domenica 30 settembre 2012

PiErriNo - 30 settembre 2012


No, non è un errore, né un becero tentativo di fare un revival di Alvaro Vitali. No, questa settimana di fine settembre la dedico a due scrittori italiani, cui segue le opere con alti e bassi. Ma che trovo in ogni caso degni di lettura. Qui, nel titolo, li ho mischiati. Così come nelle letture. Sebbene ben distinti siano, appunto l’alessandrino Pino Cacucci ed il napoletano Erri De Luca. Anche se, a ben guardare, la comune passione per il Sud America qualcosa vuol dire.
Erri De Luca “Il contrario di uno” Feltrinelli euro 6,50 (in realtà, scontato 6 euro)
[A: 13/05/2012 – I: 13/06/2012 – T: 14/06/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 115; anno: 2003]
Erri, quando torni alla tua vena migliore? Quand’è che ti spogli dalla prosopopea di raccontare ex-cathedra e torni a sporcarti le mani con le narrazioni più partecipate? Tra l’altro, anche qui siamo sul versante racconti, e di quelli che non sono il massimo per le mie corde di lettore. Inoltre pensavo che “Tre cavalli” avesse segnato una svolta importante nello scrivere del nostro amico napoletano, passando appunto da quel modo di porsi un po’ al di sopra, ad uno più partecipativo. Invece anche qui non ho visto giusto. Perché se è pur vero che molta della produzione prima dei cavalli non mi è piaciuta, e molta di quella dopo mi ha dato spunti di riflessione, ci sono ancora dei momenti alti e bassi. Come in tutte le produzioni che vado leggendo negli ultimi anni. Morale (a doppio binario): scritti sentiti dall’autore producono sensazioni interessanti nel lettore, letture partecipate del lettore riscattano momenti non felici dell’autore. Qui ci sono una ventina di racconti che nel complesso non hanno smosso molto in me, ed è come sentisse che anche De Luca non ne avesse una visione chiara. A parte i cinque inutili micro racconti dedicati ai sensi, qui riproposti da una diversa antologia, gli altri, al solito, entrano ed escono dal privato dello scrittore, ne trattano momenti della sua parabola di vita, infanzia, adolescenza ribelle e sovversiva, periodo di ripensamento operaio, solitudine ed introspezione. Tutto giocato su quell’equazione poco aritmetica del rapporto tra uno e due. È lo stesso De Luca che confessa non essere matematica la contrapposizione, che il contrario di uno, se vogliamo essere rigorosi, è “- 1”. O se vogliamo essere filologici è “molti”. Non certamente “2”. Ma l’autore vuole creare una serie di contraltari tra i momenti suoi solitari (lì dove è uno) e quelli di rapporto con gli altri (dove si è almeno 2). Ne capiamo le motivazioni. Come ne capiamo alcuni momenti. Che meglio solitari risaltano, come nel ricordo della madre (per lui, per tutti, sempre dolente quando non c’è più). O nelle strampalate idee del padre, perso in sogni che non riesce né a vivere né a condividere. Ma anche in quei momenti di altritudine: un abbraccio portato per scacciare una malattia, una gonna blu durante una carica di polizia. Fino a quella domanda inespressa durante l’arrampicata in due, dove bisogna appunto non solo essere in due, ma fidarsi reciprocamente. È il solo modo di andare avanti, è il solo modo di superare le difficoltà. Ed anche se la montagna è forse una delle cose a me più distanti (superata solo dalle discese subacquee con bombole e muta), è anche quella che capisco meglio. Il resto, appunto, sono piccole bozzetti, ritratti, ricordi. Ma non mi emoziona sentirlo parlare di quando faceva l’operaio, delle sensazioni provate in Africa, di quell’appartamento vicino a Villa Ada. E questo e quello. Soprattutto, non per il narrato in sé, ma per quel modo di costruire la frase, che non ha più la naturalezza dei Cavalli, e non ancora altro sentire del peso della farfalla o del nome della madre. Perché De Luca a volte prende la frase, la inizia, poi si ferma, respira, ne cerca un suono, un’allitterazione, inverte soggetto e oggetto. E ne fa una corta sentenza. E come tutte le sentenze a me rimane esterna. Non mi da modo di controbattere, è troppo secca e lapidaria. Io amante del dubbio e dell’irresolutezza, mi trovo a volte spaesato nella sua affermosità. Vedremo altro, caro amico, che il nostro cammino non si fermerà qui.
“Sono stato ragazzo per qualche settimana, un paio di volte, d’estate. Per tutto il frattempo si era adulti involontari.” (52)
“Non scherzavano con le cose della natura.” (81)
“Le chiedevo conto, e mai si deve tra chi sta in amore. Non esiste il tradito, il traditore, il giusto e l’empio, esiste l’amore finché dura.” (91)
“La tua mano minuta serrata nella mia … chiudeva noi due dentro e tutti gli altri fuori.” (108)
Pino Cacucci “Outland Rock” Feltrinelli euro 7,50 (in realtà, scontato 6 euro)
[A: 11/06/2011 – I: 19/06/2012 – T: 20/06/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 165; anno: 1988]
Devo una volta tanto concordare con qualcosa della quarta di copertina, anche se non in modo così entusiastico. Viene, infatti, riportato un giudizio di Fellini su questa prima uscita del nostro, data ben 1988, che parlava di due ore di divertimento rispetto alla lettura dei racconti dello scrittore, piemontese ma cresciuto artisticamente al DAMS di Bologna. Ora divertimento non è la parola che mi viene subito in mente, ma certamente due ora ben spese, leggendo quattro racconti scorrevoli, che rappresentano appunto la prima uscita di Cacucci. Non tutti sullo stesso piano, non tutti parimenti godibili, ma certamente una scrittura che già si preannuncia dotata di un buon grado di leggibilità. Con alcuni elementi che si troveranno nei suoi scritti successivi. L’attenzione ai perdenti, alle piccole cose della vita, ed anche un primo slancio verso quel Sudamerica che per Cacucci rappresenterà un po’ un elemento di svolta. Un amore. Un rifugio. Certamente una patria del cuore se non del corpo. I quattro racconti sono anche uniti dalla “impossibilità (o quasi) di essere reali”. Soprattutto il primo e l’ultimo, dove le vicende del protagonista diventano occasioni per far entrare fraudolentemente tematiche quasi da hard boiled americano o simili elementi poco italici. Nel primo uno sbandato, quasi un alter ego dell’autore che passa le giornate a raggirare le compagnie di vendita per corrispondenza (siamo ancora ai tempi della posta e non delle mail), si trova invischiato in una ricerca di un improbabile pezzo di satellite della guerra non tanto fredda tra le grandi potenze. E riesce, con fortuna ed incoscienza, a cavarsi di impiccio ed uscirne vincitore. Nel quarto, un ricercatore medico trova la formula per eliminare la carie. Ma le grandi compagnie farmaceutiche fanno di tutto per bloccarlo. Prima con le buone, poi con le cattive, ed in fine con le pessime. Ma pur non essendo un James Bond, il nostro professor Bombrini passa (quasi) indenne nelle maglie dei cattivi. Certo la sua idea è sconfitta. Ma forse non lo è lui, che pensa ad un futuro messicano (ve l’avevo detto, no?). Tuttavia, mentre il primo, pur fantasticheggiando, risulta plausibile, le fortune di Bombrini che passa indenne tra spie, agguati alla pistola ed altre fughe ed inseguimenti alla Tom Cruise, sembra poco reale. Direi un po’ forzato. Come sono forzati, ma questi si reali, i due protagonisti dei racconti centrali. L’usciere che assiste all’uccisione di un poliziotto, ma che, non volendo immischiarsene, ne risulta sempre più drammaticamente coinvolto. E l’amante delle moto e delle corse “fuori regola”, che nel tentativo di organizzare un bidone alla Marlon Brando, si ritrova coinvolto anche lui in una morte, senza riuscire a caprie né perché né come uscirne. Il tratto comune è sempre quello: una persona normale, d’un tratto, si trova ad affrontare una situazione eccezionale. Come reagirà? Sarà capace di trovare le misure giuste? Sarà coinvolto o consenziente? Nel tempo Cacucci comprenderà forse che non bisogna andare molto fuori nella fantasia per trovare situazioni difficili da affrontare. A volte le situazioni difficili sono presenti nella vita di tutti i giorni. Ed in quei frangenti che esce fuori poi l’anormalità delle persone. Vuoi la loro eccezionalità, come nel bellissimo ritratto che farà della Modotti o degli anarchici della banda Bonnot. Per ora un primo libro piacevole, certo letto 25 anni dopo. Ma non risente molto dell’usura del tempo (forse solo del passaggio da lira ad euro). Tant’è che ripeto fellinianamente, godiamoci queste due ore di riposo dalla stanchezza del quotidiano. 
“Quelli che sanno fare un po’ di tutto significa che non sanno fare niente di preciso.” (9)
Erri De Luca “Il torto del soldato” Feltrinelli euro 11
[A: 13/05/2012 – I: 04/07/2012 – T: 05/07/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 88; anno: 2012]
Siamo tornati sul versante alto di De Luca. Non vetta eccellente, ma migliore e più intrigante degli ultimi libri che ne ho letto. Meglio nella prima parte, quando narra in soggettiva, che nella seconda, dove, a volte, ricade nelle pause iperboliche di alcuni suoi momenti meno felici. Un libro breve, quasi un racconto lungo. Che De Luca riempie di alcuni suoi messaggi e di una domanda di fondo, che credo sia all’origine dello scritto. Appunto nella prima parte, dove ritroviamo la dichiarazione d’amore verso le montagne (e la solitudine delle stesse), troviamo anche la narrazione della nascita dell’amore di De Luca per l’yiddish, per la traduzione dei racconti di Singer, il ricordo delle barbarie naziste, la visita al ghetto di Varsavia, ed altre micro-storie che al solito stanno lì e sedimentano. Come lo sguardo alla donna nella locanda. Come la birra, o la pietanza mangiata con le mani. Tutto quello che serve poi ad innescare la seconda parte, questa in soggettiva della donna dello sguardo. Che ricostruisce, dalla sua parte del vetro, la storia della sua vita, e del suo rapporto con questo padre anziano. Che alla fine scopriamo essere un ex-soldato nazista. Ed un lungo e sotterraneo tormentone nasce dalle pagine, quello della domanda che ha fatto scaturire il bisogno di scrivere. Lo sconfitto nazista sostiene che il torto del soldato è di aver perso la guerra, che la storia la scrivono i vincitori. Lo scrittore pieno di dubbi ribatte che il torto del soldato è di obbedire. (E vai con il dibattito…). Ma le due parti, per me, non son bilanciate. Quando De Luca si mette in panni altri, fa un doppio lavoro (faticoso e prezioso) che non sempre porta i risultati sperati. Il lavoro di spogliarsi della propria impalcatura caratteriale, che rende i personaggi a volta più agili e meno oscuri, e la paura di togliersela tutta, per cui a volte ritorna nelle sue frasi anguste, nelle inversioni tra soggetto e oggetto, che a volte fanno tanto poema, ed a volte fanno solo fatica nel lettore. Ma il narrare diventa più fluido. Quando rimane in soggettiva su sé stesso, ha più difficoltà nel togliersi le armature caratteriali (mi sia consentita la citazione…) ma quando il discorso fluisce, ne esce più partecipe, ci fa più coinvolti. Quando parla dell’yiddish, della sua struttura, si vede l’amore con cui si accosta a questa lingua, per non farla morire (mi ricorda quei passi del Bambino di Noè di Schmitt). Che ne ricostruisce modalità e rigore (e poi si cercherà, tra quelli bravi e colti, di vedere affinità e differenze tra yiddish, ebraico, arabo ed altre lingue di ceppo mediorientale). Che ci fa vedere la bella genesi del finale del libro “La famiglia Muskat” di Singer. Nelle parti della donna, il discorso diventa più difficile. Ci son passaggi forse troppo involuti. Anche se si arriva ben presto a comprendere l’impianto. Ed a tornare alla domanda iniziale, su quale sia il torto del soldato, fatto salvo il fatto che non possa essere il fatto stesso di essere soldato. La domanda, infatti, travalica il contingente e diventa altro: diventa il torto degli sconfitti, il torto dei disobbedienti. Diventa il chiedersi se dire sempre di sì sia compatibile con le richieste che ci vengono fatte. Diventa, facendo un salto di un numero altissimo di gradi, il chiedersi, con Saviano ed Alajmo, come disobbedire alla Mafia e alla Camorra. Dove finisce il coraggio personale, per cominciare l’orgoglio collettivo. Forse sto correndo troppo, e le parole di De Luca hanno solo fatto da miccia a pensieri latenti e presenti. Ma altri dal narrato. Comunque, è mia convinzione che un qualsiasi scritto che susciti pensieri, anche se diversi dalle intenzioni dell’autore, è un libro degno di essere stato scritto. Ed io sono contento di aver avuto la fortuna di leggerlo (come diceva un diverso autore italiano, se leggi cinquecento libri all’anno, in una vita per quaranta cinquanta anni, potrai leggere che so venti-trentamila libri; in Italia ogni anno se ne pubblicano il doppio; e quindi ci vuole fortuna a pescare libri che si è contenti di portare con sé).
“Non è morta una lingua se anche uno solo al mondo la muove tra il palato e i denti, la legge, la borbotta.” (24)
Pino Cacucci “San Isidro Futbòl” Feltrinelli euro 6,50 (in realtà, scontato a 6 euro)
[A: 13/05/2012 – I: 07/08/2012 – T: 08/08/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 101; anno: 1991]
Non scopriamo oggi l’amore di Cacucci per il Messico. Tanto ne ha scritto e tanto ci ha dedicato (prove letterarie, da Puerto Escondido a Demasiado Corazòn, e saggi meta-scritture dalla biografia di Tina Modotti a La polvere del Messico di Io, Marcos a Gracias Mexico). Qui, in questo felice racconto lungo, unisce questo amore-devozione, con la punta ironica dei suoi migliori spunti, confezionando uno scritto veloce, ma non meno degno di lettura e riflessione. E che balza subito agli occhi facendoci sentire lì in quel pezzo di terra messicana, con la selva, le strade bianche, i polli e le galline. Tant’è che Alessandro Cappelletti l’ha subito trasformato in un (anche non eccelso) film. Quel “Viva San Isidro” dove spiccava la forte presenza di Diego Abatantuono nella parte di Padre Pedro (che bella assonanza!). Ma torniamo allo scritto ed alla sua esile trama. Tutta incentrata sulla comunità di San Isidro, paesino sperduto tra le regioni di Veracruz e Oaxaca (ahi, quando ci si ritornerà tra i suoi monti magici…). Cacucci, da bravo conoscitore dei posti, riesce a dipingerlo con brevi tratti di penna, soprattutto attraverso i suoi personaggi eponimi. L’alcade Don Cayetano, i suoi luogotenenti aficionados, Justino Portillo e Pascual Sandia, l’agricoltore misterioso, Alvaro Cristobal, il mescitore di mescal, Chepe Chamaco, il bello del villaggio, Quintino, e la sua bella, Antonia, la figlia maggiore di Pepe Gongora, non solo uno dei maggiorenti del villaggio, ma anche l’allenatore della squadra di calcio. Per finire (nel libro solo nelle ultime pagine), con Padre Pedro, con le sue potenti manone e la capacità, finale, di risolvere tutto per il meglio. Ma tutto che? Cacucci ci porta in una di quelle concatenazioni di avvenimenti, tanto improbabili quanto esilaranti nel susseguirsi. La squadra di calcio di San Isidro deve affrontare dei terribili rivali, ma bisogna delimitare il campo, e viene convinto Alvaro a cedere un sacco delle sue sementi. Quintino, il presunto Maradona della squadra, non riesce a prendere una palla, quando, dopo un fallo, cade sulle sementi, e dopo averne odorato un po’ si rimette in piedi, e segna dieci goal agli avversari. Il paese si ubriaca e Quintino continua la sua impresa in una folle notte d’amore con Antonio. Poi preso a ben volere da Alvaro, lo aiuta a prendere gli altri sacchi di sementi, che si trovano su di un aereo caduto nella selva. Per compensarlo, Alvaro gliene da un po’, che Quintino distribuisce ai suoi amici rancheros. Fatto sta che il paese si trova ben preso assalito da sgangherati ladrones ed altrettanto sgangherati federales. Don Cayetano arma il paese e sconfigge i bruti, ma solo fisicamente. Certo che altri arriveranno, se non intervenisse Padre Pedro, che tramite una complessa trattativa, riesca ad accontentare i ladrones (si era capito cari tramatori che non di sementi ma di coca si trattava?), il defraudato Alvaro, l’alcade. Ed anche Quintino e Antonia che convolano a giuste nozze. Il tutto condito da quegli splenditi bozzetti fatti da Cacucci in punta di penna, dove, dedicando poche righe ad ogni personaggio, ce lo dipinge e ce lo fa conoscere e ben volere in poche e sentite battute. È un divertimento, una presa in giro del western e dei (mal) costumi d’occidente. Anche una presa in giro dei messicani, ma fatta col garbo e la maestria di chi veramente vuole loro bene. Anche noi ne vogliamo, e non si vede l’ora di tornar tra le selve e le piramidi, tra San Cristobal e Palenque, tra Chichén Itzá e Monte Albán. Que viva Mexico!
Ebbene sì, comincia la settimana delle castagne. Oggi primo controllo sulla situazione casa - albero a Soriano. E poi si spera in un week-end decente, magari solatio. C’è attesa per la nuova linea ADSL, e per i bilancini che si accumulano. Una settimana in potenza… (nessuna battuta sciocca, via). Un bacio
Giovanni

domenica 23 settembre 2012

Fiction & Historias - 23 settembre 2012


Siamo dalle parti delle invenzioni, come dice il titolo di questa trama. Con due autori di lingua inglese, di cui uno con due romanzi ed uno spagnolo, anzi più che spagnolo, cileno. Purtroppo con un gradimento generale non elevato. E dispiace, perché Hornby è uno delle mie stelle preferite. E Sepulveda mi ha guidato per selve amazzoniche e pampe patagoniche. Rimane lo scozzese, sempre con scritti di livello adeguato, che troverò la forza prima o poi di leggere in originale. Aspettando sempre quel whiskey che prima o poi, arriverà.
Nick Hornby “È nata una star?” Guanda euro 10
[A: 13/05/2012 – I: 08/06/2012 – T: 09/06/2012]
[titolo: Not a Star; lingua: inglese; pagine: 73; anno: 2006]
Caro Nick, mi permetto di darti del tu per chiederti ragione di questo scritto. È innegabile, l’ho scritto e detto più volte, che sei uno degli autori a me più cari, soprattutto ed innanzi tutto per quella tua prima uscita di tanti anni fa. Quella “Alta fedeltà” che mi fece ridere, mi fece pensare, e diede (a me e a molti) lo spunto delle famose liste, che tiravi ad ogni piè sospinto. Tanto che poi Saviano ne ha fatto un bel programma (ed un interessante libro). Passando poi per quei tre scritti che vengono etichettate come “non-fiction”, ma la cui lettura mi ha coinvolto. La Febbre a 90’ sul calcio, le 31 canzoni sulla musica e la Vita da lettore (libro dove sempre mi ritrovo, ad ogni nuovo libro letto e ad ogni nuova trama scritta). Allora mi sono accinto, anche se le ultime tue prove mi hanno lasciato perplesso, a leggere questo libro. E comincio a domandarmi. Ma è un romanzo? No, non ha la struttura, la robustezza, il sapiente collocamento nel tempo e nello spazio. Allora un racconto? Probabilmente così nasce, date le sue poco più che 70 pagine. Ma perché farne un libro “a sé”? Come racconto ha una sua piacevolezza, in poche pagine tu ribalti alcuni luoghi comuni, con un po’ di ironia. Bella la scoperta, attraverso un video, della professione non usuale del figlio. Ironico il domandarsi da dove viene un attributo maschile un po’ fuori la norma. Il dibattito sulla sua ereditarietà. Il rapporto tra i genitori. Le domande inespresse alla mamma sul nonno (ma com’è che portava sempre calzoni molto abbondanti?). E la narrazione del percorso che porta il figlio, privo di altri talenti, a sfruttare qualcosa di naturale che possiede. Con contorno di piccole e sapide vendette private. Ma… Ma forse il mondo della pornografia, seppur di lusso, non è così “rosa e fiori” come lo dipingi. Forse il mondo stesso non è così bello e simpatico. E ben lo sai avendo dovuto vivere (vivendo?) con un figlio autistico, combattendo (forse) con divorzi ed altri problemi personali e sociali. Insomma, poche paginette, decentemente scritte, ma che, dopo aver smosso (e di poco) il labbro superiore in un accenno di sorriso, si richiudono e ci si comincia a domandare: ma che cosa ho tra le mani, mi domando, leggendo Lynn che afferma “le cose bisogna prenderle per il verso giusto e non per quello sbagliato”? Ed allora continuo a farmi altre domande.
Caro editore, allora, forse e a te che devo chiedere ragione di questi 10 euro. Perché l’unico senso di pubblicare un racconto spacciandolo per romanzo è sfruttare qualche po’ di marketing indotto all’esterno. Che nello stesso periodo (o forse sulla sua scia), ne esce fuori un filmetto, di quelli italiani senza infamia e senza lode, che prende spunto dallo scritto. Un filmetto tanto “etto” che poco circola nelle sale, e magari se ne ricorda solo (almeno per me) che ci sta la Littizzetto, che mi sta simpatica. Ed allora, ecco la bella operazione. Si prende il testo, si isola, e si butta lì sul mercato. Mettendo in bella evidenza, in copertina, il richiamo “Dopo Tutta un’altra musica”. Che baggianate! Perché questo non è dopo, ma PRIMA del libro citato. È un racconto uscito nel 2006, ben due anni prima dell’altro. E solo il tuo vizio, da editore (comune a tutta l’editoria italiana) di prendere per fessacchiotti i lettori italiani, sfornando libri “a caso”, senza tener conto dell’autore, del tempo della scrittura, del contesto. Ma devo fare ancora un ultimo sforzo. Ed un'altra domanda.
Caro traduttore, sì, anche tu ci sei di mezzo. Ma che senso ha cambiare il titolo? Solo perché è difficile renderlo? E se questa operazione stravolge il senso del racconto stesso? Perché chiedersi se nasca una stella, nel mondo della pornografia, come si capisce poi dal contesto, è tutt’altra cosa dall’affermare, come fa Hornby nel titolo originale che stiamo parlando di un “Not a Star”. Di qualcuno che non è una stella, e che usa questo “star system” solo per vivacchiare un po’ in attesa, forse, di qualche altra cosa. Ed in tanto, si prende una bella birra al bar. Come non potrebbe fare Hugh Grant senza essere importunato. A proposito: e se si citasse il film di Grant (anche) con il titolo della distribuzione italiana, forse capiremmo di più che “Love actually” è circolato (ma quasi dieci anni fa) con il titolo “L’amore davvero”. Uno zero spaccato in belle maniere di traduzioni, mio caro!
Nick Hornby “Tutto per una ragazza” Guanda euro 12 (in realtà, scontato 9,96 euro)
[A: 15/05/2012 – I: 15/06/2012 – T: 19/06/2012]
[titolo: Slam; lingua: inglese; pagine: 274; anno: 2007]
Dopo un racconto travestito da romanzo (o meglio contrabbandato), ecco un romanzo che avrebbe guadagnato molto se fosse stato asciugato e ridotto alla dimensione di un racconto. Sono un po’ deluso dall’ultimo Hornby. Si sa che gli amori letterari non sono “per sempre” (ma ce ne sono?). Certo è che l’evoluzione di un autore non sempre va di pari passo con quella tua personale. E dopo un po’ di strada percorsa insieme, forse è bene separarsi per un po’. Certo, Hornby mantiene alcuni stili e modalità di scrittura che me lo fanno sentire fratello. Ma i parenti sono come le scarpe: più sono stretti, più fanno male. Quindi sorrido allo stile che conosco (quello dei primi libri, quello delle prime recensioni), e poi mi domando dove sta andando, ora il suo mondo, la sua scrittura. Ovvio che le vicende personali influiscono. Divorzio, nuova famiglia, ed altro. Tuttavia, cerchiamo a volte di essere de-contestualizzanti, e proviamo a vedere il prodotto in sé, senza il mondo che lo ha costruito nella coscienza dell’autore. Intanto il quasi sessantenne prova ad utilizzare un linguaggio sempre più giovane, innalzando a protagonista un sedicenne. Ed un sedicenne che fa skate ed ascolta rap. Ha quindi un linguaggio veloce, sintetico, a volte con crasi e riferimenti che noi “anziani” perdiamo. Hornby fa la solita operazione mediana, un colpo al cerchio ed uno alla botte. Per cui Sam parla moderno e ragiona un po’ come può ragionare una qualsiasi persona di qualsiasi età. Con qualche ingenuità, ma anche con qualche maturità di troppo. La storia di Sam è poi anch’essa una storia semplice: madre che rimane incinta a sedici anni, si sposa con il padre di Sam, dopo sette anni divorziano (anche se rimangono discretamente civili). Ed ora, Sam ha sedici anni e la madre trentadue. Come tutti i sedicenni, Sam ha grandi turbe amorose, fino a perdersi perdutamente (vi piace l’allitterazione, eh) della bella Alicia. Stanno sempre insieme, fanno sesso sicuro. Poi, come tutte le storie a quell’età che sembrano durare per sempre ci si comincia ad allontanare. E qui si fanno le “cazzate”. Alicia rimane incinta. E la storia si ripete. Sam e Alicia diventano genitori a sedicenni, Victoria nonna a poco più di trenta. Sam in soggettiva cerca di analizzare tutte queste vicende, provando a vedere se su questi “disastri” si riesce a crescere. E tutto sommato l’ottimismo di fondo di Hornby ci porta a vedere tutti gli aspetti positivi di una vicenda per altri versi “tragica”. Un racconto di formazione, quindi, ed abbastanza carino. Ironico quel che serve, con quella dualità tra avvenimenti “alti” e modalità infantili di affrontarli. Tuttavia sembrano tutti buoni, ed alla fine, anche se non come si poteva pensare, sembra tutto andare per il verso giusto. L’unica cosa che mi lascia perplesso ed insoddisfatto è l’artificio usato a volte da Hornby-Sam quando si proietta nel futuro, vivendo vicende come temendo che si presentino. Per poi viverle nella realtà allo stesso modo. Insomma, che ci voleva dire? Che quello che temiamo a volte lo possiamo affrontare? Che non tutto è così brutto come potrebbe essere? Perché allora inventarsi queste fughe oniriche? Mi sono sembrate appiccicate e poco funzionali. Quasi un voler a volte prendere la distanza dal testo, per farlo diventare altro. Una riflessione sui giovani inglesi e sulla loro mancanza di prospettive per un futuro migliore? Non so. Rimango appunto perplesso, e torno a pensare che una dimensione più contenuta ne avrebbe fatto un testo ugualmente leggibile e gradevole. Un’ultima parola sul titolo, che in inglese fa “Slam”, uno di quei termini quasi onomatopeici che ci fanno pensare allo sbattere, di una porta, di una tavola da skate sul marmo, di una persona con dei problemi più grandi di lei. Ma anche alla vittoria in una competizione (nel tennis, nel bridge). Ed allora perché tradurlo con “Tutto per una ragazza”? Dove sta la volontà dell’autore in tutto ciò? Insomma due titoli di Guanda e due traduzioni poco convincenti. Mi sa che non mi piacciono molto i ragazzi del marketing di questa casa editrice. E speriamo anche che Hornby torni ad essere più positivamente ottimista.
“Si ha l’impressione che i figli facciano sempre meglio dei genitori … nella nostra famiglia tutti inciampano sempre sul primo gradino.” (17)
“Se qualcuno ti dice che ti ama, sei obbligato a dirglielo anche tu, no?” (47)
“Padre: Mica tutto quello che diciamo o facciamo mira a distruggerti la vita, sai? Qualche volta, molto raramente, cerchiamo di pensare al tuo bene. Figlia: Molto raramente! Padre: Ero sarcastico. Figlia: Io no.” (172)
“Se dici qualcosa di razzista senza riflettere evidentemente sei un razzista. Perché significa che per non dire cose razziste devi pensarci in continuazione.” (218)
Luis Sepulveda “Ritratto di gruppo con assenza” TEA euro 8 (in realtà, scontato 6 euro)
[A: 19/01/2012 – I: 24/06/2012 – T: 25/06/2012]
[tit. or.: Historias marginales II; ling. or.: spagnolo; pagine: 157; anno 2010]
Due appunti iniziali: ancora racconti, purtroppo. Anche se Sepulveda a volte riesce meglio nel corto che nel lungo. Del resto non ci si scorda delle sue origini più giornalistiche che da scrittore puro. Ed ulteriore poi riprova delle capaci mistificazioni editoriali. Il testo originale, infatti, ha per titolo “Storie marginali II” (il che già implica che ci sia stato un primo volume). E questo sono, storie di persone ai margini di qualcosa. Della storia, della vita, sicuramente della felicità. Ed il sessantenne cileno ripercorre con dolenza momenti della sua vita, incontri e fatti diversi. Per farne un corposo e nutrito necrologio. Luis invecchia ed i suoi amici muoiono. Ma perché allora intitolarlo con il primo racconto? E quale banalità nasconde il sottotitolo quando afferma che ‘la vita è piena di storie’? Ma torniamo allo scritto. I testi di Sepulveda, quando non si cimenta in imprese romanzesche, hanno sempre delle grandi costanti: Luis non si dimentica (e non ci fa dimenticare) che è sudamericano, che è cileno, che a 24 anni faceva parte della guardia del corpo di Allende, che ha vissuto quasi venti anni da esule, che ha lottato contro i tiranni in Sudamerica prima, e poi con gli ambientalisti in Europa. Ha visto tanto, viaggiato tanto, incontrato tanto. E qui, come detto, la maggior parte dei brevi racconti assurgono quasi ad epitaffi per coloro che se ne sono andati prima di noi. Che appunto magari erano marginali, almeno per se stessi, anche se importanti per altri. Come la voce di radio Mosca della trasmissione “Ascolta Cile”. O di tutti quegli amici con cui si è fatto un breve tratto, e che poi hanno fatto magari scelte di minoranza. Ma sempre (altrimenti non sarebbero amici di Sepulveda) con la coerenza delle idee. Due racconti si staccano dagli altri nel mio immaginario mondo: quello del titolo e l’altro su quello che rimarrà sempre “il vecchio”. Il ritratto iniziale comincia proprio da una fotografia, di ragazzi dodicenni presi in un momento felice (la fine della scuola) verso la fine dell’era Pinochet. Ora che non c’è più il dittatore, Sepulveda e la fotografa tornano a cercare i ragazzi. Ne esce fuori un ritratto dell’ultima generazione a cavallo della liberazione. Con quella che avrebbe dovuto essere l’inizio di un sogno, ma che sembra invece la fine. E con la dolenza dell’unica assenza della foto, quella del quindicenne Marcel, che viene ucciso durante un improvvido tentativo di rapina per procurarsi da mangiare. Luis ci fa vedere i volti di questi ragazzi cresciuti ed induriti, facendo da contraltare con il nonno di due di loro, che scopre essere niente altro che un indomito campione di pugilato degli anni sessanta, anche lui mai domo e mai piegatosi alla dittatura. Il vecchio, invece, è quella bella figura che poi Sepulveda immortalò nel suo primo romanzo, quello del vecchio che leggeva romanzi d’amore. Ed ora lo va a ritrovare, nello spazio e nella memoria. Quel bianco che chissà come e perché finisce nella selva amazzonica. E rimane lì, a portare avanti la sua vita, sempre rispettoso degli altri e della natura, avendo per compagni un pugno di libri d’amore. Ed è bello vederlo descritto mentre se ne sta lì, in piedi, a leggere, a lume di una candela. Il resto c’è, l’ho detto. È denuncia dei soprusi. È ricordo degli amici. Ma è anche stanchezza. Si vede che Luis ha girato la boa dei sessanta, ed anche il suo corpo (come non capirlo) comincia a chiedere il conto di una vita vissuta molto al limite. Non è che mi sia dispiaciuto. Solo un po’ ripetitivo nelle tematiche. E senza le speranze che, ad esempio, uscivano fuori dai fulminanti ritratti di ‘Patagonia express’. Uno solo non mi è piaciuto, quello dedicato a sbeffeggiare (anche giustamente) il nostro Silvio nazionale. Ma senza una vera volontà, né descrittiva, né distruttiva. Se omesso, non sarebbe stato un libro meno interessante.
“La finzione è sempre un prolungamento della realtà.” (51)
“Cos’è successo nell’animo di quel pugno di persone che hanno dato tutto e quel tutto gli è sembrato ancora poco.” (56)
Alexander McCall Smith “Semiotica, pub e altri piaceri” TEA euro 8,60
[A: 19/01/2012 – I: 20/07/2012 – T: 25/07/2012]
[titolo: Espresso Tales; lingua: inglese; pagine: 356; anno: 2005]
Rovesciamo una volta tanto i termini classici della comunicazione efficace (tanto non credo che McCall Smith leggerà presto queste mie righe né tanto meno il traduttore Garbellini o l’editore), dicendo subito quello che non mi piace di questo libro. Confermo innanzi tutto quanto sostenuto già anni fa da Chiara che McCall Smith va letto in inglese (anche se continuo a leggerlo in italiano). Usa una scrittura piana, discretamente abbordabile, e sicuramente più efficace nel rendere i colori scozzesi, di una qualsiasi (anche se dignitosa) traduzione, che alla fine che legge i suoi libri ambientati ad Edimburgo al massimo commenta con un miserando “carini…”. Secondariamente, veniamo al titolo, dove rispetto ad un dignitoso “Racconti al Caffè”, che tali sembrano i 105 piccoli capitoli della pittura scozzese dell’autore, qualcuno ha preteso di chiamarli con quel titolo altisonante. Titolo che, guarda caso, è anche quello del primo capitolo (in realtà “Semiotica, pub, decisioni”). Ed in quello si parla di semiotica, e solo in quello (ed in realtà di significati e nominalismi, come se un romano si mettesse a disquisire sulla differenza tra chiamare la piazza antistante le terme di Diocleziano, Piazza Esedra o Piazza della Repubblica). Infine, la notoria inconcludenza del raccontare Alexandrino. In questa tranche di romanzi, il nostro segue alcuni personaggi che gravitano intorno alla casa sita al numero 44 di Scotland Street. Tuttavia, seppur ne seguiamo vicende ed intrecci, verso la fine un po’ si disperdono, rimangono sospesi. Non che si voglia sempre che tutto abbia un fine (un grande scrittore italiano sosteneva, forse a ragione, che in un romanzo c’è un pezzo di una storia il cui prima e dopo si svolge altrove), ma (almeno per me) la scrittura serve a comunicare qualcosa. E per farlo deve prendere dei momenti, situazioni, atti, presentarli, svolgerli, e darne un senso. McCall Smith dà solo il senso del girovagare intorno alla vita, deliziandoci, questo è vero, con osservazioni acute e con momenti topici. Ma lasciando tutto vagare sull’onda magari di una buona birra. O di un buon whisky di malto. O, per tornare la romanzo, davanti ad un buon caffè. Nero, come lo prende Pat, la ragazza un po’ al centro della storia, o delle storie. Era lei che, nel primo romanzo della serie, si trasferiva al 44 di Scotland Street, ed incrociava la sua vita con il narcisista Bruce, suo compagno di casa, con il piccolo Bertie tiranneggiato dall’odiosa madre Irene, con la sessantenne Domenica, antropologa che sta perdendo il filo dei suoi studi, ma che forse li andrà a ritrovare alle Molucche. Questi tre centri eccentrici sono ancora al centro (che bel bisticcio di parole) anche della presente narrazione. Ed a loro si aggiungono gli elementi di contorno. Matthew il gallerista senza midollo, datore di lavoro di Pat, ed i suoi problemi con il padre decisionista e la sua ultima fiamma, forse cacciatrice di dote o forse no. Il bel Peter, nudista in Scozia (esilarante il ritrovo nudista, ad Edimburgo, sotto la pioggia, per cui i nudisti mettono la mantellina per ripararsi dall’acqua e sotto sono nudi!). Il pittore Angus con il cane Cyril o la barista Big Lou. Intanto Bruce continua nel suo devastante andare tra gli altri senza accorgersi che esistano, negando la realtà, e, come tutti i narcisisti, cascando sempre in piedi. Ma il centro (cioè il mio centro) della vicenda sono le disavventure del povero Bertie, costretto dalla madre a tutta una serie di attività, perché (sfortunatamente) è un bambino discretamente precoce. E la madre ha deciso di investire tutta se stessa in quello che chiama “Progetto Bertie”, che consiste in: farlo scrivere a cinque anni, fargli studiare italiano, farlo andare a yoga, fargli suonare il sassofono. Certo il nostro calca un po’ la mano (soprattutto sul sax), ma io mi immedesimo nel piccolo che vorrebbe avere degli amici, che vorrebbe avere una stanza bianca e non rosa, che vorrebbe indossare jeans e non una salopette color fragola. Assistiamo a tutta una serie di tentativi, che non possono che essere destinati al fallimento, da parte di Bertie per uscire dalla sua condizione (dimenticavo, c’è di mezzo anche uno psicologo di matrice kleiniana, e qui mi fermo). Non ha gli strumenti per un sano approccio alla realtà, né qualcuno al suo fianco. Si spera solo in alcune avvisaglie da parte del padre, ma ancora embrionali. Insomma, seguiamo tutti questi personaggi vagare in questa Edimburgo che prima o poi si visiterà, discutere, perdersi e ritrovarsi. E sopratutto, ragionare. Qui non ci sono problemi etici da affrontare, come nell’altra serie di McCall Smith dedicata ai filosofi dilettanti, ma momenti di vita. Descritti, mi ripeto, con garbo e con ironia. Alla fine, mi viene da dire anche a me, “carino…”. Ah, prima di chiudere, una buona parte si svolge durante il Fringe Festival scozzese, e leggerne ora, casualmente dopo le puntate del Fringe romano, mi ha dato il piacere delle consonanze.
“Il senso di libertà in un’amicizia – o in una storia d’amore – spesso aggiunge una certa leggerezza a cose che altrimenti potrebbero pesare.” (41)
“Aveva dato per scontato che una persona di sessant’anni non si potesse innamorare: ridicolo … una vera e propria discriminazione contro gli anziani.” (103)
“Nei libri non sempre ci sono le risposte, sai. A volte si limitano a porre le domande.” (117)
“Non è facile accettare la bassa stima che gli altri hanno di noi.” (158)
“Forse lui le piace davvero… Dieci anni non sono un divario eccessivo.” (243)
“Non era mai stato capace di discutere con [colui] la cui tattica per difendere le proprie idee consisteva nel lasciar intendere che l’interlocutore sapeva bene che quello che lui stava dicendo era giusto.” (331)
“- Da quando ti conosco sei sempre stata impegnatissima, fai tante cose. – Ora non più … sono in fase di stallo. – Ti ci vuole un nuovo progetto.” (341)
Ieri è stato il solstizio d’autunno, iniziamo quindi a prepararci per i prossimi freddi (controllando la caldaia, ad esempio) e per le prossime feste, magari cominciando a mangiare le prime castagne.
Un bacio
Giovanni

domenica 16 settembre 2012

Georgeide - 16 settembre 3012


Una settimana di puro stacco, di grande relax fisico e mentale. Dedicata ad Elizabeth George  un’autrice che meriterebbe un bel posto tra le letture da consigliare alla mia amica Marina quando si ha bisogno di leggere e riflettere con il motore al minimo. Libri con qualche tinta di giallo (in ogni caso l’eroe è un ispettore di Scotland Yard) ma molto di “atmosfera”, dove la scrittrice americana riesce a restituirci sensazioni e momenti tra Londra e la Bassa Inghilterra (non certo la Scozia, dove ci affidiamo a McCall Smith). Tant’è che, oramai passa metà dell’anno in Inghilterra. Comunque, con questi ho ricucito il filone “Lynley”, per cui i prossimi, se verranno, saranno coevi all’uscita.
Elizabeth George “Dicembre è un mese crudele” TEA euro 9 (in realtà, scontato 6,75 euro)
[A: 19/01/2012 – I: 11/05/2012 – T: 13/05/2012]
[titolo: Missing Joseph; lingua: inglese; pagine: 593; anno: 1993]
Nell’ansia (mania?) di completezza ho finalmente trovato uno dei libri che avevo tralasciato della serie gialla dedicata all’Ispettore Lynley. La nostra quasi coetanea californiana ha dedicato 16 libri negli ultimi 25 anni alle storie dell’aristocratico ispettore. E questo era il sesto della serie, quando ne pubblicava circa uno all’anno. Poi ha un po’ diradato l’uscita, dedicandosi sempre più anche all’atmosfera, al contorno, ed ai co-protagonisti. Con alti e bassi, direi. Anche se per seguire ed approfondire il suo lavoro, ha lasciato l’insegnamento e divide la sua vita tra la California e l’Inghilterra. Qui siamo in un libro un po’ di passaggio. Dove c’è sì un giallo, ma c’è anche molto contorno. Lynley è un Lord inglese, che, per scelta di vita, decide di dedicarsi alla vita poliziesca, entrando in Scotland Yard. Dove, in qualche anno, mette in piedi una sua squadra di lavoro, discretamente rodata. Ed imperniata sul suo numero due, il sergente Barbara Heavers. Che ne è un po’ il contro-altare, in quanto donna e popolare d’estrazione, con mamma alzheimerata. Poiché ci scordiamo (o proviamo a farlo) di quanto avverrà nei libri seguenti, qui ci godiamo ancora il corteggiamento che l’ispettore fa alla sua bella Lady Helen. Ed alle pene di amore e difficoltà di procreazione che ha il suo fraterno amico, nonché patologo, Simon St. James con la moglie Deborah (tra l’altro ex dell’ispettore). Ed è proprio la difficoltà di portare a termine le gravidanze che mette casualmente in contatto Deborah con il parroco anglicano Robin Sage. Che improvvisamente ed inspiegabilmente muore avvelenato con la cicuta. È un parroco della brughiera del Lancshire (e mi sa che ci si dovrà fare un giro nell’inverno del nostro riposo). Ed è lì che i nostri convergono. Prima i St. James in una vacanza per distendere le tensioni (ed alla fine della quale decideranno di affrontare con calma e tempi lunghi i problemi di natalità). Poi, scoperto il possibile crimine, anche l’ispettore in un momento di crisi con la sua bella. Qui si innesta il secondo piano del romanzo. Quello imperniato sulla comunità locale dominata dal signorotto locale Lord Thampton-Jones. Con la misteriosa Juliet, erborista in fuga perenne con la figlia Maggie al seguito. Tredicenne che vive i primi momenti amorosi, e li vive in ribellione della madre, non avendo e non sapendo di chi sia figlia. Madre che cede alle lusinghe del poliziotto locale, l’ambiguo Colin, cui da poco è morta di cancro la ventisettenne moglie. E di cui è innamorata la stramba Polly, dal seno prosperoso e casualmente (il cerchio pian piano si stringe) perpetua del parroco Robin. Quello che morirà avvelenato dopo un piatto di verdura ad una cena con Juliet. Con la quale era andato a parlare per affrontare i turbamenti della giovane Maggie. È tutto un gioco poi di rimandi a figli, natalità, paternità biologiche e di vita. Che il parroco un tempo era sposato, ma la moglie scompare in mare traversando la Manica (fuga? Suicidio? Omicidio?) non essendosi ripresa dalla morte del figlioletto di tre mesi (morte nel sonno? Incuria per motivi oscuri?). La vicenda si ingarbuglia assai. Tutti hanno molte ombre che saltano fuori pagina dopo pagina (ed altrimenti come facciamo ad arrivare quasi a 600?). L’ispettore ha un suo ruolo catalizzante, riuscendo, con tempo e fatica, a collegare i vari pezzetti della storia. Ed a risolvere il mistero. Delle morti. Delle scomparse. Di tutti i filoni che si erano aperti nel frattempo. Facendoci capire che la storia con Helen avrà un seguito. E giustificando il titolo inglese del libro, incongruentemente riportato verso la crudeltà del mese di Dicembre (che il parroco muore proprio pochi giorni prima di Natale). Perché l’agnizione finale si ricollega alla scena iniziale, collocato nella National Gallery dove si incontrano il parroco e Deborah davanti al quadro di Leonardo. E dove il parroco nota che nella pittura della Vergine con il Bambino, S. Anna e San Giovanni Battista, manca il padre, manca Giuseppe (il titolo “Missing Joseph”). Comunque sia, una lettura gradevolmente distensiva, nonostante questo neo editoriale. Continueremo a leggerne, via.
“Io credo che tutti noi scegliamo i (nostri) tormenti.” (68)
“C’era soltanto … l’attesa di quei pochi momenti di felicità effimera che rendevano la vita degna di essere vissuta.” (112)
“La morte non è la liberazione per nessuno, salvo per chi muore.” (174)
“Non possiamo predire il futuro. Possiamo soltanto usare il presente e sperare che ci guidi in quella direzione.” (249)
“Il passato non si cambia… lo si può soltanto perdonare. È il presente che mi preoccupa.” (576)
Elizabeth George “Un pugno di cenere” TEA euro 9,80
[A: 15/04/2012 – I: 29/05/2012 – T: 10/06/2012]
[titolo: Playing for the Ashes; lingua: inglese; pagine: 675; anno: 1995]
Un altro volumone della saga dell’ispettore Lynley, che avevo lisciato anni fa quando era uscito, e che ho recuperato sull’onda delle vendite scontate delle librerie (o delle riedizioni economiche). Un libro che, per impostazioni e contenuti, è molto “inglese”, per cui si può capirne lo scarso entusiasmo rispetto ad altri romanzi della serie. Intanto l’argomento centrale, la morte del capitano in pectore della nazionale inglese di … cricket. Gioco tipicamente da sudditi dell’impero, lontano progenitore del baseball, ma con regole ed andamenti di gioco tanto peculiari che, fuori dall’ombra della corona inglese, pochi ne sanno qualcosa. Infatti “Ashes” (ceneri) è il titolo della più vecchia competizione di cricket tra Inghilterra ed Australia, che si disputa dal 1882, ed è quasi alla 70^ edizione (in genere una sfida in cricket dura due-tre mesi, tipo l’ultima che si è disputata dal 25 novembre 2010 al 7 gennaio 2011). Ma non è solo questo il motivo del titolo. Quanto il fatto che Kenneth, il morto, muore bruciato. Ah, sottigliezza dell’ironia. Fortunatamente, essendo la George americana, non ci si addentra, se non marginalmente, nel mondo e nelle complicazioni del cricket. Ma si parte da questo spunto per costruire tutto un mondo intorno, talmente brulicante di personaggi e fatti che un po’ ci si perde. Non è un caso che anche la lettura si sia protratta a lungo, anche se ha contribuito il modo “atipico” della scrittura del libro, in cui una serie di capitoli sono visti e scritti in soggettiva da uno dei protagonisti, Olivia. La storia che Lynley e l’ispettore Barbara si avviano a dipanare è bella intorcinata. Uno dei pilastri della vicenda è la famiglia Whitelaw, dove troviamo la madre, Margareth, insegnante, che ha un debole (intellettuale) per un suo studente, Kenneth, appunto. E non si da pace quando questi, a 16 anni, mette in cinta Jane, e decide di sposarla. E di farci altri due figli. Da lì comincia una tattica pluriennale di Margareth per cercare di allontanare i due. E ci riesce quando trova la leva dello sport. Per cui, spinge e sponsorizza la carriera di cricket di Kenneth. E come detto, le partite sono lunghe, i giocatori rimangono a lungo separati dalla famiglia. Così Kenneth va a vivere da solo, separandosi di fatto dalla famiglia. E conoscendo altre donne, tanto che dopo due anni di separazione chiede il divorzio perché vuole sposare Gabriella, attuale moglie, in via di separazione, dello sponsor del prossimo incontro per le “Ashes”. Programmi che vanno “in fumo” (ah ah), con la morte del capitano nella villetta nel Kent di proprietà di Margareth. Dove si era recato anche il suo sbandato figlio maggiore, Jimmy, che diventa il principale sospettato dell’omicidio. Ma non è la sola vicenda para-edipica, perché l’altro pilastro è Olivia, la figlia di Margareth, che (coeva di Kenneth) si dà alla droga ed al sesso a pagamento, fuggendo di casa, e, una volta scoperta, facendo morire di crepacuore il padre. Elemento che crea una frattura insanabile con la madre. Lei si sbanda sempre più, sino a che non viene raccolta dal buon samaritano Chris, che vive su un barcone, e che fa parte dell’Animal Liberation Front (ALF – un’organizzazione clandestina che assalta laboratori per liberare animali-cavie). Chris con pazienza e tenacia “redime” la bella Olivia, pur non essendone innamorato. Fino a che, al momento in cui li incontriamo, scopriamo che Olivia è affetta da SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica) ed è quindi destinata a morire ben presto (ah che dolore rinvangano queste parole). Per questo scrive le sue memorie. Per questo cerca di riavvicinarsi alla madre, al fine di chiedere che, dopo la morte, venga cremata e le sue ceneri (ancora!!) unite a quelle del padre. E questi sono solo gli elementi portanti, che tanti altri ce ne sono al fuoco di Elizabeth George: i cani di Chris, la relazione tra Ken e la moglie, i tre figli, l’ALF, lo SLA, per non dimenticare che Lynley sta cercando di convincere Lady Helena che sono fatti l’uno per l’altra e che si devono sposare. Alla fine c’è anche un mini-dilemma morale per l’ispettore che, per incriminare chi ha fatto il misfatto, deve decidere se utilizzare le prove in suo possesso, che incriminerebbero altri per altri reati. Un guazzabuglio. Ma la nostra abile scrittrice riesce alla fine a sveltire il tutto, e nelle ultime 100 pagine rimette tutto a posto. Un a posto che condivido. Insomma, certamente un po’ lungo, e forse da giornate sotto l’ombrellone, ma tuttavia sempre e comunque gradevole (più del terz’ultimo volume che mi storse, e che spero di recuperare nelle prossime uscite). Un solo appunto al curatore inglese: forse si poteva correggere l’indicazione che “La capannina” sia un ristorante di Firenze con la corretta indicazione della sua ubicazione a Forte dei Marmi (certo sfortunato il curatore di incappare in un conoscitore dei luoghi…).
“Aveva scoperto da tempo che la verità di rado era semplice come appariva da una spiegazione verbale.” (186)
“Chiunque abbia bisogno di sessantatre pagine per far valere il suo punto di vista non merita di essere ascoltato.” (604)
Elizabeth George “Agguato sull’isola” TEA euro 10
[A: 15/04/2012 – I: 17/06/2012 – T: 26/06/2012]
[titolo: A Place of Hiding; lingua: inglese; pagine: 634; anno: 2003]
Niente di eccelso, ma dopo alcune letture da cui mi aspettavo qualcosa (ho parlato a lungo di autori cui sono generalmente affezionato, ma le cui prove non sempre mi soddisfano), torniamo a visitare l’esimia giallista anglo-americana e la sua saga imperniata sull’Ispettore Lynley. Una storia che mantiene quello che promette. È ben costruita, ha un decente grado di suspense, ha sviluppi non sempre banali. Un volumone per allietare le caldi notti romane. Sebbene questa sia un recupero (lo avevo mancato all’uscita e poi non trovato per un po’), facciamo anche un mini-riassunto dei capisaldi della serie. Il personaggio centrale è l’Ispettore Thomas Lynley, di Scotland Yard, ma anche rampollo di un’aristocratica famiglia della Cornovaglia (tanto che si può fregiare del titolo di Sir). Ha una sua squadra per la sezione omicidi, il cui punto fermo è il sergente Barbara Heavers, di estrazione popolare e con una mente attiva e reattiva. Sir Lynley, dopo una breve e focosa storia con Deborah “Debs” Cotten, si innamora e sposa Lady Helen. Mentre Deborah si innamora e sposa il miglior amico dell’ispettore, Simon Allcourt St.James. Il giro di valzer degli amori avviene durante i tre anni che Debs passa in America. Questa puntata della serie, in genere, viene messa fuori ordine, che l’ispettore è solo marginalmente presente, essendo invece incentrata su Simon e Debs. E sull’aiuto che a loro viene chiesto dai fratelli River, China e Cherokee, accusati di uno strano omicidio avvenuto nell’isola di Guernsey. Che, pur essendo inglese, ha un suo statuto di indipendenza. I River avevano ospitato Debs in California, quindi niente di strano se, in difficoltà, chiedono aiuto. Difficoltà create dalla scarsa adesione alla realtà di Cherokee che, nel tentativo di guadagnare soldi senza fatica, accetta di portare un plico dall’America all’isola di Guernsey. Plico innocuo che nasconde un quadro fiammingo. Storia innocua che nasconde i risentimenti tra i fratelli River, che China ha una storia con tale Matt, ex-amico di Cherokee, che confessa alla sorella di averla “venduta” sedicenne per un a tavola di surf. E China per 13 anni continua a prendersi e lasciarsi con Matt, ignorando sia la storia sia che nel frattempo Matt si è sposato con un'altra. I due nell’isola trovano una situazione complicata, imperniata sulla figura di Guy Brouard, un tipo dedito ad accumulare denaro e portarsi a letto (nonostante i 65 anni suonati) qualsiasi donzella gli capiti a tiro. Ed inimicandosi la metà dell’isola: l’amante ufficiale (di cui si è stufato), il padre della diciassettenne Cheryl (che lo accusa implicitamente di averla plagiata), l’architetto Norrie (cui fa credere di voler costruire un museo di guerra, per poi lasciarlo con un palmo di naso), il solitario Frank Ouseley (il possessore dei cimeli dell’occupazione nazista dell’isola ed anche lui interessato al Museo), la famiglia del giovane Paul (anche lui affascinato dal canuto Don Giovanni), il figlio inetto di primo letto Adrian (ossessionato da una madre talmente assillante che ucciderla sarebbe una liberazione). Tutte persone che hanno più di una ragione nel vederlo morto. E nel disputarsene l’eredità. Insomma un bel guazzabuglio di storie e controstorie, dove ben si muove la nostra scrittrice. Aggiungendovi il carico delle difficoltà del rapporto tra Debs e Simon, laddove soprattutto la giovane vorrebbe far figli ed il nostro no. Sotto la benedizione da lontano dell’ispettore, Simon si reca nell’isola e, seppur tra mille difficoltà ed incomprensioni, riesce a trovare colpevole e motivazioni. Con un finale ben costruito (anche se forse me lo aspettavo un po’).
“Credo di non averti mai ringraziato come si deve. Ecco cosa succede quando un matrimonio è troppo felice: si finisce col dare per scontata la persona amata.” (68)
“Sapeva meglio di molte altre che gli uomini anziani erano attratti da donne giovani e belle.” (144)
“Lui appariva … sempre chiuso in se stesso, a pensare, considerare, soppesare e osservare, mentre gli altri si limitavano semplicemente ad essere quelli che erano.” (153)
“Una volta superati i biblici settanta, ci si ritrova sulla china discendente che portava alla completa inettitudine.” (287)
“Comunque a volte le amicizie vanno così. Per un po’ le persone sono molto unite, e poi non più. Le cose cambiano. E anche le esigenze. … Però mi sei mancata.” (340)
“È terribile perdere qualcuno cui si vuole bene. Specialmente un amico.” (523)
Elizabeth George “La donna che vestiva di rosso” TEA euro 9
[A: 01/11/2010 – I: 28/06/2012 – T: 30/06/2012]
[titolo: Careless in Red; lingua: inglese; pagine: 571; anno: 2008]
Con questo, dopo aver colmato le lacune del tempo e dei libri mancati, torniamo nel filone normale e sequenziale delle avventure dell’Ispettore Lynley. Per chi avesse saltato qualche tappa, e rifacendomi al memo del libro precedente, vi aggiorno sulla situazione: la moglie di Thomas, Lady Helen, viene uccisa da un balordo e con lei muore anche il bimbo che stava per nascere. In conseguenza, Sir Thomas cade in depressione e si allontana da Scotland Yard. E lo ritroviamo in queste pagine. Prima ai margini, che da due mesi cammina per la Cornovaglia cercando di lenire il dolore. Ed inopinatamente si imbatte in un morto, prima pensando ad un incidente (uno scalatore caduto durante un’arrampicata) poi si scopre essere un omicidio (funi di sicurezza tagliate). La nostra brava scrittrice imbastisce al solito un romanzo in cui si intrecciano storie su storie, anche se tutte convergono lì nel paese di Pagell Cove, abbarbicato sulle scogliere inglesi, patria di scalatori e di surfisti. Tra tutti i rivoli, di cui vi lascio la scoperta alla lettura, due sono i più stimolanti. Quello imperniato sulla famiglia Kerne, il cui rampollo risulta essere il morto. E quella sulla misteriosa Deidre presso la cui casa si è sfracellato il giovane Kerne. Famiglia strampalata, la Kerne, con grosse tensioni, che negli anni si sposta di paese in paese, ed ora qui a Cove, cerca di aprire un’impresa turistica. Tensioni dovute alla non curata ninfomania della signora Kerne, che ogni tanto entra in calore ed indossa indumenti di colore rosso. Ed a quel punto non si salva nessuno. Storie di difficili rapporti, che il signor Kerne la ama sempre, comunque, ed aldilà della ragione. Ma certo non ne traggono affetto la figlia Kerra, e soprattutto il figlio Santo, che prende molto dalla madre, essendo anche belloccio. E fa strage di cuori e di sesso nel paese e dintorni. Tante saranno le scoperte che si disveleranno lungo le quasi seicento pagine del romanzo. Amori, tradimenti, storie vicine, ma anche lontane. Che la prima fuga dei Kerne avviene dal paese natio, dove, dopo una lite, muore il giovane Persons, e non si capisce se Kerne abbia avuto una parte in quella morte. Questo il filone principale dove indaga la polizia locale, che, scoprendo Lynley essere Ispettore, lo coinvolge obtorto collo nelle indagini. Ed allora, come non far arrivare anche l’esimio sergente Barbara per dar man forte sia all’ispettore (magari per convincerlo a tornare all’ovile poliziesco) sia alla polizia locale che, oltre al responsabile delle indagine, consta solo di due unità, ben dipinte come gli Stanlio ed Ollio della Cornovaglia. Ma seppur nolente, Lynley è pian pianino coinvolto nel lato umano delle indagini. Anche perché curioso e/o affascinato dalla misteriosa Deidre. Che dice una montagna di bugie, su chi sia, su dove sia stata, sulle sue conoscenze verso la vittima. Incuriosisce anche noi il lato umano della dottoressa, che lo è in quanto cura gli animali allo zoo di Bristol. E che per questa sua vicinanza con gli animali diventa vegetariana. Non solo, ma da bravo dottore è comunque empatica con chi soffre. Per cui nasce un interessante gioco di fioretto con il super-sofferente ispettore. E nasce anche un gioco di rimandi, che Thomas è sempre e comunque Sir Thomas, e Deidre invece è irrinunciabilmente borghese. Diciamo, nella scala delle caste inglesi, a metà strada tra Thomas e la super-proletaria Barbara. È un romanzo comunque interessante, anche per le storie di contorno (e con il pallino spesso presente nella scrittrice sulla donna come madre e sul rapporto genitori-figli, biologici o meno). Ed è un bel riscatto dopo le involuzioni seguite alla decisione di far morire lady Helen, che avevano portato ad un paio di romanzi sottotono. Qui si ritorna al giallo di più ampio respiro. E non siamo lontani dal pensare che il nostro bravo Thomas prima o poi… Insomma, grazie per questi ultimi romanzi Elizabeth, che stavo entrando in una spirale di letture minori che un po’ mi deprimono.
“Di fronte a una crisi le persone si dibattono alla cieca, in cerca di risposte, di una soluzione. E la soluzione è sempre quella che vogliono loro, non necessariamente quella che sarebbe la migliore per tutti.” (263)
“Dove esserci un albergo … [sulla scogliera] … dove potevano prendere un vero Cornish Cream Tea, con tanto di scones, panna e marmellata di fragole.” (562)
Aspettando prima o poi di rimangiare qualche scones originale (magari ad Edimburgo), eccoci ad una nuova settimana da affrontare. Salutando Cristina, con il suo compleanno e la settimana alle Eolie (invidia!), aspettando altri compleanni e festività, preparandoci a presentazioni e gare varie. Ma se tanti mesi sono passati, ne mancano sempre meno. Chissà se quella luce in fondo è l’uscita o un treno. Buona settimana e
Un bacio
Giovanni

domenica 9 settembre 2012

Leggerezza del pensiero - 09 settembre 2012


Pensiero di letture italiane. E leggerezza di alcuni momenti romanzati, che ci portano a giro per l’Italia. Cominciando bene, con delle oneste prove, dal lago di Como giù e di lato fino alla Sardegna. Poi si attraversa il Tirreno, e si cade su una prova troppo osannata su quel di Prato, per altri versi ed altre storie a me più caro e chiaro di quanto lo fa Nesi. E poi si scende giù, lungo la costa, fermandosi a Napoli, con una prova che mi ha lasciato perplesso, di un autore, che prima e dopo questo scritto, mi sembrava portatore di altri e ben più interessanti livelli di scrittura. Ma andiamo ad iniziare.
Andrea Vitali “Il segreto di Ortelia” SuperPocket euro 5,90
[A: 29/07/2011 – I: 23/05/2012 – T: 24/05/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 159; anno: 2007]
Se fossi uno studente di lettere, mi piacerebbe, prima o poi, impostare una tesi sulla “Comunità di Bellano” così come esce dagli scritti di Andrea Vitali. Sin dal primo libro, infatti, lo scrittore comasco continua ad incastonare tasselli della vita che si è svolta e si svolge in questa località sulla riva orientale del Lago di Como, che gli ha dato i natali e dove fa il medico di base (ciao Emilio). E non è un caso che abbia ricevuto un Premio non per un libro singolo, ma per il complesso della sua produzione. Ogni volta abbiamo davanti un nuovo pezzo della vita. Ed a volte (ma ci vorrebbe uno studente che avesse tempo di controllare le concordanze) c’è un qualche rimando tra i vari scritti. Questa volta, siamo quasi in presenza di un’opera spuria. Che abbraccia sì un discreto lasso di tempo (bene o male dal 1919 al 1941), sempre svolgendosi nella cittadina eponima. Ma dove incontriamo solo in modo trasversale tutta l’epopea fascista che sarebbe ben presente nell’epoca ed in genere è anche ben presente negli altri scritti di Vitali. In realtà (e questa volta concordo con la quarta di copertina) siamo in presenza con una sorta di “Dinasty” rurale, anzi di macelleria. Perché il motore della vicenda è il giovane Amleto capitato per altri motivi nella città di Bellano, e che decide di rimanervi per cercare lì la sua fortuna. Prima si impiega come garzone in una macelleria. Poi, approfittando di fortuite circostanze, sposa la bruttina Cirene, e diventa il deus-ex-machina della seconda macelleria del paese, sempre alla ricerca di nuovi modi per rubare credito e clientela alla prima. Su questo filone si innesta il prorompente bisogno sessuale di Amleto e la dispareunia della moglie. Per cui lui cerca soddisfazione altrove, anche se nel primo e quasi unico assalto riesce a mettere al mondo l’Ortelia del titolo. Soddisfazione che trova prima con una servetta, che metterà presto in cinta e che sarà quindi foriera di ben altri problemi. Poi, sodale con il dottor Durini, nei bordelli di quel di Lecco. Intanto il tempo passa, Ortelia cresce e si fidanza con uno dei figli dell’altro macellaio, quello ricco. Ma la vita sregolata di Amleto ne mina il fisico e, durante le nozze, lo porta prima ad un ictus, poi, dopo anni di sofferenze alleviate solo dalla mano di Cirene, a passare a miglior vita. Ma anche Ortelia ha i suoi momenti di gloria, dopo il fortunato sposalizio. Infatti, lo aiuta, quando il fratello del marito va in rovina, a rilevare la macelleria e ad adibirla ad altri usi. Ormai la loro è LA macelleria di Bellano. Che non sarà scalfita neanche dalla morte per tetano del marito di Ortelia. Anzi, sfruttando quel segreto del titolo, e di cui non vi narrerò alcunché, Ortelia riesce trionfante da tutta la vicenda. Conciliando passato e presente, riappacificandosi con la Betta, e dando il giusto castigo (forse più morale che altro) al non esente da colpe dottor Durini. Stelle e stalle che si alternano nelle al solito non numerose ed agili pagine di Vitali. E ben si incastonano, durante il narrato, cammei di vita bellanese. Il parroco, i gaudenti, il bordello di Lecco, il cacciatore, le servette. La solita fauna che popola gli scritti di Vitali, quasi avesse gusto di riportare sulla carta i tanti e tanti personaggi che incontra nella sua vita non letteraria. È facile. È leggero. È rilassante. Ripeto, certo, non un’opera irrinunciabile, ma certo una che fa piacere aver messo tra quelle lette.
Flavio Soriga “Sardinia blues” Bompiani euro 8,90 (in realtà, scontato 6,68 euro)
[A: 02/06/2011 – I: 02/06/2012 – T: 05/06/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 272; anno: 2007]
Un giovane che mi aveva incuriosito. Ne avevo sentito parlare durante una presentazione presso uno spazio Feltrinelli. Ora, dopo la lettura, confermo che meritava. È un’onesta ballata, sull’onda di qualche nota (blues) e con molta Sardegna appresso. Sardegna che si sente nei toponimi (S’Archittu, Villanova Truschédu, per non parlare della bellissima Bosa, o della mitica Argentiera della mia adolescenza, ma anche le solite città, Cagliari, Oristano, Alghero), si sente in alcune parlate (anche se non si Cammillereggia, e forse ce ne sarebbe bisogno prima o poi), si vede in alcuni vestiti (gli stivali di Busàchi su tutti), ma soprattutto aleggia nell’aria indolente dei tre post-vitelloni isolani. Che, superati problemi giovanili, o quanto meno accantonati, tipo droga, sesso sfrenato, ed altri estremismi, si trovano “pirati” di terra dentro la loro grande isola. Con al centro lui, il Davide narrante, che, per soprammercato isolano, è anche talassemico (e questo pare sia l’unico ma fondamentale tratto che condivide con l’autore). Ed è l’anemico mediterraneo che, con brevi capoversi, narra le vicende dei tre amici, delle serate in discoteca, delle donne che prendono e lasciano per una sera, delle fidanzate da cui sono lasciati, dalle avventure che decidono di intraprendere. Tipo il trafugamento di carte d’identità per una libera circolazione degli immigrati o la ricerca del testamento di un conte vecchio e rimbambito. Avventure che, seppur non in tragedia, finiscono sempre con portare poco lustro e pochi soldi ai nostri pirati. Poi c’è la storia di Corda e della sua ballerina, di Licheri, della droga, dello sballo, della sua casa al mare, rifugio durante necessità varie (vere o presunte). E la lunga avventura in un’altra isola, molto più a Nord, quando Davide decide di seguire il suo amore a Londra, ma dove resisterà qualche anno, per poi tornare indietro. Il tutto punteggiato dalle periodiche visite agli ospedali, dove il talassemico grave si sottopone mensilmente a trasfusioni di sangue. E dove incontra tanti altri mondi, a lui paralleli. Dai giovanissimi che non si danno pace, all’amica australiana che decide il trapianto di midollo per curarsi. Insomma tanti piccoli cammei, che s’incastrano nel corso del tempo, come direbbe un patito di Wim Wenders. Come quello, bellissimo ed umano, del bandito sardo, che decide di fare outing, e della solitudine che ne deriva (e del suo pianto sulle spalle di Davide). Ed anche gli amori di Davide, da quello lasciato a Londra, alla matura Maria Elena, alla vendicativa Elisa che lo usa per far dispetto al suo ex (e mi sembra che Davide non si dispiaccia più di tanto), fino alla bellissima ed irraggiungibile Daniela, quella con il fidanzato in Afghanistan. Peccato il finale, che si tinge di toni drammatici, non tanto per le possibili scomparse dei protagonisti (è umano, accade tutti i giorni), quanto il modo, il concatenamento degli eventi. Seppur la scrittura sorregga sempre Soriga, questa parte mi è stata ostica, e mi ha fatto abbassare di un punto il gradimento globale. Non so, mi è sembrata (al solito) una di quelle trovate di chi, ad un certo punto, si trova ad un bivio: o andare avanti all’infinto o trovare una via d’uscita. Ma chi si pone questa domanda, ha sicuramente esaurito parte dello sprint iniziale. Però Soriga mi è piaciuto, così come il sentimento di sentirsi trascinare tra le coste selvagge del Sud della Sardegna e gli entroterra barbaricini. Sedendosi a delle tavole dove si mangia tanta carne, che l’acqua serve a proteggersi dai nemici. Se ne riparlerà.
“Io spero sempre … Ho questa illusione.” (139)
“Forse così te lo posso spiegare, con degli episodi, forse è questo l’unico modo che abbiamo per raccontare una persona, per chi come me è allergico alle astrazioni.” (149)
“Non mi piacciono le videocamere e le fotografie … le storie tornano lo stesso nella mia testa anche senza riprese e documento.” (191)
“Ho pensato che solo dei medici ci possono salvare, delle persone che si mettono davanti a un uomo e non solo a un paziente, a un’altra persona e non a una cartella.” (254)
Edoardo Nesi “Storia della mia gente” Bompiani euro 14 (in realtà, scontato 10,50 euro)
[A: 02/10/2011 – I: 05/06/2012 – T: 06/06/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 161; anno: 2010]
Sinceramente mi aspettavo di meglio. Sia perché, pur avendo letto pochissimo dell’autore, la sua scrittura mi rimandava una sensazione empatica (ricordo soprattutto il racconto sulla partita di pallone tra ragazzi) sia per la fama ed i premi che questa Storia ha ottenuto sin dalla sua prima uscita. E non perché non sia scorrevole, anzi molte parti sono di punta di penna e delicatezza che mi hanno tenuto sulla pagina a lungo (relativamente, è ovvio, tipo un minuto buono, che per me è tempo da meditazione), come il ritratto del sensale tedesco e del suo percorso apogeico e perigeico. Mi danno perplessità invece proprio quei risvolti, che quarte di copertina e battage vari, lanciavano come “scrittura a metà tra romanzo e saggio”. Ecco, quella metà del saggio, seppur interessante, ed in alcuni punti dolentemente calzante, poi non si addentra, non diventa analisi finale, decisiva. Rimane a corroborare alcuni tratti delle vicende umane e personali, magari dandone alcuni connotati di interesse, ma senza coinvolgere sino in fondo. Ed anche qui, non perché sia sbagliata, o stonata, ma perché non conchiusa. Il clima generale, tra l’altro, mi aveva ben piacevolmente coinvolto. Siamo in Prato, città che ben conosco, nei suoi meandri culturali e nelle sue attività industriali. Nonché nei suoi collegamenti, alle lunghe visite fatte tra Calenzano e Piazza Mercatale, tra il Duomo e Fucecchio, laddove ben ricordo l’attività tessile di calzini del padre di Maurizio, dal suo fulgore inizio anni novanta, alla vendita ai cinesi, così come molte altre industrie del pratese. Torniamo alla scrittura, per ora. Con quegli inizi, tra il ricordo e l’autobiografia, che tanti salti nelle memorie antiche mi hanno fatto fare. Potenza dei nomi. Quei nonni, Omero e Temistocle, il padre Alvarado. Come non saltare nella memoria tra il personale prozio Arduino ed il locale Cilindro? Quelle fughe di studio, tra Edoardo che se ne va in America ed io che fuggo a Parigi (logica scelta culturale visti i dieci anni di differenza tra noi). Quelle letture matte e disperate. La scoperta di Scott Fitzgerald o quella di Joan Didion (mi sa che io e lui siamo i pochi ad aver letto “Democracy” un dì pubblicato da Frassinelli!). Viaggiando di capitolo in capitolo, ma forse sarebbe meglio dire di storia in storia, che ogni capitolo è anche una specie di micro-racconto, veniamo via via ricostruendo la storia della famiglia Nesi, da quando fonda la fabbrica tessile nei primi anni del fascismo, ai giorni nostri, fino alla vendita ed alla chiusura dell’industria avvenuta nel 2004. Questa è la Storia, che si porta appresso quella dei lavoranti alle filature, agli artigiani della lana, insomma a tutta la gente intorno. Ma la sua vena di scrittore non riesce a penetrare i problemi della crisi economica. Motivo per cui arrivano gli intarsi, giusti ma non amalgamati, sui motivi, le vicende, i susseguirsi di casualità ed idiozie che hanno portato una delle industrie di punta che sostenevano molto del panorama industriale italico, a crollare, quasi ad implodere. Ricordo e condivido la follia di chi diceva che si doveva aprire il mercato cinese, potenzialmente forieri di guadagni immensi. Sarebbe stato forse vero, se fosse rimasto isolato. Entrato nel circuito WTO, con le economie interne di risparmio produttivo, non poteva che portare alle problematiche attuali (ed è di questi giorni un paragone dell’economia 2000-2010, dove lì c’erano Stati Uniti in testa, poca Cina e Italia quinta, ed ora Cina in testa davanti agli USA, e noi scesi all’ottavo posto). Ripeto, queste parti, pur giuste, non mi hanno preso. Lasciandomi soltanto negli occhi la grande manifestazione di protesta in Piazza Mercatale di tre-quattro anni fa. Purtroppo Prato continua a morire. Mentre io vedrò di dedicarmi ad altri Nesi.
“Chi fa un mestiere normale per mantenersi mentre scrive è convinto di prendere il meglio dai due mondi, ma invece prende solo il peggio.” (36)
“Sulla spiaggia pettinata d’una Forte dei Marmi abbacinata dalle nuove, luride ricchezze dei russi, ero nella condizione ideale per … ricadere nelle abitudini goduriose di quando ancora non scrivevo e la lettura era solo una grande passione: fare gli orecchi di ciuco alle pagine.” (41)
“Nella vita perlopiù ci sentiamo smarriti.” (144)
Diego De Silva “Voglio guardare” Einaudi 9,50 (in realtà, scontato 7,60 euro)
[A: 19/01/2012 – I: 11/06/2012 – T: 12/06/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 183; anno: 2002]
Un romanzo inutile o un romanzo dannoso? Nella mia perversione di comprensione continuo a leggere anche romanzi altri di autori che, ogni tanto, mi sono piaciuti. Ed inevitabilmente incappo in prove diverse. Se tutto fosse bello, sarebbero, anche se di nicchia, autori che si portano nel cuore. Invece, come è naturale, si alternano prove buone a prove decenti ed anche a prove scadenti. C’erano passi, nelle mie prime letture di De Silva, che mi facevano sentir bene: simpatia di personaggi, comunanze di pensieri, ed altre piacevoli amenità. Sorretti, in genere, da una scrittura di facile lettura. Qui, forse, rimane solo l’ultima parte. E neanche tutta. Ci sono parti che rimangono oscure, nell’intento e nello svolgimento. Ma soprattutto mi rimane oscuro il senso generale della vicenda. A posteriori, vado ricostruendo l’idea che me ne sono fatta. Come se l’autore volesse cimentarsi con qualche scrittura di tipo anglo-americana. Una vicenda forte, che si contorna di persone e vicende collaterali, per un affresco di uno specchio di mondo. Se questo era, non è riuscito. Se voleva, da una vicenda “tirata” estrarre conclusioni o ragionamenti sulla natura umana, e sul nostro vissuto italiano, la riuscita è anche minore. Per tutto il romanzo assistiamo alla caduta verso l’abisso di due personaggi in parallelo: la sedicenne Celeste e l’avvocato David. Celeste ormai frequenta saltuariamente la scuola, oppressa dal degradarsi della vicenda umana familiare, con il padre, da lei tanto amato, che corre a pieni passi verso l’abisso dell’Alzheimer. E lei, per ribellione o per disperazione, decide di vendere il suo corpo, di mettersi sulla strada. Riuscendo benissimo in questa impresa, anche perché possiede una capacità empatica che le fa riconoscere bisogni e desideri di chi incontra. Purtroppo non riconosce i suoi. O forse fa di tutto per ignorarli. L’avvocato, oltre ad essere un bravo penalista, è un assassino psicopatico cui piace schiacciare gli altri nel verso senso del termine. In tribunale, per vincere le cause, anche con ragionamenti al limite della moralità (mi ricorda un mio lontano conoscente avvocato che fece assolvere un assassino dimostrando che il morto aveva avuto un infarto fatale prima di essere colpito dalla pallottola del suo assistito). E non contento, si dedica a rapire bambine under 10, ed a schiacciarle nel suo abbraccio. Per poi sotterrarle nel bosco. Vi dicevo che la trama era forte. E se parlassimo di racconto in stile verista, ci si dovrebbe mettere a trovare i moventi, i motivi, le indagini, ed altre delizie poliziesche. Invece l’autore ceca di farci benvolere il turpe assassino, descrivendolo nella parte positiva. Celeste ha la ventura di scoprire quanto combina David. Ed invece di denunciarlo, lo frequenta, anzi ne fa quasi un suo paladino. E pur sapendo l’orrendo vizio, continua ad entrare ed uscire dal suo appartamento. Perché? Cosa vuole Celeste? E perché David si lascia sprofondare verso una dostoevskiana resa dei conti con sé stesso? Il tutto convogliato verso un finale che non chiude niente (e ci potrebbe stare) ma che non aiuta a capire né le motivazioni dei personaggi, né quelle dell’autore. Per cui continua a chiedergli: ma cosa volevi dire? O dimostrare? Non l’ho capito, ed ho chiuso con piacere il libro, dicendomi che averlo finito mi consentiva, intimamente, di riportarlo al suo posto nella libreria, e dimenticarlo.
“La realtà … trova sempre il modo di umiliare le sue convinzioni più sincere, come quella per cui la gentilezza di un viso non può nascondere un’intenzione maligna.” (58)
Siano quasi nel pieno di settembre, confusione nasce dalle strade, ora ripopolate dal ritorno di studenti e professori. Lavori improbi e controlli. Ben presto sapremo meglio come impostare la fine e l’inizio del nuovo anno.

domenica 2 settembre 2012

A caso - 02 settembre 2012


Non perché non ci sia sempre una buona ragione per leggere, ma questa quartina di lettura nasce, appunto, per caso, assonando elementi diversi e dispersi. Un libro che si vuole ironico, ma che poteva essere meglio, la rivisitazione su carta dello show di Fazio & Saviano (con una micro-provocazione), un testo teatrale, una graphic novel. Insomma, c’è tanto, e di diverso genere. Vediamo che ne pensate.
Massimo Vitali “L’amore non si dice” Fernandel euro 13
[A: 31/01/2012 – I: 09/05/2012 – T: 11/05/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 172; anno: 2010]
Stimolato dal regalo ricevuto a Natale di questo allora sconosciuto autore bolognese (e che ho già tramato), decido di cercare, acquistare e leggere questa sua prima fatica. Prima di tutto, continuo a fare i complimenti alla casa editrice Fernandel, meritevole di pubblicare autori italiani ed interessanti. Ed anche sentiti auguri al buon Massimo che anche qui (o qui per la prima volta) ha un’idea carina per sviluppare una narrazione. Tal Edoardo, benché non sappia nuotare, decide di fare un corso di sub. E mentre affoga, viene salvato dalla bella Teresa, di cui diventa perdutamente innamorato, tanto da riempirla di lettere d’amore. Sarebbe il meno ma, preso da certe sue (s)manie interiori, Edoardo decide di inviare soltanto raccomandate. Teresa, giustamente alterata, gli impone di non scrivere più né raccomandate né lettere d’amore. Non esclude lettere tout court. E qui nasce il racconto, che si snoda quindi in 100 lettere di non-amore inviate a Teresa, in cui Edoardo parla di tutto, ma mai (direttamente) d’amore. Leggendone mi nasce anche un’idea di romanzo, che suggerisco al mio amico Roberto il mini-raccontista: prendere i mini e micro racconti (che a lui ben riescono) e collegarli con una sovrastruttura collante (tipo questa delle lettere o similia). Questo (se ben gestito) consente di utilizzare al meglio quanto uno sa fare. Così come fa il buon Massimo (che chiamiamo per nome onde non confonderlo con il Vitali della saga di Bellano). Che in queste 100 lettere passa in rassegna tutta una serie di episodi, centrali o marginali, della sua vita. Facendoci intuire, più che vedere, il suo “disadattamento” alla vita stessa: il rapporto di amore-odio (ma forse solo il secondo) con la sorella, la vita solitaria, il lavoro alienante, tutti i piccoli guasti quotidiani di chi (sembra) abbia paura di vivere. Eppure è anche pieno di slanci, e di colori. L’immagine degli alberi che vede dal letto di casa sono poetici. Ma anche pieno di dolcezza come nel ritratto ironico della nonna ingorda, che mangia pochissimo ma spazzola gli avanzi. E i ricci che attraversano pericolosamente le strade. E le donne del Sud. E il gommista. E i guanti di pelle ricevuti per errore un Natale. E tanti alti piccoli tasselli di vita quotidiana. Ma tutti questi spunti (o spuntini) rimangono sospesi per aria. Non si concretizzano in narrazioni. Non si concretizzano in sensazioni verso Teresa, verso cui c’è sempre un sentimento acritico di amore infinito. Perché? E dove porta? Insomma, vanno bene i piccoli haiku, ma poi deve scattare qualche cosa. Che qui, come in “Se son rose” poi non scatta. Non si traduce in ritmo narrativo pieno, in sostanza, in dibattimento. Rimane tutto sempre sospeso sul filo della battuta, come quei personaggi, bravissimi e utili, sempre pronti a volgere tutto sul ridere, e che non riescono a trovare mai il momento, il ritmo, per infilare un discorso di serietà. Questo fa anche il nostro Massimo, e quindi, benché visto di buon occhio, non riesce a raggiungere quella maturità che potrebbe. Per terminare qualche altro elemento che mi ha sversato: mi aspettavo più ironia nell’introduzione di Bergonzoni, che gioco al solito con le parole, ma sembrano passati secoli dalle sue balene sedute. E certo meritava una riuscita migliore la lettera di San Valentino, che poteva raggiungere il massimo dell’efficacia in un contesto di non-amore, ed invece risulta una brutta copia di una pagina di wikipedia, dove si citano le persone morte il 14 febbraio, o altre stragi personali o di massa di questa (dato il contesto) funesta data.
“Il dentista è un uomo che mangia con i denti degli altri.” (33)
“E allora io ti suggerisco di venire a casa mia o al limite vengo io nella tua. Altrimenti che ne dici del Portogallo?” (129)
Roberto Saviano “Vieni via con me” Feltrinelli s.p. (prestito di A)
[A: 01/05/2012 – I: 14/05/2012 – T: 16/05/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 155; anno: 2010]
Non ho la televisione, quindi non ho seguito “Quello che (non) ho”, così come non ho visto “Vieni via con me”. Ma ho letto, con piacere e rabbia, queste pagine che vengono dal fortunato spettacolo di Fazio e Saviano (e ne leggerò se qualcosa uscirà da questa nuova serie). Intanto, da quel poco che ho visto, tra spot e immagini rubate su televisori genitoriali, devo ribadire che leggo e rileggo Saviano quando scrive, ma non riesco a guardarlo in video. Si muove troppo, ondeggia che sembra la torre di Pisa, ed altre piccole manie inguardabili. Insomma, buca lo schermo. Se andasse a ripetizione da Baricco, sarebbe perfetto. Per ora, ed ancora, accontentiamoci di leggerne. E soprattutto di leggerne le pagine arrabbiate, quelle dove parte da piccole vicende, anche pubbliche a volte, ma spesso private, per arrivare a temi sociali, denunce, ed altre gomorreidi. Come in alcune di queste otto storie. Soprattutto in quella sulla macchina del fango, che ripercorre la vicenda del progressivo isolamento e quindi dell’uccisione di Giovanni Falcone. O quella della storia d’amore dei coniugi Welby, amore fino all’ultima goccia, amore fino a soffrire per tutto il resto della propria vita dovendo staccare, e non può esservi altra decisione, una spina fatale. Ma anche bellissima e terribile quella sul terremoto a L’Aquila e sul crollo della Casa dello Studente, con la storia di tutte le vite spezzate dei giovani, e non sulla fatalità di una scossa sismica, ma sulla pervicacia di chi continua a costruire in barba alla legge. E lieve e toccante, come una storia di Gomorra messa un po’ da parte, quella di Don Giacomo e delle case strappate alla camorra. Altre sono più lievi, meno incisive, anche se e quando toccano temi forti: l’infiltrazione mafiosa verso il Nord o l’annoso ed irrisolvibile problema dei rifiuti. Altre sono non mancabili, perché ci vuole un riconoscimento alla propria patria ed alle proprie radici (con quell’inizio dedicato a Mazzini e quella fine dedicata a Calamandrei ed alla Costituzione). Ma sono un poco appese, appunto come se se ne dovesse parlare, perché è giusto, non perché se ne senta dentro l’urgenza e la necessità. Non torno, né qui né altrove, sulle sterili discussioni su Saviano scrittore, giornalista, ed altre amenità che lascio agli amanti di Vespa e dintorni. Io, qui, come in Gomorra, come negli articoli, ne apprezzo, sempre e comunque l’intelligenza, la lucidità, lo sforzo di denuncia e la coerenza. In lui, come in Travaglio, ed in altri giornalisti della scuola dei Bocca e dei Montanelli (con tutto il distinguo ed il rispetto delle eventuali diversità di posizione).  Forse manca solo una considerazione finale. È coinvolgente l’inizio con tutte le cose per cui vale la pena di vivere e di lottare. Adottiamo anche noi il gioco di Saviano, ma poiché siamo un po’ fuori allenamento, invece di una TOP10, ci accontentiamo di una TOP3 delle cose che a me danno il piacere (e la voglia) di vivere. Se volete dire la vostra, io vi condivido intanto la mia:
1)    Salire su un aereo che comincia un nuovo viaggio.
2)    Il suo sorriso negli occhi quando guardano il mondo che condividiamo.
3)    L’attacco del sax di Jan Garbarek dopo l’introduzione al piano di Keith Jarrett in “My Song”
“Tolstoj: Non si può asciugare l’acqua con l’acqua, non si può spegnere il fuoco con il fuoco, quindi non si può combattere il male con il male.” (77)
Alan Bennett “La pazzia di Re Giorgio” Adelphi euro 11 (in realtà, scontato 9,35 euro)
[A: 19/01/2012 – I: 16/05/2012 – T: 20/05/2012]
[titolo: The Madness of George III; lingua: inglese; pagine: 153; anno: 1992]
Mi ero abituato agli agili volumetti della Adelphi, dove Alan Bennett, a guisa più di racconto lungo che di romanzo, trattava argomenti vari con umorismo ed ironia. Sapevo anche, che il nostro nasce storico (avendo studiato e non ricordo se diplomato anche tra Oxford e Cambridge), tant’è che da poco calca le scene italiane un suo testo teatrale che riscuote molto successo, e si intitola “Lezioni di storia” (da consigliare a Luciano?). E sapevo anche che aveva ottenuto grandi onori con la trasposizione cinematografica della sua prima opera teatrale. Fatti due più due, mi sono detto: dedichiamoci allora a questa pur lontana prova (che ormai ha circa venti anni). Devo dire che ne esco piuttosto deluso. Non tanto per il testo in sé. Un buon testo teatrale, con anche difficoltà di messa in scena, dovuta a continui cambiamenti di scena (e credo sia questo uno degli elementi che ne favorì la cinematografica resa). Difficoltà che pare lo scenografo abbia risolto con una grande scalinata che si apre e si chiude, consentendo, in poche battute di dialogo, ai lavoranti dietro le quinte, di spostare, mettere, fare, dire, insomma consentire i cambi necessari. Ma proprio la materia, che, seppur interessante nel traslato moderno, mi lascia più freddo che freddo non si può. Cioè, la storia in sé, mi sia consentito affermarlo, è la “solita” storia: il potere ed i suoi risvolti. Chi ce l’ha tende a tenerlo. Chi non ce l’ha fa di tutto per ottenerlo. Ed in quel di fine Settecento, mentre di la della Manica, Robespierre e compagni facevano fuoco e fiamme, intorno al Tamigi si stava cercando di evitare la bancarotta del potere. Per questo il re chiama a reggere il governo un uomo dal polso di ferro. Il buon Pitt (anche se non Brad), che taglia, riduce, fa stringere la cinghia e, bene o male, risana. Ma lì dietro l’angolo, gli altri, capeggiati da Fox (da cui il facile gioco di parole sul Gatto e la Volpe) cercano di ostacolarlo, perché vedono sparire ad uno ad uno tutti i loro privilegi. Su questa storia, un po’ piatta, un po’ banale, si innesta il problema “RE”. Perché in Inghilterra allora il re era veramente l’ago della bilancia. Era lui che faceva e disfaceva. Ed il re appoggia Pitt. Ma… ma il re mostra strani segni, che fanno gridare alla pazzia. Straparla, stra-agisce, si gratta in pubblico. Pensate, da pure la mano al suo valletto per scendere le scale. Inaudito! Allora si cerca di internarlo, di modo che si possa nominare Reggente il figlio, il buon Principe di Galles. Che odia Pitt e appoggia Fox. Fortunatamente si trova un medico di campagna, che intuisce una possibile via di guarigione. E giusto prima del crollo finale, Giorgio III guarisce (da una malattia che i moderni classificherebbero come porfiria, la cui forma più acuta diede origine, a fine ottocento, agli estremismi nictalopi di Briam Stoker). Pitt rimane in sella e tutto prosegue. Detto così quasi sembra interessante. Ma come districarsi tra tutti gli anglicismi di maniera. Il re quasi “deificato”. I rapporti formali. I medici che non visitano il paziente regale, perché dovrebbero “toccarlo”. I signorotti che portano voti per una manciata di favoritismi (questa l’ho già sentita, anche recentemente). Cioè, Bennett fa un notevole ed encomiabile sforzo per calare la vicenda nell’atmosfera dell’epoca (ed è una vicenda esemplare, che Giorgio III regnò per 60 anni dal 1760 al 1820, e ben sappiamo quante cose son successe a cavallo di quel secolo, come ad esempio l’indipendenza americana, che il re non digerì mai), pur rimanendo legato (allora come ora) ai manierismi inglesi dei rapporti e delle cose (questo si dice, questo si fa, e via discorrendo). E quindi, pur apprezzando lo sforzo, ho faticato non poco a sentirlo vicino, a finirne le pur non innumerevoli pagine. Sforzo intellettuale - premio intellettuale: poco cuore e poca passione.
“Conoscere bene un libro è meglio che avere un’infarinatura di parecchi.” (13)
Francesco Matteuzzi & Pierluigi Ongarato “Philip K. Dick” Beccogiallo s.p. (regalo di Silvia)
[A: 07/05/2012 – I: 30/05/2012 – T: 31/05/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 127; anno: 2012]
Tante luci ma anche tante ombre in questa pur pregevole “graphic novel”. Intanto, sempre meritoria è l’opera della casa editrice Beccogiallo, che con fatica, insieme a poche altre, tenta di far fruire in Italia questo tipo di letteratura che tanti fasti ha per il mondo intero (tant’è che la mia amica Luana è dovuta emigrare in Francia per poter tentare di vivere con la sua arte di sceneggiatrice di novelle). Altre luci me l’ha portate il connubio in sé: da un lato una “graphic” che riprende tematiche narrative e stili da me a lungo frequentati negli anni Ottanta (da Comic Art a Orient Express, da AlterLinus a Frigidaire) unita a quella passione giovanile (esplosami nel decennio precedente) verso quella forma di letteratura popolare erroneamente etichettata “tout court” come fantascienza. Quando in realtà era tante cose assieme: ucronia, (pre-)visioni scientifiche, fanta-sociologia. Era in realtà (come spesso accade) il modo di alcuni scrittori di tirare fuori tematiche con degli stili narrativi che potevano raggiungere larghe fette di pubblico. Ma sempre per parlare della realtà e della vita. Faceva lo stesso Simenon in alcune fette dei suoi Maigret. O più prosaicamente Scerbanenco nella sua Milano violenta (o poi Machiavelli nella Bologna anni settanta). E lì, nella letteratura di genere, spaziavano gli Asimov, con le mitiche “Cronache della Galassia”, o i Bradbury, con le “Cronache marziane” tanto per citarne una. O i J. G. Ballard degli automobilisti assassini di “Crash”. O la reinvenzione delle vicende di Phileas Fogg e del suo giro del mondo, nella parodia di P. J. Farmer. E i tanti, tantissimi altri che in quegli anni fluirono nella mia poderosa libreria fantastica (che non è stata ancora inclusa nella libreria attuale, per oggettiva mancanza di tempo). Dove un bel posto d’onore avevano le opere di Dick, da “La svastica sul sole” a “Ubik”, da “Il mondo di Jones” a “Cacciatore di androidi” (quello da cui fu poi tratto il mitico “Blade Runner”). Per tornare al tema, ed alla trama, queste cento pagine scarne, tratteggiano con la bella penna di Ongarato, il testo che Matteuzzi ha elaborato sulla biografia di Dick. Riportandomene alla mente brani dimenticati. Il fatto di essere nato gemello un 16 dicembre (anche se nel ’28, e con il trauma della morte prematura della gemella Jane). Il pacifismo che lo portò a lasciare l’Università per non fare il militare nella Guerra di Corea. I cinque matrimoni. La vita sbandatissima tutta percorsa da una sempre più forte dipendenza dalle anfetamine (che riempiranno di visioni anche molte sue opere). Le prese di posizione anti-governative, che lo fecero oggetto di attenzione (o persecuzione?) da parte dell’FBI. Ma soprattutto quella sua mente fertile ed inquieta, sempre lì a domandarsi, e poi a scrivere, del rapporto tra mente e realtà. Tra quello che vediamo e quello che “è”. Temi che gli faranno un ben dovuto omaggio nel film “Matrix”, che non si basa su nessuna opera, ma sul fondamento della sua cosmogonia. Forse non siamo altro che oggetti che vivono vive altre, perché la vita vera è misera o invivibile. Ne assistiamo, in pochi tratti, anche alla decadenza mentale, che lo porta negli ultimi anni (seppur disintossicato) ad immaginarsi di essere una reincarnazione di un martire cristiano. Fino alla morte, di un fisico ormai troppo minato, a soli 54 anni, nel ’82 (e notiamo la simmetria tra le due date di nascita e morte 28-82). Molti i ricordi che velocemente pervadevano lo scorrere della grafica. Pur tuttavia, al fine, il libro non riesce a dare tutte le dimensioni e le sfaccettature del personaggio Dick. Questo il suo limite, ed il motivo per cui, alla fine, lo ritengo un’onesta prova, foriera di buone sensazioni, ma non completamente riuscita. Ma finisco plaudendo all’iniziativa (e re-inverdendo ricordi).
“Tutte le cose sono destinate a finire. Sta a noi capire quando è il momento giusto di chiudere un capitolo della nostra vita per dare inizio al successivo.” (38)
Ecco al fine i libri di giugno, un mese di letture un poco piatte, oscillanti tra il discreto ed il così così, senza nessun acuto, né alto né basso. Capita.

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Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Giuseppina Torregrossa
Manna e miele, ferro e fuoco
Mondadori
10
3
2
Flavio Soriga
Sardinia blues
Bompiani
8,90
3
3
Edoardo Nesi
Storia della mia gente
Bompiani
14
3
4
Marcello Fois
L’altro mondo
Einaudi
10
3
5
Nick Hornby
È nata una star?
Guanda
10
2
6
Elizabeth George
Un pugno di cenere
TEA
9,80
3
7
Giovanni Ricciardi
I gatti lo sapranno
Fazi
9,50
3
8
Diego De Silva
Voglio guardare
Einaudi
9,50
2
9
Erri De Luca
Il contrario di uno
Feltrinelli
6,50
2
10
Clive Cussler & Paul Kemprecos
La stirpe di Salomone
TEA
8,90
2
11
Nick Hornby
Tutto per una ragazza
Guanda
12
2
12
Pino Cacucci
Outland Rock
Feltrinelli
7,50
3
13
Eric-Emmanuel Schmitt
Ulysse from Bagdad
Le livre de poche
7,30
2
14
Luis Sepulveda
Ritratto di gruppo con assenza
TEA
8
2
15
Elizabeth George
Agguato sull’isola
TEA
10
3
16
Anne Holt
La porta chiusa
Repubblica Noir
6,90
3
17
Elizabeth George
La donna che vestiva di rosso
TEA
9
3

E siamo alla grande ripresa. Vorrei poter dire con il poeta, settembre andiamo è tempo di migrare. Invece siamo costretti a ripetere, come i sette piccoli nanetti (e sette, ricordo, è sempre un bel numero, anche se ricorda questo sette-mbre, non a caso allora settimo mese dell’anno), andiam andiam andiamo a lavorar…