domenica 31 marzo 2024

Japan noir - 31 marzo 2024

Iniziamo con queste trame all’analisi di alcuni aspetti della letteratura nera giapponese. In particolare, sono presenti tre testi del padre di questo filone letterario, Edogawa Ranpo (dove vi rimando alle trame per alcune notizie interessanti sullo scrittore). Certo, sono testi datati, visto che sono scritti da Ranpo a cavallo degli anni Trenta, eppur tuttavia di interesse non solo filologico. Completano la trama due testi moderni. L’ottimo Keigo con una lunga cavalcata per un noir ventennale e l’interessante Ryu che ci mostra aspetti noti del Giappone, ma spesso non indagati a fondo.

Keigo Higashino “Sotto il sole di mezzanotte” Corriere Giappone 24 euro 8,90

[A: 19/10/2021 – I: 23/02/2023 – T: 26/02/2023] - &&&&      

[tit. or.: 白夜行 – Byakuyakō; ling. or.: giapponese; pagine: 751; anno 1999]

Pubblicato nella collana “La grande letteratura giapponese” credo abbia più senso e risalto mescolato alle opere “Noir” del Giappone, di cui Keigo è senz’altro un maestro. Primo inciso, uso il nome Keigo per indicare l’autore, visto che non ho ancora capito (sono un po’ tonto) l’uso dei nomi e dei cognomi nella lingua giapponese, essendo tra l’altro un punto su cui tornerò più avanti, parlando di questo testo.

Intanto, l’autore (anche grazie all’ottima traduzione di Anna Specchio e ad un piccolo ma necessario glossario finale) scrive in modo scorrevole ed avvincente, tanto che entriamo subito nello spirito giapponese, cosa che non sempre è scontata. Tra l’altro, anche in vista del viaggio di marzo, ho notato con piacere che la storia si dipana su due centri focali: Osaka e Tokyo. Ed evito altri commenti. Certo, in alcuni punti, si nota una certa occidentalizzazione della vicenda, che lascia solchi tradizionali. Ma il mangiare per strada, le piccole case, i rapporti tra le persone portano direttamente al cuore della lontana nazione.

Keigo, in questo lungo viaggio che in pratica dura venti anni, si dimostra un emulo giapponese di Dürrenmatt, anche se con una piccola punta di pessimismo in meno. La difficoltà, comunque, nel seguire il testo, è data, come accennavo sopra, proprio dalla onomastica nipponica. Al fine di preservare un testo molto vicino all’originale, si lasciano le persone indicate con cognome e nome. Solo che, con l’evoluzione dei personaggi, questi si sposano, si lasciano, si celano sotto nomi fittizi, e questo è un problema nel seguire la vicenda. L’altro è che molti nomi sono, per noi occidentali, abbastanza simili, così che ho faticato non poco a capire una serie di contorni della vicenda. Anche perché Keigo a volte avanza nel tempo, lasciando la descrizione di cosa avviene nel frattempo a commenti e rimandi. Ed in questi salti, capita che si incontri di nuovo un personaggio che si era lasciato un centinaio di pagine prima, e che, per la complessità citata dei nomi, non sempre si riesce a collegare con quanto avvenuto.

Ricordatevi la citazione dello svizzero e vediamo come si svolge il libro. Che inizia come un classico giallo. C’è un morto, Yosuke Kirihara, ed un ispettore, Sasagaki, che cerca di capire motivi e ragioni dell’omicidio. Kirihara ha un banco di pegni (siamo nel Giappone degli Anni Settanta), una moglie giovane, un commesso amante della donna, ed un figlio Ryo. Ha anche una strana relazione con una bella “donna perduta”, Fumiko, e con la di lei figlia, Yukiho. Sembra possibile siano coinvolti la moglie e l’amante, ma hanno un alibi. Sembra coinvolta Fumiko, ed un suo amante. Ma questi muore in un incidente d’auto e Fumiko anche muore, in un incidente domestico, che potrebbe anche essere suicidio. Dopo questo attacco sprint (che noi ci si chiede, ma come andrà avanti per le altre seicento pagine?), Sasagaki scompare, l’indagine finisce per morte inerziale. Da qui in poi, invece, seguiamo le storie di Ryo e Yukiho.

Infatti, da qui vediamo l’evoluzione delle storie dei due, che seguiamo dalla fine delle elementari, alle medie, il liceo, l’università e poi la vita lavorativa.

Ryo è sempre cupo, impenetrabile, diventa un grande esperto di informatica, ma anche di traffici illegali, tipo copiare il software dei nascenti videogiochi e rivenderlo a prezzi stracciati. Ovvio che in tutta questa zona d’ombra, Ryo non possa non entrare in contatto con la mafia giapponese, la Yakuza. Vivendo in quella zona d’ombra tra il legale e l’illegale.

Yukiho, invece, viene adottata da una zia maestra nella cerimonia del thè (molto giapponese), è brillante a scuola a tutto tondo, bella, ma anche perfida. Non sopporta essere oscurata o messa in discussione, soprattutto da chi le possa ricordare il suo passato di stenti. Ma la sua ascesa sociale è costante. Matrimoni, investimenti in borsa, divorzi al momento giusto, negozi di moda dal promettente avvenire, altri matrimoni.

La cosa strana è che qualsiasi persona possa mettere in difficoltà i due giovani si evolve in negativo: disastri sociali o personali, avventure poco piacevoli, financo morti. E sono queste che, dopo quattrocento pagine, fanno tornare sulla scena un invecchiato Sasagaki che non ha mai mollato, che ha sempre pensato all’inizio della vicenda, appunto come un Dürrenmatt de “La promessa”. Il suo ritorno non impedisce altre morti ed altre vicende cupe. Sarà solo alla fine, l’ispettore ormai in pensione, ma sempre ad indagare, che tutti i pezzi andranno a combaciare ricostruendo un puzzle di una complessità ragguardevole. Con una consolazione finale un po’ simenoniana, che la verità trionfa sempre, non sempre trionfa la giustizia.

Ho cercato di sintetizzare al massimo lo sviluppo degli eventi, limitando i nomi a quelli essenziali, anche se, per la comprensione del tutto, molti altri sarebbero dovuti comparire. Ma questo avrebbe reso più difficile la lettura, e meno incisiva la voglia di leggere il libro. Anche se non posso non ricordare un personaggio, non centrale, ma la cui presenza condizione tutta una serie di eventi. Scoprite voi che possa essere.

Keigo, in questa sua cavalcata letteraria, ci mostra anche l’evoluzione del Giappone, in particolare attraverso due canali forti: le tecnologie e l’onore. Le prime servono a farci comprendere come sia nata l’egemonia mondiale del mondo dei videogiochi. La seconda è un modo proprio di ogni giapponese, un onore la cui ricerca viene più volte messe in discussione da Keigo. Se l’onore non avesse fatto comportare certe persone in vista della sua salvaguardia, un omicidio si sarebbe risolto con molto anticipo e diverse persone avrebbero percorso un sentiero di vita assai differente.

Keigo ha il coraggio di mostrarci, anche, un Giappone che non attira il turista, un posto anche poco educato, un mondo di mezzo criminale che non ci si aspetta. Ed il suo coraggio lo premia, riuscendo a confezionare un buon prodotto. Tanto che sono curioso di capire se e come ci siano altri suoi scritti di degna lettura.

“Io e lei … arriviamo da due esperienze di matrimonio, e posso assicurarti che per quelli come noi l’idea di risposarsi va valutata in maniera molto seria.” (558)

Murakami Ryu “Piercing” Corriere euro 8,90

[A: 22/11/2022 – I: 21/10/2023 – T: 22/10/2023] - &&& e ½      

[tit. or.: ピアッシング Piasshingu; ling. or.: giapponese; pagine: 208; anno 1994]

Diciamo subito che Ryu non è parente di Haruki, ed è anche di tre anni più giovane. È considerato, in patria, l’enfant terrible della letteratura nipponica, e (ma questo lo desumo dalle critiche non dalle mie letture) ha la sua produzione divisa in due: romanzi distopici e romanzi thriller in genere molto basati sulle patologie dei personaggi.

Quindi, dovendo basarmi solo su questa lettura, devo dire che è inquietantemente riuscito. In effetti, seppur datato (ha quasi trent’anni) è una descrizione umana ed ambientale universale. Facendo dell’autore uno scrittore degno di essere seguito, anche se, personalmente, lo trovo un filo inquietante. Sono comunque convinto che anche la traduzione di Gianluca Coci abbia contribuito a rendere il libro una lettura interessante.

Il primo livello di bravura di Ryu è di non immergerci subito in un’ambiente ed in una situazione “disturbata”, ma di farci scendere uno dopo l’altro i gradini della follia, tanto che, una volta raggiunti, sembrano quasi stati d’animo normali ed accettabili.

Come in una pièce teatrale (ed io la vedo bene a teatro), seguiamo essenzialmente due personaggi. Il primo, che sarà il filo rosso di tutto il testo, è Kawashima Masayuki. Nei primi capitoli è una persona discretamente normale. Sui trent’anni, dopo un’infanzia ed una giovinezza di cui sapremo poi, conosce Yoko, si innamora, si sposano, hanno una figlia, Rie. Tutto bene? Forse, ma Kawa ogni tanto si sveglia di notte. Kawa, ogni tanto, va a vedere la figlia che dorme. Kawa, in questi momenti, ha sempre un oggetto a punta in mano.

Qui comincia il primo gradino di panico: non è che vuol fare male alla piccola? Certo che no, ma ha paura di non riuscire a fermarsi, e decide, come legge del contrappasso dantesco, che sarebbe giusto ed onesto, nei confronti di Rie, bucherellare altre persone. Decide così di allontanarsi per un po’ da casa, in modo da trovare una prostituta da uccidere con il punteruolo.

Vedete bene come in poche pagine siamo già entrati in un girone infernale. Nella clausura dell’albergo (tra l’altro credo che il Prince Hotel di Kawa sia lo stesso della mia prima visita a Tokyo or sono dieci anni) Kawa, anche se a pezzi e non in modo coerente, ci fa partecipe della sua vita prima di Yoko.

Un’infanzia difficile, dove trova il padre morto in casa e la madre (non si sa se a ragione o per pazzia) lo ritiene in qualche modo colpevole e da quel momento comincia a trattarlo in maniera non solo crudele, di più. Punizioni in stanze buie, botte, capelli tirati, tanto per dire solo il nominabile. Un trauma da cui Kawa non si riprenderà mai. Riuscito ad allontanarsi da casa, va a convivere con una donna più grande di lui (complesso di Elettra?). Ovvio che siano sempre in lite, con risse da bar ed altro, fino a che Kawa non la colpisce con un punteruolo all’addome. Lei non muore, ma la storia finisce.

Ryu ci porta quindi a pensare che la patologia di Kawa sia realmente risolvibile con una trasposizione di uccisioni. Qui, la bravura dell’autore si inventa una serie di pagine in cui Kawa medita su come uccidere la sua vittima, sui pericoli, sulle cose da evitare. Una fantastica e macabra ironia. Che finisce con il riversarsi su Sanada Chiaki, la prostituta che lui decide di uccidere.

Qui entriamo nel secondo vortice di pazzia, che se un pazzo destabilizza un romanzo, due pazzi che incrociano le loro pazzie ne fanno un teatro dell’assurdo da favola. Chiaki è una prostituta sadomaso, che scopriamo subito dedita a dosi massicce di Halcion, un tranquillante ipnotico, coadiuvante della mancanza di sonno, che, in dosi massicce, può indurre incubi ed allucinazioni varie.

Da manuale l’incontro tra Kawa e Chiaki: lui ligio al suo manuale di uccisione, lei sbadatamente leggera. Da qui, comincia un loro duello verbale anch’esso da non perdere, dove tutto è possibile, anche il suo contrario, visto che i due psicotici interpretano la realtà a modo loro. Chiaki ha un attacco di panico e Kawa la scopre in bagno che si tagliuzza le gambe. L’omicidio ora è impensabile, bisogna salvarsi. E lo faranno nella casa iperessenziale di Chiaki, che, a questo punto, scopriamo aver passato il fronte della pazzia dopo essere stata abusata per anni dal padre, aver litigato profondamente con la madre, non essersi mai ripresa, e si autoinfligge punizioni, a cominciare da un (dolorosissimo) piercing ad un capezzolo.

Dovete gustare tutta la parte finale del dramma della pazzia, un dramma talmente drammatico che ovviamente trascende il tragico e sbuca nell’ironico. Insomma, non si sa come andrà a finire (o se io lo so non ve lo dico). Ma tutto è congeniato come un perfetto meccanismo ad orologeria. Una bomba che prima o poi scoppierà (anche forse dopo la fine del libro).

Il messaggio forte di Ryu è che tutto è casuale, e come dice Vasco Rossi, “la vita è tutta un equilibrio sopra la follia”.

Per finire, due righe di commento al titolo. Credo che “piercing” si dica “piasu”, e che Ryu abbia usato il termine “piasshingu” per indicare una serie di oggetti e di azioni votate al penetrare: il piercing di Chiaki ed il punteruolo di Kawashima.

“Perché quando le persone diventano adulte dimenticano come erano fragili e vulnerabili da bambini?” (26)

Edogawa Ranpo “La belva nell’ombra” Capolavori Giapponesi 3 euro 8,90

[A: 16/02/2023 – I: 21/10/2023 – T: 22/10/2023] - && e ½      

[tit. or.: 陰獣 Injū; ling. or.: giapponese; pagine: 167; anno 1928]

Con questo libro entriamo a pieno titolo nell’ambito della scrittura poliziesca giapponese, dove per l’appunto Ranpo è considerato uno dei maestri nonché (quasi) capostipite del genere. Ma cominciamo con alcuni passi laterali.

Come molti (o quasi tutti) gli scrittori giapponesi, il nostro in realtà si chiama, anagraficamente, Tarō Hirai. Appassionato sin da giovane della scrittura di deduzione, legge e si innamora del grande Edgar Allan Poe, tanto che, quando scrive si sceglie come pseudonimo “Edogawa Ranpo” che in giapponese significa “a spasso lungo il fiume Edo”, ma che letto foneticamente alla giapponese ripropone proprio il nome del suo nume privato.

Secondariamente, è anche uno dei primi giapponesi ad usare una scrittura seriale intorno ad un detective, come fece con il suo Akachi Kogorō. Infine, nella prima storia che gli diede successo, “La moneta da due sen” usa una miscela deduttiva micidiale, mescolando crittografia e scrittura in Braille in modo magistrale.

Sarebbe utile, ma non è qui il momento, entrare anche meglio nella storia di questa letteratura, ma io volentieri riamando al saggio di Maria Teresa Orsi, pubblicato sulla rivista “Il Giappone” nel 1978 e dal titolo “Gli antecedenti del racconto poliziesco in Giappone e l’innesto del mystery occidentale”.

Tornando a Ranpo, nonostante le premesse non ha mai avuto una grande mole di scritti tradotti non tanto in italiano, ma anche in altre lingue occidentali. Anche se, come vediamo in questo scritto, la sua scrittura, pur fortemente legata al mondo giapponese, ha un suo sviluppo comprensibile (anche) al di fuori. Inoltre, e non so se ne avesse già conoscenza al tempo della scrittura, segue abbastanza fedelmente alcuni caposaldi della scrittura codificati nella lista compilata da S. S. Van Dine.

Infatti, vediamo la presenza dei tre elementi fondamentali di una storia: un detective, un colpevole e una vittima. Inoltre, il colpevole non deve essere un criminale professionista e gli elementi fantastici, che spesso sono presenti negli scritti giapponesi, vengono banditi. Non tutto è rispettato, e non vi dico certo dove, ma, fondamentale per la comprensione della storia, alla fine tutto viene spiegato, anche se Ranpo, da fine scrittore, ci mette una bella zeppa finale.

La struttura dell’intrigo è abbastanza semplice: uno scrittore di gialli per casualità viene avvicinato da una bella signora sposata che dopo essere diventati amici, gli sottopone il suo dilemma privato. Lei, Shizuko Oyamada, sposata con il benestante Rokuro Oyamada, da giovane aveva avuto una storia con tal Ichiro Hirata. Dopo che Ichiro l’aveva violata, Shizuko lo lascia e scompare. Ora, dopo circa otto anni, riceve lettere minacciose da Ichiro che non solo l’ha ritrovata, ma è diventato uno scrittore di gialli, con il nome di Oe Shundei (scrittore che il protagonista conosce per averne letto). Sfruttando le sue doti, Oe minaccia di morte Shizuko, e, roso dalla gelosia, anche Rokuro.

Il narrante allora comincia ad indagare all’inizio un po’ per gioco, poi, alla morte di Rokuro, con molta attenzione, anche perché nel frattempo si è anche innamorato di Shizuko. Ci sono tutta una serie di passaggi che portano il nostro verso tre quarti del libro a formulare un ragionamento in base alla quale sostiene che è stato Rokuro a fingersi Oe (anche perché Oe, da misogino, è scomparso e non si fa vedere) per poi morire accidentalmente procurandosi ferite mortali cadendo sui vetri che costellano i muri di cinta delle case giapponesi.

Questi passaggi, che portano il narratore a queste ipotesi, sono costellati da diverse scritture eterogenee: lettere di Oe, appunti del narratore, trascrizioni di una memoria del magistrato inquirente, tutto a dimostrare la bravura di Ranpo (cui concordo).

Ma la scoperta di una discordanza di date, induce il nostro a ripensare le sue conclusioni, ed a poterne trarre di nuove, altrettanto verosimili (o vere, vedete voi). In questo, Ranpo mostra una bravura alla Agatha Christie, dove si declinano le storie in diversi modi, tutti coerenti, prima di arrivare alla soluzione finale.

La bravura di Ranpo è di costruire tutto il testo sull’assenza di Oe, che non compare mai, e che, con un colpo da maestro, l’autore ci fa rimbalzare a noi lettori, proiettandoci al di là della fine del testo. Facendoci balenare il sospetto che questa assenza, spiegata e spiegabile, possa tramutarsi in una presenza. Un finale molto interessante.

Devo qui ringraziare la bella traduzione e le spiegazioni di Graziana Canova, soprattutto sul titolo dove i due ideogrammi si riferiscono a ombra ed animale, quindi ben riportati come “La belva nell’ombra” (come in inglese e meglio del francese “La preda e l’ombra”)

Un elemento che di sicuro mi sarebbe sfuggito se non avessi avuto lo stimolo ad approfondire il personaggio Ranpo e la sua scrittura, è un gioco di rimandi che altri autori, prima e dopo di lui, utilizzano nel testo quasi a fare dell’auto-marketing. Infatti, se come sappiamo i personaggi del libro sono scrittori di gialli, per spiegare alcuni passaggi, Ranpo cita testi dell’uno o dell’altro. Abbiamo così, lungo il percorso del libro, che si citano “Il gioco della soffitta” (rimando a “Il passeggiatore della soffitta” del ’25), “Il paese Panorama” (rimando a “La strana storia dell’isola Panorama” del ’26), “Un uomo, due ruoli” (con lo stesso titolo sempre del ’25) e, molto smaccatamente, “La moneta da un sen” (che è facile collegare al primo testo di Ranpo che lo fece conoscere e che ho citato all’inizio).

Un bravo scrittore furbetto, per questo simpatico, anche se la storia risente dei suoi quasi cento anni.

Un solo appunto finale all’incuria editoriale dell’editore, che, nella terza di copertina, attribuisce a Ranpo l’invenzione del detective Kindaichi Kozuke che invece è un parto di Yokomizo Seishi. Un redattore da licenziare.

Edogawa Ranpo “La strana storia dell’isola Panorama” Capolavori Giapponesi 26 euro 8,90

[A: 13/12/2023 – I: 06/02/2024 – T: 08/02/2024] - &&& --      

[tit. or.: パノラマ島綺譚, Panorama-tō kidan; ling. or.: giapponese; pagine: 186; anno 1926]

Qui siamo due anni prima del precedente, in un mistery che viene ritenuto uno dei caposaldi della scrittura di Ranpo. Rimando ad altre scritture perché si chiami così lo scrittore Taro Hirai, anche se è sempre una bella storia (accenno solo che “Edogawa Ranpo” in fonetica giapponese suona “Edgar Allan Poe”). Ma qui abbiamo un testo complesso per capirne a fondo tutti i risvolti, ma anche lineare se li lasciamo da un lato (perdendo però tutta una serie di passaggi che rendono il testo stesso un punto fermo della letteratura giapponese).

Intanto, debbo rendere subito omaggio all’introduzione di Alberto Zanonato, senza la quale non sarebbero partiti spunti di approfondimento che hanno reso più interessante la fruizione del testo. Oltre alla solita e brava Graziana Canova per la parte bio-bibliografica su Ranpo.

Anzi, vorrei cominciare da uno spunto che mi ha dato Canova quando racconta del testo che diede il via alla fama di Ranpo. Parliamo di “La moneta da due sen”, dove un giovane, decifrando una scrittura trovata nella moneta riesce ad impossessarsi del frutto di una rapina altrui, per poi accorgersi che sono tutti soldi falsi. Il testo poi prosegue in modi che non ci interessa seguire, che qui vedo soltanto come un autore moderno, come Marco Bucci nella sua epopea di Tor Bella, non abbia inventato nulla. Cambiando solo cinesi e giapponesi.

Per venire al romanzo di cui si sta parlando, debbo subito confessare una mia iniziale difficoltà nel comprendere a fondo il titolo ed il suo contesto. Panorama è certo un modo di descrivere quanto il protagonista riesce a edificare nella sua isola utopica, ma detto così sembra poco interessante e calzante. Meglio allora far riferimento al secondo significato usato in giapponese, che, tradotto in italiano, sarebbe “diorama”. Ecco, ora ci siamo, ed anche il testo acquista una sua dimensione specifica.

Il “diorama” indica uno spettacolo (“horama”) in cui si passa attraverso (“dia”) che se viene sostituito da “pan” indica lo spettacolo completo. Ora, etimologicamente nasce in Inghilterra per indicare la pittura circolare inventata dal pittore Robert Barker nel 1787 per far immergere lo spettatore nella complessità di una scena. Da qui, appunto nascono il trompe-l'œil (illusione di guardare tridimensionalmente oggetti bidimensionali) e poi il diorama, una specie di antenato del cinema, dove lo spettatore è inserito in una ricostruzione di una scena (storica, naturalistica, geologica o anche religiosa). Per essere pignoli, come ci dice la Treccani, “il diorama è costituito da teloni trasparenti dipinti disposti verticalmente a diverse distanze e opportunamente illuminati da fonti di luce nascoste allo spettatore. Il termine è usato per estensione a indicare panorami, convenientemente colorati e illuminati, che, osservati con opportune lenti, diano impressioni di realtà, oppure panorami di cui siano esaltati con opportuni artifizi gli effetti prospettici.”

Ed è esattamente questo diorama – panorama – effetto scenico l’elemento cruciale del romanzo. Anche perché, pochi anni prima della scrittura, il primo elemento pre-cinematografico fu installato a Tokyo, nel momento dell’apertura del Giappone verso l’occidente. Ed un secondo, mi piace ricordarlo, fu installato nel mio quartiere preferito, Asakusa. Per Ranpo, oltre ad illustrare l’alterazione del protagonista, serve come elemento altro di paragone. Prima dell’era Meiji (quella che decise l’apertura del Giappone nel 1868) l’ambiente cittadino era chiuso, isolato. Con le aperture, se da un lato ci sono novità nell’acquisizione di conoscenze, dall’altra vengono meno le certezze. Così che Ranpo ha buon modo di utilizzare il suo scritto per rappresentare proprio questo momento di passaggio, laddove il protagonista perde le basi del passato ancestrale e non trova di meglio che rifugiarsi nel sogno di un futuro utopico.

Ultimo elemento da considerare nel gustare il testo è l’isola fulcro del romanzo, che Ranpo ci indica con “Okinoshima”. Ora, senza addentrarmi in elementi che non conosco, da ricerche abbiamo che, ovvio, è una località fittizia, ma come toponimo rappresenta un’isola sacra allo scintoismo, un’isola cui venivano ammessi visitatori un giorno all’anno e rigorosamente solo maschi. E con questo, dopo aver fatto lunghe digressioni, veniamo al testo.

Hitomi Hirosuke è uno scrittore di poca fama e di tanta fantasia, che sogna (e descrive) paesaggi utopici, riproduzioni miniaturizzate della realtà ed altre fantasie megalomani, senza aver modo di realizzare. Finché scopre la morte per epilessia di Komoda Genzaburo, ricchissimo rampollo di una altrettanto ricca famiglia. Era sodali all’università, ed erano talmente somiglianti da essere chiamati i due gemelli. Ecco allora nascere in Hitomi la fantastica utopia: far sparire il corpo di Komoda, e presentarsi come lui, dato che la morte per epilessia può essere scambiata in una catalessi.

Riesce ad inscenare la propria morte, riesce a sostituirsi a Komoda (interessante la modalità di attesa per la sostituzione di persona), ed allora, con le cospicue ricchezze trasforma Okinoshima nell’isola “Panorama” (nel senso discusso prima) dei suoi sogni. Unico neo, la presenza della moglie di Komoda, Chiyoko, l’unica a dubitare della realtà della sostituzione.

Hitomi allora decide di farle vedere l’isola ormai terminata e di ucciderla e seppellirla lì. La parte più intrigante sono i capitoli necessari alla descrizione dell’utopia realizzata da Hitomi. Il piano riesce, ma nel capitolo 24 (in tutto ne sono 25) si palesa Kitami Kogoro, un investigatore privato assoldato dalla famiglia Genzaburo a fronte della scomparsa di Chiyoko. Ed è lui che in poche righe smonta il teorema di Hitomi, anche se sembra restio di consegnare il colpevole alla giustizia. Il finale è tutto da leggere, ed è in linea con la costruzione che per più di centocinquanta pagine ha sorretto lo scritto di Ranpo.

Per avviarci alla conclusione, noto che qui, come in molti altri suoi scritti, il detective, colui che scopre il meccanismo dei crimini perpetrati, in Ranpo si palesa sempre verso la fine. Una precisa scelta stilistica: vuole farci immergere nel mondo della realizzazione “noir”, per poi svelarne i meccanismi esterni solo con un ben orchestrato finale. Finale in cui compare Kitami Kogoro, che per assonanza andrà assimilato al detective che opera in molte opere di Ranpo, e che si chiama Akechi Kogoro. Non so se il cambio di nome sia voluto o una svista, ma il comportamento dei due Kogoro nei libri di Ranpo è assolutamente assimilabile.

Infine, vorrei sottolineare un’assonanza (credo non voluta, ma non sono tanto addentro alle tematiche nipponiche per saperlo) del romanzo con alcuni punti della novella di Pirandello “Il fu Mattia Pascal”: inscenamento della morte, studio della sostituzione, noia (disagio) del mondo presente e tensione verso un futuro diverso. Coincidenza (?) della grande letteratura.

Edogawa Ranpo “La lucertola nera” Corriere Giappone euro 8,90

[A: 29/11/2022 – I: 06/03/2024 – T: 08/03/2024] - &&&       

[tit. or.: 黒蜥蜴, Kuro-tokage; ling. or.: giapponese; pagine: 190; anno 1934]

Con questo terzo titolo entriamo a pieno titolo nel mondo giallo di Ranpo. Le sue costruzioni mutuate dalla sua passione per il giallo occidentale, i rimandi interni ed esterni, il sottile erotismo, un ritmo incalzante, soprattutto per gli standard giapponesi da sempre improntati ad una a volte esasperante lentezza.

Inoltre, è anche uno dei tanti romanzi in cui compare l’investigatore eponimo di Ranpo, Akechi Kogoro. In effetti, il primo in cui il detective assume le sue caratteristiche proprie: astuzia, ironia, capacità deduttive eponime di Sherlock Holmes. Al servizio di una trama complessa, in cui trame e sottotrame si intrecciano fornendo un risultato gradevole. Molto nella prima parte, poco nella parte centrale, per poi risalire nel finale. Con un giudizio complessivo quindi di sufficienza piena, anche se non ai livelli più alti delle mie letture.

C’è molto di Poe, ovvio, che al grande americano spesso e volentieri Ranpo si ispira: la presenza del doppio, la folla che incalza, la presenza di luoghi macabri come l’obitorio, fino ad una citazione piena, seppur velata, di uno dei maggiori testi di Poe “Il cuore rivelatore”.

Ma c’è anche Maurice Leblanc, che l’eroina nera del testo può a lungo essere vista come il contraltare femminile di Arsenio Lupin. Non fino in fondo che ad un certo punto stilemi giapponesi portano la nostra “Lucertola Nera” verso una deriva che è molto lontana dal nostro ladro gentiluomo.

È quindi un esempio tipico della prosa di Ranpo, dove si mescolano gli elementi classici del giallo con la presenza di un’aura di mistero tipicamente giapponese. E dove Ranpo non solo cita sé stesso (una lunga parte sembra riprendere il suo giallo del ’25 “La poltrona umana”) ma aggiunge un elemento quasi da feuilleton ottocentesco francese. Ogni capitolo si chiude con una domanda, la cui risposta avverrà nei capitoli seguenti.

Protagonista del giallo è una misteriosa donna giapponese, la Lucertola Nera appunto, donna bellissima di cui sappiamo solo i dettagli attuali: non conosciamo il suo nome, non sappiamo la sua storia precedente. Sappiamo solo che ha una lucertola nera tatua sul braccio sinistro (da cui il soprannome). È una ladra, ma una ladra che non ha interesse solo al furto, ma alla scommessa di sconfiggere gli altri, di mettersi in gioco. Soprattutto se trova avversari degni di lei. Sappiamo solo che colleziona gioielli, che è a capo di una banda a lei devota, e che ha un suo quartier generale in una discarica nella baia di Tokyo.

È subito nel vivo, prima danzando la “Danza del Gioiello”, completamente nuda ad una festa piena di una folla che la osanna. Poco dopo, salva dalla polizia Junichi, un suo conoscente che ha appena ucciso il suo rivale in amore, usando stratagemmi tipicamente giapponesi, come imperturbabilità e travestimenti. E da travestita la vediamo entrare in un grande albergo, presentandosi come madame Midorikawa, donna bella, interessante e curiosa di tutto.

Qui sta cercando di organizzare il suo prossimo colpo: rubare un diamante, la “Stella d’Egitto”, di proprietà dei ricco Shobei Iwase. Il quale alloggia in quell’albergo insieme alla bellissima figlia Sanae. Vediamo subito che la nostra ladra è interessata a rubare entrambe, il diamante e la ragazza. Anche perché Shobei, che ha ricevuto strane lettere che preannunciano il furto, ha deciso di chiedere aiuto al grande investigatore Kogoro.

Questa in fondo è la sfida che predilige la lucertola. Non il furto, ma la sfida con Kogoro. E da quando anche il nostro entra in scena, si passa di livello. Si entra nel noir di furto, contro furto, fuga e ritorno. Madame Midorikawa sfida Kogoro scommettendo con lui sulla possibilità che Sanae venga rapita. La Lucertola con Junichi travestito sembra riuscire nel rapimento, ma Akechi, non vi dico come, sventa la minaccia, e fugge con lei ad Osaka.

Indispettita, la lucertola organizza altre occasioni di rapimento, riuscendo alla fine a sottrarre Sanae alla guardia di Kogoro. Portandola nel suo covo, dove si salta nel versante meno godibile del romanzo. Lì nella discarica, oltre ai gioielli, lei colleziona “persone” che ritiene belle come gioielli. E che, dopo un certo periodo in cui ne gode la presenza, li uccide e li fa imbalsamare. Destino riservato anche alla bella Sanae.

Ma prima Midorikawa vuole anche i gioielli, e propone uno scambio a Kogoro. Da effettuare su di una torre a Tokyo. Qui vedremo l’astuzia di Kogoro che sventa il furto superando in astuzia la dark lady. Che tuttavia ha ancora Sanae nelle sue mani. Altri inseguimenti, culminanti nel lancio in mare, dentro un divano chiuso, del nostro Kogoro, e nella segregazione nella discarica della ormai terrorizzata Sanae.

Riuscirà Kogoro a sventare il disegno della lucertola, supponendo che non sia morto in mare?

Anch’io termino con una domanda, ma non ho altri capitoli nei quali donarvi la risposta, per la quale vi rimando alla bella lettura del romanzo.

Un romanzo assolutamente ben costruito, con quelle venature occidentali che lo fanno leggere ancor’oggi a novant’anni di distanza. Ma anche con una costruzione tipicamente giapponese, pur se di un Giappone che allora era molto diverso da quello attuale.

Ho apprezzato la maestria di Ranpo, meno i sottofinali che portano allo scioglimento della vicenda, e soprattutto mi è mancata la localizzazione dell’azione che certo si svolge in luoghi a me noti, senza tuttavia quelle descrizioni che me ne avevano fatto apprezzare i romanzi precedenti. Ma è in definitiva un libro che si deve leggere, volendo cercare di comprendere l’evoluzione del giallo del Sol Levante.

Questa volta ho deciso per un contrappasso. Dopo aver parlato di scrittori (maschi) giapponesi autori di noir, mi viene da citarvi una scrittrice turca di noir Esmahan Aykol di cui riporto due frasi dal suo “Hotel Bosforo”:

“La differenza principale tra un uomo rifiutato e una donna rifiutata sta nel fatto che lui non perde tempo e mostra subito il suo vero volto. Lei, invece, reagisce in modo più cauto: magari l’uomo non voleva rifiutarla, magari c’è stato un equivoco… Di conseguenza, le donne passano alla fase della vendetta solo dopo il quarto rifiuto, mentre gli uomini cominciano a fare ritorsioni alle prime difficoltà” (185)

“Sono un esempio vivente del fatto che le persone non cambiano” (251)

Siamo anche ad una Pasqua, bassa come si dice, ed anche piena di piccole e grandi paure. Le congiunture indicate la scorsa settimana sono aumentate ed hanno chiuso fuori dalla porta una visita a New York. Allora, sfruttiamo aprile per rimettere in sesto schiena e umore, così che vi si possa abbracciarvi tutti.

domenica 24 marzo 2024

Selleriana - 24 marzo 2024

Una settimana dedicata tutta all’esimio editore siciliano, con alcuni dei suoi cavalli di battaglia, in un contesto generale di gialli di costume, di ambiente, e con alti e bassi, a volte inaspettati. Come un deludente Rocco Schiavone, compensato da due dignitose prove del BarLume e di Monterossi. Meglio l’interessante Molesini, e soprattutto la sorpresa ambientazione palermitana di Simona Tanzini. Comunque, i libricini blu sono sempre un buon compagno di lettura.

Andrea Molesini “Non si uccide di martedì” Sellerio euro 14 (in realtà, scontato a 4,20 euro)

[A: 01/08/2023 – I: 12/09/2023 – T: 13/09/2023] &&&   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 198; anno: 2023]

Ero indeciso in che categoria inserire l’ultimo romanzo di Andrea Molesini, ed alla fine l’ho collato insieme ad alcuni libri di matrice gialla, ma di un giallo tendente al romanzo con morti ma senza una vera indagine.

Intanto, vediamo come Molesini continui con la sua idea di fondo di ambientare i suoi romanzi nel passato, alla stregua di romanzi storici (per quelli a me noti si va dal 1500 de “Il rogo della Repubblica” al 1917 di “Non tutti i bastardi sono di Vienna” fino alla Resistenza di “Dove un ombra sconsolata mi cerca”). Per poi tirar fuori delle trame che fanno riflettere sulla condizione umana, sulle scelte, sui rapporti. Non senza tocchi di ironia che non guastano mai.

Qui l’azione si intreccia con le vicende tristi dell’Europa del settembre 1938. A Monaco, Francia, Inghilterra e Italia stringono un patto che consente alla Germania di Hitler di annettersi i territori cecoslovacchi. Saranno i primi passi che in pochi mesi porterà alla guerra.

Su questo sfondo, l’azione del libro si svolge tra Venezia e Rodi. Nella città lagunare l’anziana, ricca e anticonformista Mabel, con l’aiuto della sua governante Anita, coinvolge in uno strano patto il rampante avvocato Ridolfi (un patto per il momento ignoto).

L’azione poi si sposta a Rodi dove incontriamo Rita, la nipote di Mabel, ed Enrico, chirurgo in carriera, trastullarsi nel loro viaggio di nozze. Molesini, però, ci fa capire subito che entrambi già sono dubbiosi sulla bontà delle loro scelte. La trama si infittisce in un battibaleno con l’arrivo del generale Costantini. Un losco figuro che porta a Rita la triste notizia della morte di Mabel, giunta alla “buona novella” che Rita è l’erede universale della cospicua fortuna della zia. Notizia che ha però un’amara postilla: poco prima della morte, Mabel aveva sposato il generale, che quindi non può essere escluso dal testamento. Già questo mette in difficoltà i deteriorati rapporti tra i due sposini.

Difficoltà che aumentano con l’arrivo a Rodi anche dell’avvocato Ridolfi, che precisa meglio di cosa tratti l’esecuzione testamentaria. Che se i destinatari del patrimonio di Mabel muoiono, i restanti in vita si dividono l’ammontare. Inoltre, se muoiono tutti, i beni ed i soldi andranno direttamente all’avvocato Ridolfi. Il quale, a questo punto, interviene con delle proposte a volte palesi a volte meno: in cambio di una fetta del patrimonio, Ridolfi sarà garante del patto. E se Rita volesse di più, Ridolfi potrebbe manovrare per eliminare uno dei due uomini in ballo.

A questo punto compare anche un’altra persona, la bella Elena, disinvolta, disinibita, che si pone al centro della scena, attirando con la sua luce le falene maschili. È anche un personaggio poliedrico e non esita a contattare (si dice così?) anche Rita, magari per proporle qualche “patto di fuoco”, sempre al fine di bruciare maschietti in soprannumero.

In un aria che sembrerebbe derivare da “Arsenico e Vecchi Merletti”, dove però nessuno è buono, ma tutti, in vario grado, sono affetti dalla pazzia del dio denaro assistiamo al gioco perverso in cui uno potrebbe vincere da solo tutto il banco. E noi si sospetta che dietro ci possa essere la mano astuta di Mabel, viva o morta che sia, magari per mettere alla prova i propri possibili discendenti. O per altre non note idee.

Fatto sta che, per cause naturali o meno, prima del ritorno a Venezia, muoiono senza essere rimpianti sia il generale che il medico sposino. Una Venezia in cui si ritrovano tutti alla fine e dove assisteremo a finali, sottofinali e conclusioni che permettono di rileggere tutti gli avvenimenti con una nuova chiave di lettura.

La chiosa di Molesini, enunciata più volte durante lo svolgimento della trama, è la domanda musicale: se suonando muore un ricco “zio d’America” che ti nomina suo erede se la suoni, tu la suoni?

Su questo dilemma morale, Molesini ci lascia e noi restiamo a ripensare ai drammi familiari e coniugali che ci hanno accompagnato in queste pagine, al caffè Florian che ci riporta alla mia Venezia d’un tempo, ai tempi cupi che segnarono quegli anni. Ma come non ripensare che ora si torna ancora a vivere tempi che non avremmo più voluto vivere.

Un romanzo non lungo, tra l’altro stampato da Sellerio con i caratteri più grandi del solito (o almeno così mi è apparso), che porta a pensare che prima o poi dovrò leggere anche dei bastardi viennesi.

Marco Malvaldi “La morra cinese” Sellerio s.p. (Regalo di Emilio&Fako)

[A: 12/09/2023 – I: 03/10/2023 – T: 04/10/2023] && e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 258; anno: 2023]

BARLUME09

Eccoci qui, passati solo due anni (tempo record per nuove scritture), che ci apprestiamo a commentare il nono, e per ora ultimo, episodio della serie “Vecchietti del BarLume” (o anche solo “BarLume”). Certo non ha bisogno di presentazioni Malvaldi che, da solo o in combutta con la moglie, produce libri da gradevoli a molto gradevoli. Come non bisognano introduzioni il “barrista” Massimo, i vecchietti del Bar o i comprimari che vi girano intorno.

Solo per dovere di cronaca, visto che due anni fa le vicende di Massimo erano ancora un po’ sospeso, forse passando per qualche racconto, qui ritroviamo Massimo con la sua Alice, vicequestore locale, genitori dell’arrembante Matilde, una che la notte non dorme mai, e che si addormenta solo quando viene lasciata a “babysitteraggio” dai nonni, dove si addormenta dopo il suo “…aaatooo…” (avrete una bella sorpresa nel capire cosa sia e nel sapere che ne prendevo anch’io da super baby). Non solo, anche Tiziana, la socia di Massimo, ha dato alla luce il giocondo Michele, ed il buon Marchino, per darle spazio, si adatta a fare il babbo a tempo pieno.

Fatta la piccola introduzione, e rilevata la sempre gradevole scrittura di Marco, devo dire che il risultato di questa volta è un po’ inferiore alle mie attese. Un po’ per alcuni passaggi della storia, un po’ per alcuni passaggi tra prima e terza persona, tra oggettivo e soggettivo che meriterebbero, magari, più respiro.

Al solito, la vicenda è il generale intreccio tra pubblico e privato, sempre presente negli scritti di Malvaldi. Intanto abbiamo una serie di tiritere tra politica e buoni pensieri, visto che, come molti comuni italiani, anche Pineta ha cambiato colore. Allora, nelle sempre accese discussioni intorno al biliardo mentre i più anziani, Pilade Del Tacca, ex impiegato del comune, e Ampelio, diabetico ex ferroviere padre della giramondo Gigina e nonno di Massimo, si lamentano che a novant’anni sono di nuovo circondati dai fascisti, i più giovani, Gino Rimediotti, ex postino, e Aldo Griffa, gourmet e terzo socio della cooperativa che gestisce il bar, sono più possibilisti, tacciando gli anziani di bollare come fascisti tutti quelli che la pensano diversamente.

Altri sono però i pensieri di Massimo che si vede arrivare un conto iperbolico per il suo dehors. La nuova amministrazione ha rifatto i conti, e decide di far pagare il dovuto a Massimo con gli arretrati. Andando in Comune a protestare, si trova coinvolto, con Alice appena lì arrivata, nelle indagini sulla morte del ventiseienne Stefano Mastromartino, precipitato da una finestra del terzo piano. Il giovane stava redigendo la sua tesi magistrale in filologia spulciano l’archivio cartaceo del decaduto conte Serra Catellani, in particolare relativamente al carteggio privato di Antonio Targioni Tozzetti (su cui torneremo). Inoltre, nei locali al momento della morte erano anche presenti due impiegati del comune: Pasquale, esperto locale e dedito alla produzione clandestina di CD, e Giacomo, capo ufficio stampa, depositario di tutti i segreti del Comune.

Altro elemento di disturbo è la prima decisione della nuova amministrazione (decisione che non può che far aumentare le diatribe interne al Bar). Cioè la vendita di un bene demaniale, il Bosco Torto, ad una ditta che ne vorrebbe realizzare resort turistici. I due “problemi” che si pongono sono la possibile esistenza di usi civici del suddetto Bosco e la possibile presenza di sorgenti termali nascoste.

Il tutto ingarbugliato dal fatto che Mastromartino potrebbe aver trovato nel carteggio sia un documento sugli usi civici, che farebbe deprezzare se non annullare la possibile vendita del Bosco, sia una lettera autografa di Leopardi al sodale Antonio in cui potrebbero comparire versi inediti nonché descrizioni dei luoghi atti a decifrare l’ubicazione delle suddette sorgenti.

Tra un frizzo ed un lazzo, uniti alla risoluzione di un piccolo problema topologico (che mi ha divertito), i vecchietti trovano la soluzione sbagliata che verrà corretta e portata alla giusta conclusione ovviamente dal buon pensatore Massimo, in combutta ovvio con l’ottima Alice.

Veniamo allora anche noi a decifrare i misteri.

Il problema topologico riguarda il cammino da fare per percorrere una matrice 3x3 (tre stanze su tre piani) passando una volta sola davanti ad ogni porta. Per chi sa qualcosa di logica, la soluzione è un cammino di un numero dispari di passi, in contrasto con alcune deduzioni delle telecamere di sorveglianza.

Il secondo riguarda gli usi civici che, ricordo, sono un diritto di godimento collettivo che si concretizza, su beni immobili spettanti ai membri di una comunità relativamente a terreni di proprietà pubblica o di privati. Se ci fossero (e ve lo lascio scoprire) si avrebbe palese il motivo del titolo. L’esistenza di usi civici non permette al Comune di vendere (carta batte sasso). Il Comune comanda sui residenti che ne vogliono usufruire (sasso batte forbici). Infine i residenti governano gli usi civici, essendo un loro diritto inalienabile (forbici battono carta). Risultato: la morra cinese! Un po’ complicato, ma Malvaldi lo è sempre in questi giochetti.

Torniamo infine ai Targioni Tozzetti. Il carteggio custodito dal conte Serra è relativo alle carte di Antonio Targioni Tozzetti, chimico e botanico italiano, nonché autore di studi sulle sorgenti termali toscane. Antonio inoltre è il marito di Francesca, nota come Fanny Targioni Tozzetti, grande passione non corrisposta di Giacomo Leopardi, che ispirarono al sommo un ciclo poetico di cui ricordo un verso “l'infinita vanità del tutto” (un allegrone il nostro Giacomo). Nelle mie memorie storico, lo ricordo in quanto zio di Ottaviano Targioni Tozzetti, autore di una Antologia di Prose e Poesie italiane che mi regalò la mia amata prozia Lisa.

Per finire con un tocco più allegro, riporto un pezzo in cui Massimo cita un fumetto che adoravo in gioventù, quello del “Mago Wiz”, che spero qualcuno di voi ricorderà.

“Rodney: Sire, il popolo ha sete! Brandolph: Sire, i mostri del fossato hanno fame! Sire: Inizio a intravedere una soluzione…! (124)

Antonio Manzini “Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Sud America?” Sellerio euro 10 (in realtà, scontato a 9,50 euro)

[A: 02/11/2023 – I: 03/11/2023 – T: 03/11/2023] & e ½  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 145; anno: 2023]

Un voto sopra lo zero solo perché adoro Rocco e mi piace, in genere, come scrive Manzini. Per il resto un libro praticamente inutile che, spero, serva a chiudere un ciclo.

Tutti noi che dall’inizio seguiamo sia i libri sia le fiction di Rocco Schiavone abbiamo due tarli che ci rodono da tempo: il rapporto tra Rocco e Marina, la moglie morta, con cui continua ad avere rapporti “onirici” ed il legame tra Rocco ed i suoi sodali di gioventù. Questi, come ben sappiamo, quando i ragazzi erano giovani si dedicavano al mondo di mezzo, furtarelli e poco altro. Crescendo, Rocco intraprende la strada della legge (più o meno, direi) mentre gli altri tre, Furio, Brizio e Sebastiano, rimangono dall’altro lato, magari furtarellando, ma senza troppo clamore.

La rottura avviene quando Rocco scopre che Sebastiano faceva parte della banda che alla fine uccide (anche se per sbaglio) Marina. Ovviamente c’è la rottura insanabile, e nelle nove puntate dei romanzi, questa parte sembra abbondantemente conclusa. Seba sparisce, pari in Sud America, Rocco ci mette una croce sopra, mentre Furio e Brizio rimangono ad arrovellarsi. Negli altri romanzi rimane una musica di sottofondo, che sta bene dove sta.

Tuttavia, Manzini non sembra contento, ed allora, sfruttando il successo dell’ultimo romanzo (“ELP” se vi ricordate) sforna a tamburo battente una storia che ha poco senso se non quello di rimpolpare le casse del nostro, e magari quelle di Sellerio. Spero che le continue recensioni poco lusinghiere facciano riflettere il nostro e la sua casa editrice, anche se non credo succederà.

Intanto, non c’è una parvenza, un’ombra di trama gialla e/o poliziesca. È tutta una storia in trasferta che vede i quattro trasteverini all’opera per nascondersi o per cercarsi. Una trasferta sudamericana, le cui uniche cose interessanti sono le descrizioni dei luoghi, e magari dei due lunghi viaggi aerei di andata e ritorno con l’Italia. Trasferta in cui, nonostante ogni tanto sia da solo, Rocco non viene mai visitato dal fantasma di Marina, e questo forse è un punto a favore.

Ricapitolando, Sebastiano, stando ai romanzi precedenti, era in combutta con la banda che trafficava droga, e che, anche se Seba non era stato avvertito, tenta di uccidere Rocco riuscendo solo ad uccidere Marina. Seba fa il pesce in barile, fino a che, grazie anche alla soffiata di Caterina, Rocco conosce tutta la verità, ma l’ex-amico ormai è fuggito in America Latina.

Furio, uno dei più sodali al tempo di Seba, non si rassegna e parte alla ricerca del latitante. Ma dopo tre settimane che non dà notizie, Brizio comincia ad essere insofferente e convince Rocco a prendersi ferie ed intraprendere una ricerca nel continente americano.

Tra soffiate, agguati, riconoscimenti ed altre piccole inutili avventure, Rocco e Brizio prima si aggirano per Buenos Aires, poi hanno il suggerimento di provare in Messico, dove, nella capitale, ritrovano Furio e dove allora, tutti insieme, cercano di capire dove sia Seba, anche in base ad uno strano messaggio da lui lasciato. L’acume di Rocco porta ad individuare un punto in Costarica che dovrebbe essere la nuova base di Sebastiano, e dove tutti e tre si recano. Cosa trovano, cosa fanno e come finisce ve lo lascio leggere se vi va, anche se non penso siano in molti a cercare di uscire indenni dalle quasi 150 pagine.

Veniamo allora ai dolori. Che, il titolo è un evidente omaggio al film di Scola con Sordi e Manfredi. Laddove l’America del Sud era un Africa (un po’ da cartolina) e dove il film ricalcava un libro ed un fumetto assai noti. Il libro, ovvio, è “Cuore di tenebra” di Conrad con Sordi/Rocco nella parte di Marlow e Manfredi/Sebastiano nella parte di Kurtz. Ma questo è già un innalzare il livello letterario del tutto, che forse si farebbe meglio a ritornare alle basi, a quell’ottimo fumetto della scuola Disney disegnato per l’edizione italiana da Romano Scarpa. Mi riferisco a “Topolino e il Pippotarzan” del ’57.

Nel fumetto c’è Pippo che convince Topolino a recarsi in Africa alla ricerca di Pappo, un fratello di Pippo scomparso da una ventina d’anni. Nella lunga ricerca vengono ostacolati ed osteggiati da Gambadilegno, l’ovvio cattivo di turno. Alla fine ritrovano Pappo, che, come Manfredi, decide di rimanere lì dove sta trascorrendo i suoi anni migliori.

Caro Manzini, scopiazzature a parte, e con un finale che a volte è simile ed altre diverso da questi descritti, neanche i piccoli ricordi di gioventù dei nostri trasteverini riescono a sollevare il tono e la riuscita del libro. Forse valeva la pena meditare un po’ di più e produrre una confezione migliore.

Simona Tanzini “Conosci l’estate?” Sellerio euro 14

[A: 26/08/2020 – I: 16/02/2024 – T: 17/02/2024] &&& e ½  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 270; anno: 2020]

Buona la prima, come si dice sul set. Un romanzo interessante che scivola via abbastanza facilmente, dove capiamo che la scrittrice è anche una che sa come usare la penna e le parole, essendo di base una giornalista. Inoltre, avendoci vissuto quattro anni, conosce bene anche Palermo, riuscendo ad intercalare nella trama una serie di considerazioni artistiche e sociologiche che ho letto con gusto.

Infatti, da romana trapiantata riesce a vedere Palermo con l’occhio distaccato di una forestiera, facendoci godere delle bellezze della città. Sia nelle sue passeggiate, sia nelle sue rimembranze sui punti topici della città. Non conosco tanto a fondo la città sicula, ma non posso che trovarmi in accordo completo quando si parla dei punti che rimangono nel cuore. La Palermo arabo-normanna della Cattedrale, la chiesa della Martorano, i mercati, dove anch’io preferisco Ballarò alla Vucciria, e poi la Kalsa, che mi ha sempre affascinato. Mi dispiace solo che non parli della mia chiesa del cuore, Santa Maria della Catena, che lì nei pressi della Cala, si erge solitaria e di un raccoglimento che mi ha sempre commosso.

Si parla anche del mare di Palermo, che è tale solo a Mondello e non in città. Come delle differenze tra le due Sicilie: quella occidentale di Palermo e Trapani e quella orientale di Messina, Catania e Siracusa. Due mondi distinti, a volte quasi contrapposti, che solo i nordici possono assimilare in tutt’uno, come fa uno dei personaggi minori del romanzo.

L’altro punto cardine della storia di Viola, la protagonista, sono i suoi problemi di salute. Da un lato, quello serio, una malattia degenerativa per cui le riesce difficile camminare, dove deve pensare quando affronta una strada, passo dopo passo. Ma una malattia cui non vuole soccombere, per cui, benché sia da undici mesi a Palermo, non ne parla con nessuno, continuando a cercare di avere una vita normale per una quarantenne normalmente ben in arnese, con una discreta casa allietata da un gatto super-poltrone.

L’altra peculiarità è la sinestesia di cui Viola si accorge ad un certo punto. Un fenomeno percettivo dove il percepire di uno stimolo (come, ad esempio, il suono) provoca una reazione netta di un altro senso (ad esempio la vista). Per cui Viola associa la musica ad una serie di colori. Non solo, allargando il campo Viola vede anche le persone “colorate”, così la sua amica Clara è verde ed uno dei protagonisti, Zefir, è carta da zucchero. Un’associazione che avrà un senso nella risoluzione del giallo, anche se solo per Viola.

Perché, benché sia in ferie, durante questi primi dieci giorni di un agosto flagellato dallo scirocco, la nostra simpatica giornalista viene coinvolta, prima marginalmente, poi più a fondo, in un caso poliziesco. Viene uccisa una ragazza, Romina, che negli ultimi tempi si accompagnava con un cantante locale di fama, lo Zefir di cui sopra. Cantante che Viola ha conosciuto in quanto il suo vicino di pianerottolo è proprio Gaetano, il fratello maggiore di Zefir.

Anche se tutti gli indizi portano verso Zefir, Viola non ne è persuasa (il colore carta da zucchero è troppo tenue per un assassino). A maggior ragione quando vede la madre di Romina, che più che la madre sembra la sorella maggiore. Ed ancor di più quando la coinquilina di Romina, che sa che la ragazza frequentava un altro uomo, viene anch’essa uccisa.

Mentre proseguono le indagini, così, vediamo ballare intorno al caso, i giornalisti colleghi di Viola, come il capocronista dello spettacolo Iosif, il conduttore rampante, il torinese Roberto, Paola, la capocronaca color cremisi. Ma anche Gaetano, e Santo, coetaneo di Gaetano ed ex-capo di Viola, così come la madre di Romina, di cui si è detto. Tutta gente che, a suo tempo, gravitava nell’area intellettuale della città, tra gli studenti che occuparono l’Università nel ’77 (i primi in Italia) ed i redattori vari che all’epoca lavoravano alla redazione di “Palermo Sera” (un giornale fittizio a metà tra il “Giornale di Sicilia” e “L’Ora”, due testate storiche palermitane).

Ovvio che al tempo molti destini si intrecciano, come spesso accadeva. Con tracce che mai si perdono nel tempo. E con una fotografia dell’epoca, che lei vede seppia ma che Santo sostiene invece essere in bianco e nero, dove si vedono abbracciati Gaetano e la madre di Romina, con sullo sfondo un’altra persona che li guarda. La verità arriverà indipendentemente da Viola, ma Viola l’avrà capita in anticipo guardando e ragionando sulla foto.

Ora, l’intreccio giallo è molto tenue, in realtà, tanto che, fotografia a parte, fin dal secondo giorno avevo individuato l’unica possibile soluzione. Ma non è il giallo in sé che ci tiene legati alla pagina, quanto i personaggi, il loro intreccio con la città nonché la città stessa. E non ci dispiacerebbe sapere che Viola sarà protagonista di altre scritture.

Alessandro Robecchi “Pesci piccoli” Sellerio euro 16 (in realtà, scontato a 15,20 euro)

[A: 05/02/2024 – I: 17/02/2024 – T: 19/02/2024] && e ½  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 436; anno: 2024]

Appena uscito e subito letto, nella sezione “gialli novità”, una delle diverse sezioni della mia biblioteca. Una gradevole e piacevole lettura che tuttavia conferma la tendenza poco esaltante delle ultime avventure di Carlo Monterossi. Probabilmente anche influenzato dalla realizzazione della serie televisiva, tanto che, anche nello scritto, sembra assomigliare sempre più a Fabrizio Bentivoglio, piuttosto che il contrario.

Robecchi mantiene alcune costanti delle sue scritture, cercando di inserire piccole variazioni, che tuttavia, almeno in questo libro, non hanno l’effetto sperato.

Come tutti quelli che seguono i suoi scritti, sappiamo che il personaggio principale è Carlo Monterossi, ideatore di programmi tv, ed in particolare del talk show “Crazy Love”, programma dalla lacrima facile condotto da Flora De Pisis (un clone della De Filippi, o una sua caricatura…). Nel clan del programma, c’è la bella signorina Bianca che fino a questo episodio è stato l’amore più o meno segreto di Carlo.

Dati i successi ottenuti come investigatori negli episodi precedenti, Carlo ha messo in piedi una agenzia investigativa, la Sistemi Integrati (S.I.), insieme al suo amico di sempre, Oscar Falcone, ed all’ex-poliziotta Agatina Cirrielli. Sul versante investigativo, poi, nel corpo centrale delle indagini, sono presenti i due poliziotti “veri”, Ghezzi e Carella, quasi fossero una riedizione in salsa milanese di Abbott e Costello (spero bene che sappiate chi siano…).

Ora, su questa base, nella parte televisiva, Flora convince la rete ad occuparsi di una sorta di miracolo (un crocifisso che si illumina senza particolari motivi e senza interventi umani) nella cappella fuori meno gestita dall’ex prete, don Vincenzo, in quel di Zelo Surrigone. Che, se non conoscete il milanese, ve lo dico io che sta nella periferia di Abbiategrasso (a 30 km. dal centro di Milano).

Il secondo filone è innescato da un furto di materiale compromettente (soldi in contanti, progetti di un ponte nel Ghana, nonché una misteriosa chiavetta USB) avvenuta negli uffici della IGO (Italiana Grandi Opere). Un manager, un po’ losco fin dall’inizio, incarica la S.I. di indagare, ma intanto noi già sappiamo che il ladro un po’ maldestro ha lasciato la refurtiva in un sottoscala, dove è stato trovato da Teresa, una quarantenne dai molti lavori per sbarcare il lunario, tra cui quello di donna della pulizia ad ore presso la IGO.

Tutto sembra procedere sui binari rituali: Carlo fa sopralluoghi a Zelo senza cavar ragni dal buco, non trovando di meglio che rintanarsi spesso nel suo mega appartamento a Porta Venezia, bevendo whisky giapponese ed ascoltando il suo immancabile Bob Dylan. La S.I. indaga in molte direzioni, soprattutto presso l’impresa di pulizie e la ditta di sorveglianza, senza fare neanche mezzo passo avanti. E noi, in parallelo, seguiamo le vicissitudini di Teresa, molto morali, quando trova 65.000 euro in contanti e quando il poliziotto della sorveglianza la convince ad imbastire un ricatto con la IGO, in specie dopo aver visto i video un po’ scabrosetti della chiavetta USB.

La svolta, che probabilmente avrà un seguito in futuro, è quando Carlo, che pedinava Teresa per capire se fosse coinvolta, accidentalmente la salva da uno scippo, e da lì comincia una strana frequentazione tra i due. Forse come dice Bianca (che si sta allontanando) risvegliando il lato Robin Hood di Carlo. Avendo Teresa dalla loro parte i S.I. mettono i giusti puntini su tutta la vicenda del furto, mentre Carlo riesce anche a dare una svolta a “Crazy Love” salvandolo da una situazione complicata, avendo lui facilmente scoperto gli estremi di una truffa.

In tutto ciò, come due personaggi fuori fase, si muovono Ghezzi e Carella, risolvendo una dozzina di piccoli casi di ordinaria malavita di basso rango, i famosi pesci piccoli del titolo. Ma rimangono un corpo estraneo, che in un paio di occasioni poteva intersecare la trama principale, ma che Robecchi decide di mantenere divergenti. Ad esempio, quando mettono sotto tiro l’ex-marito di Teresa per piccole truffe, ma non collegano lui a Teresa. Oppure quando organizzano una retata in grande stile in un luogo che poteva essere lo stesso supermercato dove si svolge l’atto finale dell’indagine IGO. Ma anche qui, l’autore non affonda i colpi, ed i due filoni non si incrociano, e non si capisce perché li abbia messi insieme. Un piccolo affondo morale? Qualche idea sulla giustizia e sul suo rapporto con le leggi? Magari in controluce con gli avvenimenti “grandi” di Monterossi e dei suoi? O del solo Carlo verso la televisione spazzatura?

Insomma, un romanzo con molte possibilità che non vengono sfruttate, lasciandomi la sensazione che i passaggi televisivi hanno indebolito la fantasia dell’autore. Rimane un libro gradevole, da cui spero di più.

Ultima osservazione, un bel refuso a pagina 268, dove uno stesso personaggio viene chiamato prima Caiani e poi Caimi. Un po’ di attenzione in più non guastava.

Siamo in una trama italiana, ed allora ricordo parole di un altro autore che ho seguito molto, anche se meno nelle ultime prove. Ed anche se è legato a Feltrinelli e non a Sellerio. Mi vengono alla penna alcune frasi di Erri De Luca tratte da “Una nuvola come tappeto”:

“Un sogno che non si interpreta è come una lettera non letta” (47)

“Come il martello frantuma la roccia in una moltitudine di frammenti, così un solo passo della Scrittura ha molti significati (Talmud)” (78)

“Per il tempo che le parole sono nella tua bocca sei il loro signore; una volta pronunciate, sei il loro schiavo” (109)

Per il resto, che dire, sono tronato ed ormai è quasi nel libro dei ricordi, da una potente settimana nordica, e pensavo di riprendere presto il volo, ma piccole congiunture fan sì che si dovrà aspettare. Così ci godremo, sperando, una rilassante Pasqua campagnola, al fine poi di riprendere a camminare per paesi nuovi e volare, sempre. Allora eccovi un grande abbraccio.