domenica 25 novembre 2012

De Flavis Italico - 25 novembre 2012


Citazione latina che ci rimanda al buon Giulio Cesare (ed io so perché) ed alle guerre, e questo ve lo dico anche: una guerra contro l’insostenibile curatore di una collana un tempo gloriosa, ed ora destinata ad una lenta agonia. Costanzo è riuscito anche qui a stendere la sua ala mortifera, riuscendo a pubblicare il peggio del giallo italiano. Fortunatamente escono ancora i romanzi di Annamaria Fassio che tengono a galla la collana, che se dovessimo basarci sugli altri due illeggibili italiani sarebbe da chiudere al più presto. Ricordo anche che (su aNobii) metto i gradimenti dei libri letti. E che ci sono 20 punti ogni settimana di trame. Beh, questa settimana si giunge a stento ad 8!
Annamaria Fassio “Di rabbia e morte” Mondadori euro 4,90
[A: 29/08/2011 – I: 16/07/2012 – T: 18/07/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 197; anno: 2011]
Annamaria Fassio si avvia a diventare un punto di riferimento nel panorama del giallo italiano. Ne scrive con una buona cadenza, la scrittura stessa è almeno gradevole, pur con dei distinguo che vedremo dopo. Quasi non mi dispiacerebbe che potesse prendere il posto lasciato vacante dalla scomparsa di Laura Grimaldi. E poi, sponsorizzata da Mondadori, ha un suo pubblico direi affezionato. Ha degli alti e bassi, come mi sembra ormai di ripetere da trame e trame per diversi autori. Certo, la punta da fossa delle Marianne toccata con l’infelice giallo ambientato a Shangai, è ormai lasciata dietro l’angolo. Anche perché, con questo Giallo dell’agosto scorso torniamo ad avere in prima linea la coppia del commissario Maffina e dell’ispettrice Franzoni. Quello che meno mi è piaciuto è l’indulgere, come ormai la gran parte dei giallisti fanno, nell’introduzione dell’elemento slavo. Certo che dalla diaspora dell’ex-Jugoslavia, alle sanguinose (e degne di ben altri scritti) guerre che si sono combattute nell’ultimo decennio del secolo scorso, slavi (ed in particolare serbi e croati, ma non solo) hanno preso un ruolo centrale negli scritti di nera (ed anche nelle cronache quotidiane). Cominciò, paladino insospettato, Heinichen con alcuni romanzi in cui il commissario Laurenti combatteva appunto la mafia slava. Poi valanghe, e non solo sul suolo italico. Che tutti quanti, ormai, qualche cattivo che viene da lì lo trovano. Qui, Annamaria Fassio si spinge un po’ dopo, e si passa dai serbo-croati ai kosovari ed alla sanguinosa guerra eccidio massacro colà combattuta. Così sappiamo fin da subito che i cattivi sono loro, i fratelli Bogdan, che, dieci anni dopo, ritroviamo a cavallo tra Cannes e Sanremo. La Fassio questa volta usa un registro diverso dal solito avanzamento temporale dei fatti, facendo continui salti avanti e indietro, che però non riescono a dare mordente alla storia. Il cui nocciolo centrale è una strage perpetrata da mercenari in Kosovo, alla ricerca (forse con successo) di un tesoro di soldi e diamanti. Storia che ai giorni nostri si mescola con alcune morti che sembrano senza capo né coda. Tre poliziotti in una volante. Tre signori in una villa (padre, madre e figlio trentenne). Poi un fotografo francese e la sua compagna ad Antibes. La Franzoni cade in depressione per queste morti vicine (soprattutto quelle dei poliziotti). E ne risente anche il suo rapporto con Maffina (che ricordo agli smemorati, per lei lasciò, o si fece lasciare, dalla bella Annalisa). Anche Maffina è disorientato. Sia dalla vicenda, sia dalla stessa Erica. Un biglietto aereo per Pristina mette però tutto in corsa per una soluzione. Maffina va in Kosovo, dove viene circuito dall’affascinante Dobrilla, la cantante che sulle stragi kosovare ha fatto la sua fortuna (ma non solo). E trova i fili che legano i morti, tutti con qualche aggancio ai mercenari di cui sopra. Anche la Franzoni trova un bandolo, legato a traffici di armi, cui sono coinvolti poliziotti (morti e vivi). Unendo i due fili, i nostri eroi, riusciranno a trovare una ragione ed un colpevole (o più colpevoli) in tutto ciò. Ovvio i fratelli Bogdan, che uccidono anche la figlia di un commissario donna francese, che si unisce anche lei alla riscossa dei buoni. E che sembra avere un debole per il nuovo, pur attempato ma a lei coevo, questore di Genova. I cattivi pagheranno il fio. Non prima di aver fatto fuori anche la bella Dobrilla. E qualche problema avranno anche i nostri, che nello scontro a fuco catartico, Maffina non ne esce particolarmente bene. Vedremo nei prossimi romanzi se se la caverà. Un grosso minestrone con qualche pretesa di messaggi forti (non ci vuole grande ingegno a mettere in cattiva luce il generale italiano di stanza in Kosovo, tanto ci si mette da solo). Ma il risultato, come detto, un po’ moscio rimane. Mi mancano quegli scorci di Genova e della Liguria. Quelle pennellate che ho ritrovato nel bel racconto di luoghi della Pastorino, e che nei primi romanzi della Fassio davano un connotato alla vicenda. Qui, si vuole colpire duro sul lato più noir che giallo. Ne rimette l’atmosfera. E ci dispiace. Piacevole lettura, ma solo sotto la calura (pietà per la rima).
Valter Catoni “L’eterna lotta” Mondadori euro 4,90
[A: 08/01/2012 – I: 28/08/2012 – T: 30/08/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 201; anno: 2011]
Riprendiamo a macinare i Gialli Mondadori nell’infausta veste che ormai stanno assumendo sotto l’improvvida direzione di Maurizio Costanzo. Da quando ne ha assunto la guida si sono raggiunti due interessanti traguardi: è aumentato il prezzo ed è diminuita la qualità. Non che ogni tanto non si trovi qualche autore o qualche brano leggibili. Ma sui grandi numeri, mi sembra che la via del tramonto sia stata imboccata a grande velocità. Questo di Catoni è, tra le ultime prove, qualcosa di modestamente passibile. L’autore non mi risulta abbia scritto o pubblicato granché. E forse qualche ragione c’è. Questo prodotto, tipicamente italiano, ha una prima parte con una sua dignità, mentre nella seconda scivola verso pretenziosità degne di altre carature letterarie. Infatti, nella prima parte facciamo la conoscenza con il protagonista, l’ispettore Lo Russo, da poco a capo della sezione Trevi della polizia (quella della fontana, naturalmente). E subito ci imbattiamo nel “giallo”: due ragazzi scompaiono misteriosamente. Facciamo anche conoscenza del figlio dell’ispettore e della di lui ragazza, quasi a far da contraltare ai due scomparsi. E della squadra di Lo Russo, e del medico legale. Si indaga, si scava (anche letteralmente). Viene così fuori la storia sepolta nei palazzi del quartiere, che durante la guerra furono occupati dai tedeschi, a vario titolo. Da ufficiali di comando, da succursali del carcere, da strani SS in cerca di chissà quali misteri romani.  Si arriva così al primo bandolo. Nella pensione della misteriosa Janette si scoprono tedeschi morti, divise militari, e vari rimasugli di quelle misteriose ricerche. Che portano a tedeschi viventi, or residente in riva al Lago di Bracciano. In contatto con loschi tipi dell’ambasciata russa. Così che il mistero che avvolge la scomparsa si ammanta di traffico di armi. Ma i cattivi sono un po’ maldestri (o forse il nostro ispettore è un bel tipo di poliziotto). Fatto si che, seppur a costo di qualche morto, si libera il ragazzo. E si trova la via per arrestare i cattivi di prima linea. Janette, tuttavia, scompare di nuovo. Qui si innesta la seconda parte, debole e poco convincente, che, da un giallo di discreta fattura si cerca di passare ad un thriller alla Dan Brown, con forze misteriose che si aggirano nel sottosuolo romano. Con preti divinatori che lottano dalla parte del bene, nell’eterna lotta (quella del titolo) con le forze del male. Ma non essendoci una chiave di lettura non esoterica, rimane tutto sul misterioso e fumigante. E così scorrono le pagine, senza che ci si senta coinvolti nella lettura. Sperando che si trovi qualche elemento di interpretazione, qualche indizio. Si passa solo per un fantomatico biglietto, che si dice contenga informazioni cifrate. Tanto poco cifrate che, con pochi passi, si trasforma il biglietto in un’istruzione di coordinate per un GPS. Banalino, come espediente. Si prova a far della dietrologia nei dettagli. Il nostro commissario viene promosso questore a Genova. E le ultime pagine corrono in fretta, mettendo tanta carne al fuoco, ma senza riuscire a cucinare un pasto che non sia bruciacchiato. Alla fine si deve concludere. Ma il mistero viene lasciato in aria, con Janette che si suppone non faccia una brutta fine. Forse si salva la storia della nascita dell’amicizia tra l’ispettore e il medico legale, condita da frequenti cene da Ottavio o da Romolo. Ma non si salva il tentativo di approfondimento del dolore dell’Ispettore per la morte della moglie (avvenuta prima dell’inizio del romanzo), né la fugace storia con una procace dottoressa, che sembra foriera di sviluppi, e poi inopinatamente abortisce (la storia, non la dottoressa). Si sbozzano dei caratteri simpatici (un poliziotto, un tassista, un monsignore) che poi si perdono tra le pagine. Questo succede quando si ha una buona intuizione di scrittura, ma non una dose (innata o costruita) di capacità letteraria. Non è facile saper maneggiare trame complesse, ci si lascia sfuggire particolari e situazioni. Ma se Catoni è alla sua prima opera, benché si avvii già verso la sessantina, è scusabile, e comprensibile. In altri momenti, un editor come fu Laura Grimaldi per Mondadori, ne avrebbe asciugato prolissità ed incongruenze. Cose che non fa e non sa fare il nostro Costanzo.
Massimo Siviero “Caponapoli” Mondadori euro 4,90
[A: 04/05/2012 – I: 30/08/2012 – T: 02/09/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 188; anno: 2012]
La rete mi dice che Massimo Siviero è un settantenne giornalista napoletano, che scrive su “Il Mattino”, che ha pubblicato qualche libro giallo e che di gialli è appassionato. Perché comincio così una trama, che ormai non parlo più di biografie, se non servono a spiegare il testo e sempre nel suo contesto? Perché è l’unica cosa positiva che riesco a pensare per questa nuova ed incresciosa prova dei Gialli Mondadori di Maurizio Costanzo. Forse il Siviero pensa di essere un buon giallista o un buon scrittore, ma forse se rifiutasse di firmare questa insulsa prova. Spero, e gli auguro, di essere un buon giornalista, che Napoli ne merita. Qual è l’operazione furbetta e poco riuscita che si inventa il nostro? Che sicuramente di gialli e noir ne ha letti tanti. Si inventa una storiella “hard-boiled” che sarebbe stata interessante uscita dalla penna di Chandler o Hammett, ma che qui da subito la corda. Troppo facile e scontato, immaginare che Napoli sia una città violenta, una Los Angeles sotto il Vesuvio. Troppo facile ironizzare sui mali della città: malaffare, costruzioni abusive, malasanità, bassi invivibili, prostitute, ed altre cartucce, che a mala pena potremmo definire “mezze”. Si prende un giornalista radiato e lo si fa diventare detective (incontrato in circa 32 gialli americani ed uno giapponese). Lo si fa incontrare con una bella che lo mette nei guai (“Il falcone maltese”?). E si imbastisce una trametta con qualche morto e qualche finto mistero. Per non farci mancare nulla aggiungiamo: un’amichetta innamorata del detective ma senza speranza, un amico suonatore di jazz, un ispettore incapace, due killer che sembrano la controfigura cattiva di Stanlio e Ollio, un medico legale ubriacone (e che facciamo un salto anche verso “Ombre Rosse”?), una spruzzata di extra-comunitari buoni, una maitresse con debiti di riconoscenza, qualche personaggio che vira verso il sado-maso. Si tenta anche di far vedere che si conosce Napoli (e forse sono le uniche righe passabili, le passeggiate sopra e sotto Montecalvario, via Toledo ed altri luoghi a me per altro cari in altri contesti), e si battezza con il titolo l’Ospedale luogo del nocciolo della vicenda, facendo l’occhiolino a chi sa che le chiese e il chiostro di Caponapoli fanno parte del complesso degli Incurabili. E che vi si radunava l’Accademia degli Oziosi con Giovanni Battista Marino in testa. Sarebbe un bel mix, fosse trattato con ironia e senso del ridicolo. Ma l’ironia è assente, e rimane solo uno stanco sorriso. Si vuole ironizzare sui mali di Napoli, e non si scalfisce neanche un’unghia superficiale. Sono tutte macchiette. Un giallo alla Pulcinella, ma senza la cattiveria e la dolenza che aveva la maschera per sfidare i potenti con il ghigno delle sue bravate clownesche. Si cerca anche un finale “alla Dan Brown” con ridicole consorterie sotterranee e collegamenti con il mondo greco. Il giallo è inutile, che si capisce dalla terza pagina che sarà il cattivo finale. L’ironia non cresce. La scrittura è quella finta che ammicca al lettore, cercando di coinvolgerlo in ridanciane situazioni (crolli, sparatorie al buio, ed altre americanate poco riuscite). E si arriva velocemente alla fine, senza risolvere nulla in realtà (che sappiamo bene, in Italia va sempre tutto così, parole, parole, ma non si risolve nulla; con quella idea sottesa che tanto va tutto male e non ci sarà mai nulla che cambierà; tanto vale cercare di sopravvivere). Una delle letture più deprimenti degli ultimi anni, che sconsiglio anche a chi voglia provare di cambiare i miei giudizi. Tanto che mi fermo qui. Non riesco neanche a parlarne molto. È un libro che si legge d’un fiato, e si dimentica appena chiusa l’ultima pagina.
Annamaria Fassio “Terra bruciata” Mondadori euro 4,90
[A: 06/06/2012 – I: 29/09/2012 – T: 30/09/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 184; anno: 2012]
Siamo ancora, e per fortuna, sul versante per me migliore delle scritture poliziesche della Fassio. Quelle con al centro l’ispettrice Franzoni e il commissario Maffina. Nell’ultimo episodio, or non è guari (e che avrete letto in trama poco sopra), i due erano stati crivellati di colpi, ma tuttavia salvi. Anche se Maffina è conciato male. Tant’è che sta a riposo, ed è defilato anche in questa storia. L’unica cosa uscita dalla sparatoria, è il palesamento del rapporto tra i due che ora, finalmente, vivono insieme. Non senza qualche perplessità e contraccolpo. Ma tant’è. Qui la storia s’impernia su due vite falsamente parallele. Un ispettore di Alessandria, tal Graziano, mediocre questurino in cerca di gloria, per la quale non esita a far scattare la sua rabbia repressa. Tanto da uccidere a mani nude un povero drogato. E l’alto borghese Maria Vittoria. Insoddisfatta e sclerata, una notte prende la pistola del marito, lo uccide, uccide i loro due figli e fugge nella notte. Scatenando anche lei la sua rabbia repressa. Fuori di testa come una cucuzza, si lascia intorno una scia di morti violente. Dico falsamente parallele, che ben diverse sono le radici dei malesseri, anche se alla fine convergono nel far male a tutti. E quando il Graziano si mette sulle tracce di Mavi, una volta trovata, non potrà che decidere di unire le loro forze (si fa per dire) per una storia che potrà durare due ore o due giorni, ma che non potrà che finire come ci aspettiamo finisca fin dalla seconda pagina. Si tratta di vedere quante persone ci lasceranno la pelle. E saranno non solo tante, ma ben intrecciate nei loro destini. Non a caso, ci si aggira nei triangoli tra Liguria, Basso Piemonte e brandelli emiliani. Ed il loro intreccio darà qualche sorpresa finale (una delle poche che non ci si aspettava all’inizio). Questo il plot dove s’inserisce la Franzoni, che ancora convalescente torna sulla scena, cercando di coordinare indagini ed idee. Un po’ come un fiume che convoglia acque diverse nel suo andare verso il mare, la nostra scrittrice fa una specie di sommario di tanti avvenimenti e storie degli episodi passati, che qui ritornano con personaggi maggiori o minori. Che Lorenzo, il marito della Mavi, era entrato in una delle inchieste precedenti, come trafficante in navi poco chiare. Mistero risolto da Maffina con l’aiuto di una prostituta di colore (con la quale il convalescente commissario ora questore ogni tanto s’intrattiene eufemisticamente parlando). Che il magistrato delle indagini si è messo con una simpatica ex-ispettrice francese, anch’essa comparsa in altra storia (quella sopra citata), dolorosamente coinvolta dalla morte della figlia drogata. E via confusionando. La bravura della Fassio nel “procedural thriller” come si dovrebbe chiamare questo romanzo sull’onda delle bellissime pagine di Ed McBain, è proprio quella di presentare con brevi tratti altri personaggi del mondo poliziottesco. Come l’agente Dalmasso che passo dopo passo arriva a scoprire tutte le magagne dell’ispettore Graziano. Come il commissario Abbondanza, l’unico che fino alla fine spera che Graziano non sia coinvolto. Cala invece quando cerca di descrivere Maria Vittoria, che, insoddisfazione a parte, non si capisce bene perché si avvii sulla china del delitto gratuito. Piacevoli, invece, gli intarsi musicali con le citazioni di Tom Waits e, soprattutto, dei Baustelle. Alla fine, non una grande storia, ma leggibile in una sera piovosa di campagna, nonostante i tentativi finali di chiosa del nostro Costanzo che continua ad arringarci nelle due paginette finali come se fosse ancora sui palchi televisivi. Speriamo in altri ritorni.
Intanto certo, un po’ di relax, che tra un mese esatto è Natale. Quattro settimane che passano di volata, pieni di impegni e di appuntamenti. Poi una quinta siamo già a Capodanno e si vedrà se si resta a lavorare o meno. Ed una sesta, sicuramente, via dalla pazza folla…

domenica 18 novembre 2012

Ritornano le donne - 18 novembre 2012


E soprattutto le donne italiane, che da troppe trame si erano allontanate dai miei scritti (e dalle mie letture). Sapevo anche perché. Dopo le letture di luglio, che in ogni caso erano interessanti e stimolanti, sono incappato in due cadute di tono, accumunate dai colori che invece a me piacciono, con l’esordiente Viola che promette e non mantiene e con una nuova Rosa che non riesce più a rinverdire i fasti di quell’ormai lontano “Cuore di mamma”.
Paola Mastrocola “Palline di pane” Guanda euro 11 (in realtà scontato 8,80 euro)
[A: 19/01/2012 – I: 04/07/2012 – T: 07/07/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 237; anno: 2001]
Ripresa di un vecchio libro della Mastrocola, un po’ per riprendermi dalla delusione patita a suo tempo dalla lettura del racconto degli inediti di Repubblica, un po’ perché Mariella me ne accennò mesi e mesi e mesi fa, e mi era rimasto l’interrogativo su come fosse questo (quasi) primo libro. Che aveva già pubblicato “La gallina volante”, che mi piacque a tratti. E non ancora “La barca nel bosco”, che invece mi piacque assai. Alla fine di questo libro, direi che siamo sul versante positivo. Qualche lungaggine, qualche punto in cui avrei preso Emilia (l’io narrante) e l’avrei “scutuliata” ben bene, per farle entrare un po’ di sale in zucca. Che sembra a volte non ce ne sia. Ma forse, in fondo, ce n’è il giusto. Un libro, direi come commento, sull’inadeguatezza. Detto così sembra una critica. Come? I personaggi? La trama? Che cosa è inadeguato? Lasciamo la risposta in sospeso, che uso il termine forse per rivoltarlo sulla protagonista. Per tutto il romanzo si ha la sensazione che lei, Emilia si senta inadeguata al mondo in cui vive. E se fosse il contrario? La storia è una specie di fermo macchina su di un Agosto da vacanza. Emilia e la sua famiglia partono per un mese al mare in Sardegna, dove hanno, come tutti gli anni, affittato una casa. Emilia, dopo aver tentato di fare la giornalista, decide di dedicarsi alla fotografia. Non è un mestiere facile (molti sostengono che non è un mestiere). Ma riesce a produrre foto interessanti, ed allestire mostre. Come quella che dovrà fare a breve a Parigi. Per cui per tutto il mese scatterà foto su foto. Riuscendoci? Ah saperlo. Intanto sappiamo che è sostenuta dal marito Giorgio, che guadagna per tutti e due, ed ora sono mesi che è stato trasferito in India, dove lavora nel campo della telefonia. Inoltre, Emilia ha due figli interessanti: Orlando Maria, detto Olli, bambino undicenne e solitario, che non vuole / non può / non sa rapportarsi ai suoi coetanei, e preferisce pescare, o disegnare, o al minimo leggere (lo adotto subito) e Stefania detta Stefy, di 6 mesi, forse un incidente di percorso. Ma c’è. Ed allora ci prendiamo anche una baby-sitter. La portoghese Lucinda, che non parla italiano, come Emilia non parla portoghese. E si andrà avanti per settimane in questi dialoghi tra sordi. Poi c’è l’umanità che da Torino si sposta agostanamente in Sardegna. Quella piena di Vittoria con il figlio ventenne che non ci pensa nemmeno di venire, e con l’innamoramento per Ferdi; i Magli e le loro gemelline; Veronica detta Vero con l’inutile figlio Filiberto detto Fil. E tutta la cricca (che mi permetto di saltare) che va al mare insieme, poi si fanno le cene a turno. Tutto permeato dal fatto che Emilia si sente sempre in difficoltà, fuori posto, che Olli non gioca, che Stefy piange, che Giorgio non c’è, che Lucinda non parla. Per poi concentrarsi nel fatto che gli amici la convincono a prendersi cura di una capra abbandonata. E si andrà sempre peggio. Che Emilia non sa dire di no (primo errore), poi non sa gestire né capra né cavoli (battutina sul fatto che quando non fa altro, cerca di cucinare verdure), poi è costretta ad abbandonare la capra. Venendo praticamente bandita dal consorzio amicale. Dopo tutto questo abisso, finalmente arriva l’unico amico “out”, il vichingo Lars con la sua barca e la sua capacità, pur non dicendo nulla, di empatizzare. Di capire la solitudine di Olli, di parlare portoghese con Lucinda, di consolare Emilia e la capra. Sempre in ritardo, sempre impaurita, alla fine Emilia si domanda (come noi abbiamo fatto fin dall’inizio) se non sia il contrario. E che questo mondo che si ostina a frequentare sia altro dal mondo suo e della sua famiglia. Orlando continuerà a fare palline di pane per prendere pesci, ma noi speriamo (sappiamo?) che ci sarà uno scatto interno. Servirà ad Emilia ad uscirne fuori? Leggetelo per scoprirlo. Per ora, lasciateci fare il tifo per i nostri, sperando che Babi (l’orrenda Bartolomea Bice Valpetti) cada in una buca di sabbia.
“Il problema è che non solo perdo le cose, ma molto spesso credo di averle perse e invece non è vero … Ma non è che il lieto fine ci salvi dalla tragedia: la tragedia c’è comunque stata, cioè noi, fino a che non ritroviamo l’oggetto perso, viviamo la tragedia di averlo perso.” (48)
“Non so perché, ma quando una psicologa parla, tutto quel che dice, foss’anche la più banale e quotidiana cosa, assume all’istante un’aria profonda, introspettiva, e tanto tanto simbolica.” (50)
“Perché facciamo i bambini se poi non ce li guardiamo?” (75)
“La cosa che non sopporto è che ormai tutte le minoranze vengono, giustamente!, difese, tranne una: la minoranza di chi la pensa a modo suo.” (138)
“La tragicità del telefono, nessuna ci pensa mai. Intanto lui suona, così, quando gli pare, in mezzo ai tuoi pensieri, a volte anche complessi. Tu allora ci caschi e dici i tuoi pensieri a chi ti ha chiamato, ma dal punto in cui eri, non dall’inizio, e così nessuno capisce mai niente. E ci si illude di essersi parlati.” (195)
Donatella Di Pietrantonio “Mia madre è un fiume” Elliot euro 9,90
[A: 29/06/2012 – I: 11/07/2012 – T: 13/07/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 177; anno: 2010]
Un romanzo la cui trama si potrebbe veramente raccontare in un telegramma: “Donna verso la cinquantina ripensa alla sua vita mentre accudisce la madre che di giorno in giorno sprofonda nell’Alzheimer”. E già così sarebbe una bella epigrafe, per il romanzo opera prima di questa scrittrice abruzzese. Che mi è piaciuto assai, con quell’opera di straniamento che si ha leggendo di cose che si teme potrebbero accadere. Ed anche perché sapientemente autobiografico. La cosa più difficile, parlare di sé e del proprio vissuto, senza utilizzare la narrazione dei fatti banale, ma trasfondendoli in una storia che è la propria pur essendo altra. E che proprio per questo diventa epigrafe di storie simili. Operazione ben riuscita della dentista di Penne, ma originaria di Arsita, che sta di qua di Isola Gran Sasso, proprio come invece di là sta il luogo scelto per situare il romanzo, situato tra Colledara e Tossicìa. Un grande fiume di parole, per parafrasare il titolo, scaturito dalla penna e dalla testa di questa donna che prova a fare i conti della propria vita, rapportandosi ad una madre che mai ha mostrato di volerle bene. Operazione di una difficoltà unica, che noi rimproveriamo ai nostri genitori, e che con quanta paura vediamo esserne rimproverati dai nostri figli. Madre anaffettiva, ed ora, verso i settanta anni, colpita da questo male che mi fa una paura enorme. Che ti fa perdere contatto con la realtà immediata, e ti fa rifuggire in un mondo altro, dove non sarà facile, anzi sarà impossibile raggiungerti. E proprio nel tentativo di questo raggiungimento, l’io narrante comincia a raccontare alla madre la vita che lei, la madre, ha vissuto. In questo modo, prova a non perderne la memoria, ed a noi ci fa viaggiare per questi settanta anni, nella campagna pedemontana abruzzese. Tra famiglie dai cognomi probabili e comuni (Viola, nome ben diffuso nel luogo) e dai nomi d’effetto. Il nonno Fioravante e la nonna Serafina. Mamma Esperia e le zie Valchiria, Diamante, Clotilde, Nives e Clarice. Che suoni famigliari hanno questi nomi antichi. Mi congiungono sempre a mia nonna Bianca che ho sempre pensato chiamassimo così per i suoi candidi capelli, per poi scoprire in tarda età che si chiamava Paola Bianca. Ma torniamo ai piedi del Gran Sasso, dove si svolge la gioventù di Esperia, scandita dai campi, dalle pecore e dalle capre, dall’uccisione annuale del maiale. Da tutti i riti contadini e rurali. Financo tipico il rito del ballo, unico modo per frequentare l’altro sesso. E dove Esperia si prende del lontano cugino Cesare (in fondo lì son tutti mezzi parenti). Perpetuando la storia familiare e contadina. Con la nascita della figlia (ora narrante). Con il trasferimento nel nuovo podere. Le passeggiate ante-lucane per andare a scuola. E via con tanti micro episodi. Sempre con la presenza debole di papà Cesare, che ora pensa solo al suo orto avendo paura della malattia di Esperia. E la presenza forte della madre, che tiene tutti insieme, loro, i parenti, le zie, sposate o no. Tira forte tutti i fili, tanto che ora ne ha le mani ritorte. E la figlia ribelle, va, torna, e solo alla nascita di Giovanni sembra che ci sia quel riavvicinamento, che ora si spezza nella testa di Esperia. La scrittura va su e giù, che Esperia chiede e chiede alla figlia di narrare. Intanto si guarda al presente. Con il bicchiere rotto messo in frigorifero. Le cose che si perdono. L’olio per il sugo che brucia. E tutte le micro - catastrofi che costellano la vita di chi sta andando via. Non succede nulla di catartico, questo è il bello e potente del romanzo. Non arriveremo a vedere la fine di Esperia. Non è quello che serve narrare. Serve narrare di questa madre impetuosa e travolgente come un fiume, ma che si avrebbe voluto fosse un albero, per riposare nella sua ombra. Confesso che molto del bello del romanzo sta anche nel mio ritrovarmi in situazioni familiari. E nella paura che mamma Agnese possa perdere l’unica cosa ancora forte che ha. Non la memoria, che si sa con l’età si modifica. Ma il ragionamento ed i pensieri. Grazie Donatella di avermici fatto riflettere.
Viola Di Grado “Settanta acrilico Trenta lana” E/O euro 9
[A: 18/03/2012 – I: 25/09/2012 – T: 28/09/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 189; anno: 2011]
Ho cominciato a leggerlo con interesse. Una nuova scrittrice, giovane (della stessa età di mia nipote Fede), laureata in lingue orientali e trasferitasi in Inghilterra. E le ombre dei primi passi di scrittura ricalcano queste storie. Già dal nome adombrato, che la scrittrice fa Viola e la protagonista Camelia. Poi siamo Leeds, città dedita al ricordo dell’Università di Sara. Tutto questo mescolato in un linguaggio tra sogno e realtà, come direbbe Ligabue. Poi, pagina dopo pagina, il sogno si affossa, emergono dolori della pagina non risolti. E tutto si va perdendo e sperdendo in un tentativo di nobilitare l’innobilitabile, ed altre amenità. Nodo centrale, infatti, scopriamo dopo quelle pagine accattivanti, è la morte del padre di Camelia. Già questo sarebbe doloroso. In più, il padre muore in un incidente di macchina, in compagnia della sua amante. E questo scatena la “follia” nella testa dei protagonisti. Vediamo la caduta verso l’abisso della madre, che, sporca e lacera, una volta suonatrice eccelsa di clarinetto, decide di dedicarsi al mutismo. E se interessanti sono le pagine in cui madre e figlia si scambiano lunghi discorsi a forza di sguardi, questo leit-motiv che diventerà ricorrente alla fine stanca. Perché, alla fine, tutto si aggira sul silenzio, sul non detto. Si ha bene allenare gli occhi, ma anche la bocca vuole la sua parte. Come ci dimostra l’altra parte felice del testo. Lì dove Viola fa sfoggio della sua cultura linguistica, portandoci nell’universo della scrittura e della morfologia cinese. Di dove nascono le parole, come agglutinazione di monosillabi perifrastici. O dove crescono le potenze evocative, quelle dei verbi potenziali (che mi riportano ad una delle visioni degli studi linguistici che più mi avevano colpito, la frase ipotetica dell’irrealtà). Ed anche le radici: qui, nel cinese, evocate da morfemi unici (così ho capito), laddove nell’arabo erano tre consonanti quelle che guidavano. Tutta questa parte, per narrare l’avvicinamento di Camelia a Wen, lo strano cinese del negozio dei vestiti sbagliati. E di suo fratello Jimmy, quello che cuce le maniche sulla pancia, o i bottoni ovunque meno che al giusto posto. Perché Camelia, non riesce a parlare con Wen. Ma sopratutto è Wen che non riesce a parlare. E quando lo fa ne esce una tale mancanza di sostanza, che depaupera il romanzo di una componente essenziale: il mistero per cui il cinesino rifiuta la bella italiana, pur essendo innamorato. E facendo credere a tutti di avere un fratello pazzo. E quando conosciamo il fratello forse capiamo che il pazzo è un altro. E con tutta la cura che mette Camelia nel trattare la madre per farla uscire dal mutismo e la pazzia, alla fine, ma proprio alla fine ci domandiamo attoniti, ma chi è veramente fuori di testa? Questo tentativo di imbrogliare tutte le carte, porta la nostra giovane Viola ad ingarbugliare sempre più il racconto. Infarcendole di quelle immagini che, a piccole dosi, nella prima parte, sembravano alleggerire il racconto. Ma ora appesantiscono. Tutte quelle sforbiciate senza senso sui vestiti. Quei fogli pieni di lettere cinesi sparse per la casa. Certo, la morte del padre, così “altra” ha lasciato i suoi segni. Tuttavia quella più colpita, alla fine, mi sembra proprio Camelia. E mentre, pagina dopo pagina, sembravamo portati alla ricerca di un’uscita verso la luce, con quelle frasi sulle date della rinascita e via discorrendo, tutto precipita in abissi di silenzi, incomprensioni, ed altro. Ma dico, suvvia, apri la bocca e metti due frasi in fila. Fa dire qualcosa a qualcuno. Non cercare la mescolanza tra detto e non detto per portare sull’orlo della speranza e precipitare nei baratri della follia. Tutta la seconda parte mi è sembrata una (inutile) esibizione della bravura di scrittrice, ma senza la più piccola voglia di prendere per mano il lettore ed accompagnarsi insieme verso qualcosa. Tanto che, alla fine, il mio giudizio del libro si avvia verso lo scarso, quasi il brutto. Peccato.
Rosa Matteucci “Le donne perdonano tutto tranne il silenzio” Giunti euro 12 (in realtà, scontato 10,20 euro)
[A: 30/09/2012 – I: 14/10/2012 – T: 17/10/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 142; anno: 2012]
Che delusione! La Rosa di Orvieto aveva avuto (per me) inizi brillanti e promettenti. Mi aveva preso e coinvolto “Cuore di Mamma” (ed avevo anche riso assai). Mi erano parsi interessanti, ma con alcune riserve, sia “Lourdes” sia “Libera la Karenina che è in te”. Dopo di che, lascia l’Adelphi per partecipare a concorsi letterari (in particolare il Premio Strega), e già questo mi doveva lasciare perplesso. A valle della finale del Premio, con “Tutta mio padre”, ora ritorna in libreria con questo libro, edito da Giunti. E siamo caduti ancora più in basso. Dal punto di vista globale e particolare. Nel confezionamento generale, risulta quanto mai “straniante” il giudizio positivo espresso in quarta di copertina da Carlo Fruttero, laddove il libro vede le stampe a settembre del 2012, mentre l’ottimo Fruttero, purtroppo, ci ha lasciato già dal gennaio di quest’anno. Forse chi leggerà il libro tra 10 anni non se ne accorgerà, ma ora sembra un lancio poco efficace. Tralasciamo inoltre quanto sostenuto sia dal resto della quarta, sia dai risvolti, che sembrano aver letto una sintesi del libro (o forse le linee editoriali concordate prima della stesura definitiva) e non abbiano tenuto conto poi del libro in quanto tale. Dove, entrando nel particolare, sembra si assista ad una serie di capitoli slegati tra loro, nel tentativo, non riuscito, di creare un affresco della situazione per pitture successive, pittando ogni quadro di alcune sue caratteristiche, nella scrittura minuta forse anche interessanti, ma che non riescono a presentare (o che non mi hanno consentito di vedere) il grande affresco collettivo. La storia, depurata dalla pittura, dovrebbe presentare il percorso di due donne alle prese con problemi sentimentali. L’una, giovane attricetta, presa da Francesco regista del film sul cui set sembra svolgersi l’azione. L’altra, matura, presa da Savelli, direttore della fotografia del suddetto film. Peccato che entrambi siano sposati e non abbiano intenzione di cambiare il loro stato. Francesco perché è un classico “puttaniere” che pensa solo ad “intingere il biscotto”. E se non è Marta, sarà Valentina, o altra. Fino a che non viene casualmente scoperto dalla moglie e mandato a ramengo. Savelli perché preso dai sensi di colpa, laddove la moglie tenta un ridicolo suicidio, andando a guidare la macchina senza occhiali, e decidendo quindi che questa sarà la colpa che dovrà espiare: farsi amare da Maria senza risponderle. Certo le due donne ad un certo punto si trovano sul set, e ne parlano. Ma non con cui toni da “rivelazioni grandiose” che sembra profetizzare l’estensore delle note. Un dialogo tra sorde, dove qualche parola filtra, senza un vero perché. E forse Marta farà scelte nuove, mentre Maria non cambierà il suo cliché. Intorno a tutto ciò si muove il set cinematografico di un grande (grande?) film sulla passione di Cristo. Con tanto di croce con sopra Gesù, che rimane (inopinatamente) sempre lì per tutto il libro. Con l’invasione di attori da altri set limitrofi. E qui si rivela la piccola maestria (nonché conoscenza) dell’autrice, dove imbastisce per questi personaggi minori, delle mini-storie, soprattutto riprese dai libri della Brönte, “Cime tempestose” in testa. Ma certo questi divertimenti in punta di penna non riscattano il libro complessivo. Che rimane lì, amorfo, con tante frasi una dopo l’altra. Attaccate a questo o quel personaggio. Che parla, si dichiara, ragiona, esterna, ma senza un vero perché. Come non si comprende tutto lo sproloquio del Cristo sulla croce. Né tanto meno l’onirico capitolo della nuvola a forma di croce che appare a Genova, con una serie di messaggi incomprensibili o quasi (la resurrezione dei cagnolini? Ma che vuole dire l’autrice?). Per finire, citando il vezzo, credo richiesto dell’autrice, di scrivere “per sempre” tutto attaccato (“persempre”) per ben 5 volte nel libro (eh, si le ho contate). Errore dell’editor? Richiesta dell’autrice? Quale sarà il messaggio? C’ho pensato a lungo. Decidendo alla fine che si tratta solo del tentativo, furbetto, di voler apparire come una persona che maneggia un testo importante (utilizzando le frasi come fossero altro da un susseguirsi di lettere necessarie a comporre un testo), mentre a me risulta un libretto inutile. E forse anche, fastidioso. Peccato!
(Post Scriptum: l’unico punto veramente degno di nota e pronto per un dibattito è l’affermazione di pagina 42, dove i nomi delle dita dei piedi vengono indicati con alluce, melluce, trillice, pondolo e minolo; sono nomi indicati nella podologia alternativa, anche se melluce si indica più sovente con illice, e tuttavia meritano una discussione. Voi come li chiamate?)
Siamo già oltre la metà di Novembre, ed a grandi passi si avvicina addirittura il Natale. E con il Natale, il Capodanno. E poi il nuovo anno con le prime promesse di gite, e con i dubbi sulla continuazione del lavoro. Vedremo. 

domenica 11 novembre 2012

Suggestioni - 11 novembre 2012


Prima suggestione: io sembra che non stia a sentire nessuno, ma in realtà sembra. Seconda suggestione: non sparate. Terza suggestione: non sparite. Quarta suggestione: dove sono andate a finire le biglie? E poi, ripeto per mia convinzione, continuo ad essere franco ed a dire cosa mi piace e cosa non mi piace. Come nel quartetto di oggi.
William Langewiesche “Esecuzioni a distanza” Adelphi euro 7 (in realtà, scontato 5,60 euro)
[A: 24/07/2012 – I: 27/07/2012 – T: 28/07/2012]
[titolo: The Distant Executioner - Predators; lingua: inglese; pagine: 84; anno: 2010]
Non lo so. Sicuramente mi ha interessato, e sicuramente è ben scritto. Ma ha lasciato dai forti punti di perplessità. Elenchiamoli: la materia, la confezione, il suggerimento. Ed anche punti di curiosità e di stimolo. Intanto l’autore dall’impronunciabile nome. Infatti, Langewiesche è uno strano tipo di giornalista americano, per anni pilota (da corsa? D’aereo? Mistero da sciogliere). Non uno scrittore, ma con un modo sicuro di maneggiare le frasi. Si sente il taglio giornalistico. E si sente anche il taglio imposta dalla testata per cui scrive (“Vanity Fair”). E questo si ripercuote sulla scrittura, di taglio giornalistico, ma non pedantemente descrittivo. Anzi, cerca di suscitare pensieri quasi parlando d’altro (e pensieri ne sono sorti). Non affronta il tema di petto, non ti sottolinea: guarda che enormità sto dicendo. Ma i temi vengono fuori. Prima di affrontarli, elemento duale di bene e male, vediamo gli altri punti, quelli dolenti. Il suggerimento viene da “Satisfiction” una strana rivista di libri e letture, sponsorizzata da Feltrinelli e Vasco Rossi. Ne parlava con calore, e mi ha convinto a comprarlo, ma i motivi che avrei portato sono tutti diversi sa quelli sottolineati. Così come la confezione. Non è un racconto, o un romanzo, ma sono due articoli, scritti appunto per “Vanity Fair”, e accomunati dalla vicinanza del tema. Niente di più. E forse andava detto, nelle note al libro. E continuiamo con lo specifico. L’interesse che mi ha suscitato la lettura dei due articoli deriva proprio dalla luce che, in qualche modo, gettano su alcune tipologie americane di vita. Il primo solleva e collega i grandi interrogativi sul rapporto con le armi che hanno gli americani. Certo si parla di “sniper” termine gentile che al volgo si traduce con cecchino. Ma la vicenda del fantomatico Ross Crane dà alcuni spiragli sul rapporto che hanno con le armi. E di conseguenza con il rapporto con la vita. È ovvio che stiamo parlando di situazioni particolari, di quando Crane inquadra nel suo mirino telescopico degli afghani cercando di capire se siano talebani da uccidere o contadini che stanno seminando (e che per questo scavano nella terra). È giusto sparare? Come distinguere i due ceppi se sono praticamente indistinguibili? Se fossimo in Occidente, un mucchio di sassi al bordo di una strada farebbe muovere idee di possibili attentati. Ma l’Afghanistan è tutto un mucchio di sassi, anche nelle grandi città. Poi torniamo nel Texas, dove ora Crane addestra altri cecchini. Ed ha un mini-arsenale alla porta di casa. E legge riviste di armi. Quando spara si sente la coscienza a posto davanti alla nazione e a Dio onnipotente. È questo il modo di vivere? Ci si chiede come sia possibile la nascita di una mentalità così intimamente sospettosa dell’altro. Che spinge a liberalizzare il possesso individuale di fucili, pistole e bombe varie. E poi ci meravigliamo di Columbine o del massacro al cinema di Batman! E non ci meravigliamo che il nostro cecchino si chieda perché qualcuno ha deciso di far nascere le religioni monoteistiche in un posto così poco accogliente come il Medio Oriente, invece di scegliere, che so, la Svizzera. Il secondo poi è ancora più legato al sentimento militare imperante, e ad alcune modalità della guerra moderna che non mi erano chiare e che mi hanno spaventato. Si parla di “drone”, cioè di avio-robot guidati dall’uomo, della classe “Predator”. L’uomo a terra guida il robot che vola, che trasporta armi, che gira sulle zone di guerra, e che, vedendo obiettivi sensibili, lancia granate ed altre micidiali bombe. Forse si può perdere il “drone” ma l’uomo è al sicuro. E fin qui niente di nuovo. Quello che non sapevo e che mi ha realmente spaventato, è il fatto che l’uomo che guida questi robot, quasi una sorta di video-gioco super costoso e super-tecnologico, si trova ben lontano dalla zona di guerra. Nella fattispecie, i robot girano sempre nelle zone di guerra tra Iraq ed Afghanistan. E gli uomini al comando sono … in America. Tutto quello cui devono stare attenti è il ritardo del segnale di circa due secondi, dovuto alla distanza dall’obiettivo reale. Ma lo scenario da guerra futura è impressionante. Uno sforzo tecnologico per far sì che la guerra si trasformi realmente in un immenso videogioco. Mi viene in mente quel bellissimo film (War Games) dove tutto era gestito da un computer che poi “impazzisce” e rischia di scatenare una disastrosa guerra mondiale. Perché lui, il computer, pensa che sia un gioco. E va scolpita nella pietra quella frase finale: l’unico modo di vincere questo gioco è … non giocare. Ecco, cerchiamo di scolpirci in fronte questa frase, e cerchiamo di farla capire a tutti gli imbelli portatori di guerre!
Tommaso Pincio “Hotel a zero stelle” Laterza euro 12 (in realtà, scontato a 9,96 euro)
[A: 04/12/2011 – I: 06/08/2012 – T: 25/08/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 229; anno: 2011]
Intanto questo libro mi dà modo di confutare la leggenda che mi vuole restio a consigli degli amici. È solo il tempo che passa tra consiglio e lettura che può far nascere questa diceria. Così, ringrazio Maria del suggerimento, che mi ha consentito la lettura di un libro interessante, e con molte corde che risuonano nei miei suoni interiori. Inoltre è un ulteriore esempio della bontà generale delle scelte editoriali di Laterza in questa collana che, nella quasi totalità, propone autori italiani alle prese con paesaggi e memoria. Paesaggi esterni o interni, ma sempre paesaggi. Come questo viaggio che ci propone Marco/Tommaso attraverso le sue stanze interiori che ricostruisce come un albergo, di quelli degli scrittori dannati, di quelli dove morivano drogate e alcolizzate le speranze di molte generazioni. Un albergo senza stelle appunto, ma pieno di tanta gente che avrebbe oscurato le suddette stelle. E partendo dalle basi, dal piano terra, dagli atri, si sale attraversando il suo inferno personale, sino al quarto piano del suo Paradiso. Mescolando, con gusto e con coinvolgimento di me lettore, episodi di vita, scorribande, viaggi, lavori, atelier, pittori, scrittori. Alla fine pensiamo di conoscere un po’ di più lo scrittore, di poter dialogare sulle sue scelte, trovando, personalmente, geniale la chiusura. Cerchiamo allora di addentrarci, attraverso i piani di questo albergo. E non possiamo che iniziare viaggiando. Che il viaggio ci porta a frequentare più spesso gli alberghi. E lì, senza particolari giudizi, nell’atrio che da il tono e la qualità all’albergo stesso, viaggiamo con Marco in oriente, per incontrare il Vietnam di Parise o quello di Graham Greene (di cui ho a lungo parlato tramando ‘L’amico americano’). E come non notare nell’angolo, l’archetipo dei viaggiatori che poi non è che viaggino tanto. C’è Kerouac, con l’epopea sulla strada, anche se non era la sua (né di strada né di epopea), lui sempre un po’ ai margini a scrivere, mentre gli altri si dannavano. Senza ascensore, saliamo allora i tre piani dell’albergo, la commedia poco divina dell’autore. Passando da un inferno popolato dalle follie di Scott Fitzgerald (e della moglie Zelda), per arrivare all’ipertrofia dello scrivere di Simenon e all’ipotrofia di Foster Wallace. Saliamo arditi verso le visioni (ai limiti del tossico) di Philip K. Dick (e anche qui rimando alle righe che ne ho appena scritto, per trovare un rapporto tra visione e realtà). E continuiamo a trovarci di fronte alle difficoltà, alle impossibilità di scrivere. Con Tommaso Landolfi, da un lato e con il Bartelby di Melville (sì, quello che continua a ripetere “preferirei di no”) dall’altro. Per arrivare, finalmente, al Pantheon privato del nostro: a Pasolini, alle due scritture opposte e complementari di Garcia Marquez e di William Burroughs, alle utopie reali di George Orwell. Un bel compendio, dove si attraversa con gusto lo scrivere altrui, infilando esempi, aneddoti, momenti personali (bello quello con Alighiero e Boetti, che, per i non addetti all’artistico, è una persona sola). Con scelte che condivido, ed altre meno (non ho ancora attraversato Pasolini, e non mi trovo a mio agio con Burroughs). Ma il bello delle scelte è che si possono discutere. E Marco mi sembra che sia un tipo che non si tirerebbe indietro. Non entrerò qui sulla diatriba del suo pseudonimo, in fondo è un suo problema, anche se condivido a pieno la frase finale (e non è un caso, vero Gianni - Giovanni?). Vorrei solo finire facendo mia l’esortazione dello scrittore agli altri. Perché se è vero, come ha fatto scrivere sulla sua lapide Marcel Duchamp, che ‘sono sempre gli altri che muoiono’, prima della (mia?, nostra?) fine, per favore, “Non sparite!”. Ultimo inciso ai revisori del libro (o una domanda all’autore se invece è fatto di proposito): non si lascia una citazione alla stanza 404 dell’albergo, visto che l’ultima è la 403. (P.S.: ne parlo tanto di questo libro perché, primo dovete comunque leggerlo, e secondo, mi dispiace di non averlo scritto io).
 “Quello che siamo è spesso nascosto alla maniera della lettera rubata nel racconto di Poe.” (22)
“Ci rifugiamo nel teatro della letteratura perché là fuori, nel mondo reale, abbiamo fallito in qualche cosa.” (86)
“Spesso le parole che attribuiamo agli altri non sono che rielaborazioni inconsapevoli di quel che abbiamo creduto di udire o leggere.” (94)
“Perché mi succede di fare cose che so essere sbagliate e che in teoria non vorrei fare?” (104)
“Mi ha insegnato una cosa fondamentale: … ribellarsi è sempre giusto, ma lo è ancor di più quando non hai scampo.” (172)
“Acquisire un nome nuovo significa cambiare il corso del proprio destino.” (210)
Alberto Arbasino “La vita bassa” Adelphi euro 5,50 (in realtà, scontato a 4,40 euro)
[A: 24/07/2012 – I: 27/08/2012 – T: 29/08/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 113; anno: 2009]
Mi domando perché ed in base a quali suggerimenti abbia comprato questo libro. E poi perché, una volta incominciato a leggerlo, abbia voluto portarlo a termine. Non è che non mi sia piaciuto. Peggio. Lo trovo inutilmente pretenzioso, demagogicamente pensato e scritto. Certo, Arbasino era sempre rimasto nella mia mente, nel suo lato giovanile, l’autore che mi aveva affascinato con quel folle testo di “Super-Eliogabalo”. Io ero ben più giovane, magari più portato alle stramberie linguistiche, affascinato dalle letture di Antonin Artaud e dei suoi coevi facitori di teatro francese (ricordo di essere stato uno dei pochi possessori e lettori di quelle raccolte einaudiane di teatro dadaista e surrealista). Tuttavia, qualche sospetto mi sarebbe dovuto venire, quando, di tempo in tempo, cercavo di leggere qualche sua pagina nella sezione culturale di Repubblica. Lì il nostro Alberto gigioneggia, si loda e si imbroda, insomma ne leggevo poche righe e poi passavo ad altro più coinvolgente. Che so, la cronaca di una partita di tennis fatta da Gianni Clerici, qualche pezzo di nera firmato da Massimo Lugli. Poi mi imbatto in questo pamphlet. Diviso in tre parti, scritte nel 2008, non a caso nella quarantennale ricorrenza di un anno mirabilis. E ben di quello si parla, nella contorta scrittura arbasiniana. Che se avesse usato modi piani e diretti, forse avrebbe confezionato un centinaio di pagine leggibili e perché no, con qualche idea non proprio da buttare (forse solo l’ultima parte sarebbe stata irrecuperabile). Andando a semplificare, la prima parte, per via di accostamenti da lettino psichiatrico, cerca di darsi una spiegazione del passaggio non repentino, ma certamente doloroso, da una stagione di fermenti e di idee e possibilità, ad uno stato attuale di volgarità, rozzezza, e prospettiva nulla. Esemplificata, nella volgarità, da quella vita bassa che tanto va di moda tra i giovani dei tempi nostri, quella per cui fan bella mostra di sé mutande firmate e fondo schiena torniti. Ora, certamente Arbasino non è un sociologo, ma uno scrittore, e non pretendo da lui un’analisi consequenziale e diretta di cause ed effetti, ma questi affastellamenti verbali, oltre che di difficile lettura, sono affaticanti anche per menti più scattanti della mia (e ne riporto un esimio esempio, che fa mostra di sé nella quarta, ma rimaneggiato dall’editor, che così si legge, mentre nello scritto risulta pesantino anzi che no). La seconda parte, poi, avrebbe avuto bisogno di altri attacchi, altri commenti, ed altri finali. Come a spiegazione di certe derive intellettuali, Arbasino riporta brani di interventi, scritti, pensieri, delle lucide menti di scrittori e politologi di quaranta anni prima. Partendo da Berlino, passando per Parigi, e fermandosi a Londra. Se avesse proseguito per Roma, sarebbe stato più interessante (ma forse, sarebbe stato troppo forte, e per il lato italico è sufficiente la seconda frase che vi cito). Ma si passano via via citazioni su Grass e Böll, su Adorno e Handke, poi su Queneau e Sollers, su Barthes e la McCarthy esiliatasi in Francia, e poi su Sillitoe e Angus Wilson, sulla Lessing e Mauriel Spark. Frasi decontestualizzate, che non si capisce cosa dicano, che non si raccordano, che si annodano fra loro, strutturate solo nella testa di Arbasino, che tuttavia non ce ne fornisce la sua chiave interpretativa. Le butta lì, perché noi siamo intelligenti e ne capiamo il perché. E lui è troppo superiore per sporcarsi le mani e guidarci nel suo percorso. Insomma, 100 pagine per dire, alla sua maniera, che siamo caduti in basso, e che non vede la speranza. Un presente ed un futuro nero e nichilista. Sarà vero. Sarà così. Ma io sono della vecchia scuola, quella che si affanna a coordinare le frasi, a cercarne un senso, a spiegarne lo svolgimento, ed in questo non credo di offendere l’intelligenza di nessuno. E forse un modo così basso di lettura ci consentirebbe di trovare qualche luce in tutto questo buio. Ritorno allora alla domanda iniziale: ma perché l’ho comperato? Di certo, so solo che continuerò a saltare i suoi scritti giornalistici.
 “E se la ‘vita bassa’ per i prossimi Lévi-Strauss e Mauss e Bataille … diventasse un Segno antropolo- ed etnometodologico strutturale e culturale di tutto un Inconscio o Conscio tribale ed elettorale … come i totem e tabù … dei più rinomati aborigeni?” (27) [ed ho tagliato molto, che nei vari puntini si saltava da glutei ridondanti, sgargianti, e facce dipinte]
“- Una risata vi seppellirà! ... Ma all’epoca certamente non si poteva prevedere che di lì a poco ben altro che risate avrebbero sepolto Pasolini, Moro, Feltrinelli, Pinelli, Casalegno, Calabresi, Tobagi, Dalla Chiesa, Bachelet, Croce, Coco, Calvi, Sindona, Ambrosoli, Alessandrini….” (62)
Francesco Guccini “Dizionario delle cose perdute” Mondadori euro 10 (in realtà, scontato 7,50 euro)
[A: 24/07/2012 – I: 07/09/2012 – T: 07/09/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 140; anno: 2012]
Riuscendo a dribblare con garbo una possibile operazione di “pura nostalgia”, il grande Francesco ci (e mi) fornisce un gradevole ed agile compendio di cose che c’erano ed ora non ci sono più (o se ci sono, sono talmente modificate da essere altre). La sensazione però, nell’onda dei ricordi, non è che si cerchi il facile rimpianto un po’ lamentevole sui bei tempi andati (ah, che bello quando c’era …, quando si faceva …, quando si poteva …). Io l’ho letto più come una constatazione ed una consapevolezza. I tempi cambiano. Cambiano i costumi. Cambiano le abitudini. Tutte constatazioni. Ma noi siamo qui, siamo cresciuti, ne ricordiamo, e, in modi diversi, ci hanno fatto quello che siamo. Consapevoli di un mondo diverso, e pronti ad affrontarlo ancora. Forse, la sola punta di rimpianto (a cui devo dire mi associo in pieno) riguarda i giochi che si facevano da ragazzi. Perché erano un momento di incontro anche nello scontro. Erano momenti di inventiva, di creatività, anche di manualità (dalla costruzione delle cerbottane a quella delle carriole). Tanti erano già in declino, o poco usati dalle mie parti. Non so, la lippa o la fionda. Altri si stavano evolvendo, anche se ricordo ancora la mia prima scatola di Meccano. Ma sopratutto ricordo le corse con i tappi a corona sui marciapiedi e le biglie sulla spiaggia. Quei Giri d’Italia fatti con le palline con la foto dei ciclisti dentro (ed io sempre con il mio mito, l’impareggiabile Charly Gaul; ve lo ricordate?) erano momenti alti delle mie estati adriatiche. La scelta del luogo, il disegnare il percorso con il fondo schiena del più chiattulello. Costruire montagne ed altri impervi passaggi. Passavamo giorni e giorni a fare, giocare, rifare e disfare. Poi arrivò il mini-golf, ed io scesi in fondo alla scala dei campioni. Governavo il dito, non mi riuscì mai con la mazza. Certo Guccini mi è maggiore (di ben più di dieci anni) e si nota in alcuni ricordi che per me erano già passati quando li risento (l’arrivo del chewing-gum, la ratafià fatta in casa, il caffè d’orzo del dopoguerra e non quello di adesso, i pennini). Altri li vedo ancora nella mente e li ricordo tangibili: il fumo nei cinema, con quell’effetto di pioggia che avevano tutti i film visti tra uno sbuffo e l’altro, i banchetti delle scuole medie con i ripiani in formica verdolina, le siringhe messe a bollire per sterilizzarsi, il lattaio e le bottiglie di vetro. E poi ci sono cose che ho perduto io, e non Guccini, come il forno del panettiere dove portare le teglie di pomodori al riso di zia Vittoria (che non s’aveva il forno in casa). O quei sabati mattina, passati in casa ad aspettare le trasmissioni sperimentali del secondo canale TV. Un discorso a parte meriterebbero, forse, i due capitoli più sociologici. Quello dedicato alla televisione, appunto. Quando si andava dalla ricca zia in centro per vedere il Musichiere o Lascia e raddoppia. E quello dedicato all’arrivo del telefono. Quell’oscuro oggetto, di bachelite nera, che cominciava a collegarci con l’esterno. Ed al primo che arrivò in casa nostra, che, come nello scritto di Guccini, era duplex. Tanto non è che proprio si usasse a dismisura. Ed al rapporto strano che se ne instaurò in casa: ogni trillo era visto come un’invasione. Ed io alla mia prima ragazzina, mica telefonavo, no, scrivevo lettere ed aspettavo sulla porta il postino per l’agognata risposta. Antagonismo atavico, tanto che ancora oggi, ai tempi cellulari, non è che abbia un buon rapporto con lui. Alla fine non posso dire che sia un capolavoro. Ma godibile, scorrevole, leggibile. Ed anche meditabile. Purtroppo anche manchevole, nel mio immaginario personale, laddove di “Davanti San Guido” (un mio must), si ricorda (pensando ai vecchi treni) che ‘ansimando fuggìa la vaporiera’ e non si chiosa il tutto con il bellissimo asino bigio che rosicchia il cardo! E se volete, ve la cito ancora a memoria, che noi, le poesie, si imparavano e si recitavano.
Non possiamo certo esimerci in questo giorno genetliaco di fare ancora auguri a chi doppia mete a noi ancor semestralmente lontane. A grandi passi poi già vien avvicinandosi il Natale con la promessa di nuovi viaggi e la speranza di altrettanti riposi. Per ora godiamoci il fatto che San Martino non ci smentisce con la sua estate. 

domenica 4 novembre 2012

Gradevoli evasioni - 04 novembre 2012


Una domenica di grande relax, con alcuni campioni eponimi di movie o serial fiction (palesi o latenti). C’è il bello con un’ennesima prova già pronta per il cinema, c’è il primo episodio di quello che diventerà un serial precursore di tanti “Boody of proof”, c’è il tentativo (interessante anche se non completamente riuscito) di scrittura a quattro mani anglo-svedese. L’unico un po’ fuori dal coro è il sino-americano Qiu, che tuttavia ci regala qualche pennellata di vita interna cinese da non disprezzare.
David Baldacci “Il candidato” Mondadori euro 9,50 (in realtà, scontato 8,08 euro)
[A: 28/04/2012 – I: 14/07/2012 – T: 15/07/2012]
[titolo: Split Second; lingua: inglese; pagine: 405; anno: 2003]
Un nuovo capitolo della grande saga americana di Baldacci, sempre pronto a scrivere di storie sul filo (quasi) di possibili sceneggiature da film (e non è un caso che molti suoi romanzi lo siano diventati). E sempre pronto a narrare storie sul filo del potere. Fin dal primo best-seller (il romanzo sul potere di un Presidente Americano da cui il bel film con Clint Eastwood e Gene Hackman) il suo orizzonte di plot, si svolge, spesso e volentieri coinvolgendo poliziotti, servizi segreti, CIA, FBI. Insomma tutti coloro che, istituzionalmente, sono coinvolti nel regolare ordinamento delle attività quotidiane americane. Spesso il punto di vista è sulla parte del potere. Ma non sempre. Tant’è che ultimamente ha messo in cantiere due “serie” che hanno un atteggiamento parallelo anche se non coincidente. Ho già parlato della serie del Camel Club, di cui si è letto 3 episodi. Una serie con al centro la CIA, ma molto critica verso l’establishment e con una discreta dose di ironia. Qui invece siamo alla prima puntata della serie che vede protagonisti Sean King e Michelle Mick Maxwell. E sappiamo che è una serie perché Baldacci ne ha scritto altri con loro due (così dicono i messaggi pubblicitari, togliendoci un po’ del mistero su come andrà a finire questa di storia). I due sono (o erano) entrambi agenti del Servizio Segreto, accumunati dallo stesso destino: di scorta a candidati presidenziali li hanno “persi”. Ritter (protetto da Sean) muore e otto anni dopo Bruno (protetto da Mick) viene rapito. Si ingaggia così una lunga vicenda intrecciata per la ricerca del rapito, che ben presto si intreccia con le vicende dell’omicidio precedente. Il tutto complicato dalla presenza di Joan, ex-agente, collaboratrice-amante di Sean al tempo di Ritter, che ora gestisce una sua agenzia privata (e cercare di sedurre ancora il pacifico Sean). Nonché complicato dal fatto che Sean già da otto anni e Mick ora vengono sospesi dal servizio, quindi non si hanno notizie dall’interno delle ricerche. I morti continuano a fioccare sulla strada dei nostri. E sempre più si sospetta (con ragione) che le due vicende abbiano più punti in comune di quanto possa apparire a prima vista. Ben presto si chiarifica il ruolo di Joan, positivamente. Ed i tre cominciano a macinare chilometri, sospetti nonché tentativi di farli fuori. Si scava nel passato dell’assassino di Ritter, e si scoprono da un lato connessioni che ci si aspettava, dall’altro possibili coinvolgimenti inaspettati. La vicenda scorre gradevole, anche sul filo delle (piccole) provocazioni sessuali, senza scadere nello scontato o nell’erotico di serie B. Devo dire che, ad un certo punto, mi è venuta l’illuminazione (che i nostri avranno molte pagine dopo). Un ragionamento logico e conseguente sulla base degli indizi presentati. Poi, per spiegarlo e smantellarlo, Baldacci ci mette pagine e pagine. Ma sarà la stanchezza, sarà il fresco della notte, non sono riuscito a mollarlo prima della fine. E non prima di assistere al patto tra Sean e Mick che preannuncia una salda collaborazione lavorativa (quanto meno), se non qualcosa di più (ma non è detto). Ma questo come detto ce lo aspettavamo. Resta la gradevole prova di una scrittura che è già (quasi) una sceneggiatura, che lascia poco al caso, che mette dei piccoli punti interrogativi qua e là, ma senza pungere troppo. Direi in chiusura un gradevole scacciapensieri.
James Patterson & Liza Marklund “Cartoline di morte” TEA euro 8,90 (in realtà, scontato 7,57 euro)
[A: 02/10/2011 – I: 20/07/2012 – T: 20/07/2012]
[titolo: Postcard Killers; lingua: inglese; pagine: 290; anno: 2010]
Uno strano ibrido che tuttavia ha dato dei frutti quanto meno discreti. Da un lato il (per me) poco noto James Patterson, che tuttavia mi si dice essere campione di long seller thriller & noir, in particolare con la serie che vede protagonista Alex Cross. È il primo libro di Patterson che ho in mano quindi non so dire se all’altezza o meno dei precedenti. Sicuramente, immagino che il detective Kanon non solo venga dalla penna di Patterson, ma abbia “affinità elettive” con Cross. Dall’altro la nostra vecchia conoscenza svedese, Liza Marklund, di cui seguiamo da anni e con diletto le avventure della giornalista-detective Annika Bergtson. E non è un caso, credo, che questo giallo, nella parte che si svolge in Scandinavia, abbia come punto centrale proprio una giornalista. Che pur non emula della Bergtson, ne ricalca alcuni tratti tipici: giornalista non organica, ma “prestata”, spirito libero con scarsa propensione al rispetto delle regole pubbliche e private. Questi due poli della vicenda sono destinati ad incontrarsi durante le indagini di quelli che vengono definiti “i killer delle cartoline”. In giro per l’Europa, infatti, vengono commessi una serie di crimini, in cui sono in modo efferato fatte fuori solitamente delle coppie. Con un modus operandi anch’esso ripetitivo: abbordaggio da parte di una giovane coppia, che sembra meglio conoscere il luogo, verso una coppia in vacanza. Cena, qualche regalo costoso, qualche spinello. Poi un tentativo di festa a base di champagne, che però viene drogato. Ed i due malcapitati sono fatti fuori. Kanon capita, anzi più che capita, si precipita nella vicenda, in quanto una delle prime coppie uccise comprende la diciannovenne figlia. Dessie, invece, perché la cartolina che annuncia la morte imminente viene a lei recapitata. E poiché Dessie non è tipi da tirarsi indietro, comincerà a seguire sempre più da vicino il problema. Ed anche perché viene affascinata da questo strano e dolente poliziotto americano, in giro per l’Europa in cerca di vendetta. I due, Kanon e Dessie, servono anche a mostrare le differenze procedurali tra diritto americano e diritto europeo. Dessie, unendo tutte le prove accumulate in 6 mesi da Kanon, comincia a trovare barlumi di idee per collegamenti ed altro. In questo aiutata dalla frequentazione di gallerie d’arte, che gallerista aveva come marito, prima di lasciarlo per Gabriella, poliziotta che ritrova in questa indagine. Poliziotta che Dessie aveva anch’essa lasciato in quanto appunto insoddisfatta ed in cerca di sé. Collegando le varie polaroid inviate ai giornali post-mortem, scopre una costante che si ripete notevolmente. Nonché, in parallelo, scopre una costante nelle cartoline inviate. Inoltre sta scrivendo un dottorato sulla psicologia dei ladri ripetitivi (i ladri di appartamento, i ladri di macchine, e così via). Per cui capisce anche come possono andare a finire i furti di oggetti che avvengono dopo i delitti. Unendo tutti questi dettagli, Kanon riesce ad individuare Mac e Sophie, due americani che sembrano gli unici possibili autori del delitto. Tuttavia… manca un movente e mancano alcuni tasselli perché un serial killer o è sempre seriale o è casuale, ed allora è altro. Per trovare i bandoli finali della matassa, Kanon torna in America, e tramite le sue conoscenze in FBI, ricostruisce il background dei due, che non sono amanti, ma fratelli gemelli. Ed intuisce il motivo. Dessie, andando a fondo nei tasselli fuori quadro, arriva alla stessa conclusione, solo che non riesce a fare il passo finale, se non al ritorno di Kanon, con il quale nel frattempo finisce sotto le lenzuola per una memorabile scena di sesso liberatorio. Tasselli a posto, manca solo di arrestare i due, che dopo essere stati fermati, sono rilasciati da un procuratore inetto. Si avvia così una scena finale, credo molto dal lato americano, con inseguimenti ed altro e catarsi e spiegazioni. Che io invece non rivelo. Dico soltanto che (soprattutto per le parti “svedesi”) il libro scorre che è un piacere. E messomi lì, sorseggiando un caffè, fumando una sigaretta, e poi mettendomi a letto, sono andato avanti leggendomelo tutto in una calda ma non torrida serata di fine settimana estivo romano. Mi sembra un buon complimento, per un libro da evasione pura.
Qiu Xialong “Visto per Shanghai” Marsilio euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 29/07/2011 – I: 08/08/2012 – T: 25/08/2012]
[titolo: A Loyal Character Dancer; lingua: inglese; pagine: 359; anno: 2002]
Con questo libro finalmente rimettiamo in ordine nella saga dell’Ispettore Capo Chen Cao della polizia di Shangai. Per motivi di acquisti contorti e per la difficile programmazione editoriale italiana (che pubblica libri stranieri così quando capita), i primi tre libri scritti dall’esimio professore di letteratura cinese emigrato negli States, li ho letti nel seguente ordine 3 – 1 – 2. Ora quindi mi sento in grado di entrare un po’ più in dettaglio su alcuni temi, dopo però aver senza dubbio affermato che questo secondo ha un discreto grado di lettura ed un discreto livello di coinvolgimento intellettuale, per noi interessati alla risoluzione dei problemi ed alla scoperta di luoghi e modi di vivere. Tra l’altro, usando come uno dei personaggi principali, una donna – poliziotto americana che per una serie di ragioni si trova ad agire in Cina insieme al nostro ispettore, l’autore si consente qualche elemento di descrizione turistica non folcloristica della vita cinese nel mondo del dopo Deng Xiaoping. Allora, facendo un passo indietro, narriamo che il coetaneo Qiu, vinta una borsa di studio per St. Louis in quanto poeta ed esperto di T. S. Eliot, decide di restare in America, a valle delle proteste di piazza Tienanmen del 1989. Una dozzina di anni fa decide di dedicarsi alla scrittura, inventandosi uno strano personaggio di poliziotto – poeta, guarda caso esperto di Eliot, e di utilizzarlo per fare una descrizione dell’evoluzione del mondo cinese, con accenti critici, ma all’interno di un fondamentale amore, verso la società cinese e la sua evoluzione “capitalistica”. Quindi seguiamo Chen nel suo coinvolgimento in casi sempre ben collegati alla politica, e, soprattutto in questi primi tre libri, con alcune descrizioni (dal di dentro) dei periodi della Rivoluzione Culturale e del “Grande Balzo in Avanti” del popolo cinese. Ma Chen, come l’autore, è anche poeta. E quindi, abbiamo anche spesso (forse troppo) citazioni poetiche di varia estrazione cinese. Non so se e come siano state riprodotte in italiano, anche se Qiu scrive in inglese, e cita i suoi poeti cinesi nella traduzione che dal cinese all’inglese fa lui stesso. C’è sempre tanta confusione nei passaggi di lingua, tant’è che (per me ed in italiano) questi quasi – haiku mi lasciano decisamente freddino. Anzi, aprendo una piccola parentesi sulle traduzioni, mi domando perché il titolo originale (“Danzatrice della lealtà”) che aveva un senso collegato al personaggio principale della vicenda, sia tradotto con un inopinato “Visto per Shangai”, dove i cinesi non hanno bisogno di visti per andare a Shangai, la bella americana il visto ce l’ha, e tutta la vicenda ruota (almeno idealmente) su problemi di immigrazione clandestina verso gli USA, e quindi, se di visti si tratta, sono per uscire dalla Cina e non per entrarci. Qui (anagramma dell’autore) entriamo nel vivo. C’è modo di dare un colpo mortale ad una delle organizzazioni che gestiscono il traffico di cinesi verso l’estero, ma per farlo bisogna trovare una donna cinese indicata come perno della vicenda. Quella, per intenderci, che, durante la Rivoluzione Culturale, faceva appunto la “Danza della lealtà” per il Comandante Mao. E che ora è sparita. Chen e la bella ispettrice Rohn, espressamente venuta da St. Louis (ancora para – auto – biografie) cominciano ad indagare, scontrandosi con diversi livelli di complicazione. La mafia cinese (le famose Triadi) che cerca di impedire alla sparita Wen di recarsi negli USA. Il potere politico cinese, combattuto tra collaborazione e reticenze. La polizia corrotta, che mette in pericolo la vita dei due. Nonché le motivazioni stesse sia della fuga che della necessità che Wen sia portata in America. In questa parte si dispiegano i momenti migliori di Qiu: la descrizione di Shangai, delle campagne, i paragoni tra la vita cittadina e quella rurale, l’arroganza dei nuovi ricchi. Ma anche il modo di mangiare, la percezione dell'occhio americano sulla vita quotidiana. Tutto, purtroppo, riempito dai quei passaggi “poetici” che non riescono a coinvolgermi. Ed anche da alcuni passaggi troppo lievi su una possibile storia fra i due ispettori. Il nostro Chen, comunque, sorprenderà tutti arrivando ad una conclusione in qualche modo inaspettata ma funzionale. Alla fine, rimangono alcune interessanti descrizioni, ed un libro complessivamente di buona lettura. Sono curioso di vedere i prossimi passi che (sebbene già presenti nella mia libreria) ancora non vedono luci di lettura.
“Con la tua gonna verde sempre nella mia mente, in ogni dove, / in ogni dove io cammino sull’erba sempre con leggerezza.” (da un poeta cinese del X secolo) (13)
Kathy Reichs “Corpi freddi” BUR euro 9,90 (in realtà, scontato 8,41 euro)
[A: 02/10/2011 – I: 10/10/2012 – T: 16/10/2012]
[tit. or.: Déjà Dead; ling. or.: inglese; pagine: 466; anno 1997]
Eccoci ad affrontare un’altra scrittura seriale che avevo lasciato svariati anni fa, e che ora riprendo avendo, lo scorso anno, trovato in giro il primo libro di Kathy Reichs. La Reichs è antropologo forense in North Carolina ed in Canada, e decide, una quindicina di anni fa, di scrivere qualcosa di attinente. Costruisce così il personaggio di Temperance Brennan detta Tempe, specializzata nell’analisi delle ossa dei cadaveri. Non è un medico legale a tutto tondo, come la nostra ben nota Kay Scarpetta. È un’antropologa, che fa ricerca tra Stati Uniti e Canada, ed è prestata all’attività forense come super esperta del trattamento delle ossa. Tralascio i libri posteriori che lessi, per ripartire un po’ dalla base. Qui, all’inizio della saga, la troviamo a Montréal, alle prese con resti umani e scheletri da ricostruire. Veniamo a poco a poco a sapere che si è separata dal marito Pete (ma non sappiamo perché), che ha una figlia Katy che si sta laureando a Charlotte. E la troviamo subito immersa nel mondo maschile di poliziotti ed affini, dove il suo ruolo di donna è ben messo in luce (e spesso emarginato). Quanta difficoltà a far emergere le proprie convinzioni in un ambiente ostile. Ma Tempe è, in fondo, molto dura perché la sua materia la conosce. E ne fa la base di ragionamenti sensati. Ragionamenti che cominciano dal ritrovamento di alcuni cadaveri femminili, risalenti da mesi ad anni prima. Cadaveri sfigurati, smembrati, martoriati ed anche con punte di perversioni sessuali, che all’inizio non escono fuori. Cadaveri ignoti. Tempe si mette con certosina pazienza alla ricerca di indizi. Sfoggiando, ma l’autrice anche sa il fatto suo che parla di materie che conosce, una capacità di analisi sulle ossa di rara efficacia. Utilizzando tecniche di avanguardia (anche se il libro è di 15 anni fa, e noi ormai, alcune di queste tecniche, dopo i vari “Cold Case” o “CSI”, ne abbiamo imparato) intanto risale all’età delle vittime. Poi alle epoche di scomparsa. È l’unica a vedere possibili nessi che possono portare ad un assassino seriale che si accanisce sulle vittime. La parte più cruda, ma anche più interessante per i metodi di indagine, si rivela quando analizza l’impatto di una sega da macellaio sulle ossa delle vittime, riuscendo a dimostrare che su diversi corpi è stata usata la stessa sega. Su questo scenario, già di per sé inquietante, si innesta la vicenda della sua amica Gabby, una ricercatrice sul campo, che vuole scrivere un libro sulla prostituzione canadese. Le due vicende, con epicentro Tempe, ad un certo punto si intrecciano e si incartano tra loro, facendo salire enormemente la tensione. I poliziotti, con a capo due opposti come Ryan che crede in Tempe e Claudel che la osteggia, brancolano nel buio. Le morti aumentano. Ma il killer fa un piccolo passo falso (usa la carta di credito di una vittima). Da lì partono indagini, prime scoperte, prove di DNA. Viene anche trovata, in un lurido locale forse base del cattivone, una foto di Tempe. Con una volata finale, questa sì piena di suspense (che altrove si era un po’ annacquata), contro tutti i pareri ed usando i suoi ragionamenti, la nostra antropologa sventa il tentativo di colpevolizzare un innocente (colpevole solo di sevizie su piccoli roditori), e trova il bandolo della matassa. Pagherà un prezzo alto per tutto ciò (e non vi dico quale), ma ne uscirà con la soluzione in pugno. E si conquisterà un suo spazio (questo lo sappiamo perché ho letto qualche altro romanzo in precedenza). Interessante l’ambientazione canadese, soprattutto nel rapporto bilingue anglo-francese. Interessanti i pezzi di antropologia. Un po’ annacquato il resto. Ci si aspetta un avvio più fulminante per un’eroina che continua ad essere presente in libreria. Invece, probabilmente, non è una scattista ma una fondista. Probabilmente acquisendo, nel corso del tempo, anche una maggior scioltezza nello scrivere (e non è un caso che poi ne venga tratta anche una serie televisiva dal fantasioso titolo di “Bones”, cioè “Ossa”). Inizio in sordina, ma, come detto, qualche freccetta ce l’ha. Vedremo.
Visto che domenica scorsa si parla di film, rimaniamo in tema, consigliando il bellissimo e toccante film “Amour”, con due straordinari interpreti come Jean - Louis Trintignant ed Emanuelle Riva (film su cui torneremo in occasione di altre trame). Non ci resta che fare un pensiero ai primi onomastici di questo mese appena trascorsi, in attesa di altre feste (e Natale che già sta dietro l’angolo).

giovedì 1 novembre 2012

Contromano - 01 novembre 2012


Sia per la mai poco lodata collana di Laterza, sia per un libro che non è di viaggi, ma che ci fa viaggiare, nel mondo e nella coscienza (ma sempre contromano). Mentre volano auguri per tutti nella giornata di tutti i Santi, ci imbattiamo in due interessanti itinerari itineranti (con Fossati sul CD) nel nord Tirreno, tra una Liguria che ancora non conosco bene, ed una Versilia che ho imparato a conoscere. Poi un libro, quasi da carnet di viaggio per visitare e guardare con altri occhi gli splendori siciliani (e riflettere anche sugli uomini). Ed infine, un sentito omaggio, girando per il mondo ad aiutare la gente, con forza e con coerenza.
Rosella Postorino “Il mare in salita” Laterza euro 10 (in realtà, scontato 8,50 euro)
[A: 02/11/2011 – I: 01/07/2012 – T: 03/07/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 180; anno: 2011]
Non è facile tramare quando si conosce l’autore dello scritto. Certo la mia conoscenza di Rosella non può essere paragonata a quella con il professor Luciano (di cui prima o poi si dovrà parlare per qualche suo nuovo libro) o dell’amica Roby (e della sua “Bolla”). Più sul versante dell’Agnello. Che con la Postorino ho condiviso non un viaggio, ma alcune sessioni del corso di Rebibbia ed un convegno al Museo di Criminologia. Devo dire che comunque preferisco la sua scrittura, che risulta più asciutta del parlato. E dico anche che questo scritto è ben inserito nella collana Contromano di Laterza, di cui tanto ho parlato e bene. Una collana che riesce a sfornare libri che ti mettono voglie: di leggere, di girare, di viaggiare. E questo non è da meno, riuscendo a comunicare un senso (personale quanto vogliamo) ad un pezzo d’Italia quanto mai bello e interessante. Quella che viene univocamente indicato come “Riviera dei fiori”. Quel pezzo d’Italia, tra Genova e la Francia, incentrato sulla sua città più nota (Sanremo) ma che, sopra e intorno, ha tanti altri luoghi, che Rosella ci presenta quasi facendoci partecipi di una gita in macchina, magari in una delle mezze stagioni che non esistono più. Partendo dal suo vissuto di emigrante dalla natia Calabria, ci conduce sulla costa da Sanremo ad Imperia. Ma non dimentica, e noi con lei, tutte quelle cittadine e borghi che ne costituiscono l’entroterra (e l’ossatura storica). Mescolando pubblico e privato, facciamo una rapida ripassata di luoghi e situazioni, ognuna pronta a risvegliare echi, vicini o lontani. Proprio a cominciare da Sanremo, strangolata ma esaltata dal suo famoso festival (che tutti, prima o poi hanno visto, e non prendiamoci in giro; tanto che si è fatto il tifo per il giovane Guazzone l’ultimo febbraio). Certo, chi ci vive o ci ha vissuto intorno ha ricordi altri rispetto a noi semplici osservatori televisivi (a proposito, Rosella, il tuo Lorenzo Zecchino è tornato nella natia Puglia e continua a cantare e fare serate, ma solo intorno a Foggia). Ricordi di cantanti, serate, tappeti. E fiori, tanti fiori (per cui poi non ci si può esimere dal ricordare e citare Calvino). E poi scendendo sulla costa, Taggia e Arma di Taggia con la sua (unica) spiaggia, la mussoliniana Imperia, che meglio ricordano i locali come Porto Maurizio. Fino alla deamicisiana Oneglia. Ma come si fa poi, non salire insieme a lei e Livio verso la magica Apricale e le sue serate del Teatro della Tosse all’aperto. O Dolceacqua dal nome così evocativo. Per poi finire, passati i Molini di Triora, nella diatriba tra Dolcedo e Moltedo sul possesso di un quadro, che si dice sia un Van Dyck. O della scuola sua. Ma di certo Van Dyck lì si rifugiò per sue storie d’amore. Perché il mare in Liguria, come ci sottolinea Rosella, è un mare difficile, in salita, senza né gli spiaggioni adriatici, né le insenature tirreniche. Un mare che lotta con le colline, in lingua locale “bricchi”. Insomma, una bella cavalcata, piena anche di storia e di storie. Piena di gesta risorgimentali, di mazziniani in fuga, di partigiani ed altro (commovente il pezzo dedicato a Felice Cascione, autore dei versi di “Fischia il vento”…). Un libro da compitare mentre ci si aggira per la Riviera dei Fiori e per i bricchi (non dimenticando che oltre la storia c’è anche il presente, i cinesi, gli extra, e via discorrendo). Meno mi sono piaciuti gli incipit dei capitoli, dove, per introdurre i luoghi, Rosella racconta brevi storie “tematiche”. Le ho trovate un po’ forzate, ed aspettavo con gusto che finissero per potermi gustare le descrizioni. E le chiacchierate che immaginavo si facessero andando in giro. Per poi proseguire, verso l’Italia e la Toscana, magari fermandosi (finalmente) a vedere la nonnesca Varazze.
 “Mia madre … recita a menadito le poesie che ha imparato alle elementari.” (27)
“Mi chiedo da anni … dov’è che si baciano i ragazzini romani? …” (145)
Roberto Alajmo “L’arte di annacarsi” Laterza euro 9,50 (in realtà, scontato 7,13 euro)
[A: 19/01/2012 – I: 07/07/2012 – T: 14/07/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 274; anno: 2011]
“Un viaggio in Sicilia” come dice argutamente il sottotitolo. E di questo si tratta. Una lunga cavalcata per luoghi, personaggi e storie della Sicilia cui vogliamo bene e che abbiamo imparato ad amare in tante e tante visite. Ma prima di addentrarci nei luoghi, un cenno al bel titolo.”Annacarsi” viene da “naca” culla. Ma non è cullarsi. È un modo di muoversi portando al minimo la fatica. Come ci spiega Alajmo, sarebbe fare il massimo del movimento con il minimo dello spostamento. Ed è un’immagine bella e forte che ci rimanda molti dei luoghi che si è visitato. Allora partiamo, con questo libro a mo’ di Bedaeker, non per cercare le cose note, che appunto a questo servirebbe un Bedaeker, ma per guardarle con occhio altro. E magari per scoprirne di diverse. Lasciamo i racconti e gli spunti ad Alajmo (poi ci si tornerà), per ora mettiamoci davanti alla piantina a inizio libro, cominciando a rinvangare. Facendo un po’ come l’autore, saltando di qua e di là. Dalle Eolie, che videro un’estate di gommoni e canzoni, scendendo al golfo di Tindari dove qualcuno imparò ad andare in bicicletta. Muoviamoci verso Palermo, saltando posti poco noti, se non ripensando a Castelbuono ed alla manna della Torregrossa. Saltiamo anche Polizzi, o Nicosia, per arrivare a Palermo. Palermo città del cuore, tanto amata per politici motivi in gioventù e poi odiata e poi riscoperta, con Piazza Garibaldi, il mercato di Ballarò, il pane co’ a meuza, la Kalsa, fino alla bellissima ed aulentissima chiesa di Santa Maria alla Catena. Da Palermo a Trapani, ecco risvegliarsi la memoria antica, il primo viaggio con mio padre, la 124, a vomitare tutto il tempo. La scoperta della Valle del Belice, l’incontro con Danilo Dolci, e Gibellina e Mazara e Trapani stessa. Purtroppo non Segesta, e neanche Erice, la cui descrizione nel libro mi prende e mi fa voler riprendere il viaggio (passando anche per Mozia, sia chiaro). Traghetto per Favignana, dopo due giorni in 500 (la macchina) con l’amico Luciano e gli altri (e due gomme forate vicino a Lagonegro). Scendiamo bordeggiando il Canale di Sicilia. Di là del mare, Tunisi. In mezzo la figlia del vento, Pantelleria, e l’assolata e non dimentica Lampedusa. Fermiamoci un poco ai tempi di Agrigento, lasciando la città alle spalle. Città orrenda, quindi bellissima perché da lì si vedono i tempi, ma non la città, quindi… E ricordo del maggio di traversata in treno, lunghissimo e bellissimo, da Palermo ad Agrigento, passando attraverso l’erica di Racalmuto (e leggendo Sciascia). Ripassando Pirandello ad Agrigento, compulsando Camilleri andando verso il trionfo barocco dove sta la mia grande amica Marina: Scicli, Modica, Ragusa, Noto. E come scordare la scalinata di ceramiche di Caltagirone? La cioccolata di Modica, che comperavo quando ancora i produttori erano due. La bellezza delle cattedrali di San Giorgio: l’inarrivabile di Modica (ma perché Alajmo scordasti Quasimodo?) e quella di Ibla (che tanta fatica fece fare sotto il sole). Non ho visto Pachino, ma adoro Ortigia più che Siracusa. E voglio bene anche alla via Etnea di Catania (solo perché mi porta a quel chiosco dove bere sale, limone e selz, uno sballo!). E finalmente sono totalmente, completamente d’accordo con Alajmo su Taormina. Una città bellissima, da vedere d’inverno in giorno feriale. E possibilmente assistendo all’alba dal Teatro greco ed al tramonto nella folle villa della marchesa Trevelyan. Ecco, il giro s’è finito, si arriva a Messina, città che non conosco né voglio conoscere. Ma queste sono (alcune) delle mie storie, più belle ed intriganti quelle dello scritto. Con i misteri, le sorprese, i gusti culinari, il mare e i monti. Finisco con un personale grazie di avermi fatto scoprire il termine “ubris”, io che non so di greco, per indicare eventi del passato che influiscono negativamente sul presente. Un libro da gustare per chi è già stato in Sicilia. Un libro che stimola per chi (mischinello) ancora non è sbarcato sull’isola.
“Per riuscire efficacemente a spremersi un brufolo, bisogna prima procurarsi uno specchio e avere il coraggio di guardarci dentro.” (16)
“La tolleranza ... non rappresenta un traguardo soddisfacente. Si tollera qualcuno perché non se ne può fare a meno, e in ogni caso con una riserva mentale.” (45) (tolleranza vs. rispetto)
“I matti sono un monito ai sedicenti normali … basta poco per scivolare dall’altra parte della razionalità.” (165)
“Dell’essenziale ci manca tutto, del superfluo non ci facciamo mancare nulla.” (187)
“Alla morte non c’è rimedio, ed esiste solo a posteriori. Come faceva notare Marcel Duchamp, a morire sono sempre gli altri.” (197)
“La siesta … è la difesa dell’uomo contro il tempo … è il frigorifero dell’anima. Lavorare con trenta, quaranta gradi è qualcosa di controindicato, che qualsiasi persona dotata di intelligenza cercherà di evitare in ogni modo possibile.” (250)
Fabio Genovesi “Morte dei Marmi” Laterza euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 29/06/2012 – I: 04/09/2012 – T: 05/09/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 140; anno: 2012]
Già di base parte per essere un buon libro: collana sui luoghi di Laterza, giovane scrittore con un paio di libri alle spalle, località descritta/vissuta: Forte dei Marmi. Da questa buona partenza, si sviluppa un libro non esilarante, ma di certo con qualche punto di sorriso. Soprattutto si sviluppa una narrazione che percorre luoghi che mi furono cari, e che son rimasti nella memoria. Vogliamo parlare delle focaccine di Valè? Ci aggiungiamo la libreria Giannelli? Se poi al tutto colleghiamo Vittoria Apuana, Querceta, Serravezza, non possiamo che arrivare a livelli (almeno di memoria) impagabili ed alti. Guardiamo, anche, verso la fine, di metterci là sul pontile, forse a cercar la Corsica, per poi tornare passeggiando lentamente, verso la piazzetta, dare un’occhiata alle vetrine (lo shop-watching di Fabio), ed imboccare via Mazzini, salutare Lucrezia, la barista all’angolo. Così, mentre leggevo i ricordi e le elucubrazioni di Genovesi, riandavo ai miei ricordi ed ai miei pensieri. Trovandomi in sintonia con (quasi) tutto lo scritto. La grande rabbia dell’invasione russa, Forte dei Marmi come icona dei propri ricordi (Mina e la Capannina, tanto per dirne una), la contrapposizione tra locali e forastieri (turisti in genere, ma non solo stanziali, anche di passo e di voliera, come direbbe il fine dicitore). Certo, il rischio di un’elencazione gozzaniana (del tipo Nostalgia Canaglia…) è forte, ed ogni tanto anche il nostro giovane scrittore ci fa qualche scivolata. Ma quando lo riconosci, sai che la scivolata verrà perdonata. E così è. Ma, nostalgia a parte, il libro, pur nella veloce cavalcata tra ricordi e pensieri, pone alcune piccole domande, che faccio mie, e sulle quali stavo riflettendo durante la lettura. La prima riguarda proprio quell’invasione di soldi che ha portato (e porta) russi ed altri ex d’Oltre Cortina, ad invadere (e con che cafoneria) i nostri mondi. Prima hanno colonizzato Rimini. Poi, attraversato l’Appennino, eccoli lì, euro alla mano, a comprare, abbattere e ricostruire con uno stile dove er Piotta sarebbe un lord inglese. Ho visto con i miei occhi buttare giù villini liberty, per tirar su costruzioni a due piani, con colonne doriche, piscine di forme improbabili, marmi slavati, statue dorate, ed altre inimmaginabili oscenità. Come dice Fabio, si presenta un russo, chiede il prezzo, tu gli dici uno sproposito, e lui ti offre il doppio. Ma da dove vengono tutti questi soldi? Mafie? Contrabbandi? Oli e Petroli? Misteri! Ma l’impressione è che non ci sia proprio tutta questa pulizia dietro. Il secondo è l’incontro-scontro tra Vip e Mezzi Vip. E la loro trasformazione nel tempo. Si rimaneva un dì, ai tempi delle discussioni di piazza con Romano Battaglia, a vedere personaggi famosi scivolare incogniti, che quello era una specie di limbo. Tutti siamo famosi, quindi è cafone ostentarlo. Poi cresce l’ondata di mezzi Vip, quelli per cui l’importante è apparire, non essere. Quelli che per una passata televisiva sono pronti a vendere la famiglia (o a vendere se stesse). E che invadono il Forte, con la caciara della loro presenza. Il Vip ora fa il manager di grandi industrie, si tiene appartato e non è di facciata (ha i soldi, ma anche qualche capacità di giudizio). Ma curiosamente, è lo stesso Vip, che riconosce il tamarro televisivo, e ne fa le lodi. Un giorno qualcuno mi spiegherà l’arcano. Con al centro una parentesi, che ci attanaglia il core. Ma perché esiste qualcuno che ai propri figli mette nomi così “improbabili”, tanto che poi si avranno dei Nathan Falco Briatore o dei David Lee Buffon? In fondo e comunque, però, è sempre un canto d’amore per la Versilia, e per questa terra stretta tra mare e monte, piena di quei marmi che riempiono il mondo di bellezza e luminosità (dalle sculture di Michelangelo alle colonne della moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme). E per questo ringrazio Fabio, il suo scritto, e chi mi ha fatto conoscere posti incantatati come Pietrasanta.
“Se uno scrive, allora per forza deve fare delle robe strane” (129)
“”La vita degli adulti è questa, si dicono cose che non si pensano, se ne promettono altre che non manterremo, e questo funziona perché è un gioco chiaro a chi parla e a chi ascolta, è un tacito accordo per potersi dire addio e far finta che sia un arrivederci. (130)
Gino Strada “Pappagalli verdi” Feltrinelli euro 6,50 (in realtà, scontato 5,20 euro)
[A: 24/07/2012 – I: 13/09/2012 – T: 14/09/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 157; anno: 1998]
Deve essere un periodo in cui si cercano gli altri, perché ecco, a poca distanza da Pincio (di cui parlerò in altre trame), un altro libro nato da un suggerimento. E non ci si meraviglierà, quindi, se ringrazio Roby per averlo messo nella sua lista “must”; d’altra parte mi sembrava immancabile tra i suoi libri. Tra i miei, non so. È senza dubbio un libro forte, ma perché il contenuto delle azioni di Emergency è forte, a prescindere di quello che si dice e si fa. D’altro canto è anche un libro in un certo senso “mancato”: non dice, non spiega Gino di sé stesso. Forse non era questa l’intenzione, ma a me sarebbe piaciuto, ogni tanto, qualche pensiero in più. Certo ci sono riflessioni, ma, almeno nel mio immaginario, navigano più su quello che so che su quello che c’è scritto. E questo non è un bel commento per un libro. D’altra parte, è anche un libro di quindici anni fa, quando l’esperienza Emergency era agli inizi, e forse Gino Strada aveva anche bisogno di scaricare sulla carta, aiutato e sorretto dai tanti mentori che ha intorno, tutte le tensioni che si accumulano in un mestiere difficile, pericoloso. Ma, per fortuna, necessario ed impagabile. In maniera molto personale, lo accosto ai libri di pensieri e viaggi di Laterza. Perché in realtà è un libro anch’esso di viaggi. Ogni capitolo, introdotto da una cartina che situa la zona di cui si sta parlando, varia nei tanti luoghi di guerra intorno al globo che Strada ha visitato e poi vissuto ed amato ed ivi lavorato come “chirurgo di guerra” (questo anche il sotto titolo del libro). Non sono quindi né viaggi da diporto, né viaggi della speranza. Ma sono comunque viaggi, di un riparatore. Che così lo vedo. Sarebbe bello poter essere anche un riparatore di torti, ma per questo ci vuole altro, e ci vuole altra emergenza. Ad ora ripara corpi, quando è possibile. Ripara pezzi di vita, girellando intorno a tutti quei punti che sorgono dalle cartine. Perù (belle le pagine su Ayacucho e dolenti le domande su Sendero Luminoso), Cambogia (dove tornano domande simili prima di scoprire le realtà diverse dei khmer rossi), Etiopia, Kurdistan (perché è lì che opera, non Iran, non Iraq), Afghanistan, Gibuti, Sarajevo, Pakistan. Almeno questi sono i luoghi che ricordo. E dove in ogni capitolo Gino affonda sempre di più i coltelli nelle piaghe della guerra. Come dice altrove, “Non sono un pacifista, sono contro la guerra”. Ed in giro per questi viaggi (continuerò a chiamarli così, anche se sono più interventi ospedalieri), ogni volta riesce a rinnovare l’orrore. Orrore per le mine anti-uomo, che purtroppo il più delle volte sono anti-bambino, per le ferite insensate inflitte a popoli inermi. Per le donne che partoriscono mentre la città viene bombardata. Per i suoi infermieri che a volte muoiono anche loro. Per la fortuna che bene o male ha avuto nel corso della sua vita: fare il mestiere che si è in grado di fare, accordando cervello e cuore. E va bene anche il modo disordinato di raccontare. Non siamo qui a vedere le bellezze di Sulemania o Quetta, o Kabul o altre mille località toccate dai guasti della follia umana. Siamo qui per soffrire empaticamente con i sofferenti. Noi che non siamo medici, né chirurghi, né infermieri, facciamo quel che possiamo. Se servisse, siamo pronti. Se non serve, almeno ogni anno diamo del nostro anche ad Emergency, perché continui a fare quello che fa, e magari lo faccia meglio. Dicevo, non è un romanzo, né tanto meno un saggio, è un libro in presa diretta sulla realtà. E questo un po’ si sente nel modo di scrivere, nelle ripetizioni di situazioni, che se non fossero orrende sarebbero troppo insistite. E pur essendo di quindici anni fa, è sempre ben intriso d’amore. Per le sue donne: Teresa, che purtroppo è mancata tre anni fa, e Cecilia, che ora ne ha preso il posto alla guida di Emergency. Per il suo lavoro. Sperando che riesca sempre ed ancora, con tutti i problemi, distinguo e contraddizioni a portarlo avanti. Sperando di riuscire a sconfiggere quei pappagalli verdi, come in alcune zone del mondo vengono chiamate le mine.
Anche se non domenica, i miei assidui lettori sanno che “li tramo al dì di festa”. Non solo, dato che siamo ad inizio mese, vi giro anche le letture, con voti, del mese di agosto. Con due buoni spunti, il sempre interessante Barbero e il mio caro Auster, e due basse riuscite, il troppo lodato Gramellini e l’ormai cotto Arbasino.

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Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Massimo Carlotto
L’oscura immensità della morte
E/O
8
3
2
Erik Orsenna
Madame Bâ
Le livre de poche
8,40
3
3
Paul Auster
Uomo nel buio
Einaudi
s.p.
4
4
Pino Cacucci
San Isidro Futbòl
Feltrinelli
6,50
3
5
Massimo Gramellini
L’ultima riga delle favole
Longanesi
s.p.
1
6
Alessandro Barbero
Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell’impero romano
Laterza
10,50
4
7
Tommaso Pincio
Hotel a zero stelle
Laterza
12
3
8
Qiu Xialong
Visto per Shanghai
Marsilio
12
3
9
Alberto Arbasino
La vita bassa
Adelphi
5,50
1
10
Valter Catoni
L’eterna lotta
Mondadori
4,90
2

Volutamente, pur se di primo novembre come sopra scritto, non parlo di Halloween, una festa che trovo abominevole. Né posso parlare di altri cinema che non si è andati. Si parli allora di cibo. Della bella (ma si può migliorare) cena rimpatriata periodica con i miei amichetti. E delle castagne che verranno (si spera) ancora. E non parlatemi dei funghi, che ultimamente imperversano. Purtroppo il cibo ingrassa, e si vede.