario Melis). Ma anche un’uscita tardiva, come quella dell’altrimenti nota Elda Lanza, che ho comprato per curiosità, e letto con piacere.
Margherita Oggero “Un colpo all’altezza del cuore” Mondadori euro 10 (in realtà, scontato a 8,50 euro)
[A: 09/11/2013– I: 09/02/2014 – T: 10/02/2014] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 317; anno 2012]
Se era un paio d’anni che non leggevo le storie genovesi della Fassio, ben più a lungo mi son trovato lontano dalla Torino e dintorni di Margherita Oggero. Sarà che nel frattempo, più e più volte se n’è parlato in televisione, dove la Pivetti ha dato una faccia ormai indelebile alla professoressa Camilla Baudino (nella fortuna serie “Provaci ancora prof”), e che forse anche la Oggero ha rallentato la scrittura. Comunque sono contento di questo ritorno, anche se è un ritorno di buona ma non eccellente fattura. Quello che ci vuole, forse, in questi giorni in cui l’influenza mi costringe a casa ed a letto. Una scrittura tranquilla, ed una storia ben congeniata, anche se, appunto, non eccellentissima. Tra l’altro, benché presente e discretamente centrale, la trama non si poggia solo sulla “prof”. In particolare, c’è il doppio binario, tra la nostra Camilla, e la sua amica Francesca, medico all’ospedale di Chivasso, ma spesso e volentieri a Torino dalla prof. E ci sono i due contraltari delle nostre eroine. Il commissario Berardi, che dopo due anni rivede Camilla, per cui aveva un forte “penchant” (ed anche Camilla, pur frenandosi, che c’è la famiglia, il marito Renzo, la figlia, rompipalle, Livia). Ed il capitano Sartori, della stazione di Chivasso, che sembra avere un debole per la Francy. Anche la storia procede sul doppio binario. Francy assiste all’investimento di una donna di colore da parte di una macchina che fugge. Cercando di saperne di più, e previa denuncia al Sartori di cui sopra, viene invischiata nella strana morte di un pensionato, sempre a Chivasso. Camilla, più crudamente, assiste all’uccisione di un uomo che viaggia in macchina, da parte di un centauro, che lo fredda con un colpo al cuore. La storia si srotola a capitoli alterni, tra le due città. Verso la ricerca di qualche elemento che ne porti a soluzione. L’incidente automobilistico è presto liquidato, trovando il colpevole, ma facendo anche sì che la donna di colore, nigeriana ex-prostituta, diventi amica di Francesca. E che questa trovi il modo di farle uscire le storie di sfruttamento e di miseria. Ma il cuore, dei cui colpi si parla nel titolo, è più di uno. Non solo del morto. Ma di Francesca, che rompe la sua tormentata storia con Guido (lo stronzo) che vive a Parigi e da sette mesi ha un’altra (e lei gli rompe il naso con un pugno: benfatto!). Di Francesca che pare prendersi con Sergio, un buttafuori locale, dai modi gentili, ed amante della città e della pulizia. Di Camilla, sempre combattuta tra il commissario ed il marito (ma poi sceglierà il secondo, e probabilmente non a torto). Le forze di polizia, intanto, aiutate dalle nostre, indagando, indagando, scoprono che il pensionato in realtà era uno strozzino, con la sua fiorente attività, aiutato da una strana prozia, e gingillantesi di sesso adolescenziale con la quasi nipote Deborah (molto ben tratteggiata da Margherita, tanto che capiamo presto che non potrà essere nel novero dei colpevoli, essendo troppo stupida). Con alle spalle almeno un cliente suicidatosi perché impossibilitato a pagare, e che lascia moglie affranta e figlio psicolabile. Anche il morto di Torino non è uno stinco di santo. È un imprenditore edile, che mette su cantieri dopo cantieri, lucrando sui margini economici, lasciando da parte la sicurezza sul lavoro. Tanto che tempo addietro muore un manovale, l’unico italiano tra tanti albanesi, rumeni e moldavi. Morto che lascia moglie portiera e figlio che, per guadagnare due soldi, va in Afghanistan e quasi ci lascia le penne (tanto che è ricoverato “fisso” in una struttura ospedaliera). Camilla, da buon intuizionista qual è, percepisce che ci debba essere un collegamento tra le due morti. Che sicuramente cominceremo a trovare quando si scopre che Sergio ed i due orfani erano compagni di scuola, e molto amici. Il resto è una normale corsa verso la fine, che non ci porta altri sussulti. Ma che ci fa sperare di trovare le due simpatiche donne in qualche futura avventura. Un unico appunto alle edizioni Mondadori per la loro revisione: ad un certo punto, intorno a pagina 260, invertono i nomi del suicida e del manovale. Ma una rilettura? Che vi costa, con tutti i soldi che prendete per ogni libro?
Elda Lanza “Niente lacrime per la signorina Olga” Salani euro 15 (in realtà, scontato a 12,75 euro)
[A: 08/10/2013– I: 15/02/2014 – T: 17/02/2014] - &&& 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 415; anno 2012]
Un libro discreto da cui mi aspettavo forse qualche cosa in più. Soprattutto per l’autrice, interessante figura di intellettuale italiano poliedrico. Elda (nata quindici giorni prima di mia madre), studia alla Sorbona con Sartre, è tra le prime attiviste femministe degli anni Cinquanta, poi si laurea ed insegna Scienza del Costume e Comunicazione, ma, sopra ogni cosa, è ricordata perché nel 1952 è la prima presentatrice della TV italiana. Un paio di anni fa si cimenta con il genere giallo, sfornando questo arguto volumone. Che è ben articolato, complesso, a volte forse d’andatura lenta. Ma pieno di quello “stile” di cui Elda ha fatto la cifra della sua vita. La storia è, come ben si addice ai bravi scrittori di genere, “biforcuta”. Da un lato, il giallo, che si sviluppa all’interno di un benestante condominio di Trissina, alle porte di Milano. Dall’altro, le vicende (anche personali) del commissario addetto alle indagini. La scrittrice ci porta così ad esplorare i due mondi, che ovviamente si intrecciano quando Gilardi comincia ad occuparsi della morte della signorina Olga. La signorina abita da nove anni nello stabile, è una vispa ottuagenaria, con la passione del decoupage, che entra, anche se non partecipa al 100%, nella vita del condominio. Soprattutto, ha una liaison con il coetaneo maggiore dell’Esercito. Ma non disdegna la frequentazione della coppia che lavora ad un catering “fatto in casa”, lui Cesare cuoco quasi cinquantenne, lei Aurora, peperina trentenne. Meno contatti ha con l’Armanda, che da anni cerca di far divorziare il commendator Sanna, di cui è l’amante, ma da cui è ben ingannata, che i soldi il commendatore li ha dalla moglie, e non vuole certo separarsi. Olga viene trovata morta con un cappio al collo. Il patologo Marika decreta strangolamento, ma solo per portarsi a letto Gilardi. Che intanto indaga, scoprendo che la Olga è ben misteriosa. Poco si sa della sua vita, di come ha fatto i soldi. Ma soprattutto, c’è il mistero di un quadro veneziano scomparso, si dice della scuola del Canaletto. Forse è quello il movente? Mentre Marika fa marcia indietro, che in realtà la signorina è morta d’infarto. Quindi probabilmente non è neanche un giallo (a parte il quadro). Intanto si scopre che la simpatica vecchietta ha un nipote, architetto e gay, che vive in America. Jimmy, il nipote, prima di venire in Italia per l’eredità, fa una gita ai Caraibi, dove conosce il commendatore Sanna, e la di lei signora. Con i quali incomincia un trastolo per nuove costruzioni in un’area tipo Milano Cinque (e che porteranno  avanti più tardi). Max Gilardi intanto, aiutato dall’ispettrice capo Natj Cassani, riesce a svelare alcuni misteri. Trova il borgo natio di Olga, dove questa era concupita dal conte locale che però, messa in cinta un’altra donna, la lascia donandole il quadro di cui sopra. Il notaio che tiene l’eredità in mano, è poi lo stesso, che tramite l’amministratore e ragioniere del palazzo, ha venduto la casa ad Olga. Mentre Natj e Max si innamorano, e poi si sposeranno, facendoci conoscere le loro vicende personali. Natj è sangue misto, padre triestino e madre etiope che sta morendo di cancro. Max è napoletano, con padre arcigno avvocato mai convinto delle scelte del figlio. Passa quindi del tempo, e quasi si archivia la vicenda “Olga”, se non che muore il cuoco Cesare. Sembra avvelenato. Il nuovo patologo (che Marika l’hanno bella e mandata via) trova però che è morto per uno shock anafilattico da coloranti. Mentre muore, non si trova Aurora, che si scopre avere una relazione con il ragioniere di cui sopra. E brevemente, si scopre anche che Cesare è morto accidentalmente. Ma il rinascere delle indagini, dà una luce al nostro commissario. Nessuno, nel condominio, era veramente quello che sembrava. Olga era una falsaria di quadri sopraffina, che piazzava i suoi dipinti, tramite il commendatore, ad un cugino del notaio che vive in Svizzera. Aveva fatto anche un falso del quasi-Canaletto, e, venduto ad un museo, con quei soldi aveva “cambiato la vita”. Ed Aurora, che sembrava tanto legata alla vecchia, la andava a trovare solo per fuggire dal retro e ritrovarsi con l’amante. Ed anche il maggiore … Ma non vi svelerò tutto, anche se sottolineo il divertimento di un giallo con tanti morti e nessun “reale” assassino. Purtroppo la storia di Max e Natj avrà dei risvolti imprevisti, forse un po’ forzati e sicuramente a me poco graditi. Come se alla fine, la nostra scrittrice voglia poter dire che questo libro è un “unico”, e non l’inizio di un Montalbano lombardo. Questa è la parte in minore, che tiene bassi i giudizi per altro positivi della scrittura di Elda Lanza.
“Tutto era avvenuto mentre lui cresceva, distratto da se stesso e dai propri sogni. Si era trovato in un altro mondo senza rendersi conto che fosse cambiato.” (101)
“Ti vorrei solo per me senza rendermi conto che ti amo perché sei così, come sei.” (340)
Hans Tuzzi “Un posto sbagliato per morire” Bollati Boringhieri euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 16/02/2013– I: 24/02/2014 – T: 26/02/2014] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 160; anno 2004]
Un discreto libro, di sicuro interesse, con un simpatico autore. Peccato qualcosa nella confezione non sia proprio “a puntino”. Come potete immaginare, il nome dell’autore è uno pseudonimo, visto che Hans Tuzzi è il protagonista di … (ma ve lo ricorderò solo alla fine della trama). Il nostro si chiama in realtà Adriano Bon, ed è un bibliofilo milanese, amante dei libri e dei cani (ed anche questo si sente dai suoi libri non-Tuzzi, come “Gli occhi di Rubino”, un libro dal sottotitolo illuminante: “Di cani, di libri, di cani nei libri”). Lessi anni fa i suoi due primi libri incentrati sul commissario Norberto Melis, che mi rimasero impressi per l’atmosfera e per l’arguzia della trama. Trame delicate, ma anche realistiche, cosa che spesso gli autori dimenticano. Ed erano anni che ne cercavo edizioni economiche, come questa ad esempio. Ma prima di entrare nella trama, ecco il “punto dolente”: perché questo posto sbagliato per morire, era stato già pubblicato anni fa con il titolo “Come il cielo sull’Annapurna”. Perché questo maquillage editoriale? Forse perché dal primo titolo l’autore ha cambiato casa editrice, passando dalla Bonnard (editrice di nicchia) alla Bollati Boringhieri? Fatto sta che un accenno andava pur fatto, e non che si veniva dicendo che il libro è del 2010. È precedente, e lo si nota nel taglio e nel modo di scrivere (ed ancor più se si pensa che la vicenda è situata nei primi giorni di ottobre del 1981). Ma veniamo allora alla storia. Un ricco architetto viene ucciso alla periferia di Milano. Un ladro che deruba un puttaniere? Qualche screzio con le prostitute? Il commissario Melis, appena nominato capo della Squadra Anticrimine, fa subito piazza pulita delle “stupidaggini”. E comincia ad indagare, alla sua maniera. Perché Melis vuole capire il contesto della vittima. Chi era? Come viveva? Come agiva? La ricostruzione del personaggio, porta spesso ad una rivelazione, ad una scintilla che ci risolve il caso. Ecco allora che ci troviamo a ricostruire la vita dell’architetto Manrico Barbarani. Sessantenne con passione dell’alpinismo (da cui il primo titolo), un primo divorzio non traumatico alle spalle. Un secondo molto contestato, soprattutto che c’è un figlio di mezzo, avuto in tarda età dall’architetto. La madre di Duccio fa di tutto, ed anche di più, per avere il figlio e rompere i bastoni tra le ruote all’ex-marito. Che tanti altri piedi ha pestato nella vita: ha uno studio tecnico ben avviato, ma non è in buona con il socio, ha litigato con un ex-socio che lasciò lo studio rubando progetti, ha litigato con un neo-ricco che interferiva nelle scelte tecniche delle commesse, ha litigato con un politico per una questione di gare d’appalti. Insomma, tanta gente lo vedeva come il fumo negli occhi. E soprattutto quella gatta morta della seconda moglie. Che si fa circuire dal politico per rendere la vita difficile a Manrico, e che tratta in modo esecrabile il piccolo Duccio (da telefono azzurro immediato). Ma come ben presto scopre il nostro Melis, anche il Barbarani non è che fosse uno stinco di santo. Rancoroso, con memoria d’elefante, ed in particolare dedito a tutto per avere l’affido del figlio. Anche a far riempire la macchina della ex di soldi falsi e far fare una denuncia alla polizia svizzera. Peccato che si sia servito di un ex-agente dei servizi segreti, talmente poco affidabile che si fa scoprire. E coprire dai Servizi, anche se… Le uniche persone che vogliono bene a Manrico così com’è sono la vecchia tata (e le tate si sa sono acritiche) ed un’associata allo studio, la Clara. Che seguendo tracce sue, scopre le frequentazioni di Manrico con una strana agenzia di intercettazioni. Che guarda caso è quella dei servizi. Che guarda caso, poco dopo, Clara finisce sotto la metropolitana. Beh, avete capito anche voi, no? Tuzzi lo si segue piacevolmente in questa Milano degli anni Ottanta, non ancora craxianamente corrotta. E seguiamo Melis, con il cane Kim e la fidanzata Fiorenza, con le sue peregrinazioni, con le sue frequentazioni, e soprattutto, con la sua squadra, di cui impariamo a conoscere gli elementi e le caratteristiche. Se Tuzzi avesse uno scatto in più poteva nascere un bel seriale di libri. Invece, rimane sempre un po’ al di qua. Non vi dico quindi, i finali del libro così potrete scoprire voi stessi chi ha ucciso l’architetto. Vi dico, però, come avevo promesso, che Hans Tuzzi è il protagonista del libro “L’uomo senza qualità” di Musil. Chiaro, no?
Hans Tuzzi “Un enigma dal passato” Sole 24 ore – Noir Italia 25 euro 6,90
[A: 04/01/2014– I: 26/02/2014 – T: 28/02/2014] - &&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 137; anno 2005]
Intelligente, colto, forse un filo poco giallo, ma la scrittura di Tuzzi è sempre di gradevole lettura. Anche in questa storia ambientata nella Val d’Ossola in quel del 1986. Protagonista, è ovvio, ancora il commissario Melis in vacanza tra i monti a causa di una caviglia slogata. Allora un bel riposo tra le verdi valli, in compagnia dell’amata Fiorenza, a trovare vecchie conoscenze (di lei). Ed a penetrare nelle complicate vicende interpersonali di un paesino dove tutti si conoscono da una vita. Tuzzi ce li fa conoscere tutti: la maestra Maldini, che ha avuto tutti i ragazzi e le ragazze del paese come alunni, il dottor Greppi, che li ha invece curati tutti, le tre sorelle Chiomenti, “signorine", come ci tengono a sottolineare a più riprese, il professore Maldifassi, esperto di streghe ed altre cose occulte, con la molto più giovane moglie, nonché il maresciallo Africo Fallacara, detto “il polpetta” indovinate perché. Sarà proprio il maresciallo a chiedere l’aiuto del commissario in vacanza quando si scopre tra i monti il corpo nudo di un uomo. Ovviamente morto. E che nessuno conosce. Indagine nel circondario, ne fanno ritrovare tracce in un paese vicino, scoprendo che il morto veniva dall’Argentina. Questo da modo, tra una chiacchiera e l’altra, tra un tè ed una passeggiata, di ricostruire la parte antica dell’enigma. Come mi aspettavo, sentendo il nome della valle e ricordando i famosi partigiani della valle (quelli della repubblica partigiana di Umberto Terracini, narrata nel bel libro di Giorgio Bocca), si deve risalire a quaranta anni prima, nella parte finale della guerra. Dove il maggiorente del paese, Saverio Guaraldi, avendo due figli gemelli, li spedisce uno tra i partigiani ed uno tra i repubblichini, così da trovarsi parato in ogni caso. La guerra finita, il Guaraldi vincitore convince l’altro a rifugiarsi in Argentina. E con lui parte uno spiantato del paese, Giovanni Marangoni. Ma la vita di uno dei due finisce presto, su di un aereo precipitato in Venezuela. Il salvato si fa argentino e cambia il nome in Jaime Carpintero. Nessuna sorpresa che il morto si chiami allora Javier Carpintero? Le tracce tra l’Italia e l’Argentina si complicano perché anche una delle signorine Chiomenti, l’unica che stava per sposarsi, aveva l’amato partito per il nuovo mondo e mai tornato. Tuzzi gioca un po’ sulle diverse ambiguità, cercando lumi anche con una delle memorie storiche del paese, Adelia, la tata dei Guaraldi, rimasta sui monti con il figlio Severino, un po’ disturbato. Due le svolte che porteranno a risolvere l’enigma: la morte di Enrico, il gemello rimasto, e la conseguente nascita di illazioni sull’eredità lasciata e quella, seppur involontaria, che darà il professor Maldifassi, quando in una conferenza accenna al fatto che in dialetto locale, falegname si dica “marangon”. Ed in spagnolo falegname si traduce anche “carpintero”. E Jaime è lo spagnolo per Giacomo, come Javier per Saverio. Il commissario Melis, gamba permettendo, ma lasciando poi tutto nelle mani di Africo, risolve il non complicato e poco giallo enigma (nonché qualche piccola bega locale che neanche si ricorda dopo un po’). Rimane la scrittura, l’atmosfera, la cultura dell’autore. Pieno di citazioni alte (un rimando ai fratelli Karamzov?), anche se (ma qui la mia ignoranza è crassa), parlando del male e della sua banalità, a pagina 62 cita il poeta Auden e non la storica Hannah Arendt. Ed io mi domando se qualcuno mi sa sciogliere questo di enigma. Un ultimo elemento di piacevolezza, è il “blind dinner” dove, come nei “blind test” dei sommelier, vengono serviti diversi piatti, di cui i commensali devono indovinare gli ingredienti. Una specie di “Alta cucina” di Rex Stout alla rovescia. Rimane alla fine il piacere della lettura di questi libri in punta di penna di uno “scrittore senza qualità” (scusate il gioco…).
“Il male non è mai straordinario. Il male … ha il volto ottuso del vicino di casa.” (62)
“In fondo, cos’è un viaggio se non il giro più lungo per tornare a casa?” (64)
“Peccato soltanto che si debba sempre morire, per perdonare.” (96)
Ed è anche passata la mia festa, di cui sono ben contento, con la dovuta calma e tranquillità. Ora la testa è per le prossime partenze. La Turchia si avvicina ed il gruppo si ingrossa. La Tunisia è ferma e non si muoverà per un po’. E ci sono rumori per qualcosa di settembrino. Staremo a vedere. Per ora, un rilassato abbraccio 

domenica 4 maggio 2014

Saggi di primavera - 04 maggio 2014

Primavera solo perché è questa la stagione in cui voi li state leggendo. Forse avrei dovuto dire saggi di Natale, visto che ben 3 su 4 derivano dal mitico, inconfondibile, irrinunciabile natalino  dell’arabista, una tradizione ormai che si spera di portare avanti, nonostante le diaspore delle nostre attività. Due saggi di bell’idea ma che non mi sono piaciuti nel modo di rendere l’idea di partenza. Due saggi di buona fattura, anche se mi aspettavo di meglio da quello sui vini delle Langhe.
Maria Grazia Rossi “Il giudizio del sentimento” Editori Riuniti s.p. (Natalino di Rosanna)
[A: 25/12/2013– I: 02/01/2014 – T: 07/01/2014] - &
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 142; anno 2013]
Probabilmente mi ripeto ancora una volta, ma ribadisco che sono sempre contento di ricevere libri in regalo. Ciò non mi esime dal manifestare gradimento o meno verso lo scritto. E devo dire che questo saggio di Maria Grazia Rossi non mi è piaciuto affatto. Non tanto per l’argomento, che, al contrario, è di interesse, e merita anche un’analisi personale più approfondita. È il metodo espositivo che mi ha lasciato particolarmente freddo ed estraneo. La materia del saggio, infatti, verte intorno ad una prospettiva quanto mai interessante: i giudizi, le posizioni etiche, derivano da ragionamenti razionali o hanno una componente (piccola o grande) di emotività? Più avanti torneremo sul tema, quello che appunto rilevavo nel mio scarso gradimento è il tono dottorale dell’esposizione (non che un ricercatore universitario non possa esprimersi aulicamente, ovvio). Quel tono, come dalla frase che sotto riporto, che serve a far vedere: guarda come so parlare bene, guarda quanti bei libri che ho letto, e come li ho capiti. Tanto che ci costruisco su una bella teoria. Quindi più che un saggio, un libro da docente cui serve una pubblicazione per far carriera. Anche qui, niente di scandaloso. Ma... E qui rientriamo nel personale, non dico che si poteva costruire un romanzo alla Jane Austen (“Ragione e Sentimento” ad esempio) o, nella punta estrema, sviluppare un saggio comprensibile nei suoi passaggi e quindi meglio fruibile (penso ai discorsi sull’etica di Zbigniew Baumann). Mi bastava un passaggio molto inferiore, ma che mi ha fatto entrare molto di più nella problematica delle decisioni morali, come il romanzo di Alexander McCall Smith “Pratiche applicazioni di un dilemma filosofico”, letto e tramato circa otto mesi fa (e mi riferisco al dilemma “ferroviario” di cui parlo più avanti). Ma tolte le sovrastrutture pesanti, l’essenza del saggio è comunque interessante e foriera di discussioni. Rossi fa un excursus (filosofico, psicologico e medico) per portarci da una situazione di completo razionalismo (seguendo le radici pedagogiche di Piaget) dove tutto è vagliato in termini di ragionamento, ad una situazione che non può non essere mista. Non sarebbe possibile comportarsi e decidere eticamente e moralmente solo sulla base di emozioni, ma c’è un continuo riandare tra i due corni del dilemma. Solo nell’interazione tra i due, e nel dare un giusto peso anche all’emotività, si può (o si può tentare di) spiegare il comportamento umano. Affidarsi alla sola ragione, sicuramente risulta in un processo che, talvolta lungo, non consente di prendere decisioni adeguate. Convincente è quindi quella specie di darwinismo morale, che porta ad “emozionarsi” di fronte ad una particolare situazione, e ad operare verso atteggiamenti che sicuramente sentiamo più giusti. Per tornare al dilemma del binario (che Rossi tratta in molte varianti), ricordo si tratta di una locomotiva che procede a folle velocità, motivo per cui sta per travolgere cinque persone. Il soggetto “decidente” ha in mano uno scambio ferroviario che consente di deviare il mezzo in un binario dove ucciderebbe una sola persona. Da un punto di vista solo razionale, non si può che agire sullo scambio. Ma che dire (e purtroppo Rossi non inserisce questa variante tra le sue proposte) se noi sappiamo che le cinque persone sono malvagie e l’unica persona è invece buona e caritatevole? Tuttavia a noi, e a Rossi, non interessa al fine se agiamo o meno sullo scambio (questa sarebbe un’applicazione pratica…) ma interessa capire quale giudizio emettiamo a fronte dei diversi comportamenti. Per tornare e finire verso quella matrioska cognitiva che è il nostro cervello. Sicuramente di una complessità tale (e di tale indecidibilità) che fa sì non sia riproducibile con sinapsi elettroniche. Se la nostra morale, il nostro comportamento fosse totalmente razionalizzabile, da tempo cultori dell’informatica avrebbero creato reali “cervelli artificiali”. Fortunatamente, l’emozione non è ancora stata elettrolizzata. E noi rimaniamo “unici”. Fornendo ad ogni situazione una risposta, che (spesso, molte volte, o anche raramente) è sentimentale. Quindi, alla fine, un contenuto molto interessante in una forma molto deludente.
“Sosterremo che la moralità è gerarchicamente organizzata nei termini di una pluralità di valori e che questa gerarchia di valori sia dipendente dall’organizzazione gerarchica sottostante delle emozioni. In questo senso, come vedremo, il riferimento alla nozione di gerarchia … può essere certamente utilizzato come una produttiva euristica filosofica, ma deve altresì essere impiegato per descrivere e studiare l’organizzazione cognitiva della nostra mente-cervello quando si trova a valutare il bene e il male.” (88)
Bernd Brunner “L’arte di stare sdraiati” Raffaello Cortina Editore s.p. (natalino di Paola)
[A: 25/12/2013– I: 10/01/2014 – T: 20/01/2014] - & e ½ 
[tit. or.: Die Kunst des Liegens; ling. or.: tedesco; pagine: 164; anno 2012]
Una buona idea realizzata male. Ed anche un regalo significativo che ho ben gradito, come tutti i regali di muhallima. L’idea, appunto, sia del regalo che del libro è interessante. A me che viaggio, che non sto mai fermo, mi si suggerisce con forza (ed io accetto con piacere) di provare una prospettiva orizzontale (che poi è quella che generalmente assumo quando leggo i miei libri). Accetto perché, pur continuando (e spero ancora per molto) a viaggiare, non disdegno la fermata contemplativa, lo sguardo rilassato da prospettive diverse. Come dimentico, il molle adagiarsi sui divani di Al-Khalili al Cairo fumando una shesha? O l’assoluto riposo di un bagno turco ad Istanbul? Anche se il mio top è lo stare sdraiato su di una duna dell’Akakus libico (e ci si dovrà tornare, prima o poi). Ma veniamo al nostro mentore, che s’è un po’ tralasciato. Bernd, tedesco giramondo, nato a Berlino, si è laureato a Seattle ed ora vive ad Istanbul, scrive i suoi libri sul labile confine tra la storia della cultura e la storia della scienza. Fino ad ora, noto soprattutto per quell’agile volume sull’invenzione dell’Albero di Natale. In questo inno alla posizione in cui, bene o male, passiamo almeno un terzo della nostra vita, l’autore cerca soprattutto di sfatare l’associazione sdraiato – ozioso. L’essere sdraiato non è sintomo di pigrizia, né tanto meno di passività. Può essere una necessità, può essere una pausa, può essere anche un momento creativo. E nei vari capitoli della sua saga, Bernd cerca di dare conto di tutte queste possibilità. Dalla storia del materasso (cominciando con gli antichi resti di posizioni sdraiate ritrovate a Stonehenge, e che un bislacco revisore lascia indicata come età della Pietra, cioè Stone Age) alle più recenti scoperte nel campo della ricerca di sonno. Sdraiarsi soli o in compagnia. Insegnare ai bambini come stare sdraiati. Ricordare i romani ed i loro banchetti distesi (ahi, Trimalcione!). Poi allargare il campo dal letto e dallo stare sdraiati a tutto il contorno (le stanze in cui ci si sdraia). Per non dimenticare, poi, le differenze fondamentali tra le varie componenti dell’universo umano. In Oriente, sdraiarsi è una componente fondamentale della crescita del pensiero. E Buddha vi raggiunge il Nirvana, non a caso. Ma anche nei paesi arabi, riposare il corpo, anche per brevi periodi, assume significati molto diversi e più profondi di quanto in Occidente siamo adusi pensare. Ci sono spigolature e momenti quasi di ilarità, come per la descrizione delle più stravaganti invenzioni relative all’orizzontalità. Come quella, assolutamente da provare, della doccia sdraiati. O del letto basculante. Ripeto, e l’autore fa di tutto per ricordarcelo, che l’orizzontale è una posizione fondamentale per le tre grandi tappe della vita: nascere, amare e morire. La prima s’è fatta. La seconda si continua a farla. La terza non si potrà non farla, ma possiamo riparlarne in futuro. Non dimentica poi, il nostro, autori che non riuscivano a produrre se non sdraiati. Proust, per dirne uno. Ma anche Mark Twain non disdegnava il letto. E che dire di Edith Wharton, che usava il letto per non vestirsi con i busti che odiava. O il poeta Woodsworth, che componeva sdraiato ed al buio? Quello che mi sembra meno pertinente è l’accostamento con Michelangelo. Non è che stando sdraiato ebbe l’idea della Cappella Sistina. Ma dovendo dipingere quella grande opera, ritenne, e giustamente, che non poteva essere compiuta se non con una grande impalcatura che gli consentisse di lavorare avendo la parete di fronte. Cioè sdraiato. Quindi per lui il rapporto è praticamente rovesciato. E finiamo ribadendo con l’autore che il tempo trascorso in orizzontale può essere prezioso, offrendo momenti di contemplazione che spesso portano alle nostre idee migliori. Però tutti questi elementi non sono posti nei giusti risalti, a volte la scrittura è a sprazzi, quasi ad effetti. Ci sarebbe voluta più continuità, e probabilmente un’ancorare meglio l’idea di fondo (ottima) all’esposizione generale (debolina). Un solo appunto, infine, per conoscitori del tedesco. Le mie fonti danno il termine Lugens per sdraiarsi ed utilizzano Liegens, com’è scritto sul libro, per mentire. Spero che germanofili dotti mi possano illuminare.
“Starsene sdraiati diventa un esercizio preliminare per maturare un pensiero più saggio, piacevolmente sottratto alla ferrea logica che impone di scegliere tra progredire e regredire.” (21)
“Flaubert amava molto l’idea di viaggiare e i ricordi che gliene sarebbero rimasti, ma trovava il viaggio in sé assai poco gradevole.” (114)
Enrico Remmert & Luca Ragagnin “L’acino fuggente” Laterza euro 12 (in realtà, scontato a 7,20 euro)
[A: 10/01/2014– I: 16/02/2014 – T: 17/02/2014] - &&& 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 126; anno 2013]
Pur essendo gradevole, mi aspettavo qualcosa di meglio. Siamo nel solito e benvoluto contesto di racconti e descrizioni inseriti in quadri altri. Paesaggi, viaggi, insomma tutto quello che in questi anni ci ha fatto conoscere la collana “Contromano”. Dalla Sardegna senza mare di Fois, alla Bari d’altrove di Carofiglio, dai treni di Magrelli alle panchine di Sebaste. Ora torniamo in Piemonte, dove spesso ci aveva accolto a mo’ di padrone di casa il buon Culicchia, con le sue scorribande torinesi (e con un pensiero di gratitudine alle sempre gradevoli Paola Mastrocola e Margherita Oggero). Ma fortunatamente ci spostiamo in provincia, per non sovrapporci nelle impressioni. E che provincia. Come dice felicemente il titolo, parliamo di zone del vino. Anzi, come dice il sottotitolo siamo sulle strade del vino tra Monferrato, Langhe e Roero. Sono tre zone a vocazione vinifica potente, con un’ampelografia di valore mondiale. Partiamo dalle vette irraggiungibili, e non narrabili, del Nebbiolo e del Barolo, per approdare ai più accessibili Barbaresco, Barbera, Albugnano Superiore, Cisterna d’Asti, Freisa, Grignolino Malvasia di Castelnuovo, Ruché di Castagnole, Dogliani, Roero, di qua, di là, eccetera. Utilizzando divertissement letterari, tra veri e falsi (le magnifiche strategie oblique illustrate dalle carte prodotte 40 anni fa da Brian Eno, esempio concretizzato del pensiero laterale del maltese De Bono, e chi ne vuol sapere di più, ne chieda), i nostri due scanzonati non ancora cinquantenni torinesi vanno a passo di lumaca (ovviamente locale) per una zona limitata ad alta gradazione. Il triangolo sud-est torinese delle valli di Roero, delle Langhe e del Monferrato (astigiano, mi raccomando). Senza perdersi troppo, ma senza dimenticare, descrizioni geografiche e collocazioni ambientali, Enrico e Luca ci portano tra i castelli medioevali, le torri, e le storie (soprattutto di streghe) di cui è pieno quel territorio che, se non fosse dedito al vino (anche) andrebbe ricordato per aver dato i natali e lo spirito a Carlin Petrini ed al movimento Slow Food (che non poteva che albergare in una strada dal nome eloquente: via della Mendicità Istruita, stupendo!). Ma parlando di storie e di luoghi, come non incontrare, ad ogni piè sospinto, parole ed opere di Beppe Fenoglio, meraviglioso cantore della città di Alba? O passare per le terre dell’Alfieri o del Cavour, senza ricordarne le cantine? Transitare per Santo Stefano Belbo e dimenticarsi di Pavese? E se questi son gli uomini noti, tanti son quelli (a me) poco conosciuti che i due vanno incontrando per via. Enologi, ristoratori, spacciatori di tartufi, animatori. Ed ovviamente scrittori, come Davide Ruffinengo della Val Rilate e della Libreria Therese. E poiché sarebbe lungo parlare a fondo di cantine e di botti (e citandoli o ricordandoli ad uno ad uno, i grappoli sarebbero troppissimi), diciamo solo che il vino c’è. Ma c’è anche il mangiare, soprattutto la carne all’albese (battuta al coltello, ovviamente). Tanti e tanti formaggi (dalle tome al Bra, tanto per dirne due). Ed una lunga e poetica ricetta della Bagna Cauda (che difficilmente si sopravvive all’aglio contenuto a pagina 47). Insomma, un libro divertente, un Baedeker dell’andar per Langhe. E pur tuttavia, non così pungente come mi aspettavo. Si sente qualche scollatura, qualche momento di stanchezza, qualche forzatura. Manca un disegno unitario che sottenda il tutto. Sì, parliamo di vigne e di vigneti, di luoghi e d’osterie, di castelli ed altre diavolerie, ma così, come appunto si farebbe intorno ad una buona grappa, chiacchierando anche un po’ alticci. Senza capire bene le domande altrui, ma parlandosi un poco addosso, e ripetendo l’eterno ritornello, di qua, di là, eccetera. Certo, e devo darne atto a loro ed a Riccardo Agnello che lo ha suggerito, l’acino fuggente, come titolo è una delle cose migliori che abbia sentito in giro. O oste, mio oste!
“Scrivere di vini è come ballare di architettura.” (71)
Principessa Bibesco “Nobiltà dell’abito” Sellerio s.p. (prestato da Alessandra)
[A: 25/01/2014– I: 20/03/2014 – T: 25/03/2014] - &&&
[tit. or.: Noblesse de robe; ling. or.: francese; pagine: 143; anno 1928]
Ero curioso di leggere questo libro frutto di un natalino dell’arabista per mediazione, per cui l’ho chiesto in prestito e, con le dovute calme, letto. E devo dire apprezzato. Non che sia eccelso o imperdibile. Ma ha un suo fascino. Per l’autrice, per la dotta e completa introduzione, e per alcuni spunti del testo. Forse c’è anche altro, ma mi sembra che già sia abbastanza. Si diceva dell’autrice, non particolarmente nota in Italia, se non per altri libricini sempre dovuti al recupero infaticabile dei testi effettuato dalla Sellerio. Marthe Bibesco nasce romena, ma si sentirà sempre figlia della Francia in cui visse la quasi totalità dei suoi anni (e non furono certo pochi, dal 1892 al 1971), prima per scelta, poi per costrizione dopo l’annessione rumena al Patto di Varsavia. Nasce da nobile famiglia, vive nel lusso, fa un matrimonio d’effetto con il principe Bibesco. Ma sarà anche e sempre dedita alle lettere, sia per frequentazione, sia per parca scrittura. Un solo cenno, l’amicizia (con bel libricino) con Marcel Proust. Queste ed altre notizie le desumo dall’introduzione di Rosetta Signorini (più che da Wiki che solo in francese ne tratta). Ne esce fuori, appunto, un ritratto della prima metà del secolo scorso, e della vitalità che, soprattutto sino al ’20 – ’30 ebbe Parigi nel panorama internazionale. La Signorini illumina anche sul testo, che sarebbe bello poter essere maggiormente delucidato, se non fossero passati ormai più di ottanta anni dalla sua stesura. È come fare un salto nel tempo, e leggere un Vanity Fair d’annata, con l’unica nota (dissonante se non stonata) che molte citazioni, molti rimandi legati al tempo della stesura non riescono a superare il tempo e lo spazio. La Bibesco scrive appunto per un giornale di moda questi bozzetti. E come per i migliori racconti del Settecento francese, lo fa “in chiave”, nascondendo con nomi e particolari fittizi, persone ben note in quegli anni. Ed in realtà, soltanto due sono le decodifiche che ci arrivano: il ritratto di Coco Chanel e quello di Etienne de Beaumont. Decifraggi semplici, che moda – Parigi – Coco sono un legame indissolubile. Come lo sono i balli di Etienne, quelli che tenevano banco per anni a Parigi (e non a caso, che dopo uno di questi, tornato a casa bagnato e sudato, Proust si ammala e poco dopo muore). Gli altri quindici bozzetti (l’ultimo ne parlo alla fine) sono meno palesi (sui personaggi) ma precisi nelle impressioni. La scrittura semplice ma sempre ricca di echi e di citazioni della Bibesco fa uscire dalle pagine tante figurine. La sartina artefice del bel vestito che rimane “suo” fino alla vendita (suo per la fattura, suo per le modifiche). L’addetta principale alle vendite, quasi una principessa anche lei per come fa e disfà i guardaroba altrui. E le donne che si intestardiscono in azioni e decisioni sbagliate: colori fuori tempo, guanti stretti, accessori mal assortiti. Sottende a tutti questo richiamo alla donna di usare la moda e non di essere usate da lei. Di imporsi e non di farsi imporre. Magari cambiando idea, come fa la nostra su dei colori che passano di moda. Le ultime pagine sono un volo quasi profetico sulle possibilità dei nuovi mezzi espressivi di allora, come il cinematografo, di fornire ausilio per capire la moda stessa. Anticipando quello che poteva accadere con la pellicola, ed accadrà poi con la televisione, la Bibesco immagina una sequenza di scene con il progredire della moda nel tempo, con il vedere salire e scendere le acconciature, allargarsi e restringersi le gonne, modificare accessori, passare e tornare idee. Far scorrere questo film aiuterebbe (aiuta) a capire che la moda è “il momento”, che tutto passa, ma che tutto torna. Un ultimo appunto anche sul titolo, quella “nobiltà” legata ai titoli (non a caso scrivere una principessa), ma che nel tempo si era allargata alla “nobiltà della spada” derivante da imprese militari. E dopo le rivoluzioni industriali, in modo diverso da nazione a nazione, in “nobiltà della roba” (come non pensare a Mastro Don Gesualdo), cioè del denaro. E qui, la nostra principessa ha buon gioco a divertirsi con il suo francese ed il doppio senso del termine “robe”, qui appunto utilizzato come “abito”.
“Nietzsche: non voglio una donna che mi dia dei figli, voglio una donna che mi dia dei sogni.” (51)
“O amanti felici … un consiglio [per facilitare] la vostra impresa sovrumana … trovare la diversità nella costanza.” (59)
“Il mio libro non divertirà nessuno quanto diverte me mentre lo scrivo. Fare è una forma di possesso che supera tutte le altre: e far bene, una gioia.” (118)
E ci sta anche bene, in finale, che, come seconda trama del mese, si possa mettere in appendice un lemma sull’ambizione, come ci insegnano le scrittrici di “Curarsi con i libri”. Intanto, qualche settimana di preparazione per i primi viaggi estivi e pre-estivi. Come detto, sicuramente Turchia. Come si spera forse deserto tunisino. E luglio? Vedremo insieme

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

MAGGIO 2014
Questa volta le nostre dottoresse ci regalano un unico rimedio, a fronte di una patologia ben diffusa. Tra l’altro la vedo ben accostata con le tematiche giovanili affrontate i mesi scorsi.

AMBIZIONE SCARSA

Il petalo cremisi e il bianco, Michel Faber
Se vi sorprendete a seguire la gara di tutti gli altri, e non la vostra, o addirittura vi accorgete di essere ancora sulla linea di partenza, vi serve un romanzo per spingervi a fissare un traguardo e poi a scattare per raggiungerlo. Non esiste libro migliore, da questo punto di vista de “Il petalo cremisi e il bianco”.
La nostra giovane eroina inizia la propria vita in un luogo che, per la maggior parte di noi, potrebbe sembrare così lontano dalla possibilità stessa di competere che tanto varrebbe dichiararsi sconfitti prima di partire. Sugar è stata costretta a prostituirsi da sua madre alla tenera età di tredici anni, e cresce convinta di non avere altra scelta che sottomettersi agli uomini che vengono nel suo letto per «tenerle caldo». Lei, tuttavia, desidera elevarsi al di sopra di quell'infima esistenza. La via che sceglie è diventare la migliore di tutto il bordello - e poi di tutta la Gran Bretagna. Presto non solo riesce a ottenere risultati fenomenali in camera da letto, ma anche a far sentire eloquente, spiritoso e vitale un uomo semplicemente per il modo in cui lo ascolta e flirta con lui. Dietro a questa apparenza affascinante, tuttavia, continua a ritenere grottesco il suo lavoro e riversa il proprio disgusto in un romanzo che, in segreto, compone alla sua scrivania.
La grande occasione arriva quando incontra William Rackham delle Profumerie Rackham, che la scopre attraverso le pagine di una rivista per soli uomini, «Baldorie a Londra». Rackham è così innamorato di Sugar che fa in modo di ottenere l'esclusiva sulle sue attenzioni. Alla fine lei gli diventa preziosissima, non solo per il fascino e la bellezza ma anche per il cervello, poiché si dimostra più astuta e più sensibile alle esigenze del suo cliente di quanto non sia egli stesso. Non passa molto tempo prima che Sugar diventi l'ispiratrice delle sue campagne pubblicitarie e della sua intera strategia aziendale.
Faber ritrae nei minimi dettagli un mondo vittoriano di disuguaglianza sociale e rigide convenzioni. «Attenta a dove metti i piedi. Stai sempre all'erta. Ti servirà» si raccomanda all'inizio del romanzo. Seguite l'esempio di Sugar (lasciando perdere, magari, la prostituzione) e procedete con saggezza, decidendo del vostro destino piuttosto che di quello altrui. Per dirla con Oscar Wilde: «La nostra ambizione dovrebbe essere governare se stessi, l'unico vero regno per ciascuno di noi».

Bugiardino

E questa volta, pareggiamo il conto (facile tra l’altro), che quest’unico libro sull’ambizione l’ho letto e commentato (anche se quattro anni fa). Continuo a ritenere strano il nostro autore, che oltre a questo libro ha pubblicato una serie di racconti in cui ritroviamo i personaggi della vicenda, primo o dopo il corposo romanzo. Come se si aspettasse, primo o poi, di scriverne un sequel (o un prequel). Comunque fu una lettura interessante, tanto che iniziai a parlarne prendendomela a muso duro con l’autore.
Michel Faber “Il petalo cremisi e il bianco” Einaudi euro 15 (in realtà, scontato 10,50 euro)
[28 marzo 2010]
Non si lascia il lettore sospeso, a meno che non ci sia una valida ragione. E qui non c’è! Perché già si è faticato a portare a termine le quasi 1000 pagine, e poi si arriva ad una fine che non è una fine. Certo, l’autore è libero di gestire al meglio i suoi personaggi, ma qui si lasciano tante ombre, che sembra quasi voler dire: io so, e non ve lo dico!!! E poi, se si leggono racconti successivi, si scoprono filoni ed altri pezzi che riannodano le fila. Ma andiamo con ordine. A leggere le numerose recensioni e a vedere il considerevole spazio che la stampa gli aveva dedicato, si poteva pensare che il romanzo di Michel Faber fosse uno dei casi letterari più importanti degli ultimi anni e che il suo autore sarebbe uno dei massimi talenti di recente scoperta. Ma “Il petalo cremisi e il bianco” non è assolutamente il capolavoro che ci volevano far credere, né è di così appassionante lettura: anzi, non sono rari i casi di una scrittura inutilmente insistita e magari anche un po’ tirata per i capelli. Detto questo, non si può tuttavia negare che si tratti di un libro interessante, da vari punti di vista, e che la storia e l’ambientazione riescano ad esercitare una certa presa sul lettore, effettivamente affascinato dalla ricostruzione. Non è quindi un cattivo libro, ma un libro che vale la pena di leggere. A partire proprio dall’ambientazione. Londra 1875. Dall'esile candela della sua stanza nel bordello della terribile Mrs Castaway, Sugar, una prostituta di diciannove anni, la più desiderata in città, cerca la via per sottrarsi al fango delle strade. Dai vicoli luridi e malfamati Michel Faber ci guida, seguendo la scalata di Sugar, fino allo splendore delle classi alte della società vittoriana, dove violiamo l'intimità di personaggi terribili e fragili. Come Rackham, il giovane erede di una grande fortuna che diverrà l'amante di Sugar e da questa forza trarrà prima la sua vittoria e poi la sua rovina, e sua moglie, l'angelica e infelice Agnes. Con tutto il dipanarsi delle vicende. L’ascesa e caduta di Rackham, del fratello, la fuga verso l’oblio della pazzia di Agnes (ma poi sarà così). E Sugar che resiste imperterrita ai buoni ed ai cattivi venti. Ma poi non potrà che essere travolta dalla sua stessa felicità. Nell’epoca vittoriana, una prostituta rimane sempre una prostituta, ed in un impeto moralista, Rackham distrugge la propria vita, quella di Sugar nonché della povera figlia sua e di Agnes (ma chi ha voglia di annodare i fili, poi si legga “Donne in marcia…” un racconto posteriore di Faber che riprende ed annoda alcuni fili). Certo, a volte sembra che Faber voglia costruire un best-seller, a scapito della coerenza interna e della sua adesione ai personaggi. Ma, ripeto, la sua capacità di farci vedere le contraddizioni di un’epoca di passaggio dal pre al post-industriale è ammirevole. Pur tuttavia alla fine, non posso dare un giudizio completamente positivo. Troppe le ombre che rimangono. Troppe le cose che sospese lasciano l’amaro in bocca. Provaci ancora, Michael.

Conclusioni

Quindi, sono d’accordo con la patologia descritta. Una scarsa ambizione verrà senz’altro frustata dalle vicende di Sugar, e se appassionandosene, potrà trovare il modo di trovare stimoli verso propri futuri migliori. Tuttavia devo mettere in guardia con possibili effetti collaterali. Che se siete romantici, oltre a scarsamente ambiziosi, vi rimarranno dubbi in sormontati dalla lettura. Inoltre rischia di indurre sconforto a chi soffre di mania di precisione (come detto, il libro sembra ad un certo punto finire, come dicendo ho scritto 1000 pagine, sono un po’ stanchino). E ci vorrà pazienza certosina nel cercare dove andrà a parare la figlia di Agnes, o Sugar dopo la morte di Rackham. Insomma, da prendere a piccole dosi, anche se è un libro ponderoso.

giovedì 1 maggio 2014

Primo Maggio al femminile - 01 maggio 2014

Riprendo una tradizione un po’ tralasciata di scrivere anche nei festivi, per omaggiare la festa e le donne, infaticabili lavoratrici. Per farlo, ecco quattro esimie autrici, tutte di livello superiore alla media, con un picco nel bel libro, a suo tempo sfuggitomi, di Catherine Dunne, di cui consiglio la lettura. Senza scordare l’ottima Nemirovsky (grazie Nico), e le due italiane, la consolidata Parrella e la nuova, ma da non dimenticare, Caterina Cutolo.
Irène Némirovsky “Jezabel” Newton Compton s.p. (Natalino di Nico)
[A: 25/12/2013– I: 08/01/2014 – T: 08/01/2014] - &&&&
[tit. or.: Jézabel; ling. or.: francese; pagine: 147; anno 1936]
E dopo molto tempo torniamo alla scrittrice francese, nata ebrea e ucraina. Molto tempo è passato dalle ultime letture, iniziate sotto la spinta di una scoperta di Alessandra (direi un paio d’anni). Tuttavia è piacevole ritornarvi. Per la forza della scrittura, per l’eco che in questi anni hanno avuto i suoi scritti, e, qui, per una bella introduzione dovuta all’arguta penna di Maria Nadotti. È, infatti, nella prefazione che Maria Nadotti entra come un bisturi nella scrittura e nel modo di porre le storie da parte della nostra autrice. Ricordiamo, infatti, che Irène scrive tra il ’20 ed il ’40, in un’epoca dove la scrittura femminile non è che fosse all’apice delle iniziative di mercato. Solo autrici con spiccate tendenze di critica, di rivolta, insomma, di rottura, avevano qualche sprazzo di notorietà. La Némirovsky, qui ed in quasi tutte le sue opere, incentra lo scrivere sui rapporti. Sempre e soprattutto, tra i sessi. Il rapporto tra uomo e donna, come scrive la Nadotti, in molte opere, con questi uomini sempre distanti, distaccati, sempre alla ricerca del denaro. Ed il rapporto, velato a volte, ma sempre presente (e qui con una forza spaventosa), tra madre e figlia, ricordo del suo rapporto tormentato con una madre assente e distratta. Anche in questa prova, dura, secca, leggibile e forte, ci sono tutti gli ingredienti. A cominciare da quella Jezabel che non viene presa nel suo senso storico (anche se la regina biblica era bellissima, lussuriosa, avida e cattiva, tanto da finir sbranata dai cani dei suoi nemici), ma in quello, forse più velato, dell’Atalia di Racine, che richiama la figlia ad imprese nefaste, votandosi all’idolatria, al culto, qui, del sé e della propria persona. La Némirovsky, tra l’altro, usa una tecnica raffinata e molto “filmica” per raccontare la storia. Comincia, infatti, con il processo alla bella Gladys accusata di aver ucciso il suo amante, e per questo condannata (anche se con mitezza, che le riconosco attenuanti dovute alla confusione mentale). E poi un lungo flash-back, che ci porta dall’infanzia di Gladys alla maturità, ed a ripercorrere in dettaglio (ma da tutt’altra prospettiva) la vicenda del processo. Gladys affascinata dalla bellezza e dal potere che questa ha verso gli uomini. Gladys giovane ed instancabile, presto sposa di un marito che le dà sicurezza economica, e che dopo averle dato anche una figlia, si toglie di mezzo morendo. E lasciando al centro della scena, Gladys e la figlia Marie-Thèrese, dove la figlia sembra sempre più matura della madre. Ripercorre, in modo velato, i suoi tormenti infantili la nostra Irène, e li seziona con un bisturi dei più cattivi. Gladys, bella e sempre piacente, non vuole invecchiare, e per questo mente sull’età della figlia. E cerca di ostacolare l’amore di lei verso un lontano cugino, fino a negare il permesso alle nozze. Ma la guerra incombe e Olivier, il cugino, parte e vi muore, non prima di aver messo incinta Marie-Thèrese. Gladys nega anche questi fatti, nasconde la figlia in campagna, e quando questa muore durante il parto, dà a balia il nipote e lo cancella dalla mente, lasciandosi tutto alle spalle e tornando alla vita gaudente e parigina. Quella per cui è ammirata. Quella per cui il conte italiano la vorrebbe in sposa. Ma sposandosi dovrebbe confessare la sua età, per cui si nega, preferendo continuare a fare l’amante. Finché il nipote la rintraccia, la ricatta, minacciando di chiamarla nonna in pubblico. Che vergogna! Gladys farà di tutto, ed anche oltre per evitare tutto ciò. Noi sappiamo come finisce, che se ne legge tra la fine del processo e l’inizio del flash-back. Rimane tutta la costruzione della storia, tutta la cattiveria che l’autrice infonde in ogni riga. Sono fucilate verso le donne fatue, verso il falso mito della bellezza e della gioventù (ed il sotto-mito del denaro). Non c’è riscatto nel mondo della Némirovsky. C’è una bella e potente scrittura, che siamo contenti sia resuscitata dall’ombra dell’oblio.
“Aveva vissuto fino a diciotto anni con una madre fredda, severa, mezza pazza, una vecchia bambola truccata, a turno frivola e spaventosa, che trascinava per tutte le contrade del mondo la sua noia, sua figlia, i suoi gatti persiani.” (54)
“Come ho potuto temere di avere quarant’anni? … Ah, vorrei averli ancora! … A quarant’anni si è nel pieno delle forze, nel rigoglio, si è giovani… Sì, ma… a cinquanta… a cinquant’anni… ah, è più dura!...” (109)
Valeria Parrella “Lettera di dimissioni” Einaudi euro 10,50
[A: 03/08/2013– I: 10/01/2014 – T: 14/01/2014] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 187; anno 2011]
Ritrovo dopo molto tempo un’autrice di cui mi ero culturalmente innamorato alle sue prime uscite. E che mi aveva restituito un po’ di fiducia nella capacità del racconto e della sua espressività. L’ho seguita con occhio laterale, leggendone ancora, anche senza assiduità ed a volte senza ritrovarne il piacere antico. Ricordo un buon romanzo, a metà tra qui e l’Argentina, con molti spunti anche se poi irrisolto. Ed ora eccone una nuova prova, che per buona parte mi riporta ai piaceri antichi della scrittura coinvolgente della Parrella. Anche se non interamente, anche se in alcune parti (e soprattutto verso il finale) si ingarbuglia un po’, stretta tra la necessità del narrare e quella dell’affermare, dell’arrivare ad una tesi, dolorosa ma autentica. La storia, quasi una lunga lettera, è quella di Clelia, anche se fino a metà del libro non ne conosciamo il nome. Che l’inizio è come un’apertura di un album di fotografie. Passano volti ed altri nomi, e si costruisce il firmamento di riferimento dell’io narrane. Ed anche se con lentezza, è la parte che rivela il gusto della narrazione che mi ha sempre colpito nella scrittrice. Vediamo la nonna Franca, i suoi ferrei ideali trasmessi alla figlia Lucia. E vediamo il nonno Riccardo, la sua sordità, il piacere del ritorno a casa della bambina e delle chiacchiere con l’anziano progenitore. Una famiglia quindi che ha ben in mente come l’agire individuale sia sempre politico. Dove Lucia troverà la sua anima gemella nel marito, amante dell’arte e sovraintendente a Pompei (e dove vedremo i guasti che la compromissione porta al tessuto generale della nostra pur bella patria, quando Clelia vede il genitore piangere sul crollo della “Casa dei Gladiatori”). I genitori di Clelia sono appunto comunisti, quella della moralità, dell’etica (tanto che, pur saltando di palo in frasca, ci sarebbe bene una citazione dal film “La terrazza” di Scola, come fa Piccolo nel libro contemporaneamente letto). Etica per cui Clelia, il fratello ed il padre, andando la domenica all’acquario dove lavora Lucia, pagano il biglietto, pur essendone esenti. E quella per cui i genitori di Clelia non accetteranno i biglietti omaggio al teatro per vedere i lavori della figlia. Poi finalmente, Clelia, viene in primo piano. Nell’Italia sconfitta degli anni Ottanta e traumatizzata nei Novanta, la giovane Clelia cerca di resistere. Fa la maschera a teatro e continua con la sua utopia artistica (bella la descrizione del suo lavoro). Gianni il suo compagno non accetta raccomandazioni per l’esame d’avvocato e sa che sarà bocciato, così come senza raccomandazioni l’amato fratello si ritrova ad insegnare al nord, in un’Italia arricchita e volgare che disprezza la scuola e la cultura. Ben presto si troverà davanti a dei bivi, quelli per cui dalla resistenza si passa all’accettazione del “male minore”, per accorgersi, ad un certo punto, che seppur minore è pur sempre “male”. Non potrà che lasciarsi con Gianni, che pur rimarrà amico e punto fermo della sua vita. Barcamenandosi tra amori inutili e ricerca di incidere in qualcosa. Come accettare l’incarico al teatro Comunale. Ma quando i tagli del FUS (ahi Rosa quanto ti ho pensato) le pongono il dilemma del licenziamento di precari pur valenti, Clelia dovrà di necessità trovarsi di fronte ai bilanci della sua vita. Portandola, inevitabilmente, alle dimissioni del titolo. E sempre facendo il parallelo con il libro di Piccolo, a quella scelta fra l’etica della prospettiva e quella della responsabilità. Il giusto agire privato sarà sempre sconfitto dal giusto agire collettivo. Noi ce la immaginiamo, avanti al foglio che sta scrivendo, ripensare a tutte le pagine che abbiamo letto. Ai genitori, alla lotta per abbattere l’osceno Jolly Hotel, al teatro di quartiere. Clelia non si riconosce più, e si domanda dove ha preso le scelte sbagliate. Perché le cose non si compiono all’improvviso, ma all’improvviso le vedi nel loro intero. Parrella ci porta a chiedere quali sono state le nostre scelte, come abbiamo agito anche noi in questo contesto. Ed io mi domando se sia ancora possibile salvare il mio comunque amato paese. Ripeto che la parte finale l’ho trovata leggermente irrisolta, forse troppo amara. Ma in fondo mi chiedo, non è forse vero che è comunque un mondo amaro questo? E forse, ci sarà possibilità di riscattarci? Io, come sempre, spero.
“Solo così funziona la menzogna, con una porzione di vero dentro.” (108)
Catherine Dunne “La metà di niente” Guanda euro 10
[A: 19/06/2013– I: 05/02/2014 – T: 08/02/2014] - &&&&&
[tit. or.: In the beginning; ling. or.: inglese; pagine: 292; anno 1995]
Dopo aver avuto un momento di popolarità, purtroppo dovuto alla citazione che ne fece Veronica Lario nella lettera aperta contro l’innominato marito, il libro era caduto un po’ nel dimenticatoio. Scaffale dopo scaffale, cercando altro, mi capita, mi ricordo, e mi dico perché no. Ed alla fine devo dire, scordiamoci Veronica, Silvio ed altre palle, e concentriamoci su un bel libro, che a volte ingenuamente, ma sempre con partecipazione, ci inserisce in una storia da cui non si riesce ad uscire. Sarà che ne abbiamo sentite molte e, purtroppo, altre toccate con mano, ma mi sono sentito subito al fianco di Rose e della sua battaglia. Una lotta per la vita che inizia una mattina di aprile quando (fulmine a ciel sereno, ma forse no), il marito Ben le annuncia che se ne va. E ora? I due hanno tre figli, dagli 8 ai 17 anni, lei è casalinga, lui lavora nella finanza. La Dunne con la sua scrittura, e con l’uso di rapidi flash-back, in poco tempo porta alla luce tutta la vicenda. E tutto il (possibile) dramma che sottende la vita di Rose. Vediamo il fidanzamento nella Dublino della metà degli anni ’70. Il matrimonio (ma sia l’amica Martha che la sorella Ellen non sono convinte). La nascita del primo figlio Damien. Ben che ha fortuna negli affari e si mette in proprio. La morte del secondo figlio ed il rinchiudersi di Rose in un bozzolo dove non arriva nessuno. Poi la nascita di Brian, il tentativo di Rose (sempre frustrato da Ben) di aver interessi propri al di fuori della famiglia. Fortuna che la domesticità è una dimensione che (in parte) piace a Rose. Mettere ordine, casa linda, cucinare per i suoi cari. Ed infine nasce anche la piccola Lisa. E Ben si trova in un centro di famiglia in cui non fa assolutamente nulla. Non propone, non aiuta, non capisce i problemi di Damien o di Brian. Fa il classico “marito” assolutamente, completamente, immancabilmente stronzo. Come dirà la madre, è un bambino viziato che ha sempre voluto tutto. E poiché Rose deve farsi in quattro per l’economia domestica, Ben non trova di meglio che invaghirsi di Caroline, la moglie del suo socio. Un anno di tresche, scopatine, ed altre mille ridicole avventure. Poi la decisione di fare una vacanza (quella per cui Ben annuncia di andarsene). E qui il grande e fatale errore dello stronzo. Mica dice a Caroline che lascia la famiglia. E quando glielo dice, questa lo manda a quel paese: per lei era una scopata senza pensieri. Dalla Spagna ritorna indietro e ricostruisce la sua vita con il marito (ed alla fine farà anche la pace con Rose). Ma la nostra Rose in tutto ciò? La prima parte, in cui seguiamo l’agnizione della nostra amica è di un dolore unico. D’improvviso “rivede tutta la sua vita, bilancio che non ha quadrato mai” (citazione della Vanoni). Si accorge di aver sempre messo tutto da parte e di non avere nulla. Troverà sempre e subito l’affetto di persone care. Prima di tutto la vicina Jane, che, senza dire troppe parole, la comprende e le da “i primi soccorsi”. In termini di aiuto quando c’è bisogno, o di ascolto. E poi c’è sempre Martha, che, anche se emigrata in Australia, sarà sempre vicina alla sua amica, tanto da tornare per un breve tempo in Inghilterra, e ritrovare la comunanza di un tempo. Tuttavia Rose deve far fronte alle necessità domestiche quotidiane: mangiare, fare la spesa, portare i figli piccoli a scuola, e via domesticando. In questo viene anche subito aiutata dal figlio grande Damien, che, pur diciassettenne, fa un salto di qualità e si pone come spalla di sostegno. Meno dai piccoli, che, ed è ovvio, stravedono per il padre. Soprattutto Brian, che farà il diavolo a quattro, rifugiandosi nei video-giochi (ed anche facendo qualche sgarro), fino a che non avrà anche lui cognizione di cosa stia accadendo. In tutto questo, tramite un passa parola, Rose viene messa in contatto con un catering, e date le sue doti culinarie, inizia a fare panini e dolcetti. Complicando viepiù la routine familiare, alzandosi all'alba, ed altre complicazioni varie. Ma in questo, e nella capacità di organizzare pranzi sontuosi, trova la via d’uscita. Prima di tutto, interiore. Capisce che, pur essendosi negata per anni, qualcosa di buono è capace a fare. Dura ed a volte senza speranza, inizia la seconda parte, quando ormai è tutto al presente. E lo stronzo fa di tutto per mettere i bastoni tra le ruote. Nega i soldi, fa di tutto per far fallire le società così da non dover mantenere la moglie. Rose mette in mezzo amici ed avvocati, ma quando Ben fugge con gli ultimi soldi, lei si ritrova ad essere quella del titolo. Ebbene, si rimbocca anche qui le maniche. Tutti le danno una mano (perfino la madre di Ben, che trova il comportamento del figlio ingiustificabile), e con un colpo di genio, aiutata dal figlio Damien e dalle amiche Jane e Martha, ottiene prestiti bancari per avviare l’attività redditizia di catering. Chiudendosi il tutto (almeno per me) quando verso la fine, risponde al telefono, e non dice: - Casa Holden, buongiorno. Ma con forza afferma: - Pronto, sono Rose Kelly! Certo, non tutte le vicende che conosciamo hanno la ventura di finire in modo positivo (anche se noi sempre lo speriamo e ne facciamo il tifo). Facendomi passare dalla rabbia, al sorriso ed alla voglia di lottare, la Dunne ci porta per mano verso un futuro che auguro a tutte le donne che hanno un Ben-marito. E a molte altre (so io chi).
Carolina Cutolo “Romanticidio” Fandango euro 10 (in realtà, scontato a 7,60 euro)
[A: 06/11/2013– I: 13/02/2014 – T: 14/02/2014] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 197; anno 2012]
Peccato! Un libro che stava raggiungendo vertici di gradimento in tutti i settori (trama, scrittura, fattura), mi confeziona due capitoli finali che non mi convincono per nulla. E scende, scende, scende. Peccato. Certo, sono pur bravo, dall'esterno a dire e criticare. Magari, quel finale era quella che la brava Carolina aveva in mente sin dall'inizio. Ma … Vediamo un po’ meglio, e discutiamone un po’. Prima di tutto mi piace il linguaggio usato dalla scrittrice. Si sente che non è forzato, si sente che la giovinezza che esce dalle pagine non è artificiosa, ma viene da esperienze reali. Come il blog da cui l’autrice trasse il suo primo libro (“Pornoromantica”) e l’esperienza di bartender che ritroviamo sia nella descrizione dell’ambiente che circola nel Verve, locale di tendenza, sia nell'associazione a molti personaggi di un cocktail di riferimento. Anzi, questa del cocktail è una delle invenzioni più gradite del libro, sia per l’accostamento ai personaggi (che, in effetti, acquistano spessore con gli accostamenti alcolici), sia per quel mini glossario sulla preparazione e la storia dei cocktail narrati. Sia detto per inciso, personalmente, mi sento vicino al Martini Hemingway, con quel profumo di vermouth aleggiante su un letto di gin (possibilmente, per me un Bombay Sapphire). E vediamo chi osa dileggiarmi per questo. Secondo, e sostanziale, il tessuto narrativo, lungo tormentone in prima persona della protagonista, Marzia, che si trova casualmente (e ridicolmente, come descrive con arguzia e cinismo) in coma. Dalla posizione “privilegiata” di personaggio presente ma non interagente, vede scorrere nella sua camera d’ospedale il suo mondo, le persone a lei vicine, ed altro. Che, come sappiamo da libri e film su stati comatosi, parlano al corpo assente, cercando un modo di tirarlo fuori dallo stato comatoso. La capacità di Carolina, è quella di far agire i personaggi al meglio (o al peggio) in modo che si sentono capaci di dire a Marzia quello che pensano, che, spesso e volentieri, è diverso da come interagivano quando Marzia si muoveva nel mondo reale. E capiamo ben presto che si muoveva andando dritta per la sua strada, dicendo a brutto muso i suoi pensieri, senza cercare di mascherarli con senso e sentimenti, “senza strategie e finte riverenze” come dice lei stessa. Quindi in questo suo stato comatoso, si vede passare (e noi con lei) tutta la sua vita: la morte del padre per infarto, la mamma religiosa e remissiva, il nonno tirannico, Rebecca, amica del cuore e compagna di pazzie, ora trasferitasi lontano per stare con il suo amore e farci anche un figlio (scatenando fiumi di pensieri nella Marzia in punto di morte). E poi gli amici e i nemici del bar Verve: Lucrezia la gestrice e Pamela la lacchè, Vanessa, quella svenevole per amore, Massimo, il cuoco che quando può, prende e parte per il mondo in moto, e Lorenzo, l’ultimo arrivato, quello che scatenò i dubbi di Marzia sulla sua vita sregolata, quello per cui (forse) varrebbe la pena di uscire dal coma. Ma come detto, tutti i personaggi, di fronte alla moribonda, si comportano in modo che risulta spiazzante. Tanto che, benché alcuni non possa far altro che lasciarli affossare nelle loro cattiverie (ed in primis il nonno e Pamela), gli altri li rivaluta, li guarda in altre prospettive, si domanda se il suo modo cinico di affrontare la vita ha sempre lo stesso senso. La bravura di Carolina è di portare avanti per quasi duecento pagine questo monologo, senza stancarsi, senza stancarci, e senza essere ripetitivo. Ridiamo con la moribonda per i suoi tentativi di seduzione, per il suo cinismo sessuale, ne apprezziamo le crudezze verbali (quando ce vo’, ce vo’). E stiamo lì, in attesa di capire come va a finire. Che ovviamente non vi dico, rilevando solo, come detto all’inizio, che una delle idee finali mi ha convinto poco. L’utilizzo di strane patologie, come il delirio di Cotard, poteva essere evitato. Primo, perché non delucida molto (e se qualcuno si domanda cosa sia, pensi che è un disturbo rilevato al mondo negli ultimi 50 anni in non più di 100 casi, di cui l’unico acclarato è il musicista dark svedese suicida Per Yngve Ohlin). Poi perché cerca di razionalizzare il non razionalizzabile. Avrei preferito altro. Ma questa è una scelta della scrittrice, quindi va presa e valutata per quello che è (non per quello che io avrei voluto che fosse). Ma nel complesso, un'altra bella scoperta nel panorama di libri ed autori nuovi. E son contento di aver scoperto questo libro in quella pur sempre meritoria fiera di libri che è “Più libri, più liberi”. Speriamo proseguano tutti (la fiera e la scrittrice).
“[Massimo] è la prova che, anche senza progetti a lungo termine, si può vivere la vita che si vuole se ci si impegna a realizzarla.” (26)
“E certo, si sa che in pensione non si trova il tempo per far nulla.” (46)
Prima trama e lungo elenco delle letture del mese di febbraio, tante ed intense. Un mese con poche letture sotto media (saranno solo 3 su 21, e di un niente proprio). Ed una su tutte di cui parlo poche righe sopra: Dunne. E andate a rileggerla.

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Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Annamaria Fassio
Controcorrente
Mondadori
4,90
3
2
Arto Paasilinna
Piccoli suicidi tra amici
Iperborea
14
3
3
Umberto Lenzi
Delitti a Cinecittà
Mondadori
4,90
3
4
Jonathan Coe
I terribili segreti di Maxwell Sim
Feltrinelli
9,50
3
5
Gianni Biondillo
I materiali del killer
TEA
9
4
6
Catherine Dunne
La metà di niente
Guanda
10
4
7
Gianni Biondillo
Cronaca di un suicidio
Guanda
14,50
3
8
Margherita Oggero
Un colpo all’altezza del cuore
Mondadori
10
3
9
Marzia Musneci
Lune di sangue
Mondadori
4,90
3
10
Antonio Caron
La lustraressa di Vicenza
Sole 24 ore – Noir
6,90
3
11
Carolina Cutolo
Romanticidio
Fandango
10
3
12
Hanif Kureishi
Nell’intimità
Bompiani
8
3
13
Elda Lanza
Niente lacrime per la signorina Olga
Salani
15
3
14
Enrico Remmert & Luca Ragagnin
L’acino fuggente
Laterza
12
3
15
Antonio Pagliaro
Il sangue degli altri
Sole 24 ore – Noir
6,90
2
16
Giorgio Scerbanenco
Al mare con la ragazza
Corriere della Sera
6,90
3
17
Giorgio Scerbanenco
Ladro contro assassino
Corriere della Sera
6,90
3
18
Qiu Xiaolong
La ragazza che danzava per Mao
Marsilio
12,50
2
19
Hans Tuzzi
Un posto sbagliato per morire
Bollati Boringhieri
9
3
20
Eduardo Mendoza
O la borsa o la vita
Feltrinelli
s.p.
2
21
Hans Tuzzi
Un enigma dal passato
Sole 24 ore – Noir
6,90
3

Ben venga Maggio, allora, sperando che qualcuno si ricordi i versi di Guccini. Anche per l’improvviso sblocco delle avventurose alchimie. Si torna anche in Turchia, e tutto sommato non dispiace. E altro si affaccia all'orizzonte.