domenica 22 febbraio 2015

Febbraio nero - 22 febbraio 2015

E sarebbe ancor più nero se non ci fosse, almeno, un ottimo Lucarelli d’annata ad illuminare queste trame, ed un Milani sempre all’altezza che, pur invischiato in un finale che avrei visto diverso, ha sempre facilità di scrittura e di lettura. Nero invece sarebbe se dovessimo solo guardare ai libri di Leoni (di cui si è letto di meglio) o di Sarasso (di cui non si leggerà altro).
Giulio Leoni “La crociata delle tenebre” Repubblica – Noir euro 7,90
[A: 15/07/2013– I: 20/07/2014 – T: 24/07/2014] - & e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 393; anno 2007]
Poco meno di un mese è passato dalla lettura del precedente “Noir nella storia”, un decente giallo storico francese. Ora, passando ad un autore di cui avevo letto altre prove, mi aspettavo qualcosa in più. Invece, siamo scesi in una specie di “Fossa delle Marianne” del piacere di leggere. Leoni ebbe una quindicina di anni fa l’idea di riprendere quanto altri fecero e fanno con personaggi famosi, mettendoli in situazioni “altre” da quelle cui sono noti. E decise, da buon letterato, di utilizzare Dante Alighieri ed un’ambientazione trecentesca per questi suoi mistery. Otto anni fa, all’inizio di queste trame, ne lessi due, che commentai telegraficamente così: “L’idea sembrava promettente, ma le trame sono flebili e, volendo toccare tutto, fa enormi guazzabugli.” Certo le prime trame non andavano molto per le lunghe, volendo fissare ricordi istantanei. Ora, essendo uscito il quarto ed ultimo volume (noto) della serie dantesca, pur con dei tempi biblici, ne ho affrontato la lettura. E ribadisco e rafforzo i giudizi di allora. L’idea di mettere il buon Dante, nel mezzo dell’esercizio della sua vita pubblica, in situazioni “gialle” sarebbe quanto meno da prendere come divertente. Peccato che qui, la parte noir sia talmente strampalata da risultare improbabile ed improponibile. Leoni si salva certo in alcuni punti, perché conosce molto bene sia Dante sia Virgilio sia gli scenari del Trecento a cavallo dell’Anno Santo. Scenari che, per sommi capi, conosciamo anche noi. Così non ci meravigliamo di vedere Dante come ambasciatore di Firenze alla corte di Bonifacio VIII (fatto storico), di vedere in Roma le lotte tra Caetani e Colonna (idem) compresa la presenza di Giacomo “Sciarra” Colonna, quello dello schiaffo di Anagni (idem), di sentire da lontano i brontolii di Filippo il bello verso i Templari (idem), di farci giungere le notizie di lotte e di cambiamenti sempre in quel di Firenze tra Bianchi e Neri (ari-idem). Ed anche fatto storico accertato è il permanere di Dante più del previsto in Roma, trattenuto ora da questo ora da quel motivo, tanto che, visti i capovolgimenti avvenuti nel frattempo in Firenze, lui stesso sarà bandito ed esule errerà per l’italico suolo, consolandosi nel comporre la sua magistrale Commedia. Dove ad esempio metterà il papa che tanto ha osteggiato all’Inferno benché il prelato d’Anagni non sia ancora morto. Ma non si può, pena di rasentare il ridicolo, terminare quasi 400 pagine di “dantologia”, con la seguente frase: “ripeté, alzando gli occhi alle stelle.” Ma ci si prende in giro? Quanto si cade in basso da ”e quindi uscimmo a riveder le stelle”, da “puro e disposto a salire alle stelle”, per arrivare a “l’amor che move il sole e l’altre stelle.” Detto quindi delle brame letterarie del nostro scrittore, veniamo ora alla risibile storia “noir”. Che quando Dante arriva in quel di Roma (dove devo ribadire la capacità, unica forse, di ricostruire alcuni elementi della topografia cittadina veramente notevoli, soprattutto nella zona che meglio conosco, intorno a Castel Sant’Angelo) vengono ripescate dal Tevere diverse donne “eviscerate”. Ma sono prostitute, e nessuno se ne cura. Solo Dante, pur preso dalle beghe politiche, si arrovella ogni tanto su questo problema. Intanto viene preso sotto la protezione di un senatore romano, tal Saturnino Spada (inventato) che non solo gli regala una copia autografa dell’Eneide (falso), ma lo coinvolge nell’idea di una nuova crociata per liberare Gerusalemme. Crociata ovviamente falsa (perché sarebbe stata la decima, mentre nove furono le missioni in Terra Santa), e di copertura di una folle idea, nella quale lo Spada coinvolge la bella figlia Fiamma (che tenta di sedurre Dante), lo Sciarra Colonna di cui sopra, un legato veneziano Martino Canal da Vinegia (reale), il capo della comunità ebraica di Roma Manoello Giudeo (nome volgarizzato di Immanuel Romano, reale poeta ebraico vissuto a Roma nel periodo) ed un persiano zoroastriano cabalista, tal Kansbar. L’idea folle di Spada, cui non si sa quanto gli altri assecondino fino in fondo, è di riportare in Roma il culto di Iside. Una volta scoperta questa “bubbola”, tutto ne scende di conseguenza: gli eviscerati sono ovviamente tentativi di ripercorrere l’antico rito della mummificazione egiziana. La rivolta degli improbabili finisce nel novembre del 1301 durante una delle solite esondazioni del Tevere. Il tutto senza coinvolgerci minimamente né nella parte gialla (troppo campata per aria e trattata in margine) né nella parte storica (troppo travisata in maniera “goliardica” per approntare quella fantomatica crociata). Insomma, ne parlai male allora, ne leggo perché parte di una collana per altri versi meritoria (ed alla fine se ne tirerà le somme), ma ribadisco il mio totale disappunto verso questo inutile libro.
Carlo Lucarelli “L’ispettore Coliandro” Corriere della Sera 17 euro 6,90
[A: 14/03/2014 – I: 31/08/2014 – T: 03/09/2014] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 323; anno 2009]
Un libro che in realtà è una trilogia, ma che va letto come se fossero 2 capitoli e ½ dello stesso romanzo. Un libro di un autore di cui, dai primi scritti del 1990, ho molto, anche se non tutto. Che molto mi piacque e seguì nel suo primo decennio di attività, e che poi continua ad orecchiare, anche se non con la stessa intensità. Infine, una collana, quella del Giallo Italiano del Corriere che, dopo le prime sedici uscite con molto Scerbanenco, propone un’altra dozzina di romanzi, a partire da questo di Lucarelli. Ho inoltre indicato come data di uscita quella dei tre capitoli, come li chiamo io, in un’unica confezione, mentre singolarmente abbiamo il racconto “Nikita” del 1991, il primo romanzo “Falange armata” del 1993 ed il capitolo finale “Il giorno del lupo” del 1994. Li avevo già nella mia libreria, e li avevo già letti quasi venti anni fa. Ora, tuttavia, ho trovato il gusto di rileggerli, sia per vederne il tempo passato, sia, appunto, per gustarli in una soluzione unica. Ma prima parliamo dell’autore, quando, ancora non travolto, benignamente e con merito, dai fasti televisivi dei misteri notturni ed altre sue meritevoli trasmissioni, andava presentando il libro “Autosole” appena pubblicato. Era il 2 luglio del 1998, e si stava alla fiera dei libri in Trastevere. Alla fine della divertente serata, mi autografò il libro, ma mentre mi allontanavo, mi accorsi che aveva scritto come data 1 luglio. Tornai indietro, e, una volta andati quasi tutti i presenti, rimasi con lui e discettammo a lungo su quel lapsus. Più che altro per inventare una trama, dove un misterioso assassino usava proprio il trucco della data per costruirsi un alibi. Un esercizio intellettuale, che non portò mai a nessun racconto (che io sappia), ma ad una buona birra in Piazza S. Egidio. Veniamo allora a questi tre capitoli, dove come avrete capito ho una gradita condiscendenza verso l’autore degli anni Novanta. Come spiega nella prefazione postuma, cioè scritta per l’uscita nel 2009, Lucarelli voleva mettere all’opera un poliziotto contemporaneo, dopo aver esordito con l’ispettore De Luca che agiva nei primi anni dell’ultima guerra. Lo voleva inserito nella sua Bologna, ma, volendo usare dei registri un po’ forti, lo stava pensando “machista e razzista”. Cioè l’esatto contrario dei suoi credo. Ma anche più sfortunato che ottuso. Ora, un simile perdente poteva nascere sbilenco se non avesse trovato un contraltare allo sviluppo della storia. Per questo inserisce Simona detta Nikita, punk, dark, psycho, insomma tutto il contrario di Coliandro. Ed è sempre grazie alle intuizioni ed alle conoscenze di Nikita che Coliandro risolve o fa risolvere i casi che affronta. Il primo racconto serve come ad introdurre l’ambiente. Conosciamo Coliandro, Nikita e le anime vaganti nella notte bolognese (quelle che torneranno in “Almost Blue” tanto per intenderci). Coliandro, da sempre emarginato perché da buon razzista ed infatuato di Clint Eastwood, prende a pugni un arrestato prima di farlo parlare, si immischia in situazioni che non gli sono proprie. Cercando di farsi valere come “ispettore Callaghan”, fa solo in modo di mandare a monte un’operazione dei carabinieri. Ma conosce Nikita, e tra i due nasce uno strano sodalizio (opposti che si incontrano). E sarà Nikita a dargli una dritta che risolve un problema di piccoli hacker da strapazzo. Ovviamente il questore la prende a male, e nel romanzo lo trasferisce all’ufficio passaporti. “Falange armata” nasce sull’onda delle prime vicende della Uno bianca, e termina prima che la vicenda reale sia conclusa. Ma serve a Lucarelli per tracciare uno schizzo degli ambienti neonazisti bolognesi. Benché ai passaporti, si aggira sempre per mettersi nei guai, cercando di trovare bandoli di matasse nere tra naziskin ed altre frange eversive. Peccato che, appunto come si scoprirà, ci sono poliziotti in mezzo al casino. Tuttavia, per muoversi negli ambienti “out” non trova di meglio che rivolgersi a Nikita, coinvolgendola in una serie di inseguimenti, botte, uccisioni ed altri momenti difficili. Mentre tutti cercano una pista che non c’è, Coliandro e Nikita si mettono sulle piste di uno skinhead ucciso dopo essere stato fermato. E dopo di lui, tutti quelli che ne sono venuti a contatto fanno una brutta fine. Cosa che sta per fare anche Coliandro, salvato ovviamente da Nikita (con la quale passerà l’unica notte d’amore di tutto il libro). Il caso si risolve, ma Coliandro è sempre più considerato ottuso ed inaffidabile, tanto che dai Passaporti lo passano allo Spaccio. Dove farà casini amministrativi inenarrabili (tipo ordinare 1.500 inutili vasetti di yogurt ai mirtilli), ma dove Nikita lo coinvolge perché ora facendo il Pony Express si ritrova tra le mani una busta con 200 milioni di lire (siamo nel ’94, ve l’ho detto, no?). Ovviamente sono soldi rubati da una cosca mafiosa, che scatenano una guerra tra bande con morti ed altro. E con un coinvolgimento di qualche magistrato compiacente. Altrettanto ovviamente, quando deve scegliere tra due magistrati, Coliandro opta per quello sbagliato, coinvolgendo anche qui Nikita in vicende che li porteranno sull’orlo della rovina. Fortunatamente, i mafiosi decidono che la guerra va contro i loro interessi, e fanno in modo di fermare il tutto, poco prima che Coliandro e Nikita potessero finire uccisi. Finiscono così le avventure dei nostri, con Nikita che si allontana da lui, perché incompatibili, anche se un filo di sensazioni positive scorre fra i due. Purtroppo, Lucarelli non ha trovato altre storie che potessero adattarsi al nostro Coliandro, così che lo lasciamo, sempre macho, sempre razzista, spostato dallo spaccio alle autopattuglie (ma in veste di meccanico…). Lucarelli ha in queste storie un bel piglio ironico che era una delle caratteristiche che più mi erano piaciute all’epoca. E tra un motto e l’altro, riesce a mettere in luce fasti e nefasti della Bologna degli anni ’90, utilizzando quelle modalità che un grande scrittore svizzero, anche se poco noto, Friedrich Glauser disse per la narrativa gialla: “Un ottimo mezzo per dire cose sensate”. Finisco con due note di opposta tendenza. La prima, piacevole, quando Coliandro confessa di odiare il calcio e di preferire la Formula 1 e le corse automobilistica. E vai! La seconda, una tirata d’orecchi ai curatori, che intitolano il libro “L’ispettore Coliandro”, quando per tutte e 323 le pagine Coliandro è solo un sovraintendente, e solo nell’ultima pagina abbiamo il piacere di vedere la cerimonia per la sua promozione ad Ispettore (!). Ma ci fosse una volta che qualcuno ne fa una giusta. Meglio la trasposizione a fumetti, che, molto sagacemente, si chiama solo “Coliandro”.
Simone Sarasso “Il paese che amo” Corriere della Sera 26 euro 6,90
[A: 10/05/2014 – I: 03/09/2014 – T: 07/09/2014] - &
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 555; anno 2013]
Uno dei più mi verrebbe da dire brutti, ma forse non è il termine giusto. Insomma, uno dei libri peggio riusciti che abbia letto negli ultimi anni. E non per la scrittura, nel senso che Sarasso sa scrivere, sa intrecciare parole ed immagini, tanto che si riescono a leggere le più di cinquecento pagine senza troppi sforzi. Ma non è un libro riuscito. Innanzi tutto, non è un “giallo” come la collocazione nella collana del Corriere farebbe credere. Sarasso, con scansione annuale dei capitoli, ripercorre, con piccole trasfigurazioni, la storia italiana dal 1980 al 1994. E lo fa minuziosamente, seguendo il filo di tutte le “disavventure” che quei 14 anni hanno portato al paese che amiamo. Si parte appena dopo la strage di Bologna e si arriva alla discesa in campo del fortunatamente ormai ex-cavaliere. E cosa c’è di giallo in tutto ciò? Dove sta il romanzesco? L’unica cosa che l’autore fa è cambiare i nomi, anche se nella excutatio non petita della postfazione tiene a sottolineare che Tito Cobra non è Bettino Craxi, che Ljuba Marekowna non è Ilona Staller, che l’Omino non è Andreotti, che Mauro Fedele non è l’innominato, che Mimmo Incatenato non è Antonio Di Pietro, che lo Zio non è Tito Riina, che Carlo Ciaccia non è Giovanni Falcone. E via con tutta una sfilza di NON. E l’unica invenzione che si permette è di mescolare un po’ le carte, di non far saltare in aria Borsellino, di far rifugiare Craxi in Libano invece che in Tunisia, ed altre piccole amenità. Ma fatto salvo questo intento di piccoli travisamenti, quasi a voler dire: “Ho fatto un’opera di fiction, perché ho cambiato delle carte”, l’unica cosa che il nostro ha fatto è stata di scrivere la Storia, quella con la “S” maiuscola del nostro paese, potendo permettersi, con quelle piccole varianti, di affondare il coltello senza tema di essere accusato di diffamazione. Così Andreotti è colluso con la Mafia, così Craxi fa leggi ad hoc per favorire l’Innominato, e quando Craxi fugge, questi scende in campo. Così i Servizi Segreti sono dietro tutte le stragi, sono dietro la vicenda della Uno Bianca. Così il KGB è dietro l’attentato al Papa. E via elencando tutto quello che è, o è stato. È un prodotto di fiction, quindi non c’è l’obbligo della prova. E pur tuttavia io mi domando: ma chi te l’ha fatto fare? Perché darsi la briga di scrivere tutte queste pagine per raccontarci: che Cosa Nostra porta i soldi in Sicilia dove è più facile impiantare raffinerie di eroina, che i Servizi Segreti (italiani, polacchi, russi, americani) sono sempre al servizio del potere, o del denaro, e che per potere e denaro sono intervenuti (ed intervengono) in tutte le vicende di questo nostro pazzo mondo. Che Craxi, pardon Cobra, è un socialista truffaldino, che intasca miliardi alla faccia del Partito e dell’Italia. Che Andreotti, pardon l’Omino, è dietro a tutte le manovre losche dal 1945 in poi. Che no questo non lo dico, pardon Mauro Fedeli, prima finanzia Craxi, poi ne è finanziato, e poi corrompe quanto rimane del paese che dovremmo amare. I magistrati che non riescono ad indagare perché depistati. L’avvento del Computer che permette di concatenare flussi monetari e che porterà alla scoperta della prima Tangentopoli. L’avvento di Ilona Staller, pardon Ljuba, in fuga dai paesi dell’Est, poi puttana, poi escort, poi pornostar, poi deputato. I mafiosi siciliani che sparacchiano a destra e a manca. E che faranno saltare in aria Falcone. Le infiltrazioni nella Guardia di Finanza per favorire i corrieri della droga. Ma soprattutto, tutto il marcio che non si riesce ad estirpare dal Parlamento, con quella cancrena che, iniziata nella metà degli anni Ottanta, ancora non si riesce a debellare. E forse non ci si riuscirà mai. C’era bisogno di un prodotto di fiction per dire tutto questo? Ed anche altro, che tutti hanno ben presente cosa sia successo in quei 15 anni. C’era bisogno di fare finta? No! Ed alla fine tutto questo travisamento, questo mascheramento del nostro autore cosa ci porta? A dire che qualcuno ha rovinato e sta rovinando il nostro paese? Ben lo sappiamo, e con ben altra forza che un miserrimo finto romanzo poliziesco ci può restituire. Se con Glauser avevamo sottolineato l’utilità del giallo per narrare la realtà, qui narriamo la realtà facendo finta che sia un romanzo. Ma non lo è. È un’operazione inutile. È un libro inutile. È un libro da indicare a dito su come non si debbano scrivere né i romanzi polizieschi né i saggi sulla realtà. L’ho letto io per voi. Voi evitatelo, se potete. Un ultimo appunto di metodo: l’autore ci dice che Ljuba, in Polonia, si abbuffava di “insalata russa”, ma in Polonia questa si chiamava (e si chiama) insalata Olivier o insalata imperiale. Attenzione anche ai particolari, please!
Mino Milani “Tradimenti” Corriere della Sera 24 euro 6,90
[A: 26/04/2014 – I: 18/09/2014 – T: 20/09/2014] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 197; anno 2000]
Peccato che un finale non all’altezza porti il libro nelle secche della media valutazione. Aveva invece iniziato alla grande, e stava veleggiando discretamente alto. D’altra parte lo scrittore non è certo un pivello alle prime armi, anzi è un noto autore di penna. Noto forse molto a me per le sue sceneggiature di novelle a fumetti (quelle che ora si chiamano con un termine inglese “graphic novel”). E ne ricordo le trame per alcuni racconti di Hugo Pratt, di Sergio Toppi e di Dino Battaglia. Insomma, un grande. Che qui comincia con una bella atmosfera di tensione. Tra Hitchcock e “Frantic”. Alberto torna da un viaggio di lavoro in America, va nella casa in campagna e trova un morto nel letto. Un morto di infarto, ma la casa è aperta come se il morto ne avesse accesso. Facciamo nel frattempo conoscenza con Ambra, la moglie di Alberto. E con il nostro che si fa domande su domande. Come ha fatto ad entrare? Chi è? Perché? Dopo una trentina di pagine di suspense mentale (forse un po’ troppe) un accidente fa scoprire nuove carte. Viene arrestato un giovane alla guida di un SUV rubato. Ed il SUV è di un tale Tedeschi, guarda caso il morto. Persona anonima che pare faccia il commerciante o il rappresentante di qualcosa. Separato da una moglie che, guarda caso, abita poco distante dalla casa della morte. A parte le angosce, conosciamo anche l’amico d’infanzia di Alberto, l’avvocato Marco, una che pensa solo ai soldi, ma che, ad ogni richiesta di Alberto è pronto alla bisogna. Si parla molto in questa fase, ma anche qui forse c’era bisogno di un po’ più di ritmo. Ritmo che si trova di colpo quando Ambra muore investita da un pirata della strada. Peccato che perda anche la borsa, dove potevamo trovare degli indizi. Perché Alberto viene contattato da un’agenzia di viaggi per il pagamento del biglietto di Ambra. Che non era per Parigi, come si pensava, ma di sola andata per la Giamaica. E dal costo di svariati milioni. Alberto entra nel pallone. Chiede aiuto a Marco che trova traccia dei soldi di Ambra. Un conto corrente in Svizzera con più di un miliardo, intestato anche a Rosa, la moglie del morto. Inoltre, in una pozza, viene ritrovata una chiave della casa della morte che non si sapeva l’esistenza. Alberto si precipita da Rosa, ma la trova morta con la casa saltata in aria per una fuga di gas. Alberto continua a fare la figura del pesce in barile (come Harrison Ford, ricordate), ma di un barile che non capisce e non conosce il senso. Con l’aiuto degli investigatori di Marco, mette su qualche altro brandello. E, girando e tormentandosi, tira fuori la sua storia. Ambra ha un’attività losca, in combutta con il Tedeschi e la di lui moglie. Dati i frequenti viaggi di Alberto, ed una sua pretesa conoscenza del mondo antiquario (cosa anch’essa dimostratasi fallace) Ambra si sposta a suo piacimento, si incontra per i suoi traffici con il morto d’infarto. E cosa di meglio della casa in campagna, isolata e poco frequentata? Nell’ultimo incontro però Tedeschi ha realmente un infarto. Ambra spaventata fugge dalla casa, getta la chiave nel pozzo, avverte Rosa e tenta di ricucire le fila dell’inghippo. Ma qualcosa è andato storto, i procacciatori d’affari loschi (e non sappiamo quali siano) nella cui rete sono invischiati Ambra, Rosa ed il Tedeschi sembrano ben lontani dall’aver esaurito i loro compiti. Tant’è che Marco convince Alberto a defilarsi. E mentre Alberto sta lì che pensa e ripensa, su come abbia passato dieci anni accanto ad una persona che si rivela diversa da come gli era sembrata, arriva l’ultima ferale notizia. Marco muore in un incidente d’auto. Alberto, e noi con lui, cominciamo a pensare che ci sia qualche legame losco in più. Purtroppo a questo punto Milani taglia i fili, Alberto va dai carabinieri per denunciare tutti i suoi sospetti, ed il libro finisce così. Per questo prende qualcosa in meno. Un giallo che aveva una sua tensione, un suo andamento, non può rimanere irrisolto. In cosa trafficava Ambra? Droga o spionaggio? Rimane il dubbio, ed un libro che ti lascia dubbioso non ha raggiunto la sua meta. Un omaggio sempre e comunque a Milani ed ai cartoonist con cui ha collaborato. Ma speravo in un finale migliore.
Beh, anche se non completamente, almeno ci si prova a riprendere una strada che si percorre con gioia, anche se mai con facilità. Intanto, ritorna l’allegato di “Curarsi con i libri”, sperando che anche a voi qualcuno dei 10 libri citati serva a curare la depressione (e sono pronto a regalarli tutti ai miei depressi dintorni).
Infine riprendiamo anche a mettere a posto questo e quello, dopo che (pare) si sia in uscita da un brutto periodo (odontoiatrico).

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

Mi sembra una coincidenza di cui tenere conto, il fatto che le alchimie delle letture portano le mie libropeute ad occuparsi di depressione.

DEPRESSIONE, I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER TIRARSI SU

Jorge Amado                    Dona Flor e i suoi due mariti                       
Jurek Becker                    Jakob il bugiardo                                      
Andrea Camilleri                Il birraio di Preston                                   
Gianni Celati                     Le avventure di Guizzardi                           
Patrick Dennis                   Zia Mame                                                
Fannie Flagg                     Pomodori verdi fritti al caffè di Whistle Stop  
Carlo Lucentini e Franco Fruttero La donna della domenica                     
Nick Hornby                      Febbre a 90°                                           
Stendhal                          La certosa di Parma                                  
Winifred Watson                Un giorno di gloria per Miss Pettigrew           

Bugiardino

Di questi dieci libri, debbo dire che l’unico che non è ancora transitato per la mia libreria è quello di Jurek Becker. Perché Camilleri, Hornby e Watson li ho letti da poco e sotto ne vedete le trame. Amado, Celati, Flagg e i due torinesi fanno parte delle letture storiche fatte lo scorso secolo. E dove debbo die che “La donna della domenica” l’ho anche riletto per il piacere della trama, che i pomodori non li ho mangiati, ma ne ho visto (e gustato) il bel film che ne fu ratto, che Amado l’ho letto ma non sempre l’ho amato (ah, ah) e Celati l’ho letto con gli occhi ma non credo di averlo capito. Infine, “Zia Mame” è negli scaffali in attesa di essere letta, e “La certosa di Parma” c’è l’ho in formato eBook, e chissà se lo leggerò. Ma veniamo alle letture “recenti”.
Andrea Camilleri “Il birraio di Preston” Sellerio euro 8
[trama del 20 giugno 2010]
Finalmente sono riuscito a leggere il libro che ha dato il via alla saga di Camilleri, non nel senso di Montalbano, ma nel senso della Sicilia in generale e di Vigata in particolare. Piacevole e pieno di spunti, anche se mi ha fatto arrabbiare trovarmi scippato di un’altra idea mia (dopo quella rubatami da Diego Da Silva sui testi delle canzoni degli anni settanta), quella di utilizzare brani di altri libri come commento ai capitoli, per mescolare il tutto (e rendere un sano omaggio a Calvino). Qui si usano gli incipit di vari autori per principiare i capitoli che puntellano la saga del teatro vigatese. In un gioco tutto di equivoci e scambi vari. Strano poi avere questa sensazione di libro datato (in fondo è uscito una ventina d’anni fa) ma fuori dal tempo. Uno dei migliori esempi della verve di Camilleri. Storie che si intrecciano (gli amanti per una notte, il poliziotto cortese, il mazziniano romano fuori di testa, il prefetto piemontese forte della sua autorità, il mafiosetto locale, ed il grande capomafia, non a caso chiamato l’onorevole) intorno al nodo principale: l’inaugurazione del nuovo teatro di Vigata dove il prefetto vuole a tutti i costi far rappresentare un’opera risibile, quel “‘Birraio di Preston” di Luigi Ricci, realmente rappresentato al Teatro della Pergola in Firenze nel 1847 (e di cui il libretto d’opera esiste ed è conservato nella Biblioteca Nazionale Australiana!!!), pensando di averlo visto con la sua futura sposa (ma si sbagliava, era il Boccherini). E da questo scambio, e dalla pervicacia ed arroganza del potere, nascono tutti gli altri scambi, di persone, di amanti, di situazioni. La cifra è allegra, la lingua di base il dialetto vigatese, con inserti piemontesi (il prefetto), toscani (la prefettessa) e romani (il mazziniano). Peccato che alla fine dei giochi tutto vada un po’ male, e non c’è nessuno che ne esca non dico felice, ma neanche allegro. Questo sembra poi il messaggio finale di Camilleri, dove i soldi ed il potere mettono le mani non può che finire sempre e comunque male. Una lettura di testa e non di cuore, ma comunque letto con gusto.
Nick Hornby “Febbre a 90’” Guanda euro 7,50
[trama del 06 maggio 2012]
Mi è discretamente piaciuto, anche se sono contento di averlo letto ora e non allora, quando Nick lo scrisse una ventina di anni fa, e che vidi alla metà degli anni Novanta. Perché in realtà non è un romanzo (ed io avevo appena letto “Alta fedeltà” che ho trovato stupendo). Non è una cronaca sportiva. Non è un’autobiografia. È un ibrido, in effetti. Contiene un po’ di tutto, anche se il filo conduttore è comunque il pallone. Il calcio. La nascita di una passione. I guasti che ne derivano a chi ne rimane “addicted”. L’autore, ormai trentacinquenne, sta cercando di praticare la sua autentica passione, quella di scrivere. Ma, come tutti gli aspiranti scrittori, dovrà passare sotto mille forche caudine di illusioni e delusioni prima di riuscire a trovare una sua via per vivere con quello che ama fare. Ha già fatto tanti mestieri (insegnante, impiegato, giornalista) e nell’attesa di sfondare, decide di buttare su carta quello che conosce meglio. Quello che lo accompagna ormai da venti anni: il calcio e la passione per la squadra della Londra del Nord, l’Arsenal. Ne esce fuori questo ibrido, che, seppur maggiormente dedicato al calcio, nel filo dei ricordi, partita dopo partita, ricostruisce da un lato la biografia di Nick (il rapporto con il padre, soprattutto quando questi divorzia e va a vivere con un’altra donna, dalla quale avrà altri figli, il rapporto con il fratellastro, le tante storie di lavori iniziati e lasciati, le tante storie di donne, prese e da cui veniva lasciato) e dall’altro la biografia mentale di una persona cui il calcio entra nel sangue e cerca di convivere con questo demone. Difficile, a volte, per chi non mastica di calcio, districarsi tra le partite di campionato inglese, di coppa, partite internazionali e partite della nazionale. Ma se si finge di capire queste parti, e ci si lascia cullare dagli interventi “sociali” di Nick, si riesce ad entrare in alcune possibili discussioni che prescindono dallo specifico arsenaliano, in particolare sulla violenza negli stadi (e qui l’autore fa delle interessanti digressioni sia sull’Heysel che su Hillsbrough) e sulla psicologia del tifoso (non dell’hooligan, ma del tifoso appassionato di calcio, anche sciovinista se vogliamo, ma non violento). Mentre sulla prima lascio la parola all’autore (“non ci sono rimedi e costrizioni, ma solo possibilità di cambiamento della mentalità”), la seconda mi ha intrigato. Perché, se estrapoliamo dal contesto calcistico, è anche un po’ la metafora di chi lega se stesso ad avvenimenti esterni, di chi (anche se non segue dal vivo) vede una vittoria della propria squadra come un segnale positivo per la propria vita o una sconfitta (di una squadra, di una macchina, di un tennista, di uno sciatore, a seconda delle proprie passioni) come un monito che anche qualcosa d’altro andrà male. Ed è interessante seguire il percorso che ci fa fare Hornby, cominciando dalle prime partite cui lo porta il padre divorziando. Partite che diventano l’elemento che lo accomuna a qualcosa che sta perdendo. Per poi diventare un feticcio (se non vado, la mia squadra perde; se vado, anche se perde, posso sfogarmi con i miei amici a me sodali). Ed alfine una malattia, un elemento cui ruotano pomeriggi o sere importanti della propria vita. Ne riconosco i sintomi, quelli che vidi negli anni sessanta, quando fui costretto dalla cerchia familiare a trovare qualcosa da tifare (tutti seguivano il calcio, ed io dovevo omologarmi). Per poi, con il senno della maturità, allontanarsene in modo critico (mentre padri, madri e cugini continuavano ad accapigliarsi). Con l’orecchio sentire gente parlare ore ed ore di quello che avrebbe fatto l’allenatore, il portiere, o altro legato alle partite. E non capire come si possa buttare tanta parte della propria vita in simili “palliativi”. Per poi alla fine riconoscere che, se la tua squadra (di calcio, di bridge) vince, sei comunque più contento ed affronti meglio il futuro. Mi accorgo di aver parlato poco del libro in se, ma forse non c’è molto da dire. Meglio averne discusso sugli stimoli che propone. Un solo accenno: mi ha fatto piacere ricordare nelle sue pagine la figura di un bravo calciatore come fu Liam Brady. Alla fine, non è il miglior Hornby che conosco, ma un bel prodotto, degno di aprire una bella discussione su tifosi e sportivi.
“Gli ossessionati [del calcio] … devono mentire. Se dicessimo sempre la verità, non riusciremmo a mantenere rapporti con chi vive nel mondo reale.” (8)
“Una volta credevo … che crescere e diventare adulti fossero due cose analoghe. … Adesso penso che diventare adulti sia una cosa dominata dalla volontà, che si possa scegliere di diventare adulti.” (97)
Winifred Watson “Un giorno di gloria per Miss Pettigrew” BEAT euro 9
[trama del 31 agosto 2014]
Un piccolo gioiellino di quasi ottanta anni, poco noto (a me) così come lo era l’autrice. Ma che esemplifica in letteratura quello che al cinema in quegli anni veniva indicato come “il tocco di Lubitsch”. Un sottile mix di umorismo ed erotismo (anche se mai esplicito e mai volgare). Un romanzo che ci fa vivere con Miss Pettigrew le 24 ore fondamentali della sua vita, e che io mi svolgevo in testa appunto come un film in bianco e nero degli Anni Trenta. Ovviamente con Katherine Hepburn nel ruolo di Miss Pettigrew, che incontriamo la mattina alle 9, dimessa nel suo cappotto marrone, cercare un lavoro in una tipica agenzia di collocamento americana, e da questa mandata a casa di Miss Delysia LaFosse (nome d’arte tipico per una soubrette londinese dell’epoca). Qui comincia la commedia degli equivoci che ci segue per tutto il romanzo. Miss LaFosse (interpretata da Jeanette MacDonald, visto che deve anche cantare) è una finta svampita, che però non sa resistere al fascino maschile. Ed è sballottata tra tanti amori “da un giorno” (cose che scandalizza la nostra, che ben presto confessa anche di chiamarsi Ginevra). Ginevra riesce a buttar fuori casa con uno stratagemma l’inconcludente Phil, dato che sta arrivando chi mette i suoi soldi per mantenere la bella al suo tenore di vita. Ecco Nick (un ottimo Clark Gable), rude, ma di un fascino intenso, tanto che Delysia cade sempre ai suoi piedi a bocca aperta. Ginevra però si accorge del pericolo insito in lui, e riesce a posporre le sue attenzioni di almeno un giorno. Ginevra si muove con quel suo tocco di perbenismo ma anche con quel pizzico di follia che le viene dal contatto con un mondo che aveva visto solo al cinema o letto in qualche romanzo d’appendice. Ma la sua capacità camaleontica di appropriarsi di questi personaggi la fa comportare come se avesse sempre vissuto “nel bel mondo”. Facciamo quindi la conoscenza con Michael (un giovane Gary Cooper) indeciso fra la rudezza e la gentilezza. Michael ama Delysia, ma non ha il fascino di Nick. E la soubrette, ogni volta che vede Nick, cade in deliquio. Arriva anche Edythe Dubarry (particina disegnata apposta per Lucille Ball), l’estetista, che ha litigato con Tony (una caratterizzazione di David Niven)  e non sa come fare la pace. Ormai Ginevra viene presa nel vortice degli avvenimenti. Edythe le trasforma il volto, Delysia le presta un vestito di seta, e tutte si recano al Pavone in Rosso, il locale dove la soubrette canta. E dove si ritrovano tutti. Aiutata da qualche bicchiere di sherry, Ginevra impartisce una lezione di bon ton al malcapitato Tony, in uno scambio di battute “da film”, alla fine del quale lo riappacifica con Edythe. Al tavolo dei nostri gaudenti, si presenta anche il maturo Joe (Spencer Tracy al meglio), venditore di corsetti per donne, arricchitosi con le vendite, e che prova a spendere tra i fumi del lusso gli anni prima di un inevitabile declino fisico. Nel bel mezzo delle schermaglie, arriva anche Nick, e Delysia sta per cadere ai suoi piedi, come tutte le volte che lo vede. Fortunatamente, Ginevra sobilla Michael che lo prende a pugni. Momento epico: se Nick reagisce, Miss LaFosse sarà perduta e tornerà con lui. Ma Nick è un neo-ricco e non vuol perdere la faccia in un locale in cui è ben noto. Se ne va. A questo punto tutti si danno “alla macchia”. Tony ed Edythe spariscono subito, che il loro momento di gloria è passato. Anche Delysia e Michael se ne vanno, così che Ginevra si trova nel taxi con Joe. Dove finalmente riesce a confessare la sua giornata “misplaced”. In un film moderno, Ginevra tornerebbe nell’angolo da dove è partita. Ma siamo nelle commedie sofisticate, nel tripudio dei telefoni rosa. Joe riaccompagna Ginevra da Delysia. Qui la nostra trova i due piccioncini che tubano, confessa anche a loro la sua mistificazione, ma i nostri ormai le vogliono talmente bene che le propongono di diventare la governante della loro futura casa, ora che si sposeranno. Ginevra è già in Paradiso, ma forse salirà anche più in alto che Joe le sta per telefonare e … Sipario. Ovviamente il romanzo non fu trasportato sullo schermo, e le parti sono una mia invenzione (anche se plausibile). Rimane la scrittura della Watson, fresca ed accattivante. Il suo prendere in giro il perbenismo londinese, inventando situazioni nuove ad ogni volgere di ora. Tanto che arriviamo alle 3 di notte senza accorgercene. Certo, molte situazioni sono datate e/o tendono a ripetersi. Penso che molto sia anche dovuto al fatto che in questo romanzo siano espressioni poi diventate celebri in altri film. Una specie di capostipite. Con la nostra scrittrice che, poco dopo, si sposa e smette di scrivere. Lasciandoci questo piccolo gioiello che mi ha consolato dei miei dolori epicondiliaci.

Conclusioni


Parlando solo di quelli citati, mentre Camilleri e Watson ben rispondono agli stimoli anti-depressivi proposti, ritengo che il libro di Hornby possa essere utile solo in cure contro la depressione di tipo omeopatico (cioè, provate a far leggere un libro sul calcio a chi di calcio non si interessa e vedrete che in depressione in vece di uscirne ci entrerà). Ed anche per gli altri, si va oscillando. I pomodori e la donna della domenica sono in linea con l’assunto, Celati è in linea con Hornby. Insomma, una cura da prendere con le molle, come da non sottovalutare che si sente (ed è) realmente depresso/a.

domenica 15 febbraio 2015

Ritorna l’avventura - 15 febbraio 2015

E già, dopo i viaggi, non resta che l’avventura sulla carta. In questi due mesi asiatici io ed i miei compagni di viaggio, di avventure ne abbiamo trascorse. Ora torno ai libri, e ad uno dei maestri di questa scrittura. Benché anche lui ormai stia invecchiando e mostrando la corda. Tant’è vero che il giudizio complessivo su questi quattro libri è, anche se di poco, sotto la media. E ben lontano dai fasti dei primi episodi di Dirk Pitt!
Clive Cussler & Grant Blackwood “L’oro di Sparta” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 19/05/2013 – I: 21/06/2014 – T: 25/06/2014] - && e ½  
[tit. or.: Spartan Gold; ling. or.: inglese; pagine: 406; anno 2009]
Ecco un nuovo spin-off della mega produzione del “maestro dell’avventura” Clive Cussler, che ci dà agio di parlare di un diverso metodo di cercare successi (o best-seller) sulla scia di long seller story. Cussler inizia nel 1973 la sua fortunata serie di avventure con protagonista uno scanzonato “James Bond” (inteso come fascino non come spia) dei mari. E su quello, crea un impero di storie avventurose (vi posso dire che siamo arrivati a 22 libri della serie maggiore e 20 delle due serie minori che ad un certo punto affiancano e cavalcano il successo). Ora, la diversificazione, l’introduzione di nuovi spunti è necessaria per non perire. Quindi Cussler prova con Isaac Bell, un avventuriero di cui costruisce un primo episodio “prova” e visto il successo ne continua la scrittura. Avendo poi alle spalle una fucina di scrittura (l’ormai più che ottantenne scrittore si fa affiancare dal figlio e da altri utilizzatori di penna), qui prova una strada diversa, anche se simile ad una precedente. L’idea sarebbe prendere qualche personaggio delle serie maggiori e farne il perno per una nuova serie. Tuttavia, togliere i coniugi Trout dai “Numa files” farebbe squilibrare troppo quei romanzi. Allora si crea una coppia, clone dei Trout, gli si cambia nome facendoli diventare i coniugi Fargo (Sam e Remi) e vai con la catena di montaggio. E si affida subito una parte di co-sceneggiatore ad uno scrittore di fama locale negli scritti su battaglie navali. A questo punto si può partire, ma la resa finale è, pur se dignitosa, decisamente inferiore agli altri standard della ditta “Cussler”. C’è molta carne messa al fuoco, ma ad un certo punto si va molto veloci, facendo risolvere piccoli misteri (pur utili all’impianto generale) senza troppo spiegarli. Ed anche le scene avventurose (lotte dei buoni vs. cattivi, ed altri momenti topici dell’avventura) non sono gestite con mano sicura. Come detto, l’impianto ricalca i classici “Cussler”: prologo che viene dal passato, piccolo mistero che si tende a scoprire nel finale, un cattivo che fa leva su quel mistero per propri tornaconti personali, ed i buoni, appunto i coniugi Fargo, lancia in resta a sbaragliare il campo, senza neanche metterci troppa passione, quasi fossero troppo superiori ai nemici. Non manca il solito cammeo dell’autore, che compare (alla Hitchcock) come proprietario di un cottage sull’isola che vede le scene centrali della lotta tra i Fargo ed i cattivi. Nel prologo Napoleone, durante la traversata delle Alpi, scopre una caverna con misteriose statue. Il cattivo è un ex-soldato poi mafioso ucraino, di stanza a Sebastopoli, ma di ascendenza persiana (come molta Crimea), che cerca di svelare il mistero napoleonico, solo perché dietro ce n’è un altro. I Fargo incappano nell’avventura scoprendo uno strano mini-sommergibile nazista verso la foce di un fiume nel Maryland. Nel sommergibile c’è una bottiglia che, decifrato il codice inscritto nell’etichetta, la fa risalire alle 12 bottiglie superstiti del vino vendemmiato da Napoleone. Si parte allora alla ricerca delle altre, andando su e giù per il mondo. Dal Maryland ci si sposta nelle Bahamas alla ricerca del secondo sommergibile e della seconda bottiglia, che però viene loro sottratta dal cattivo ucraino. Allora ci si sposta in Europa: prima nel Principato di Monaco dove è presente una discendente del sodale di Napoleone. Poi si va all’Elba alla ricerca di una tomba che contiene un libro con il codice da decrittare. Quindi, audacemente, i Fargo fanno incursione a Sebastopoli, nella villa del cattivo, per rubare la suddetta bottiglia. Con l’aiuto del loro piccolo ufficio rimasto negli States (e con i soldi, anche, della ricca monegasca), alla fine ricostruiscono tutto il percorso. Bondaruk, il cattivo ucraino, non era interessato alle bottiglie, ma al fatto che queste contenevano una mappa a ritroso per trovare il famoso tesoro nascosto nelle Alpi. Un tesoro che sfugge all’esercito di Serse invasore della Grecia per mezzo di un manipolo di spartani che lo porta in salvo da Delfi prima in Croazia e poi nelle Alpi. Ma questo si scopre velocemente nelle pagine finali (e finalmente da un senso al titolo sull’oro spartano). Vi lascio immaginare le scaramucce che si hanno per tutte e 400 le pagine del libro. Non sono molto efficaci (lontane miglia da Paul Kemprecos dei primi “Numa files”). Come molto veloce è la soluzione delle varie crittografie. Soluzioni che ci vengono spesso date, ma gli autori non fanno partecipe il lettore del modo di risolverli. Nella battaglia finale, i Fargo hanno ovviamente la meglio, Bondaruk muore, e si vedrà come restituire i reperti archeologici a chi di dovere. Prometteva di più nella prima parte. Poi si corre troppo, ed i coniugi Fargo fanno troppo la figura di deus ex-machina, troppo super-eroi. Speriamo migliori, che ovviamente, visto il tutto Cussler della mia libreria, ho già investito nelle successive uscite. Dimenticavo alla fine di fare una tirata d’orecchi o a Seba Pezzani per la traduzione o all’editor della TEA. A pagina 307, siamo su di un battello che naviga in Baviera, ed il capitano afferma “Sulla destra, vedete Echowand, che in inglese significa il ‘Muro dell’Eco’”. Ora. Poiché siamo in un paese di lingua germanica, in quella lingua Echowand significa esattamente Muro dell’Eco. Non certo in inglese, dove tutt’al più si dirà Echowall. Qualcuno ha fatto confusione!
“Per Sam la storia era sempre stata un insieme di racconti di persone reali che facevano cose reali.” (37)
Clive Cussler & Jack Du Brul “Oceani in fiamme” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 12/03/2014 – I: 26/07/2014 – T: 30/07/2014] - && e ½  
[tit. or.: The Silent Sea; ling. or.: inglese; pagine: 362; anno 2010]
Questa è la settima avventura dei così chiamati “Oregon files”, cioè le avventure del capitano Juan Cabrillo e della sua società “para-militare” usata spesso dai Servizi Segreti per avventure un po’ fuori regola. Ma prima di entrare nella trama vera e propria (che questa volta è molto lineare ed in un certo senso semplice), vorrei fare tre commenti “esterni” alla trama pur se inerenti al libro. E questa volta, il libro vince 2 a 1 su di me (per questo ne parlo subito). Il primo riguarda una citazione latina, tratta dall’Eneide, che avevo sempre pensato fosse “Audaces fortuna iuvat”, invece l’emistichio virgiliano corretto (e che nel libro è così correttamente riportato) è “Audientes fortuna iuvat (timidosque repellit)”. Il secondo punto è una frase che pensavo fosse refuso di stampa (non conoscendo io i termini marinari) e che recita “non c’era un comento dell’opera morta che il vento potesse sfruttare”. Ed è esatto, in quanto l’opera morta è la parte di nave sopra la linea di galleggiamento e comento è l’interstizio tra due tavole del fasciame. Quindi la nave era ben gommata in coperta. Il punto mio riguarda la poco dignitosa traduzione del titolo. È vero che si tratta di una serie dove si sta spesso in mare, ma gli oceani in fiamme riportati dal titolo italiano non sono praticamente mai presenti, se non per lo scoppio di una città petrolifera antartica che avviene nelle ultime trenta pagine del libro. Invece il titolo inglese si riferisce al nome di una barca cinese (la “Silent Sea” in inglese e in italiano nel testo tradotta come “Mare Silente”) facente parte della flotta del grande Ammiraglio Zheng He che nei primi trenta anni del 1400 navigò per i mari asiatici tra l’Africa e l’Indonesia. L’ipotesi (non verificata) è che questa barca si sia staccata dal corpo della flotta ed abbia toccato le coste argentine, per poi essere abbandonata in quanto affetta da un male misterioso. E che sia poi approdata in Antartide. Tutto questo sproloquio (oltre alla tirata d’orecchie ai traduttori) serve a far capire quanto invece il titolo originale sia funzionale alla storia. Perché tracce misteriose del passaggio cinese vengono trovate da una famiglia americana nello Stato di Washington, indicando appunto che la nave venne abbandonata verso il Polo Sud. I cinque fratelli che fanno la scoperta muoiono negli anni (per incidenti, per la guerra mondiale visto che l’azione comincia nel 1941, per la caduta con un dirigibile al confine tra Argentina e Paraguay), ma l’eco della scoperta rimane. Ed è il motivo per cui i cinesi ne tentano il ritrovamento (in modo da poter rivendicare il possesso dell’Antartide) alleandosi con i militari argentini, appena questi compiono un ennesimo colpo di stato. In tutto ciò, Cabrillo ed i suoi, vengono prima mandati alla ricerca di un satellite abbattuto in Argentina (dove i nostri hanno i primi scontri con i cattivi militari sudamericani). Insieme al satellite recuperato, Cabrillo trova il diario dei fratelli di cui sopra con l’indicazione del sito del tesoro, che Cabrillo recupera. E vi trova una placca dorata scritta in cinese, che lo fa mettere in contatto con la bella Tamara, studiosa dell’epopea di Zheng He. Ma Tamara viene rapita dagli argentini che stanno seguendo la stessa pista. Mentre Cabrillo stravolge la città di Buenos Aires per salvare Tamara (con un inseguimento di macchine all’interno del cimitero della Recoleta tutto da gustare, per azione e follia), il resto della squadra è inviato a vedere cosa è successo ad una base americana in Antartide. Dove uno dei componenti ha trovato la barca, si è inavvertitamente infettato con un osso dei morti, che erano morti per un avvelenamento da mucca pazza (e si sa che i prioni sono resistenti per secoli), ed ha sterminato tutta la base. Base che è guarda caso vicino ad un nascosto insediamento argentino, dove i sudamericani, aiutati dai cinesi di cui sopra, sta estraendo fraudolentemente il petrolio dal fondo marino. Gli USA non possono intervenire pena catastrofi internazionali (i cinesi avvertono che al minimo segno di ostilità chiederanno il rimborso del debito americano, che provocherebbe il collasso economico degli USA), ed allora ci pensa Cabrillo. Dopo aver liberato Tamara, si precipitano tutti in Antartide, tramite ingegnose follie marine (la parte migliore dell’avventura) metteranno in ginocchio gli argentini distruggendo la base. Inoltre polverizzeranno la “Mare Silente” di modo che anche i cinesi non avranno modo di avanzar pretese. Nella baraonda finale, però, Cabrillo non torna alla base. Sarà rimasto ucciso? Si sarà salvato? Cosa succederà degli Oregon? Con queste domande lasciamo il libro e l’avventura, ringraziando la premiata ditta Cussler per alcune rilassanti serate di lettura. Alla fine, oltre al romanzo in sé, vanno sottolineate due prese di posizione interessanti: quella sull’avanzamento del potere economico cinese ma soprattutto quella contro i militari argentini che ricalcano molto nei loro atteggiamenti gli squadroni della morte dei tempi bui di Videla e compagnia. Una presa di posizione forte, che ci trova concordi, ma che ci ha stupito ritrovare in un prodotto generalmente d’evasione. Si sa che Cussler e compagni sono sensibili alle tematiche ecologiche ed ambientali, qui si va un pochino oltre. E non ce ne dispiace. Tuttavia, e per finire, il prodotto finale è comunque leggerino e d’evasione, senza quei colpi di scena e quelle trovate che ci aspettiamo dal creatore della leggenda di Dirk Pitt.
Clive Cussler & Grant Blackwood “L’impero perduto” TEA euro 9,90
[A: 24/06/2014 – I: 30/09/2014 – T: 03/10/2014] - && e ½
[tit. or.: Lost Empire; ling. or.: inglese; pagine: 407; anno 2010]
Seconda avventura dei coniugi Fargo, quelli di cui ho sopra narrato il modo di “nascere” come spin-off di altre serie. Dopo il buon successo della prima uscita, quindi, la premiata ditta Cussler cerca con questa seconda di dare un “carattere” alla serie. Qui mi sembra allora che si punti su “genesi storiche non documentate” dove l’avventura è un contorno, non la pietanza principale. Tutto poi con un po’ di approssimazione che lascia dei buchi qua e là su cui torneremo. L’avventura, la lotta tra il bene ed il male, è qui ristretta alla lotta dei nostri due campioni, Sam e Remi, contro una banda di messicani, che ogni volta si presentano sì guidate dal cattivo Rivera, ma mai in più di due o tre. Cosa che dà modo ai nostri di avere (quasi) sempre la meglio. I Fargo trovano una campana di una nave in un’immersione a Zanzibar. Rivera, capo della banda che fa capo al politico mexica (pronunciato mescica) Garza, tenta a più ripresa il furto, facendo nascere i sospetti che dietro ci sia qualche storia. Con l’aiuto della squadra californiana guidata da Selma, i nostri decifrano la campana, trovano un museo marino di un poco noto W. L. Blaylock con i resti di documenti che, attraverso vari passaggi, li portano in Inghilterra, da una discendente dell’amante del tipo, ed alle lettere che si scambiavano. Blaylock, marinaio e matematico (avrà conosciuto il mitico Serafini?), usava codici derivati dalla serie di Fibonacci (ve la risparmio, per chi non la conosce). I nostri quindi ne seguono le tracce in Madagascar, poi attraverso un bastone cavo con i resti di un codice cinquecentesco (detto Codice Ortizaga) capiscono i nessi tra Rivera, il Messico e Blaylock. Le tracce, sempre con Rivera al seguito, li portano per lo scontro finale in Indonesia, dove, tra i ricordi delle eruzioni del vulcano Krakatoa del 1883 e un placido aggirarsi per le isole Sulewanesi, si arriva a trovare il bandolo finale del matassone (anche qui ci si ritorna). Ed allo scontro finale con Rivera e i suoi. Che non possono che avere la peggio, il capo morendo affogato in una miniera di sale (e non deve essere piacevole, visto che era anche ferito, ah ah ah). Ma appunto l’avventura è un contorno, ed anche lo scontro finale (e le altre scaramucce) non hanno il peso e lo spessore di altri scritti della premiata Ditta. Questo è uno dei buchi cui accennavo sopra. L’altro è il prologo che, solitamente, serve a Cussler per introdurre un mistero che viene da lontano per invadere il presente. Ma la lotta a Southampton per impedire (senza successo) la partenza di una nave si perde nel racconto senza che se abbia uno scioglimento palese, come in genere appunto meriterebbe un prologo degno di questo nome. Altre cose, en passant, come direbbero gli scacchisti, tipo la passione di Blaylock per la matematica che viene accennata, poi, dieci pagine dopo, data come dato di fatto. Il passaggio tra airone, falchi e “maleo” con una mescolanza di uccelli degna di una voliera di classe. Comunque complimenti per aver scovato il maleo (nome ufficiale “macrocefalo maleo”) un uccello endemico appunto di Sulewanesi. Ma, facendo qualche passo di lato, qual è allora il punto di forza del libro, per cui almeno qualche libricino di bontà l’ha pure avuto? Sta, per l’appunto, in quell’accenno iniziale sulla connotazione che sta prendendo questa sotto-serie. Qui ci si interroga sul mistero della comparsa in Messico degli Aztechi. Si sa che costoro, internamenti chiamatisi mexica, derivano il loro nome dalla classificazione del grande Humboldt, che, prendendo la radice di provenienza da Aztlan, il luogo mitico di nascita. Li chiamo “la gente di Aztlan”, che in lingua nahuatl si dice Azteca. Ed etimologicamente, dall’unione di “aztatl (airone) e “tlan” (posto). Detto che un uccello è sempre stato il simbolo delle popolazioni meso-americane, si ipotizza che il mitico “quetzal” possa essere una delle tante trasfigurazioni di uccelli legate a diverse leggende. Che, di favola in favola, ci fanno risalire al maleo di cui sopra. Insomma, la follia storica che abbiamo dietro al libro (anche se c’è un minimo percento di studiosi disposti a darvi credito) nasce così. Blaylock, utilizzando una nave, forse quella del prologo, per fare il pirata nell’oceano indiano, viene in possesso della mappa del codice Ortizaga. Dove si narra dell’inizio della peregrinazione dei futuri aztechi, e della presenza di un mitico uccello tempestato di gemme nel luogo di origine. Sarà la conquista di questa mitologica miniera di smeraldi che porterà i messicani attuali ad interessarsi al caso, ed a perirne. Ma rimanendo alla fantastoria, decifrando il codice Ortizaga, Blaylock trova l’origine di cui sopra, e per non dimenticarla, la incide all’interno della campana di cui all’inizio. Ovviamente, non in modo palese, ma utilizzando anche qui la serie di Fibonacci, in modo da creare una spirale interpretativa, che, per chi conosce il meccanismo, porterà ad individuare questa mitica origine. Che Blaylock persegue. Peccato però che vi arrivi appunti nell’agosto del 1883, quando il vulcano Krakatoa con la sua eruzione provoca più di 100.000 morti in Indonesia e vicinanze. Anche Blaylock ci lascia le penne. Ma i nostri, con l’aiuto del computer per decifrare le mappe, di Internet per fare connessioni azzardate, ed altre diavolerie, incluso l’utilizzo del cervello, cosa che non fa mai male, arrivano a dipanare la teoria “Ortizaga”. Gli Atzechi iniziano la loro peregrinazione dall’Indonesia, da dove vengono banditi (anche se non ne sappiamo il motivo) e da dove partono con un maleo di smeraldi. Arrivano in Madagascar, lasciano diverse tracce, poi attraversano l’Africa nella sua parte centrale, e da lì si buttano attraverso l’Oceano Atlantico. Per arrivare in Messico, dove, cercando e ricercando, trovano un airone, simile anche se non uguale al maleo, in un lago che sembra la trasposizione della laguna di Sulewanesi. Lì si fermano, e creano l’impero che duecento anni dopo sarà distrutto dagli Spagnoli. Il bello è che per descrivere tutto ciò Cussler impiega 2/3 del libro con dovizia di particolari, rendendo (a chi piace) gustosa questa parte. Per me, un po’ di divertissement, unito ad altre due chicche: i Fargo vanno spesso a Zanzibar in una località che si chiama Bagamoyo (ok, Rosa?) e verso la fine vengono omaggiati da tartufi del Madagascar, chiusi in un sacchetto con stampigliata un C rossa, e la scritta “ussler Tartufi”. Unite i due, ed abbiamo il solito cameo alla Hitchcock. Aspettiamo sempre il ritorno di Dirk Pitt…
“Sareste sorpresi da ciò che trovate se sapete cosa cercare.” (212)
Clive Cussler & Graham Brown “I cancelli dell’inferno” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 08/10/2013 – I: 02/10/2014 – T: 04/10/2014] - && e ½ 
[tit. or.: Devil’s Gate; ling. or.: inglese; pagine: 406; anno 2011]
Dopo 8 co-writing lasciamo andare Paul Kemprecos versi altri lidi. E la premiata ditta Cussler & Co, imbarca nella sua factory un nuovo scrittore, Graham Brown. Per continuare la serie dei “NUMA file”, cioè quella che vede per protagonista Kurt Austin, l’alter-ego in minore di Dirk Pitt. Cambiano gli aiutanti ma il prodotto non cambia, ripercorrendo, con poca inventiva i soliti binari della serie. Qui, poi, senza tanti fronzoli ambientalisti o altro. C’è il cattivo che ha una potente arma, i buoni che cercano di capire quale sia e come neutralizzarla, il comandante operativo dei cattivi che ingaggerà, prima o poi, una lotta mortale con Kurt, una bella che, sempre con Kurt, ingaggerà battaglie di altro tipo. Viene presa per i capelli anche la parte scientifica, che l’arma letale è una specie di super-conduttore del tipo impiegato dal CERN in Svizzera. Che andrebbe sempre in linea retta, quindi con poca gestibilità, se non venisse introdotto un mega campo magnetico, capace di deviare l’arma e dirigerla dove si vuole. Tipo un colpo di sponda a biliardo. In minore già dall’inizio, che assistiamo al tentativo di fuga di un russo con delle casse al seguito, subito ucciso con l’aereo che affonda al largo delle Azzorre. Ci si aspetta che questo sia un particolare importante, come in altre storie, invece, anche se ad un certo punto entra nella storia, ci entra così di sguincio, e senza lasciare troppi patemi (nelle casse ci sarebbero addirittura i diamanti della zarina Anastasia, e servirà soltanto a cementare il temporaneo feeling tra Kurt e la bella Katerina, oltre a fare in modo che i rapporti tra americani e sovietici siano più distesi). Poi entriamo nel fulcro: Kurt assiste all’affondamento di una nave e trova strane le motivazioni dei presunti pirati. Comunque fa in tempo a vedere che i morti della nave sono “strani”, che la nave affonda in modo irregolare, inoltre riesce a salvare la moglie del capitano (unica sopravvissuta, ma che sarà ignorata per tutto il libro, quindi che ce la mettiamo a fa’?) ingaggiando una prima lotta con il bieco Andras. Mentre Kurt e Joe partecipano ad una corsa di sottomarini alle Azzorre, i numeri due di questa sezione NUMA, i coniugi Trout, cercano di fare luce sull’affondamento della nave di cui sopra, ma vengono presi a silurate e rischiano di morire (forse il nuovo aiutante cercava di eliminare qualche personaggio per dare un’impronta propria, ma il vecchio Clive lo impedisce). Kurt salva anche un nuovo equipaggio di sottomarino da morte certa, nonché la bella Katerina che tentava di recuperare le casse di cui sopra, rimanendo impigliata nell’aereo (ma se no, Kurt che ce stai a fa’?). I tentativi alle Azzorre hanno lo scopo di far convergere scienziati che si occupano di magnetismo, per poi rapirli e portarli in Sierra Leone, dove il dittatore locale è il cattivo di turno. Che anni prima (ma neanche tanti) riesce a convincere un tecnico del CERN a disertare, per portare al suo servizio le capacità di costruire super-conduttori. E quindi per costruire l’arma di cui sopra (e su cui non torno). Ci sono un paio di scene di inseguimenti e scazzottate tra Kurt e la banda di Andras. C’è il rapimento della bella (ma Kurt non lo sa), e c’è il tentativo di far affogare i nostri due eroi, ma Kurt si inventa una manovra per sfuggire a morte certa. Intanto il dittatore della Sierra Leone, ritenendosi pronto alla bisogna, lancia un ultimatum all’America, che sferra un attacco alla nazione africana. Ma il raggio letale dei cattivi è devastante, e sarà solo l’intervento di Paul e Gamay Trout (dopo che il nostro è uscito dal coma, riprendendosi in una settimana… miracoli della carta stampata) a mandare fuori uso il super-conduttore principale. Mentre la parte del magnete, che sta all’interno di una petroliera in disarmo guidata dal bieco Andras, sarà oggetto delle attenzioni di Kurt. Che: 1) affitta un Ilyushin per avvicinarsi il più possibile alla nave; 2) compera un aliante (o mono-drive flight) rivestito di plastica invisibile al radar; 3) con l’aliante si lancia da 10.000 metri e plana verso la nave; 4) si lancia con un paracadute atterrando nell’unica zona d’ombra della nave stessa; 5) affronta da uno a uno un paio di scagnozzi, disarmandoli; 6) incrocia, non visto, Andras che sta facendo a vedere la nave a Katerina, in quanto vuole venderla ai russi; 7) trova la prigione di Katerina e la libera; 8) trova i generatori del magnete e li mette fuori uso prima che il dittatore africano possa utilizzarli; 9) fa imbufalire il bieco Andras, che comincia a cercarlo per tutta la nave; 10) con una sola pallottola nella pistola, riesce a capire che Andras si è fermato sotto l’impianto di raffreddamento, spara un colpo bucandolo, e facendo precipitare azoto liquido su Andras che viene “congelato” all’istante. Cioè, Batman gli fa un baffo al nostro eroe! Quindi, alla fine, tutto come avevo indicato all’inizio. Andras muore, il traditore muore, il dittatore muore, i coniugi Trout sono felici e contenti di aver salvato la patria con una carica di tritolo, Joe si fuma un sigaro, Kurt e Katerina … beh, questo non ve lo dico cosa fanno, ma se avete un po’ di immaginazione…. Il solito onesto prodotto della premiata ditta Cussler, dove tuttavia rimarchiamo l’assenza del solito cameo dell’autore che in genere è sempre presente, e la scrittura meno coinvolgente del nuovo co-autore rispetto al precedente Paul. Vedremo nel futuro, se e come proseguirà. Per ora mettiamo anche questo tra i libri del tempo del rilassamento, come una decina di minuti di yoga (anche se la lettura dura un po’ di più). Un’ultima quasi insignificante cosa: credo che il titolo inglese (Devil’s Gate) sia più per cancelli del Diavolo che dell’Inferno. Ma forse (spero) è una frase idiomatica.
Non essendo riuscito, per diversi problemi tecnici (anche dipendenti da me) a riprendere il solco abituale delle mie attività, questa settimana vi lascio solo le mie trame. Rimando ad una prossima trama, il resto, commenti, analisi, altre descrizioni

domenica 8 febbraio 2015

Tutti stranieri, anche gli italiani - 08 febbraio 2015

Finito il lungo giro indiamo (che avrebbe meritato forse la citazione di un diverso Tabucchi, quel del vecchio Sellerio di “Notturno indiano”), torniamo a macinare libri piuttosto che chilometri. Con una bella triade, interessante seppur diversa. Due libri “africani” dello svedese Mankell, con il recupero di uno dei suoi scritti più vecchi (che mi segnalò con enfasi Rosa). Il bel ricordo di Tabucchi, che sempre mi trona in mente per il suo delicato passaggio in questo mondo. Mentre mi aspettavo di più dal vecchio Ballard, che tanto mi prese in gioventù, e che ora mi sembra molto, troppo datato.
Henning Mankell “Ricordi di un angelo sporco” Marsilio euro 12,50 (in realtà, scontato a 10 euro)
[A: 23/05/2013– I: 15/07/2014 – T: 18/07/2014] - &&&  
[tit. or.: Minnet av en smutsig ängel; ling. or.: svedese; pagine: 396; anno 2011]
Torno dopo tanto tempo alla lettura di un libro di Mankell, di cui, ricordo ai meno attenti, molto (quasi tutto) ho letto della sua vena principale, e poco, ma abbastanza, degli altri scritti. Perché Mankell è uno dei massimi interpreti del moderno “giallo svedese” (quello nato dagli scritti memorabili di Sjöwall e Wahlöö), con il bel personaggio del commissario Wallander. Ma Mankell è anche un personaggio poliedrico, che passa metà della sua vita in Mozambico, impegnato in opere di recupero e modernizzazione (ricordo che ha anche impiantato centri di accoglienza e laboratori teatrali). Questo libro appartiene appunto al secondo filone, dove imbastisce una bella storia (pur non eccelsa) partendo da un labile frammento. Negli archivi di Maputo, compare, agli inizi del secolo scorso, e per circa due anni, come una dei maggiori contribuenti fiscali, una donna svedese. Per poi perderne le tracce a partire dal 1905. Su questo “quasi niente” il nostro scrittore tira fuori la lunga storia di Hanna. Di cui appunto seguiamo i passi dalla nascita nel Nord della Svezia, in una vita piena di stenti e di freddo, dove, figlia maggiore di una famiglia numerosa, dà una mano alla povera vita della fine dell’Ottocento, con gli inverni a meno trenta gradi sotto zero, e dove non si sa mai se si arriverà all’estate seguente. Alla morte del padre, la madre chiede ad un conoscente che vive nella grande città (per loro) di Sundsvall (quattordicesima città per grandezza della Svezia) di aver cura di Hanna. Comincia così la piccola odissea della nostra, che, temprata dal freddo, ha un carattere comunque forte. Fa la domestica in casa di Forsman, dove, da autodidatta, inizia a studiare e comincia a leggere e scrivere, avendo come sussidiario un dizionario svedese – portoghese. Il buon Forsman, per farla emancipare, la convince ad imbarcarsi come cuoca su di una nave che porta legname in Australia. Sulla nave conosce e si innamora del nostromo Lundmark, che sposa in quel di Algeri. Peccato che Lundmark prenda una febbre malarica nel canale di Suez e muoia poco dopo. Distrutta, incapace di vedere un futuro a bordo, una volta a Laurenço Marques (l’odierna Maputo) fugge dalla nave, avendo una buona liquidazione dal capitano della nave. E si ritrova in un albergo, dove è salvata per i capelli, avendo un aborto spontaneo. Peccato (o per fortuna) che l’albergo sia solo una facciata di un bordello, tenuto dal signor Vaz, anziano portoghese dalle idee precise su come tenere una lucrosa attività. Lì, nel bordello, Hanna comincia ad avere empatia verso i locali (un percorso che Mankell conosce bene) e capisce come i bianchi, in maniera subdola, riescono a tenere sotto controllo, con la forza e le armi, i negri mozambicani. Cercando sempre di tornare nella natia Svezia, Hanna si trova sempre più coinvolta nella vita locale. Tanto che accetta di diventare la moglie del signor Vaz. Peccato che, dopo poco, anche il secondo marito, anziano e minato dalle febbri tropicali, ci lasci le penne. Hanna, diventata ormai per tutti Ana Branca (cioè Anna la Bianca), si trasforma così nella proprietaria del bordello. Dove vengono solo bianchi che vogliono soddisfare le loro voglie con le donne di colore. Diventa anche amica del signor Pedro che vive con la nera Isabela con cui ha due figli. Tutto sembra prosperare, il bordello è il più redditizio della città, lei è la maggior contribuente delle casse portoghesi (motivo del rintracciamento del nome negli archivi di Maputo). Peccato che arrivi da Coimbra la moglie portoghese di Pedro, e che Isabela, per ribadire la propria posizione rispetto a Pedro che pare voglia darla in pasto ai coccodrilli, non possa fare a meno di uccidere il portoghese. Da qui, comincia la discesa verso i locali di Ana, unica bianca che comprende il gesto di Isabela, che vuole un giusto processo, mentre i portoghesi pensano soltanto a rinchiuderla in un carcere senza nessuna difesa. Tutte le prova Ana, alleandosi con il fratello di Isabela, Moses. Ma senza successo. Anche se si innamora di Moses, anche se con lui avrà l’unico momento di vera tenerezza. I bianchi implacabili, la perseguitano, e non potrà che vendere tutto, trasferirsi a Beira, la seconda città del Mozambico, e lì sparire. Non sapremo il suo futuro, se tornerà in patria, se riuscirà a tornare con Moses, ma non è questo che interessa a Mankell. Il cui scopo, appunto, è raccontarci la presa di coscienza di una bianca a contatto con una realtà che non avrebbe mai sospettato. Un angelo, come le diceva il padre, ma “sporco”, cioè portatore di tante disgrazie. Da cui noi, che scriviamo il seguito dei libri che ci coinvolgono, sappiamo che potrà uscire (anzi lo immaginiamo) perché ogni tanto ci vuole anche speranza. Alla fine, non è un libro bellissimo, la scrittura a volte è distante. Ma l’argomento prende intellettivamente. E Mankell è sempre capace di porci di fronte a dei dilemmi. Ed allo scempio che sappiamo i bianchi hanno fatto nell’emisfero australe.
“Platone: ci sono tre tipi di uomini: i vivi, i morti e quelli che vanno per mare.” (dedicato a Renato) (5)
“I viaggi più straordinari sono sempre dentro di noi, dove non esistono né tempo né spazio.” (19)
“Lesse su un cartello che la strada che stavano percorrendo si chiamava rua Bagamoio.” (dedicato a Rosa) (106)
“Noi [neri] facciamo fatica a capirvi … Molti [bianchi] arrivano qui per sfuggire alla miseria e alle persecuzioni del loro paese. E noi non riusciamo a capire come, arrivati qui, possano scegliere di vivere una vita diventando a loro volta persecutori.” (309)
James G. Ballard “Crash” Feltrinelli euro 8
[A: 16/02/2014– I: 30/07/2014 – T: 02/08/2014] - & e ½
[tit. or.: Crash; ling. or.: inglese; pagine: 205; anno 1973]
Nonostante il piacevole salto che mi ha consentito la lettura di questo libro, e su cui si ritornerà, devo dire che sono rimasto alquanto deluso. Dalla scrittura, dalla storia, dal modo anche che se ne parla in giro (in rete e sui libri). Il salto è stato il ritorno, almeno nella memoria, al tempo in cui le mie uniche letture erano dedicate alla “fantascienza” (uso le virgolette che il termine mi è rimasto sempre antipatico, essendo un tipo di scrittura variegato, e spesso per nulla fantastico: ucronie, sociologie possibili, certo i robot di Asimov, ma anche Bradbury, Farmer, la Le Guin e tanti altri, dove la scienza non sempre era il fulcro della storia). Nella mia libreria “juvenilia” sono rimasti ancora qualche migliaio di libri di genere, e Ballard aveva senz’altro un posto in questo mondo, con la sua scrittura che ha aperto (proprio nei tempi a cavallo degli anni ’70) la strada per un modo nuovo, anglosassone ma non solo, di scrivere (che da lì si diparte la vena umoristica alla Douglas Adams ed il cyber-punk alla Gibson). Fatto questo revival, mi sono messo in lettura, pensando di ritrovare queste atmosfere, anche perché il libro viene etichettato come fantascienza tecnologica di pochi anni avanti. Ed anche, perché spesso Ballard è un gran provocatore, di pornografia tecnologica (fanta-pornografia mi sembrerebbe un termine un po’ troppo forte). Ma letto ora, a quarant’anni dalla scrittura, non ha nulla di anticipatorio, è solo un romanzo che sfrutta dei meccanismi tecnologici (in questo caso le automobili) per portare avanti un suo discorso sulla difficoltà dei rapporti umani, e sulle alienazioni che l’innamoramento verso la tecnologia può portare. La storia, molto cruda in sé, gira intorno al protagonista soggettivo, che scopriamo ben presto avere dei seri problemi di rapporto con la moglie Catherine. Non riescono a fare l’amore se non tradendosi continuamente a vicenda, e raccontandosi i loro tradimenti. La svolta avviene quando il protagonista ha un grande incidente automobilistico, dove uccide una persona che viene in senso opposto, ferendo gravemente la di lui moglie al volante, nonché rimanendo lui stesso gravemente ferito. Questo shock, dopo vari capitoli un po’ inutili, lo porta a contatto con un certo Vaughan, adoratore di incidenti, e fotografo degli stessi. Lui stesso, pluri-incidentato con cicatrici ovunque. Vaughan si aggira cercando incidenti, fotografandoli, e tenendo dietro di sé una specie di scuderia fatta da uno stuntman strafatto di coca, la di lui moglie cicatrizzata, un regista fallito e la moglie di questi, in giro con stampelle sempre per incidenti vari. Una corte dei miracoli, che il nostro però scopre terribilmente eccitata dal pericolo e dalle sue conseguenze. Il nostro, tra l’altro, continua a scopare in macchina ripensando all’incidente, e, tra un coito e l’altro, riesce anche a rimorchiare sia la moglie del morto sia la stampellata. Ma quando comincia a frequentare da vicino Vaughan, oltre ad avere un soprassalto di eccitazione tecnologica, ha anche un soprassalto di passione omosessuale verso di lui. Vaughan continua a studiare morti possibili, e Ballard ci maciulla un po’ i “cabasisi” con queste storie di accartocciamenti di cruscotti ed altre menate. Si vede che i due sono attratti e respinti da questa ordalia di sangue e sesso. Niente di più facile quindi immaginarne la fine annunciata: strafatti di LSD il protagonista e Vaughan fanno l’amore. E poi Vaughan si getta da un cavalcavia (ovviamente con l'auto) e muore. Una fine ovviamente annunciata, e scoperta, come se non resistesse più alla “vergogna” dell’atto consumato. Ma tutto ciò si protrae per duecento inutili pagine. Continuiamo a vedere sesso e crude descrizioni dello stesso, continuiamo ad avere descrizioni di incidenti. Tutto senza un vero perché. Senza un briciolo di “anticipazione”, se non nel fatto dell’uso della tecnologia. Ed alla fine, non ritengo sia un romanzo ascrivibile al genere. Anche se bisogna riconoscere che Ballard si è sempre rifiutato di considerarsi un fantascrittore, piuttosto pensava di sé essere un investigatore dello spazio interiore. Tuttavia, quello che volevo sottolineare è il fatto che non è un romanzo che mantiene il passo con i tempi: è datato, e leggibile solo in una prospettiva storica. Per me, al contrario, un qualsiasi romanzo, di qualsiasi natura, ha senso se riesce a mantenersi godibile (anche se può non piacere, intento godibile nel senso intellettuale) con il passare degli anni. Questo, ora, è solo un romanzo di pornografia pudica, come vedere le fotografie delle donnine discinte che si facevano nell’Ottocento. Divertente vederne una, palloso leggere tutto un romanzo.
Antonio Tabucchi “Requiem – un’allucinazione” Feltrinelli euro 7 (in realtà scontato a 6,30 euro)
[A: 05/05/2014– I: 16/08/2014 – T: 17/08/2014] - &&&&  
[tit. or.: Requiem uma alucinaçao; ling. or.: portoghese; pagine: 139; anno 1991]
La prima sorpresa che mi ha dato la lettura di questo libro di Tabucchi è appunto quella che vedete nella riga soprastante. Il libro, il racconto è scritto in portoghese, sua lingua di adozione, perché solo in questa lingua l’autore ritiene sia possibile dar vita e suono a quella sensazione di “saudade” che non sarebbe esprimibile in altri idiomi, quell’utilizzo del termine legato all’addio verso chi ci ha lasciato (adeusinho) che non è trasferibile dal portoghese in altre lingue. Tant’è che Tabucchi la traduzione in italiano ha voluto fosse fatta da altri, sempre per ribadire il concetto di inesprimibilità, e sottolineando quindi l’immancabile tradimento che una traduzione produce verso il testo. Quindi, seppur impoverito nel testo, ora ne seguiamo e ne leggiamo. Non per parlare di un romanzo (che spesso Tabucchi scrive ma non si riesce a catalogarne la scrittura), né tanto meno di un racconto lungo. In effetti, è un’allucinazione quella che cerca di descrivere. O meglio, una serie di sogni, di segni e di racconti, che fanno in modo e consentono all’autore di dire addio ad uno scrittore e ad un personaggio che tanta parte hanno avuto nella vita stessa di Tabucchi. Dopo aver contribuito alla riscoperta ed al rilancio in Italia di Ferdinando Pessoa, ora Tabucchi se ne deve staccare, deve proseguire la sua strada di letterato. Deve quindi rivolgere un Requiem a Pessoa, e lo fa in queste pagine, dove, mescolando sogno e realtà, parla di sé, ma anche di Pessoa. Parla con i personaggi di Pessoa, mischiati con amici e compagne della sua vita. Ma in definitiva è un libro intramabile, è talmente rarefatto negli accadimenti che narrarne vorrebbe quasi dire riproporlo per intero. Certo il personaggio che si muove per le pagine, e per Lisbona, fa alcune cose. Cerca un amico in un cimitero, sogna una donna, va in un Museo a vedere un quadro (con una descrizione che mi ricorda la mia ricerca della chiesa di Van Gogh al Museo d’Orsay), va in un bar (magari nella rua Garrett). I personaggi che si incontrano sono tanti e ognuno racconta qualcosa: essi riflettono insieme al protagonista sulla propria vita, su modi di pensare o costumi. Li si potrebbe definire suggestive figure di fantasia, divertenti. Al lettore piace guardarli e scoprirli nel corso della lettura come se fossero dei casi umani che stuzzicano la curiosità. Essi sono molto vari, ma hanno qualcosa in comune: sono romantici, quasi poetici. Persino la Vecchia Zingara, la Moglie del Guardiano del Faro o il Venditore di Storie hanno, pur nella loro semplicità, un fascino misterioso, forse dovuto alla profondità delle emozioni che trasmettono attraverso le loro parole. L'incontro fondamentale, quello al quale il narratore si prepara fin dal mattino, è l'ultimo della giornata, e ha come protagonista il grande poeta portoghese Fernando Pessoa (1888-1935), o forse il suo fantasma. Dal quale alla fine riesce a staccarsi, lì sul molo della città, ed a tornare alla propria vita. O al proprio sogno. Infatti, tutto è avvolto da quella atmosfera onirica che speso compare negli scritti di Tabucchi (soprattutto nei primi). Ed in realtà appunto non è la trama, quella che risalta alla fine, ma la scrittura, le piccole microstorie che compaiono (e che certamente un amante e conoscitore di Pessoa saprebbe collocare meglio di me nell’universo mondo dello scrittore portoghese), la ricerca e la necessità di accomiatarsi da qualcosa che per lungo tempo è stata vicina all’autore, e che adesso ne diventa un fardello. Come detto, ci riesce, riuscendo anche a regalarmi un ultimo sussulto di felicità, con quelle note finali, dedicate a cosa si è mangiato durante tutto il sogno: la feijoada (minestra di fagioli), i papos de anjos (dolcetti di uova e mandorle), i piatti di pane come le migas e l’açorda, la fresca bevanda di frutta chiamata sumol, l’arroz de tamburi (il riso alla rana pescatrice), l’ensopado de borreguinho (stufato di interiora di agnello). Per poi finire con il menu futurista della Mariazinha: zuppa “Amor de Perdiçao” (zuppa di coriandolo e pollo dal titolo di un libro di Camilo Castelo Branco), insalata “Mendes Pinto” (con avocado, gamberi e soia, dal nome del grande navigatore portoghese), cernia “tragico-marittima” (come dall’omonima Historia di naufragi del Seicento), sogliola “intersezionista” (dal nome del movimento artistico creato da Pessoa nel 1914), anguille di Gafeira alla Delfino (luogo inventato dallo scrittore José Cardos Pires per il suo romanzo “O Delfim”) e baccalà allo “scherno e maldicenza” (così come venivano chiamate le liriche satiriche del Duecento portoghese). Con questa cena tutta intellettuale, Tabucchi lascia finalmente Pessoa perché “ero io ad aver bisogno di lei, però adesso vorrei smettere di avere bisogno”. Ecco una bella, agile, veloce lettura, intellettuale quanto basta, ma eponima della capacità e del bisogno di dire addio a qualcuno o a qualcosa. Un bisogno di adeusinho.
“Non era possibile che ora il quadro fosse diverso solo perché i miei occhi lo avrebbero visto in un altro modo?” (73)
Henning Mankell “Comédia Infantil” Marsilio euro 12,50 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 08/10/2013– I: 17/10/2014 – T: 22/10/2014] - &&&& 
[tit. or.: Comédia Infantil; ling. or.: svedese; pagine: 236; anno 1995]
Finalmente Marsilio è riuscito a ripubblicare uno dei primi libri di Mankell. Uno dei romanzi “civili” dello scrittore svedese. Il primo, cronologicamente, dedicato all’altra parte della sua vita, quella appunto che trascorre in Africa. Ed in particolare a Maputo in Mozambico. Dove si occupa dei bambini di strada (e questo è il libro manifesto del suo impegno) e di teatro popolare. Ovviamente, una sana lettura avrebbe previsto di leggere questo prima del libro sopra tramato. D’altronde, questo ho impiegato molto a trovarlo e, nonostante la spinta a leggerlo da parte di Rosa, ho penato un poco ad autoconvincermi alla lettura. Ero sicuro che mi avrebbe intristito e fatto maledire il malcostume degli europei verso il continente nero. E così è stato, anche se devo dire che è un bel libro, che merita di essere letto, anche a distanza di venti anni dalla sua scrittura. Inoltre, a lettura avvenuta, capisco meglio l’amore che ne aveva avuto a suo tempo Rosa (e che la frase sotto riportata mi pare sottolinei con dovizia). Intanto, cominciamo dal titolo che, come si capisce, anche se il libro è scritto in svedese, è un titolo portoghese, la lingua, appunto del Mozambico. Anche se poi il testo si avvicina molto alla tragedia più che alla commedia (almeno nel senso dei classici greci). Termine mitigato (o aggravato, dipende dalla lettura che se ne fa) da quel riferimento ai bambini. Vestendo i panni di un fornaio, il nostro autore si cala nella realtà mozambicana (ricordiamo sempre che il libro è stato scritto venti anni fa), in un periodo in cui si svolgevano le prime elezioni democratiche del paese, dopo più di 15 anni di guerra civile che si scatenò dopo l’abbandono del paese da parte dei portoghesi, dopo la conquista di Maputo da parte dei comunisti del FRELIMO e il contrattacco della destra del RENAMO finanziata dai razzisti sudafricani. Ma questa è storia, mentre José il fornaio narra la vita di tutti i giorni. Quella di Donna Esmeralda, la padrona del forno, forse figlia del dittatore di Maputo, che ora gestisce democraticamente un forno e “dittatorialmente” un teatro dove rappresenta pièce che solo lei comprende. Quella dei bambini che vivono per strada, come Cosmos il bambino che pensa e sua sorella albina Deolinda, come Nascimento, perseguitato dai suoi fantasmi notturni, come Mandioca e Pecado, con le loro manie che servono a sopravvivere in strada, come Tristeza, quello che pensa lentamente, come Alfredo Bomba, malato terminale. Quella del fornaio stesso, della sua vita solitaria e della svolta che avrà la sua vita con l’incontro di Nelio. E finalmente quella centrale appunto di Nelio. Che Mankell utilizza a paradigma sia del Mozambico sia di tutte le infanzie negate del mondo. Nelio che viene colpito a morte dentro il teatro. Nelio che sa di morire e che in nove notti di agonia racconta la sua storia a José il fornaio. Nelio che viveva nel suo villaggio dell’interno, felice in una povera famiglia di contadini. Villaggio assalito dal RENAMO e raso al suolo. Nelio che vede la madre stuprata, che intuisce il padre morire, che vede togliere brutalmente la vita alla sorellina neonata. Nelio che si rifiuta di uccidere e che fugge. Nelio che incontra Yaya Baba l’albino che lo porta sino a Maputo. Ma che soprattutto gli insegna che pensare è la cosa più umana da fare. Seconda sola con l’empatia verso coloro che soffrono. E chi ha sofferto, capisce subito l’altro che soffre. Nelio che incontra uomini cattivi in città da cui fugge. Nelio che finalmente incontra i bimbi di strada (quelli citati sopra) che “sopravvivono” rubacchiando e chiedendo la carità. Nelio si unisce a loro, crea un sodalizio con Cosmos, e poi diventa il capo della banda quando questi va per la sua strada. Nelio che non fa mai cattive azioni, ma solo azioni per sopravvivere. Che accoglie Deolinda raminga, che cerca di far fuggire i demoni di Nascimento, che organizza una dolce morte per Alfredo Bomba. José capisce l’umanità di questo bimbo di dieci anni, del dolore che ha sofferto in questi pochi anni, tanto da essere a volte un vecchio nella pelle di un bambino. José non potrà impedirne la morte. Ma il racconto della vita e delle sofferenze di Nelio non dovrà andar perduto. Così José abbandona il forno, e dedicherà la sua vita a raccontare la storia di Nelio. In modo che tutti riflettano sulla storia del giovane Mozambico, sulla sua povertà e sulla sua capacità e volontà di uscirne fuori. Un ultimo cenno degli intrecci di Mankell: il “buono” del romanzo precedente, che salva la bella Hanna, si chiama Antonio Vaz. Ed il fornaio si presenta nella prima pagina come “Io, José Maria Antonio Vaz … sto aspettando la fine del mondo”. Bellissime le pagine sul teatro che serve alla vita (ed alla morte), mutuate ovviamente dall’esperienza mozambicana di Mankell stesso. Viene da piangere per la nostra impotenza verso questa (e simili) tragedie. Ma, come ci insegna Mankell, intanto non tacerne, parlarne, farne circolare le informazioni è il primo passo per poter fare qualche cambiamento. Mi rendo conto che in questi venti anni non moltissimo è cambiato in Mozambico (che ho visitato due volte negli ultimi cinque anni), ma continuiamo a parlarne e cerchiamo, cerchiamo, cerchiamo di fare qualcosa. Altrimenti sarà sempre “emergenza”.
“Quello del teatro è un mondo che sembra rinascere continuamente.” (32)
Essendo la prima trama del mese, come i miei ormai affezionati lettori sanno, mettiamo anche la lista delle letture dello scorso novembre, che cominciano ad accorciarsi, visti viaggi e loro preparativi. Comunque illuminata dal bel libro eco-comico del finlandese Paasilinna e dal libro sulla Finlandia dell’italiano Marani. Mentre in fondo alla lista, purtroppo, troviamo il lungo ed inutile ultimo episodio dell’Aristotile della canadese Doody.

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Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Alice Sebold
Amabili resti
E/O
11
3
2
Andrea Esposito
Il paese nasconde
Sole 24 ore Noir
6,90
3
3
Piero Chiara
Vedrò Singapore?
Mondadori
10
3
4
Jo Nesbø
Lo spettro
Einaudi
14
2
5
Domenico Cacopardo
Agrò e la deliziosa vedova Carpino
Sole 24 ore Noir
6,90
3
6
Eric J. Hobsbawm
L’invenzione della tradizione
Einaudi
s.p.
3
7
Osvaldo Soriano
Un’ombra ben presto sarai
Einaudi
11,50
3
8
Arto Paasilinna
L’anno della lepre
Iperborea
13
4
9
Margaret Doody
Aristotele nel regno di Alessandro
Sellerio
16
1
10
Adele Marini
Milano sola andata
Sole 24 ore Noir
6,90
3
11
Diego Marani
Nuova grammatica finlandese
Bompiani
s.p.
4
12
John Fante
Aspetta primavera, Bandini
Einaudi
12,50
3
13
Lotte & Søren Hammer
La bestia dentro
Feltrinelli
9
2
14
Claudio Paglieri
L’enigma di Leonardo
Sole 24 ore Noir
6,90
3
15
Mamen Sánchez
La felicidad es un tè contigo
Booket
s.p.
2
16
Antonio Pagliaro
I cani di Via Lincoln
Sole 24 ore Noir
6,90
3
17
Graham Greene
Il treno d’Istanbul
Mondadori
9,50
3

Adesso andiamo ad affrontare altre prove. Credo che fino a Pasqua poco ci sarà da viaggiare e molto da fare, per casa e per me. Cercheremo allora di mettere insieme e di riannodare fili che sembrano andarsi a disfare. Proseguendo in questo fantastico nuovo anno, di affetti.