domenica 30 dicembre 2012

Fine anno con donne - 30 dicembre 2012


Ultima trama di questo tribolato, complicato eppur per certi versi utile anno. Dopo due trame di gran pensiero, finiamo con una zampata femminile. Al centro, due romanzi comunque interessanti della sudamericana Allende. Ai lati, a far da contorno e da supporto un lontano romanzo di Banana Yoshimoto ed un vicino romanzo della turca Aykol (che altri vogliono giallo, ma che in lettura spiegherò le mie scelte).
Banana Yoshimoto “N.P.” Feltrinelli euro 7 (in realtà, scontato 5 euro)
[A: 16/05/2011 – I: 17/05/2012 – T: 18/05/2012]
[titolo: NP; lingua: giapponese; pagine: 165; anno: 1991]
Ancora una prova altalenante della Banana giapponese. Nel recupero della sua produzione, deciso perché, tutto sommato, è gradevole leggere la sua scrittura lieve, questo romanzo, per me, raggiunge uno dei punti più bassi. Infatti, mentre l’ultima lettura mi aveva fatto venire alla mente immagini solari, questa storia, involuta e riportata a cenni piuttosto che in una narrazione continuativa, mi lascia l’animo cupo e poco soddisfatto. Intanto, è proprio la materia, il tessuto narrativo, che non mi ha coinvolto. Banana stessa in realtà, nella postfazione finale, descrive il suo come un momento di ricerca intorno alle problematiche dei rapporti difficili, della morte, dell’incesto. Ed ha cercato di riportare questa sua ricerca sulla carta. Solo che rimane lì, sulla carta, e non ti sale, se non in poche immagini, in poche pennellate. Forse l’unica è la descrizione di un giardino, con una luce pallida, che giustamente la stessa autrice riferisce ai quadri dell’americano Andrew Wyeth (interessante nume della pittura americana, definito “Pittore delle genti” per l’espressività delle presenze nei suoi pur minimalisti quadri). Ma la storia, la storia, ahi come rimane lontana. Tutto ruota intorno ai racconti di uno scrittore giapponese, Takase, emigrato in America, e raccolti in un’unica uscita di 97 pezzi chiamata N.P. (e poi qualcuno mi spiegherà perché il titolo originale sia senza punti al contrario delle traduzioni). Dovevano essere 100 ma… Lo scrittore subito dopo si suicida, e la moglie e i suoi due figli gemelli tornano in patria. Dove li incontra Kazami la protagonista del romanzo, perché, allora diciassettenne, ha una forte storia d’amore con Shoji che sta traducendo in giapponese i racconti di Takase. Traduttore che, nel corso della traduzione di un fantomatico (ma vero) 98° racconto si suicida anche lui. Anni dopo Kazami incontra i due gemelli, innescando con loro un rapporto sul filo dell’amicizia con lei e sul filo del (quasi) amore con lui. Ma lui è preso dal suo rapporto con la squilibrata Sui, genius mali della vicenda. Che ha il racconto numero 99, dove Takase, dopo tante eterodossie ricerca situazioni più ortodosse. Che scopriamo (e da qui in poi la vicenda si intorcina e defluidifica) essere la protagonista del racconto 98. Che racconta la storia del rapporto tra Sui e Takeoo. Che ci viene poi rivelato essere Sui figlia illegittima di Takase, cosa che Takase intuisce ma non sa. Che quindi ha un rapporto d’amore profondo con Otohiko, che tuttavia dovrebbe essere il fratellastro. E la sorellastra Saki che non vede di buon occhio Sui e che (forse) ha un debole per Kazami. E poi … Succedono altre cose di cui non entriamo nel narrato (se a me non piace, potrebbe darsi che queste linee di trama vi incuriosiscano e che a voi piaccia). Soprattutto sulla domanda se si ritrovi o meno anche il racconto numero 100. Ma tutto rimane lì, tra il sì e il no. Tra i momenti descrittivi di attimi di vita giapponese (buoni) e le sensazioni cupe delle relazioni interpersonali tra i vari personaggi (no buoni). Gli inizi degli anni Novanta non devono essere stati proficui per gli autori a me cari. Così Banana, come De Luca di cui altrove ho parlato, in quegli anni infilano una serie di prove che non mi hanno convinto. Rimane la certezza che altrove è meglio, e la speranza che, lì dove non sono ancora arrivato, sia della stessa pasta del meglio.
Isabel Allende “D’amore e ombra” Feltrinelli s.p. (regalo di Rosa&Emilio)
[A: 13/05/2012 – I: 18/07/2012 – T: 21/07/2012]
[tit. or.: De amor y de sombra; ling. or.: spagnolo; pagine: 244; anno 1984]
Sono moderatamente sicuro di aver già letto questo libro in gioventù. Tuttavia, non trovandone traccia in nessuna delle mie librerie personali (quelli reali ovviamente), l’ho ricomperato come regalo dei miei amici, e, con sommo gaudio, riletto. Non ha la forza e l’impatto del suo primo libro, quel forse ineguagliabile “Casa degli Spiriti”, ma è leggibile, dosato nelle emozioni, e con quel tanto (o poco o comunque c’è) di impatto sociale, che non può che essere piacevole leggerlo. E leggerlo anche in controluce, cioè alla luce della vita della Allende, al suo esilio dopo l’assassinio dello zio di secondo grado Salvador. Isabel da lontano continua a parlare del “suo” Cile, facendoci fare un bel viaggio “border line”: non tutti erano socialisti e rivoluzionari nei primi Anni Settanta, non tutti erano reazionari negli ultimi Anni Settanta. Ci sono più cose tra la terra e il cielo, … mi sembra dicesse qualche lontano cinese. In questo romanzo, quasi una favola calata negli orrori cileni di quegli anni, assistiamo alla progressiva presa di coscienza di Irene. Di famiglia alto-borghese, con un padre stralunato, ed una madre irrimediabilmente persa nel suo mondo “anti-comunista”, una volta sparito il padre (fuggito? morto? ucciso?), per vivere decide di affittare un piano della villa di famiglia come ospizio per vecchi e di lavorare ad un giornale. Intanto progredisce la sua relazione, fidanzata sin da bambina con Gustavo, ora ufficiale dell’esercito ed assolutamente ed irrimediabilmente di lei innamorato. L’altro corno della storia è Francisco, il più piccolo di tre fratelli di una famiglia spagnola, fuggita dall’Europa ai tempi del generalissimo, con un padre letterato ed anarchico ed una madre di una sensibilità che Isabel ci fa toccare con pochi tratti ma che ti fa dire: dov’è che trovo una madre così? Francisco (non trovando lavoro con la sua laurea in psicologia) da un lato fa il fotografo per il giornale (dove conosce Irene) e dall’altro (memore dello spirito libertario paterno) cerca di favorire piccole resistenze al regime del generale. L’elemento catartico incomincia quando per il giornale Irene e Francesco vanno a vedere una ragazza epilettica in odore di santeria. Qui si esaltano le capacità narrative della Allende, che in lunghi incisi ci presenta e ci fa innamorare della famiglia Ranquileo, e soprattutto della madre Digna. Assistono alla crisi di Evangelina, che maltratta anche un tenente dei carabinieri. Da qui la catastrofe: il tenente, giorni dopo, per vendicarsi di Evangelina la porta in caserma, e, dopo averla violentata, la uccide e ne nasconde il corpo in una miniera. Peccato che nella guarnigione del tenente ci sia il fratello di Evangelina che non si rassegna, si ribella, e scatena una serie di eventi che portano Irene e Francesco a scoprire la miniera, i resti di Evangelina, e di molta altra gente. Aiutati da José, il fratello prete di Francisco, i due riescono a non far mettere a tacere il tutto. Coinvolgono la Chiesa, stanno quasi per far punire l’ignobile tenente (ed è ovvio la critica del parziale per il tutto). Peccato che i militari siano sempre al potere, ed abbiano in mano la stampa e la televisione. Per cui muore il fratello di Evangelina, muore l’unico testimone, viene quasi uccisa Irene, che nel frattempo lascia Gustavo capendo e concedendosi al buon Francesco. La vicenda è ben sotterrata, tanto che la madre stessa di Irene se la prende con sconosciuti terroristi, piuttosto che con conosciuti militari. Aiutati dalla rete organizzativa di Francisco e da un simpatico parrucchiere gay, i due riusciranno a fuggire. E come Isabel quando nel ’75 scappa in Venezuela, dove rimane 13 anni, così i due, attraversando la Cordigliera, hanno una sola parola da affermare: “Ritorneremo!”. Il romanzo è forse un po’ troppo buonista in alcuni punti, e pieno di speranze nel finale, cosa che tutti vorremmo ma che non sempre accade. O è accaduto in quelle terre di dolore. Ricordo sempre di leggere le Irregolari di Carlotto sulle donne di Plaza de Mayo, per capire quanto altro dolore ne uscì fuori. Ma Isabel scrive bene, mi piace leggerne. E continuare a farlo.
“L’amore li avrebbe salvati dalla solitudine, la peggior condanna della vecchiaia.” (122)
“Il padre era un viandante della vita, sempre in viaggio.” (126)
Isabel Allende “L’isola sotto il mare” Feltrinelli euro 10 (in realtà, scontato 7,50 euro)
[A: 19/01/2012 – I: 20/10/2012 – T: 30/10/2012]
[tit. or.: La Isla bajo el mar; ling. or.: spagnolo; pagine: 426; anno 2009]
Molto indeciso se infilarlo tra i romanzi storici (tipo la storyfiction alla Valdano) ed i romanzi tout court (come il precedente tramato suo “D’amore e ombra”), intanto ne stilo un commento sul testo e sul contenuto. È uno di quei romanzi che mi piacciono, in un certo senso, a prescindere. Nel senso che sono in sintonia con la scrittura e con la trama. Un grande affresco corale, che abbraccia 40 anni di storia caraibica. Visto tra oggettività della scrittura e soggettività di un personaggio. In particolare, seguiamo dal punto di vista storico gli ultimi anni della dominazione francese su parte dell’isola che fu un dì Hispaniola, poi Santo Domingo, e che ora noi conosciamo con il nome locale di Haiti (quello usato dai nativi aruachi, sterminati dagli occupanti spagnoli). La Spagna ad un certo punto, vende una parte dell’isola alla Francia. I nativi non esistono più, e per manodopera si importano negri dall’Africa (soprattutto dalla Guinea). Particolare la vicenda di quest’isola, la prima scoperta da Colombo, e l’unica che ora non ha più nessun abitante nativo. Ora sono soltanto discendenti di negri o di incroci con i bianchi usurpatori. Tanto che già nel 1770, epoca della vicenda, c’era una stratificazione di caste, tra bianchi, mulatti, negri ed altre sfumature (non di grigio come va, purtroppo, di moda ora). E quindi seguiamo la vicenda umana della schiava Teté, che ci guida in soggettiva, dai balli infantili a tutte le tappe che la porteranno schiava, abusata dal padrone, con figli sparsi per le terre, un amante negro, una figlia-nuora, tanti nipoti, la libertà ed uno sposo, negro anche lui, per una vecchiaia (ma la vicenda si conclude che Teté ha poco più di quaranta anni) da spendere in Louisiana, verso una futura (dovranno passare ancora 50 anni) abolizione della schiavitù. Sull’altro piatto della bilancia, invece, abbiamo un po’ più di storia, anche se l’anima in oggettiva è quella di Toulouse Valmorain, che sbarca sull’isola ventenne, richiamato dal padre malato. Quella para-nobiltà francese, che viveva sui proventi dello sfruttamento di risorse (in questo caso zucchero) e che sarà spazzata via (in patria) dalla Rivoluzione dell’89 (quella del 1700, anche se notiamo ricorsi storici interessanti). Valmorain, seguace volterriano in patria, subirà tutta una trasformazione dovendo sostituirsi al padre morto. Prenderà schiavi (anche se cercherà maggiore umanità dei suoi vicini), si prenderà per un po’ come amante Violette la quasi-bianca (la regina delle cocotte di Le Cap), poi rivolgendo i suoi ardori su Teté, con cui avrà un figlio che darà in adozione a Violette, e che farà la carriera militare in Francia come il padre adottivo, marito di Violette. Poi si sposa una bella ma scialba ispano-cubana, che gli darà il figlio maschio e poi morirà pazza nella piantagione isolata. Ondate su ondate di schiavi non fanno altro, è ovvio, che portare nuova carne per la rivolta alle condizioni sub-umane della colonia. Abbiamo così il grande innesto tra la fiction e la story, quando arriva l’ultimo contingente di guineani, con il gigante Gumbo che sarà l’unico grande amore di Teté (e la figlia Rosette non sapremo mai se sia di Teté con Gumbo o con il padrone). Scoppia la rivolta, e i bianchi della nostra storia riparano in Louisiana, ancora per pochi anni colonia francese. Sino a quando, nel 1804, il bisogno di contanti di Napoleone lo convinse a venderla agli americani. Ma New Orleans rimarrà (ed in un certo senso lo è ancora) Nouvelle Orléans, con la sua anima creola troppo radicata per essere estirpata. Seguiamo così le varie vicende. Il tracollo dei Valmorain. La nuova ascesa di Violette, verso nuovi trionfi, anche se come organizzatrice di balli più che di “bella del paese”. E la definitiva sistemazione di Teté, una volta morto Gumbo, con il dolce Zacharie. Seguiamo anche le vicende di Maurice, il primogenito dei Valmorain, che si ribella al padre, sposando la causa dell’abolizionismo e sposando la quasi-sorella Rosette. Ci saranno morti, lotte, tristezze. Ma tutte parti del grande affresco che è la vita. E che la Allende sa maneggiare bene, facendoci veleggiare, senza troppe difficoltà, tra storia e fantasia. A me piace questo stile, che mi ricorda sempre quel bellissimo fil di Scola sulla Rivoluzione francese vista dai non-protagonisti. Non tutto torna al suo posto, e c’è qualche momento di stanchezza nella scrittura (dopo le prime 300 pagine). Ma vale il tempo dedicato a leggerlo. E l’analisi dei problemi legati alla Haiti di allora è ben condotta (tanto che il libro viene citato su Wikipedia nei capitoli sulla storia dell’isola).
“L’amore ha parole mute più trasparenti del fiume.” (109)
“Si diedero come se fosse la prima e l’ultima volta … Probabilmente non fecero nulla che non avessero fatto con altri, ma è molto diverso fare l’amore amando.” (168)
“Non dava consigli, perché secondo la sua esperienza era una perdita di tempo, ognuno commette i suoi errori e impara da sé.” (312)
Esmahan Aykol “Divorzio alla turca” Sellerio euro 14
[A: 16/09/2012 – I: 24/12/2012 – T: 26/12/2012]
[titolo: Scheidung auf Türkisch; lingua: tedesco; pagine: 318; anno: 2011]
Terzo episodio delle avventure della simpatica turco – tedesca Kati. Che per una serie di motivi, di cui si parlerà più avanti, ritengo più corretto collocare nell’ambito della narrativa in generale, piuttosto che nella narrativa di genere. Intanto, come per i primi due episodi, devo sottolineare l’operazione non proprio limpida della Sellerio. Ora, seppur è vero che anche l’autrice si barcamena tra Berlino ed Istanbul, i suoi romanzi sono scritti prima in turco e poi tradotti in tedesco. Con tutta la supervisione del caso, vista l’attitudine della scrittrice. Ed in turco il titolo recitava “Șüpheli bir ölüm”, cioè “Una morte sospetta”. Qui, come nei primi due libri, abbiamo la traduzione dal tedesco della pur sempre ottima Emanuela Cervini. Forse qualcuno alla Sellerio aveva comperato il pacchetto completo… Comunque tengo a rimarcare le mie divergenze verso tutto ciò. Veniamo ora alla collocazione. Certo, c’è un morto, anzi una morta. Ed è una morte sospetta, come dice giustamente il titolo originale. Che Sani, la bella dipartita, era in via di divorzio dal rampollo di una delle top famiglie di Istanbul. Ma intorno a questa morte altro si aggira e si narra. Innanzi tutto, un nuovo sguardo, con simpatia e benevolenza, verso la Turchia e la sua vita. Soprattutto nella caotica Istanbul, con i lavori sempre in corso (mi ricordo ben qualcosa a me vicino), con la salita pedonale di İstiklal Caddesi, il Tünel, i ponti sul Bosforo, i quartieri periferici, la vita notturna di Beyoğlu, la zona glamour di Nişantaşı. Tutto questo andare e venire intorno alla torre di Galata, dove la nostra Kati ha la sua libreria. Una libreria atipica, l’unica di Istanbul dedicata ai romanzi gialli. In turco, ma anche in altre lingue. Libreria dove Kati è aiutata dalla studentessa Palin (questa volta un po’ in ombra), ma sopratutto dal suo convivente, il gay spagnolo Fofo, suo vero alter-ego anche nelle indagini. Che partono perché la morta spesso pranzava ad un tavolo vicino a loro. E la curiosità di Kati la spinge a cercare, chiedere, domandare. Senza un vero perché, solo per sapere. Questa è la parte più debole del romanzo, che non si capisce perché si debba rispondere ad una persona che fa domande. Ma domanda dopo domanda, si aprono due bei squarci di vita turca, con una terza ombra in sottofondo. L’ombra, diciamo subito, è l’anelito turco ad entrare nella Comunità Europea. Motivo che vede promulgare leggi, decreti (anche poco applicati), che vede celebrare in sordina anche il Ramadan. Ma torniamo agli squarci. Il primo è sull’ambientalismo, che Sani veniva da una regione devastata dalle industrie delle pelli. Da una cittadina della Tracia (di cui anche se vi dicessi il nome, ce ne dimenticheremo tutti subito) percorsa da un fiume una volta fonte di lavoro, ed ora miseramente inquinato. Sani aveva messo in piedi una ONG (Turchia Verde, che fantasia di nomi!), ed era entrata in collisione con il bel mondo industriale. Sarà questo uno dei motivi della morte? Il secondo squarcio è sui costumi sessuali e sul modo di trattare le donne. Mentre si accettano (anche se obtorto collo) i gay stranieri (come Fofo), non si può parlare apertamente di uomini turchi che preferiscono altri uomini (ma qualcuno si ricorda il bellissimo “Bagno Turco” opera prima di Ferzan Özpetek?). E poi le donne. Che non hanno (ancora) molti diritti. Che possono essere ripudiate senza dar loro alimenti. Questo stava succedendo a Sani, che voleva riprendersi la sua vita, prima con una sbandata col bel giovane cantante pop Sinan (ed anche qui, una piccola puntata sul mondo notturno stambuliota), poi forse con… Ma questo non si sa se sia vero o frutto di dicerie. Fatto sta che ben presto si viene a sapere che la morte è naturale, solo che… Vi lascio qualche sospensione sul (poco rilevante) mistero da sciogliere. Che ben più attente ed accorate sono le pagine sulle donne e sul (questo sì rilevante) modo in cui vengono (mal) trattate. Già Esmahan ne aveva parlato, e Kati ne riprende con altri esempi (negativi e positivi). Qui la nostra simpatica libraria è sempre al centro delle attenzioni, anche se questa volta lascia in disparte la sua di vita sessuale, sia per l’ormai lasciato Selim, sia per il commissario o per … Ritengo, e concludo, che sia ancora e sempre un buon manuale di vita turca, da sfogliare per coglierne aspetti, altrimenti troppo lontani o sullo sfondo. Insomma, a me la quarantenne Aykol diverte, con il suo tono leggero. Vediamo se uscirà altro in futuro.
Si diceva di un anno bisestile che ci lascia, purtroppo con qualche pezzo in meno, con qualche viaggio non fatto e qualche lavoro accettato, fatto e non sempre digerito. Ma anche con amore, affetti, amicizie rinsaldate. E forse con buone prospettive per affrontare un anno dalle premesse impegnative. Se ne riparlerà

martedì 25 dicembre 2012

Natale! - 25 dicembre 2012


Vi avevo promesso saggi, e saggi continuano, anche in questa giornata dal riposo obbligato. E saggi in tema, sia chiaro, che servono a fluidificare il pensiero. E magari a scambiarsi altre idee. Avevo cominciato con Carlo Maria Martini, una figura complessa che mi ha sempre incuriosito approfondire. Ma poi è scoppiata la bellezza delle parole di padre Arturo Paoli, cui rimando per brevità e chiarezza (e soprattutto a chi ha pratica di deserti). Chiudono questo Natale due libri combattivi: un buon De Luca su alcune figure femminili ed un libro che non mi è piaciuto di Paolo Flores.
Carlo Maria Martini “Il Discorso della Montagna” Mondadori euro 9,50
[A: 01/09/2012 – I: 10/09/2012 – T: 12/09/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 143; anno: 2006]
Incuriosito dalla figura del Cardinale Martini, ho trovato quest’occasione per approfondirne un aspetto, che tocca anche altre curiosità ed interessi. Pur conoscendone figura ed atteggiamenti, la cosa che più mi aveva colpito è stato quel ritirarsi a Gerusalemme, dopo aver (nei fatti o forse solo nel mio immaginario) rifiutato la possibile investitura papale. A motivo, credo, dell’incipiente malattia. E nelle pieghe del pensiero, mi venivano immagini della grande città, dei suoi grandi contrasti, e delle grandi sensazioni che sempre ne ho avuto in questi venti anni passati dalla prima visita, e scanditi da successivi e graditi ritorni. Ora che, come disse Giovanni Paolo II, “è tornato tra le braccia del Padre”, mi sono incuriosito nel saperne di più. Stimolato anche dall’interessante articolo di Vito Mancuso su “La Repubblica” (e su alcune risposte nella rubrica di Augias) dove si stigmatizzava il tentativo, precoce e solerte, di imbavagliare il pensiero del Cardinale in questa o quella trama del mare tranquillo. Così come si fece, ma con più tempo a disposizione, con Don Mazzolari, Don Milani, o il grande amico di mio padre, Padre Turoldo. Ma non mi interessa (e sicuramente non sono in grado di) entrare in queste querelle. Anche approfondendo il pensiero e gli scritti citati, non sarei in grado di parlarne con bricioli d’interesse maggiori degli articoli stessi. Mi sono invece imbattuto, casualmente certo, ma il caso è sempre frutto di una qualche volontà, in uno scritto esegetico di un passo evangelico. Riportante l’analisi che durante un ciclo di preghiere tenutosi poco tempo prima della morte, il Cardinale essendo già tornato in Italia, svolgeva sul tema del “Discorso della Montagna”. Il libricino è agile, ed anche ben congegnato. Inizia riproducendo il testo del discorso, così come viene dal Vangelo di Marco. Poi le analisi che ne fa il Cardinale. Chiudendo con alcune omelie successive al corso, ma ad esso coeve. Per ovvi motivi di capacità, non sono comunque in grado di entrare nel dettaglio delle cose dette, per confutarle, per approvarle, anche solo per darne riporto critico e analitico. Posso dire solo le sensazioni che hanno suscitato, andando a guardare, un poco defilato, la figura di un uomo, per altri versi celebrato. Si parla delle tesi politiche del Cardinale, di prese di posizione, caute ma ferme. Non so. Qui vorrei sottolineare una sensazione di calma e di pace che esce dalle sue parole scritte, e che ne rallegra la lettura. Pur affrontando un testo che viene considerato tra i più politici di tutti e quattro i Vangeli, ne fa una disamina talmente lucida e calzante, che ce lo presenta come testo vivo. Ne costruisce la genesi, notando come solo Marco ne riporti l’integrale aspetto, ove in altri si rimandano solo cenni. Ci fa vedere con poche e felici parole, l’uomo assiso sulle rive del Giordano, contornato dagli Apostoli, la folla a digradare la collina. Uomo che non sta dettando Leggi, che nella tradizione ebraica del tempo necessitano enfasi oratoria e portamento in piedi. Sta sottolineando, per i suoi, per quelli che hanno varcato la soglia e sono i suoi collaboratori nella costruzione del Regno, quali siano regole e doveri. Chi bisogna guardare. Da cosa farsi scudo. Cosa temere. L’analisi risulta forte e ben motivata. Sono i confratelli vicini che devono vigilare affinché siano privilegiati i poveri, gli affamati, coloro che hanno sete di giustizia. Una costruzione del discorso retoricamente stupenda, che Marco costruisce anch’essa come una salita ed una discesa, ponendo al culmine del monte, la preghiera cardine, il Padre Nostro. Il Cardinale Martini con poche parole e ben lucide, ogni volta riesce a descrivere ciò che vuole dire, ed a farlo capire. Sicuramente c’è ben altro, al di là della mia percezione e comprensione. Tuttavia è questo che mi ha colpito, e mi ha fatto riflettere. Una persona con una visione chiara e netta della sua vita e della sua missione. Mi aspetto che anche altri suoi scritti, magari “più politici” abbiano la stessa lucidità. Non ho interesse ora in questa direzione. Credo che le mie domande abbiano avuto una loro risposta. Ed una loro collocazione. Ritengo infine, che sia una lettura che distenda l’animo, permettendogli di affrontare altre e più dure prove.
“Non c’è pace senza giustizia, ma non c’è giustizia senza perdono. E aggiungo: non c’è perdono senza un po’ di amore del nemico.” (100)
“L’amore si dimostra … quando occorre superare un ostacolo.” (134)
Arturo Paoli “La pazienza del nulla” Chiarelettere euro 8
[A: 16/09/2012 – I: 18/09/2012 – T: 20/09/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 111; anno: 2012]
Un libro entrato in sordina nella mia biblioteca, guidato da due parole: il nulla presente nel titolo, unito alla prima riga della quarta di copertina “Il deserto è la cornice del nulla”. Attirano come una calamita, tant’è che l'ho letto quasi subito. E subito si è imposto per altre qualità. Intanto quella dell’autore, don Arturo Paoli, che non conoscevo, e cui rendo già omaggio nella sua imminente festa: il 30 novembre di quest’anno compirà 100 anni. Una figura strana di prelato, nato in quel di Lucca, laureatosi in lettere e, pare, avviato alla carriera universitaria. Poi qualche accadimento privato (che non so e che non ci interessa), unito alla frequentazione di quel retto uomo che fu Giorgio La Pira, lo spingono verso il sacerdozio. Difficile, soprattutto nei primi anni, poi nella guerra, dove a lungo si prodiga per salvare ebrei dalla deportazione (tant’è che è stato insignito dell’onorificenza dei “Giusti di Israele”). Poi Roma, l’Azione Cattolica, gli scontri con Gedda, e quindi l’esilio verso missioni sudamericane. E sulla nave, l’incontro di svolta con uno dei Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld. Già altrove parlai di questo strano francese, prima tenente della guardia in missione marocchina, poi convertito e dedicatosi alla meditazione, al ritiro in un eremo vicino a Tamanrasset, e indi alla frequentazione ed all’aiuto verso gli algerini, e soprattutto i nomadi del deserto. Don Paoli decide di entrare nei Piccoli Fratelli. Vive la seconda metà degli anni Cinquanta in Algeria. Poi comincia a fondare piccole comunità di Fratelli e Sorelle di de Foucauld, tornando in Sud America. Argentina, Brasile ed infine Venezuela. Sempre dalla parte degli umili, sempre perseguitato dalle dittature sudamericane. Infine novantenne, ritornato nella lucchesia natia. Ho voluto parlare a lungo della sua figura, che queste pagine ne sono intrise e non sarebbero comprese senza questo volto che ci guarda dalle sue esperienze. Pagine di riflessioni, a volte lontane dal mio sentire. A volte molto e molto vicine. Intanto per quell’affetto innato che ho provato per i Piccoli Fratelli, quando andai a vedere l’ultimo eremo di de Foucauld in Algeria. Lì, su quel picco  a 2000 metri sopra il deserto. Quell’immagine, unite alle parole di don Paoli hanno riportato alla mente (ed anche sulla pelle) quelle sensazioni che solo il deserto dà, e solo chi ha vissuto il deserto può capire. Quel nulla pieno di tutto, cui abbandonare la testa perché possa andare di pensiero in pensiero, per ricollegarsi a sé, per tirar fuori motivazioni e voglie. Arturo Paoli estende questo nulla, ad altri nulla ed altri pensieri (soprattutto argentini) inizialmente un po’ fuorvianti per me. Ma la potente descrizione della figura della sua amica Nelly, non credente piena di curiosità, di empatia, poi “desaparacida”, rimane vibrante come grido di angoscia e di dolore verso tutta un’epoca che ancora non ha finito di scavare il suo dolore. Infine quell’altra immagine, quella delle carovane del deserto. Come non immedesimarsi nel guardare i cammelli partire, e noi con loro. E quel cammello, sciolto dai basti, che se ne va per le sabbie, solitario. Il beduino che lo lascia andare. Cammello che a sera torna, si riavvicina, con il cammelliere che non lo sgrida ma gli parla con voce calma. Bisogno di comunità. Che il giorno dopo, quel cammello sarà il primo a cercare il carico. E un altro si allontana. Girando nel cerchio della vita. Don Paoli mette tanto altro in questi suoi brevi commentari, altro che un po’ riporto a guisa di commento esso stesso, un po’ lascio lì, non avendo, non sapendo, non potendo interpretarlo più a fondo. Alla fine son ben contento di averlo letto, ed ora, a poca distanza dal commento sul “Discorso della Montagna” fatto dal cardinale Martini. Libri di riflessioni. Non al vertice massimo, che qua e là mi manca qualcosa, qualche sensazione. Ma sicuramente un suggerimento di lettura e pensamento.
“Solo lì [nel deserto], lontanissimi dalla mandria, si può rinascere come esseri coraggiosamente e personalmente pensanti.” (VIII)
“Tutte le persone che hanno voluto incontrare Dio veramente avevano sentito la necessità del deserto.” (5)
“Il deserto è il luogo dove non si è forzati a scegliere, non c’è nulla da scegliere, perché lì solo il tempo avviene.” (21)
“L’uguaglianza è già tradita quando è dono che viene dall’alto. … Gesù non ha predicato l’uguaglianza, si è fatto uguale.” (43)
“Nelly … era capace di vivere la relazione affettivamente senza possedere, cioè senza cercare di trattenere oltre il suo limite, la gioia che ogni forma d’amore genera, e senza rifiutare la tristezza che nasce quando l’amore ha superato il limite della gioia.” (47)
“Quando cade a pezzi il personaggio, non c’è bisogno di cercare l’umiltà, basta essere veri.” (72)
“Posso fare a meno dell’amico, ma non posso fare a meno dell’amicizia.” (74)
“Marx annotava nei suoi scritti giovanili che non è affatto facile lasciarsi amare.” (75)
“In ogni amore – quando è vero e non è una burla – deve potersi dire: ‘Se non ti avessi incontrato sarei vissuto lo stesso, ma ora non posso più vivere senza di te.’” (93)
Erri De Luca “Le sante dello scandalo” Giuntina euro 8,50
[A: 18/10/2012 – I: 23/10/2012 – T: 23/10/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 60; anno: 2011]
Questo sì un libro veloce, che si legge in un giorno da metropolitana. Ed un libro che merita un giudizio multiplo: per l’argomento, per lo svolgimento, per la scrittura. E non li ho messi a caso, ma in ordine di giudizio e piacere decrescente. L’argomento scelto è interessante e stimolante: presentare/narrare 5 figure femminili della Bibbia, laddove il Libro non è che poi sia tanto pieno di rimarchevoli figure del gentil sesso. E su di loro torneremo. Lo svolgimento, invece, comincia a non essere altrettanto né dirompente, né accattivante. Una volta scelto il tema, infatti, lo si svolge un po’ approssimativamente. Dei capitoletti dedicati ad ognuna delle cinque donne, qualche passaggio dotto. Un elzeviro in punta di penna nell’idea di dialogo tra Sant’Anna e Miriam, quasi un retaggio dell’altro libro, quello tutto dedicato alla Madre. Forse se ne potevano trarre spunti più articolati. Anche se piace la chiusa, che parla e si dedica ad altro, e ve la lascio tutta da scoprire. Infine, la scrittura risente alquanto del “deluchismo”. Quella tentazione di far sapere quanto si sa, con citazioni linguisticamente corrette, ma altamente illeggibili. Certo, Erri è un fine filologo, conoscitore (a quanto ne so) di ebraico et similia. E questa sua conoscenza è giustamente posta a spiegare fatti e situazioni che acquistano sensi altri, o più profondi o più intriganti, se ne seguiamo il percorso evolutivo. Ma lo fa con quel distacco che lo rende ai miei occhi troppo narciso per farmelo piacere. Qui dove avrebbe potuto essere scorrevole, si incarta sulle parole. E per fortuna il libro è veramente breve, tanto da poter sopportare questi passaggi narrativamente poco felici. Ma chi sono queste protagoniste? Sono cinque, come detto. Riprendiamo allora le parole dello scrittore. La prima si vestì da prostituta per offrirsi all’uomo desiderato. La seconda era prostituta di mestiere e tradì il suo popolo. La terza si infilò di notte sotto le coperte di un vedovo e si fece sposare. La quarta fu adultera, tradì il marito che venne fatto uccidere dal suo amante. L’ultima restò incinta prima delle nozze e il figlio non era dello sposo. Tutto nasce dall’elenco delle generazioni che da Abramo portano a Ieshu/Gesù. Quarantadue, come le tappe che portano gli ebrei dall’Egitto alla Terra Promessa. Ed in questo elenco, declinato al maschile, queste sono le sole cinque donne che compaiono. Tamar la Cananea, Rahav di Gerico, Rut la Moabita, Bat Sheva/Betsabea sposa prima di Uria l’ittita e poi del re David, infine Miriam la madre di Ieshu/Gesù. E sono interessanti le storie delle nostre cinque donne. Già sappiamo che, come linea generale, la donna non è che fosse in cima ai pensieri ed alle azioni dell’umanità in quei tempi. Serviva per lo più come riproduzione. Se poi avesse cervello, non si sa, né sembra fosse importante. La prima novità della Bibbia è stata anche quella di consentire ad alcune di queste donne di comparire all’aperto (certo 5 su 42 non è una percentuale esaltante). Si vede inoltre (purtroppo a volte si intuisce solo) che queste donne fanno delle scelte. Tamar e Rut perseguono il loro fine di conquistare il posto che spetta loro, anche travestendosi da donne perdute (unica alternativa per comparire come persona). Rahav (o meglio Raab come siamo abituati a conoscerla) prostituta lo è già, ma scegliendo la “vera religione”, fa un passo, decisivo, verso l’esterno del buco nero cui si inghiottivano le donne (lo stesso che farà Miriam di Magdàla circa 1500 anni dopo). Betsabea è forse quella meno consapevole (sembra) che soggiace alla passione del re David, e dopo peripezie ed inganni ed uccisioni, con lui genererà Salomone/Shlomò (che in arabo si dice Solimano, omonimo califfo dell’età tarda, autore di alcune delle più belle mosche turche). Non entro nel merito delle parti dedicate da De Luca a Miriam la madre di Ieshu, cui il nostro più di una pagina qui e altrove ha dedicato. Ripeto e chiudo: l’idea era (è) buona, anche se forse andava meglio specificata sul perché della scelta di tali “donne”. E non su altre (seppur poche)  che prima di Abramo, abbiamo Miriam la sorella di Mosè, ad esempio, ed altre che più dotti di me sanno. Rimane l’ambivalenza di De Luca tra buone idee e la sua forte personalità, che solo se tenuta a bada produce opere significative.
Paolo Flores D’Arcais “Gesù” Add editore euro 5 (in realtà, scontato 3,75 euro)
[A: 18/10/2012 – I: 24/10/2012 – T: 25/10/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 127; anno: 2011]
Pensavo decisamente meglio, anche se le mie riserve preventive sull’autore già mi avevano frenato al momento dell’acquisto. Perché ben conosco il buon Paolo, ed ho sempre pensato che fosse tropo intellettuale per i miei gusti. Non che ci sia a priori niente di riprovevole, ma, a volte, è il modo di esserlo che porta su strade a me veramente poco consone. Sempre grandi destino dei fratelli, che invece ricordo ancora i modi e gli scherzi con il di lui fratello Alberto. Ma torniamo, che si divaga. Insomma, già dalla confezione e dal titolo mi ero storto. Perché notavo anche nel sottotitolo (l’invenzione del Dio cristiano) un tentativo di colpire qualcosa, di fare un libro di rottura, di demolire, ed altre intellettuali costruzioni. Mi aspettavo invece un libro che fosse più rigorosamente filologico. Certo, non mi aspettavo un conoscitore delle costruzioni linguistiche alla De Luca, ma neanche un mero compilatore di tesi storiche, tese ad accumularsi per sostenere la propria tesi. Mi aspettavo, ripeto, una disamina del periodo storico, delle figure storiche, o comunque delle ipotesi sulla storicità degli avvenimenti, anche se non pensavo potesse e/o riuscisse ad entrare nel merito. Invece il nostro Flores parte in quarta sulla sua idea (che a priori non è neanche peregrina) della figura di questo predicatore ebreo, motore di vicende di una forza gigantesca, ma la cui forza si sarebbe poi mostrata grazie ai suoi “discepoli”. Anche se, e qui si apre un bel dibattito cui forse non sono ancora preparato, Flores indica con una buona dovizia di particolari la scissione che si ebbe nella seconda metà del primo secolo (scissione poi altamente mascherata) tra pietrini e paolini, tra coloro che preferivano/perseguivano la diffusione della fede all’interno della comunità ebraica (seguaci di Giacomo e Pietro), e coloro che spingevano per espandersi maggiormente al di fuori in vece di tale comunità (seguaci di Paolo). Ed elenca fonti e citazioni sul personaggio ebreo predicatore itinerante, messo a morte dai Romani in un momento incerto poco dopo quello che viene identificato con l’anno 30 d.C.. Ma la maggior parte degli sforzi dell’autore è dedicata, nella prima parte, ad una diatriba alla lontana con il Gesù del libro di Ratzinger, diatriba astiosa e di scarso costrutto. Che si spiega leggendo le note in prefazione, dove appunto la prima parte apparve come articolo proprio in quanto recensione del libro di Benedetto XVI. Poi continua per altrettante pagine sempre con quell’aria da saputello: Gesù era ebreo e non cristiano; Gesù non ha mai detto di essere il Messia; Gesù predicava la fine di un mondo (quello fariseo dell’ebraismo allora imperante) e la venuta di qualche altra cosa. Ma dette queste sentenze non le esplora, non entra nei dettagli. Si tiene lontano dai discorsi sulla fede (ed è ovvio nonché corretto). Continuando a rimestare tra le diatribe interne ai seguaci di Gesù. Insomma, alla fine, mi trovo a parlarne poco, che poco dice, e poco convince. Non amo i proclami, da qualsiasi parte vengano. E se mi dici qualcosa, mi devi anche convincere. Non riesco a crederti solo per il tuo (supposto) carisma. Meglio tornare a rileggere le ultime notizie di Ieshu scritte dal combattuto De Luca.
“La ricerca della verità storica può essere più forte dell’obbedienza dogmatica.” (8)
Ed ancora c’è chi già parte, e chi è partito, chi tra poco ritorna e chi è sempre presente anche quando non c’è. Ed infine, sentendo vere e mie le parole di don Paoli sull’amicizia, non posso che festeggiare gli amici che ci sono e quelli che ci saranno con un augurio di buone feste, un abbraccio

domenica 23 dicembre 2012

Perché non si può non pensare - 23 dicembre 2012


Leggeteli: non è un consiglio, è un ordine. Ecco quindi, una prima raffica di saggi e buone letture, che mettono in moto le nostre rotelle. Con un elevatissimo mio indice di gradimento (raggiungono i 16/20 e non è poco). Su tutti, eletto anche mio miglior libro dell’anno, il saggio di Hillman sul carattere (da non perdere). E di livello superiore sia l’analisi delle migrazioni dovuta all’ottima penna di Barbero che l’etica di vita che ci suggerisce Bauman. Ultimo, ma solo perché in un consesso molto alto, il libro sulla ricerca della propria identità del sempre a me caro franco-libanese Maalouf. Per me sono state tutte riflessioni sul modo di essere, sul (mio) modo di vivere. Riflessioni che spero condividerete con me (e non a caso piene di citazioni e rimandi).
Alessandro Barbero “Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell’impero romano” Laterza 10,50 (in realtà, scontato 7,87 euro)
[A: 02/11/2011 – I: 11/08/2012 – T: 24/08/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 290; anno: 2006]
Veramente, ed ancora (ma non mi aspettavo di meno) un bel libro del nostro storico di riferimento (per la storia antica, naturalmente, che per il resto il professor Luciano è sempre in prima linea). Anche se difficile, e particolarmente puntato sulla disamina di alcuni meccanismi di nascita del fenomeno “barbari” cui bisogna entrare mentalmente, per non esserne buttati fuori alla prima curva. Tutto, nella mia testa, nasce comunque da quel momento epocale, come dice Barbero, del 9 agosto 378, e la famosa battaglia di Adrianopoli. E tutti i meccanismi, di livello macro, che portarono a quella battaglia, ed alla sconfitta dell’Imperatore Valente, ed alle sue conseguenze, sono già presenti e descritti nel libro ad Adrianopoli dedicato. Qui ci si focalizza su di un aspetto, che sicuramente è quello di base a tutta la vicenda presente e futura. E che soprattutto ci consente di fare quei paragoni con il presente, che in maniera molto chiara illuminano sia su quelle vicende che sulle nostre. La vicenda è legata allo spostamento dei barbari (cioè delle persone prive della cittadinanza romana) da un luogo all’altro, dentro e fuori l’Impero. Per sconfitte, per decisioni, per immigrazioni selvagge. Come dice il sottotitolo: immigrati, profughi e deportati. Mentre il primo era un bel pamphlet, anche un po’ ad effetto, qui si scava in profondità. Qui si comincia a vedere come si comporta Roma (cioè diremo oggi il “primo mondo”) fin dai tempi di Marco Aurelio, e poi via scorrendo negli anni, con quella turba di gente che preme ai confini, e con tutti quelli che vengono vinti e per questo “ricollocati” altrove. Barbero sapientemente, e con dovizia di particolari e di commenti, ripercorre l’andamento di questi spostamenti epocali di persone. Certo non può solo usare le categorie dello spettacolo (come fece in quella memorabile lectio brevis che tenne al Castello di Sarzana), va in profondo, si “addottora”. Ma alla fine il discorso è lineare, terribilmente lineare: guerre e mancanza di cibo, portano a spostare (volontariamente o meno) gente non romana (“barbari”), anche all’interno dell’Impero. Questo crea una situazione potenzialmente (e poi realmente) esplosiva. Verso i barbari non si riesce ad imbastire una politica d’integrazione prima e/o di contenimento dopo. Si cerca di utilizzare categorie vecchie (tipo l’inquadramento negli eserciti). Ma con l’andar del tempo questi mezzi non hanno la velocità di un tempo. Creano nuovi problemi. E porteranno alla deflagrazione. Prima nella famosa battaglia di cui sopra. Poi nelle conseguenze temporali di tutto ciò. Che porteranno, in poco tempo, alla dissoluzione dell’Impero d’Occidente. Il bello (e tragico) dello scritto, è che quest’analisi si può riportare ai giorni nostri (ed è questa la capacità interessante di Barbero). Per cui il terzo (e quarto) mondo si spinge sui territori della civilizzazione (uso con ironia il termine, ovviamente). E non avendo la capacità di proporre modelli di convivenza, qualcosa si logora e prima o poi scoppia. In un primo tempo, si utilizzano i barbari per quelle attività che i cittadini non hanno più interesse a praticare (agricoltura, esercito, e simili lavori di fatica). Poi questo non basta, che verso i barbari manca sempre il rispetto, pur nella possibile tolleranza. E non diciamo che vichianamente si ripercorrono cicli. Certo le prospettive sembrano terribili. Lì un mondo finì, e poi, ma con fatiche plurisecolari, altro ne nacque. chissà come sarà (potrà essere) qui, con i nostri barbari attuali (ed anche qui, uso la parola con molto rispetto). L'altro aspetto che sempre mi affascina delle parole di Barbero, e questo presentare sul proscenio nomi che suonano richiami di sirene: da un lato, i protagonisti politici (tutti quegli augusti imperatori d’Oriente e d’Occidente, Massimino, Valente, Valentiniano, Diocleziano, Teodosio, e via discorrendo tra Cesari, Augusti e Flavi), e dall'altro quei popoli avanzanti (Vandali, Eruli, Unni, Visigoti, Ostrogoti, Goti, Alemanni, Sarmati, ed altre complicanze). Ogni volta che ne leggo, voltando pagina, mi ritrovo a guardare la selva dove cavalcano i Burgundi, e i Vandali che salgono dalla Libia, ecc. ecc... In più, questa volta, il libro ha anche dovuto subire l’onta dell’onda atlantica, che l’ha sommerso lì tra le spiagge portoghesi dell’Algarve. Ma ne è uscito con rinnovato vigore, e lo si è letto e terminato con piacere (pur se sapete la mia idiosincrasia per i libri “rovinati”). Bravo Barbero, e bravi i barbari.
James Hillman “La forza del carattere” Adelphi euro 12 (in realtà, scontato 10,20 euro)
[A: 21/01/2012 – I: 10/09/2012 – T: 21/09/2012]
[titolo: The Force of Character and the Lasting Life; lingua: inglese; pagine: 275; anno: 1999]
Bellissimo. Imperdibile. Soprattutto dopo i cinquanta anni. Non avevo ancora letto nulla dello psicanalista americano, ma Luciana me ne aveva parlato. Ho trovato questo, invece di quello suggerito, perché ho letto la prima riga della quarta e non sono potuto andare più indietro (“Invecchiare non è un mero processo fisiologico, è una forma d’arte”). Ed ora, a quasi un anno dalla scomparsa dell’autore, ne leggo, ne medito, e cerco di condividere. Impresa non facile, che la lettura ha innescato tutta una serie di pensieri, forse troppo estesi per una breve trama. In estrema sintesi (e come tutte le sintesi, quindi, molto rozzamente), Hillman sostiene ed argomenta un dato fondamentale: l’invecchiamento non è altro che un consolidamento del proprio carattere. Riconoscere questo è un ribaltare lo schema che vede il decadimento del fisico nell’ultima parte della vita come l’unica fotografia possibile. E se invece debolezze, dimenticanze ed altro non siano niente altro che un rilascio di scorie per tornare all’essenziale, a quello che abbiamo sin dalla nascita, che non potrà certo cambiare (Lowen docet), ma che mascheriamo ed armiamo di corazze protettive durante tutto il corso della vita. Intorno a tre concetti di base, Hillman sviluppa il suo ragionamento: durare, lasciare e restare. Nella prima parte (durare) esplora/descrive la longevità. Ma non dal punto di vista di chi vuole allungare la vita “artificiosamente”, direi quasi con accanimento terapeutico. Invece constatando che, per tutta una serie di motivazioni, la vita dura di più. In condizioni di normalità, è ben facile che si raggiunga e si superi l’età dei propri genitori, ed altro. Tuttavia questo durare non deve essere visto dal punto di vista biologico, ma da quello etico. Perché duriamo più a lungo? Cosa (ci) serve? Si gettano le basi del ragionamento: serve a finire il carattere abbozzato a partire dalla nascita. Si arriva quindi alla seconda tappa del ragionamento. Che la nostra fisiologia, e sarebbe bene assecondarla, ci impone/convince a lasciare scorie che appesantiscono il nostro cammino. Per concentrarci sull’essenziale, sulla definizione di quel nostro carattere che si va completando. Lasciamo quindi ricordi in sovrappiù, lasciamo la pacatezza, lasciamo (anche) parti del nostro corpo. E dobbiamo comprendere che quello che non lasciamo è quello che ci serve per essere. Mi verrebbe da dire per essere felici. Per essere coscienti dei propri limiti, quindi delle nostre intrinseche virtù. Che dobbiamo avere il coraggio (la forza) di lasciare agli altri. Mi ricordo sempre le immagini del mio primo gruppo di viaggio, cui io, già carico d’anni e d’avventure, raccontavo fatti ed avvenimenti dei miei viaggi. Li lasciavo a loro, senza la pretesa di insegnare niente a nessuno. Ma con la soddisfazione, ora, a distanza di anni, che qualcosa è germogliato da quel lascito. E ne sono contento, anche se non ne partecipo. Io, infatti, sono restato altrove. In un certo senso, per quei ragazzi, per quel gruppo, sono “morto”. Qui parte la terza e conclusiva tappa di Hillman. Pagine dolci e tremende su lasciare e restare, dall’intraducibile inglese “to left and to leave”. Con l’immagine della madre che, pur morta, resta nella nostra immagine con la forza del suo carattere. Durante tutta la nostra vita abbiamo preso (dagli altri, dal pianeta, da…), quando ci volgiamo verso la partenza, dobbiamo, con forza, restituirlo. Noi passiamo, il nostro carattere resta, negli altri e per gli altri. E non sto ad elencare qui i miei morti, e quello che mi hanno lasciato. Ma ognuno di noi può fare questo esame. Ed è questo il momento di farlo. Che, come dice Hillman, solo nel momento del completamento del carattere possiamo comprendere, e quindi analizzare, la nostra vita. Tutta. Nel mezzo di questo bellissimo discorso, c’è anche un altrettanto bel capitolo sulla faccia e le sue rughe, che lascio a voi scoprire. Perché non potete fare a meno di leggerlo. E di domandarvi, insieme a me, se c’è qualcuno che colloca “me stesso” nelle sue fantasie, come io colloco “altri” nelle mie. Questa l’immagine che mi lascia Hillman, e che vi (tra)mando.
“Gli ultimi anni della vita confermano e portano a compimento il carattere.” (12)
“Mai, in nessuna cosa che scriviamo, ci possiamo liberare del nostro carattere.” (25)
“La capacità di intrattenere idee provandone piacere è sempre stata una delle giustificazioni del fatto di scrivere e di leggere libri e di tenerceli cari.” (29)
“Perché viviamo a lungo? … Anche ammettendo che biochimica e scienze affini eliminino il deterioramento e prolunghino la durata della vita, spiegare il ‘come’ non esaurisce il ‘perché?’” (44)
“[Scrive] Cicerone nel ‘De senectute’: i vecchi sono bisbetici, pieni di preoccupazioni, irascibili, difficili. Se andiamo a cercare, anche avari; questi però sono difetti del carattere, non della vecchiezza” (55)
“Di fronte all’ignoranza dei giovani che passa per innocenza … divento un vecchio bisbetico, crudele, meschino.” (91)
“La ripetizione fa andare d’accordo l’individuo molto vecchio e l’individuo molto giovane.” (109)
“Quando il corpo incomincia a diventare cascante, vuol dire che abbandona la mistificazione e l’ipocrisia. … Il corpo non mente.” (118)
“Il mio libro della vita ha perduto i numeri di pagina.” (127)
“La rassegna della [propria] vita è … la scrittura della nostra vita sotto forma di storie. E senza storie non c’è trama, non c’è comprensione, non c’è arte, non c’è carattere.” (143)
“Accettare la propria faccia = diventare più individualizzati = accettare la propria ascendenza.” (209)
”Quel che resta di noi dopo che ce ne siamo andati è il carattere.” (222)
“Le buone abitudini non possono impedire le brutte cadute.” (248)
“Il carattere sta agli anni della vecchiaia come la vocazione individuale sta agli anni giovanili; dà senso e scopo ai cambiamenti introdotti dall’invecchiamento. Il carattere è un’idea terapeutica.” (271)
“[Scrive] Yeats nella Preghiera per la vecchiaia: prego … di poter sembrare, anche se morirò vecchio, / Uno sciocco appassionato.” (274)
Zygmunt Bauman “L’arte della vita” Laterza euro 9 (in realtà, scontato 6,75 euro)
[A: 16/09/2012 – I: 27/09/2012 – T: 06/10/2012]
[titolo: The Art of Life; lingua: inglese; pagine: 169; anno: 2008]
Ottimo questo lavoro di Bauman, tra i suoi più recenti. Anche perché, pur non fornendo (come suo stile) soluzioni univoche, o comunque soluzioni, si cimenta con una materia alla fine della quale l’analisi che il nostro fa ci consente, in maniera non facile, ma ci consente, di arrivare a qualche conclusione nostra. Non siamo dalle parti ostiche dell’etica “tout court” dove Bauman analizza con cognizione e partecipazione, lo stato attuale del mondo, lasciandoci poi un po’ spaesati con la domanda sulla punta della lingua: e mo’ che si fa? Certo, anche qui l’analisi della tematica affrontata si colloca comunque all’interno della sua generale visione del mondo. Di quel mondo da lui definito “liquido”, dove, in contrapposizione alle visioni passate, “solide”, mancano punti di riferimento e ci si deve adattare, caso per caso, alle mutevoli condizioni esterne. E ci ripropone comunque quella visione che crudelmente ben si attaglia all’evolversi (al mutare) delle condizioni di vita: il passaggio dell’uomo dal primo collocarsi come guardiacaccia (evitiamo che altri invadano il nostro territorio), al guardiano (coltiviamo il nostro giardino), fino all’attuale cacciatore (andiamo alla conquista dell’altro, senza curarci se per farlo distruggiamo tutto quello che c’è). Ma qui l’accento è spostato sul modo di vita personale, su come noi interpretiamo il nostro cammino di vita, sulle scelte che facciamo. Sono quindi anche contento di averlo letto a poca distanza dal libro di Hillman sul carattere, cui secondo me, va apparentato nella lettura e nella riflessione. La tesi di fondo, è che tutti siamo “artisti” della nostra vita. Non ci sono schemi dati, preconcetti, cammini segnati. Certo, condizionamenti e quadri socio-temporali diversi ne fanno e danno immagini diverse. Ma ognuno fa delle scelte, pur minime, pur marginali. Queste scelte sono comunque ed in ogni caso personali. E permettono a noi stessi di diventare artefici del nostro cammino. Artisti, ci chiama il filosofo polacco. Perché vivere una vita (e dico ora, guardarla in prospettiva con la coscienza della maturità che ci viene dall’analisi del carattere di Hillman) è un lavoro artistico (da qui il citare e riferirsi al titolo del libro). Per percorrere questo concetto, molto semplicisticamente, a me rimane una direzione di interpretazione dello scritto di Bauman che mi si poggia su un punto di partenza ed una biforcazione d’arrivo, che cerco, con le mie personali capacità (non so se limitate o meno, ma comunque mie) di condividere. Il punto di partenza è la felicità: tutti vanno/debbono andare alla ricerca della, verso la. Felicità è una specie di balsamo cui curare tutte le malattie del fatale andare. Peccato che, nel nostro mondo liquido, questa ricerca, questa tensione ideale, sia andata sempre più stravolgendosi, tanto da porre tutta una serie di falsi obiettivi. Che promettono felicità, ma che non possono essere raggiunti, pena il crollo dell’impalcatura globale del mondo. Ci dicono: felicità è moda, cibo, viaggio, casa, ed altro ed altro. Ci dicono: ci vogliono soldi e soldi per conquistarla. Ma ad ogni conquista, la mira si sposta un gradino più avanti. Sempre più velocemente. In modo che la nostra vita è sempre tesa verso, ma non raggiungerà mai quella che ci viene dipinta come “felice”. Su questo quadro di fondo, cosa può fare l’artista della vita per fare quelle scelte di cui poco sopra? Qui arriviamo alla biforcazione finale. Abbiamo, infatti, davanti due scelte, estreme, l’una centripeta, l’altra centrifuga, che negli ultimi cento anni ci sono state offerte come fondanti e risolventi. Estremizzando, da un lato la spinta centripeta di una scelta verso il sé, idealizzata nel “Superuomo” di Nietzsche. Solo IO sono importante, solo IO so quale è la verità e la morale. E per il mio benessere, l’importante è che stia bene IO, e a fondo tutto il resto. Dall’altra, la spinta centrifuga, idealizzata dal dedicarsi agli altri e ben descritta dal pensiero del filosofo Lévinas. Solo gli altri sono importanti. Solo dedicando me stesso all’esterno verso di loro, potrò essere me stesso, potrò realizzare le mie scelte morali. Bauman si ferma qui. Io, nella mia morale, propongo il passo successivo: non una convergenza delle due forze, ma un tentativo di riconciliazione. Pensiamo a cosa ci fa stare bene (il nostro personale cammino alla felicità) e cerchiamo di attuarlo INSIEME all’altro, al nostro fratello. Pensando a me ed all’altro come ad un NOI, che sia perseguibile (non penso né mi illudo più dell’esistenza di una possibile morale comunarda del raggiungimento della felicità se tutti siamo felici). Beh, mi sembra abbastanza stimolante, per poterci riflettere un po’.
“Nessuna società può privare gli uomini della facoltà di scegliere.” (35)
“Blaise Pascal: tutta l’infelicità degli uomini… deriva … dal non sapere starsene in pace, in una camera.” (47)
“Non dobbiamo radicarci o sradicarci, … ma gettare e issare le ancore. … Le radici, quando vengono divelte dalla terra in cui sono cresciute, generalmente si seccano, uccidendo la pianta che nutrivano, il cui rifiorire avrebbe quindi un che di miracoloso; al contrario le ancore vengono issate solo per essere gettate di nuovo, e altrettanto facilmente, in molti porti diversi. Inoltre, le radici progettano e predeterminano la forma che dovrà assumere la pianta che si svilupperà da esse, ed escludono la possibilità di ogni altra forma. Le ancore sono invece soltanto attrezzature che servono a fissarsi a un luogo in modo dichiaratamente temporaneo o a staccarsene, e non definiscono in alcun modo le caratteristiche e le qualità della nave. Il lasso di tempo che separa l’atto di gettare un’ancora da quello di issarla nuovamente non è che una fase nell’itinerario della nave. La scelta del prossimo porto in cui gettare l’ancora dipenderà molto probabilmente dal tipo di carico che in quel momento è sulla nave; un porto adatto a un tipo di carico potrebbe essere totalmente inadatto ad un altro.” (106)
“Il fato e le sue unità di guerriglia – gli incidenti – determinano il quadro delle scelte che si pongono agli artisti della vita. Ma è il carattere a decidere le scelte di questi ultimi.” (132)
“L’incertezza è il terreno proprio della persona morale, l’unico suolo in cui la moralità può germogliare e fiorire.” (136)
“[L’amore] richiede tolleranza, la consapevolezza che non si possono imporre i propri punti di vista e ideali al compagno o alla compagna, né ostacolarne la felicità.” (168)
“John Stuart Mill: chiediti se sei felice e cesserai di esserlo.” (169)
Amin Maalouf « Les Identités meurtrières » Livre de Poche euro 5,05
[A: 02/02/2012 – I: 07/10/2012 – T: 12/10/2012]
[titolo: originale; lingua: francese; pagine: 189; anno 1998]
Sebbene in lingua, per il tema trattato, penso lo accosterò ad altri libri che si incentrano su problematiche sociali. Inoltre, al di là del contenuto, ha anche una valenza di contesto, che è un libro scritto 15 anni fa circa. Prima dell’11 settembre. E ci sono parti che fanno riflettere su come, poi, ci si sia arrivati a fratture che andavano sanate e/o affrontate prima. Intanto, facciamo comunque qualche inno di gioia verso l’autore ed il suo contesto. Cui sono affezionato, in quanto libanese arabo-francofono. Ne parlai a valle della lettura di un altro suo saggio, quell’autobiografia sulle sue origini, sulle sue radici, e non ci torno. Anche se la specificità libanese qui è citata, delineata, ed usata come paradigma di una soluzione possibile che poi è miseramente fallita nei fatti. Amin ci parla di identità, ci invita a riflettere quale sia il sentimento identitario che ognuno di noi si porta appresso e dentro. Sentimento che lo definisce e ci definisce anche nei confronti dell’altro. Ed è una definizione che, se mal usata, o travisata, non può che portar danno. Non può che rivelarsi, come ci suggerisce il titolo, un’identità letale. Il percorso del suo ragionamento è discretamente lineare. Si parte dalle cose che, comunemente, concordemente, oserei dire universalmente definiscono la nostra identità: razza, lingua, religione, e così via. In generale, appartenenza. E qui la lista si allunga ed allarga (nazione, regione, partito, …). Il problema è che quando una di queste definizioni è messa in pericolo (à attaccata da qualcosa), c’è una chiusura da entrambe le parti: di chi attacca e di chi è attaccato. Questo è l’inizio di un percorso inarrestabile della costruzione di queste identità “letali” di cui sopra. Un percorso inarrestabile, che passo dopo passo non può che portarci alla rovina reciproca. Come fermarci prima? Come accettare la reciproca diversità in un ambito di rispetto reciproco? Maalouf fa anche l’esempio libanese, certo eponimo di un ragionare “politically correct”. Viste le divisioni tra maroniti, mussulmani, drusi e compagnia, i posti pubblici, ad esempio, come quelli per il Parlamento, vengono divisi in proporzione alla religione ed alle etnie. Ma a questo punto l’idea della rappresentanza globale, rispettante le diversità del paese, viene stravolta dal fatto che non ci si basa più sulle capacità delle persone, ma sulla loro identità. Portando avanti a volte, poi sempre più spesso, persone che non sono in grado di gestire il potere affidato loro. E questo non può che precipitarci nei baratri dell’odio reciproco. Maalouf scrive 3 anni prima delle Torri Gemelle, e leggere le sue analisi, i suoi avvertimenti, sembra di sentire, come dicevano gli antichi “vox clamans in deserto”. Quante voci si levarono per avvertire dei pericoli della radicalizzazione dei sentimenti identitari? E quante ne furono ascoltate? Certo, il mondo e la morale cambiano. E il modo di vivere di quasi tutti i cattolici oggi, ad esempio, sarebbe stato condannato come eresia cinquecento anni fa. Ma dovremmo forse aspettare altri cinquecento anni per poter vivere in pace tra tutti? Magari collaborando insieme per gli sfruttati, per i poveri, per gli affamati? Accogliendo i migranti, come altri accolsero i nostri. E magari, in fondo, trovando la possibilità di sviluppare i paesi poveri, non sfruttando manodopera a basso costo, ma installando centri di miglioramento lì dove c’è cosiddetta “arretratezza”. E la metto tra virgolette, che arretratezza per alcuni, è uno stare in modo diverso per altri. Non è arretrato chi è senza televisione. È arretrato chi opprime l’altro in nome di una sua identità che deve imporre. Non ci sarà mai serenità senza accettazione. E non parlo di tolleranza, termine che non mi torna mai piacevole. Finiamo con una nota quasi profetica. Già dieci anni prima di Obama, Maalouf ipotizzava che ci potesse essere un presidente di colore. Speriamo di continuare ad avere la possibilità di confidare nelle persone per quello che fanno, non per le identità che rappresentano.
« Plus vous vous imprégnez de la culture du pays d’accueil, plus vous pourrez l’imprégner de la votre … [mais aussi] … Plus un immigré sentira sa culture d’origine respectée, plus il s’ouvrira à la culture du pays d’accueil. » [Più assorbirete la cultura del paese ospitante, più potrete mescolarla con la vostra … [ed anche] … Più un immigrato sentirà la sua cultura rispettata, più si aprirà alla cultura del paese ospitante.] (51)
“Le droit de critiquer l’autre se gagne, se mérite.” [Il diritto di criticare l'altro va guadagnato, va meritato.] (53)
« La tolérance ne me satisfait pas. Je n’ai pas envie d’être toléré, j’exige que l’on me considère comme un citoyen à part entière quelles que soient mes croyances. » [La tolleranza non mi soddisfa. Non voglio essere tollerato, esigo di essere considerato un cittadino a tutto tondo, indipendentemente dalle mie convinzioni.] (68)
« Je ne suis pas de leur religion … mais je suis homme aussi, et l’on doit me traiter humainement. » [Io non sono della loro religione ... ma sono tuttavia un essere umano e devo essere trattato come tale.] (90)
« Je voudrais que chaque tradition culinaire, qu’elle vienne du Sichuan, d’Alep, de la Champagne, des Pouilles, de Hanovre ou de Milwaukee, puisse s’apprécier dans le monde entier. » [Vorrei che ogni tradizione culinaria, che sia originaria del Sichuan, di Aleppo, della Champagne, della Puglia, di Hannover o di Milwaukee, possa essere apprezzata in tutto il mondo.] (126)
« Et rien n’interdit de penser qu’un jour, un Noir serait élu président des Etats-Unis. » [E non vi è alcuna ragione per cui un giorno, un uomo di colore non possa essere eletto Presidente degli Stati Uniti.] (179)
Come solo i più informati sanno (e sono veramente un numero ad ora esiguo) il 31 dicembre termina la mia avventura lavorativa di questo anno, ben tuttavia pesante. Ed allora si ricominciano altre avventure ed altre organizzazioni. Viaggi, ancora senza meta, ma sicuramente in movimento. E presto…

domenica 16 dicembre 2012

Est/Ovest - 16 dicembre 2012


Come la bravissima casa editrice romana, anche se non parliamo di nessun suo libro. Ma anche come indice di contrasti (ed anche N/S allora!). Due libri occidentali, allora, l’uno sulla vecchiaia, la morte e contro la guerra, molto crepuscolare, l’altro dolentemente solare, in arrivo dalla sempre fertile Svezia, ombrato di giallo, ma più di crescita che di declino. E due libri del sempre per me interessante Oz, che mi fanno capire, una volta di più, come si sviluppano le contorte vicende nella dolente terra palestinese.
Paul Auster “Uomo nel buio” Einaudi s.p. (regalo di Rosa&Emilio)
[A: 13/05/2012 – I: 05/08/2012 – T: 07/08/2012]
[titolo: Man in the Dark; lingua: inglese; pagine: 152; anno: 2008]
Libro strano ma pieno di echi e rimandi. Tipico libro di Auster, almeno di quello che ho imparato a conoscere ed amare negli anni. Con qualche tocco di fantastico, che poteva guastare il filo del romanzo, ma che la sua maestria tiene a freno e lo rende funzionale ad un discorso unico e coerente. Un discorso su molti binari: in primo piano l’umana follia della guerra, nello sfondo la vicenda umana di una persona al crepuscolo della vita che fa i conti con se stesso ed il proprio vissuto. Auster ha “solo” 65 anni (ma è un acquario, non ce ne dimentichiamo), e si traspone, invecchiandosi di qualche anno, in una figura di letterato (più critico che scrittore), costretto in una sedia a rotelle per un incidente. Dipende dagli altri, soprattutto dalla figlia e dalla nipote, sente la sua vena ormai andata, e medita un modo di finire la sua vita. Lì, nel buio delle notti, la sua fantasia si sbriglia, e si inventa storie per arrivare al mattino. Qui si svolge la vicenda parallela, quella fantastica, ambientata in un mondo di universi paralleli, dove seguiamo le vicende di Owen, costretto a diventare soldato suo malgrado, invischiato in trame complicate, in un’America sconvolta dalla guerra civile, quando, a seguito delle frodi elettorali della famiglia Bush, gli Stati Uniti si dividono in due rami “l’un contro l’altro armati”. Nell’onirica visione del vecchio August, ritornano le figure della sua vita. Che abbiamo l’agente segreto impersonato da una sua fiamma giovanile, la critica per la guerra e l’umana follia (che per ora accettiamo così e poi comprenderemo meglio, collegata alla dolente dedica allo scrittore David Grossman). Gli universi della guerra di Owen nascono dalla mente di uno scrittore che, immaginandoseli, li rende reali. E l’unico modo di fermare il tutto, sarebbe per Owen di uccidere lo scrittore. E lo scrittore, guarda caso, è lo stesso August, che nel buio cerca quindi i motivi per “suicidarsi” elegantemente. Arrivato comunque ad un bivio, decide che invece questa storia non può che finire (e non vi dico come). Conseguentemente, nel buio della notte, lo raggiunge la nipote Katya, il cui ragazzo è stato giustiziato in Iraq da un comando talebano. E nel tentativo di consolare la nipote, questa lo spinge a ripercorrere la sua, di vita. Di capirne i momenti alti, e soprattutto di affrontare i momenti bassi. La storia di August con la moglie Sonia, sposata ventenne, e dopo venti anni di matrimonio, lasciata per una ragazza di 15 anni più giovane. Con la quale vive un decennio di passione, per poi ritrovarsi solo. E dopo un lungo percorso di riconciliazione con il mondo, tornare con Sonia. E vivere felice con lei altri venti anni. Sino a quando, pochi mesi prima dell’inizio del racconto, Sonia muore di cancro. August ne esce moralmente a terra, buttandosi nel bere, e sfracellandosi una gamba guidando ubriaco. Torna allora nella casa avita, accudito dalla figlia (anche lei sposatasi giovanissima, anche lei lasciata dal marito, anche lei con una figlia a carico). Figlia che sta scrivendo un libro sulla strana figura della figlia di Nathaniel Hawthorne. Dove si riporta un brano di un’interessante poesia, con quel verso ricorrente che dà un senso a tutta la storia. Quanti collegamenti ci sarebbero tra tutte queste storie, incastonate in scatole cinesi. Pronte ad aprirsi. E quanto lascio ai margini (le bellissime sedute guardando film, dove August e Katya tirano fuori delle immagini che mi hanno colpito, tra l’altro con una mini-analisi di “Ladri di bicicletta” molto calzante). Pur essendo un libro agile, che si legge in un bel pomeriggio sorseggiando tè freddo, l’ho trovato di livello superiore alle ultime letture fatte. Buona lettura (e sempre grazie a Luana).
“È già difficile da adulti sopravvivere a un divorzio, ma da ragazzi è ancora peggio. Sono del tutto impotenti, e portano il peso del più grande dolore.” (40) 
“Non prendi niente sul serio, eh? Io prendo tutto sul serio, tesoro. Solo fingo di no.” (111)
“La verità è che i figli non imparano nulla dagli sbagli dei genitori.” (134)
Håkan Nesser “Il ragazzo che sognava Kim Novak” Guanda euro 11
[A: 13/05/2012 – I: 27/09/2012 – T: 29/09/2012]
[titolo: Kim Novak badade aldrig i Genesarets sjö; lingua: svedese; pagine: 249; anno: 1998]
Sebbene scriva sempre qualcosa di poliziesco o nelle vicinanze, questa prova intermedia dello svedese Håkan io la colloco più sul versante narrativo che su quello giallo. Anche una specie di spartiacque, tra i primi libri, tutti incentrati sulla figura del commissario Van Vetereen, e le ultime uscite, dove si sposta a narrare del commissario italo-svedese Gunnar Barbarotti. Bene o male c’è anche qui un morto, quello che lo scrivente di prima persona epigrafa come “Il Fattaccio”. Ed è importante, certo, ma forse e ben più importante è il contorno, le vicende, i personaggi. Seguiamo la soggettiva del giovane Erik, quattordicenne nel 1962 (epoca centrale dei fatti) che si avvia a passare un’estate veramente difficile (come dice il padre). La madre è in clinica, con un cancro terminale. E lui viene spedito con il fratello (più grande di otto anni) ed un coetaneo, tal Edmund, nella casa in riva al lago. Lago che si chiama Genesarets (Galilea in svedese). E che dà il vero titolo al libro. Che in svedese recita “Kim Novak non ha fatto il bagno nel lago Galilea”. Kim Novak è il soprannome che lui ed Edmund hanno dato ad una supplente che per pochi giorni hanno avuto a scuola. Giovane e coetanea del fratello. Fidanzata con un campione quasi nazionale di pallamano. Fidanzato comunque violento e possessivo. Henry, il fratello grande, si ritira sul lago a scrivere un libro. I ragazzi passano le giornate bighellonando. E per la festa di mezza estate, il lago si riempie di tante persone, tra cui Ewa-Kim e Barre il bullo. Nasce una storiella tra Henry e Kim. I ragazzi sono sempre più cotti della giovane ex-supplente. La madre si aggrava. Ogni tanto passa il padre, solo e sbandato. E poi il fattaccio: viene ucciso Balle con un colpo di mazzuolo in testa, vicino alla loro casa sul lago, una sera che Ewa stava con il suo nuovo amante. I sospetti, nostri e della polizia, ben presto si concentrano sui tre: Henry, Erik ed Edmund. Chi sarà stato? Ovvio l’incolpare Henry (l’unico con motivi concreti, visto che Barre aveva preso a pugni Ewa, una volta scoperta la relazione). Ma non ci sono prove. E dopo girare e rigirare, non si può fare a meno che rilasciare tutti. E la vita continua. Håkan continua tutta l’ultima parte del libro, come una specie di saggio - compendio sui destini umani e sulla socialdemocrazia svedese, quella che ti assiste, ti aiuta, ma ti lascia anche solo. Henry pubblica, con discreto successo, il libro che stava scrivendo. Poi si trasferisce da Stoccolma a Goteborg, ha delle storie, ed al fine emigra verso l’Uruguay. La madre muore. E dopo qualche anno anche il padre. Erik si trasferisce ad Uppsala, si laurea, insegna storia, sposa la bella Ellinor, hanno un paio di figli. Nel ventennale dell‘omicidio, per circostanze casuali, ritrova anche Edmund, che nel frattempo si è fatto prete nelle regioni del nord della Svezia. Rinvangano il passato, ma non si arrischiano più a formulare tesi sugli avvenimenti della loro estate di formazione. Manca una ciliegina alla torta, che ben presto mette il nostro scrittore. Erik ritrova casualmente Ewa. Il suo amore giovanile risboccia. Ed è, anche dopo venti e più anni, ricambiato. Divorzia, va a vivere con Ewa e la di lei figlia. Muore anche Edmund d’infarto. Mentre i due continuano e proseguono anche oltre la fine del libro la loro storia d’amore. Ecco, la morte è stata importante, foriera di catalizzazioni di avvenimenti, locali, e negli anni a venire. Ma non è un romanzo etichettabile come poliziesco. È d’atmosfera. Di formazione per i giovani svedesi, che vediamo emergere agli inizi degli anni sessanta, e poi passare indenni il ’68. Infatti, Erik è nato nel ’48. Ed avere 20 anni nel ’68, in altra Europa avrebbe portato altri scritti. Se poi vogliamo sapere chi è stato, lo scrittore lo dice, ma io non ve lo narro. Anche perché, qui si con vezzo giallista, Håkan semina un indizio verso la metà del libro, citando un libro di Agatha Christie. L’indizio non viene più ripreso. Ma io l’ho tenuto, coltivato e verificato nel momento dello svelamento. Un libro, complessivamente gradevole, anche perché fin dall’inizio facevo il tifo per Erik e Ewa.
“Starei senz’altro meglio al mondo se la gente fosse un po’ più seria.” (75)
“[Chissà] se sia meglio essere amati e poi non esserlo più, oppure evitare del tutto il coinvolgimento” (189)
“Mi resi conto di quanto potesse essere facile colmare il tempo, con certe persone.” (227)
Amos Oz “Il monte del cattivo consiglio” Feltrinelli euro 9 (in realtà, scontato 7,65 euro)
[A: 29/06/2012 – I: 03/11/2012 – T: 07/11/2012]
[titolo: The Hill of Evil Counsel (scrivo il titolo inglese essendo l’ebraico di impossibile scrittura in Word occidentale); lingua: ebraico; pagine: 231; anno: 1976]
Uno dei primi scritti dello scrittore israeliano, in cui si intrecciano temi e modi della sua scrittura in modo quasi programmatico. Sono tre racconti. Ma come spesso nelle sue raccolte hanno una struttura ad intreccio. Cioè, pur essendo distinti, vi tornano in maniera seppur diversa, gli stessi personaggi. Come se Oz facesse una sorta di “Rashomon” situazionale. Ci presenta un luogo, una situazione, e poi ne narra da diversi punti di vista. In tal modo, alla fine, ci viene un messaggio plurimo: quello del singolo racconto e quello della situazione complessiva. In questo caso, inoltre, la situazione è particolarmente “avvincente” sul lato emozionale. Stiamo nella seconda metà del 1947. La guerra mondiale è terminata e nel contesto internazionale si va discutendo sulla futura definizione degli assetti territoriali nel Mandato Inglese in Palestina. Molto si consoliderà il successivo 14 maggio 1948, con la nascita dello Stato d’Israele. Qui ci troviamo in un quartiere periferico della Città Santa, e vediamo (dal di dentro) le sensazioni, i problemi, i timori e le speranze di differenti famiglie ebree. Nel primo c’è la famiglia del veterinario dottor Kipnis, con la bella moglie ed il figlio Hillel. In un certo senso, è il più straziante. Lo seguiamo dagli occhi del bimbo, con le spiegazioni che a lui danno i genitori, che rivelano poi la loro storia. Una storia che vela (anche se non rivela) quella della famiglia dello scrittore. Una storia di difficili rapporti (anche se mascherati). Di illusioni del bimbo. Di voglia di libertà della madre. E coagulantesi nel ballo organizzato dall’alto Commissario inglese. Che rivela anche i rapporti tra i benestanti ebrei e “gli occupanti”. E che da modo alla signora Kipnis di fuggire con un militare. Trasfigurazione della mente di Amos bambino (che scopriremo, infatti, solo nell’autobiografico libro che cito in fondo, che la madre, in realtà, si toglie la vita). Nel secondo sono i vicini dei Kipnis che vediamo, un agglomerato composito sempre visto dal bimbo Uriel detto Uri. Con il padre tipografo, la madre pianista, il vicino vecchio poeta con figlio radiotelegrafista e forse facente parte di gruppi indipendentisti. Una famiglia che sostiene, ognuno con le proprie capacità, la lotta di indipendenza (così viene chiamata dagli ebrei). Assistiamo alla quotidianità delle loro vite. Con Uri affascinato dal giovane Efraim, insieme al quale progetta di inventare un raggio della morte per liberare Israele dal giogo britannico. Vediamo la fantasia di Uri che immagina grandi lotte, grandi sentimenti. E vediamo l’arrivo, nottetempo, di un alto esponente della lotta di indipendenza, che viene ospitato per qualche giorno in casa (beh, nascosto più che ospitato). Qui c’è il contraltare che Oz ci propone, perché il signor Levi è scontroso, freddo, comanda e si aspetta ubbidienza senza concedere nessun sentimento amicale a chi sta mettendo in pericolo la propria vita per lui e per la causa. È questa crasi che Oz tiene a sottolineare. Lì dove le persone e gli ideali mostrano di non convergere (e quanti esempi possiamo fare nel tempo e nello spazio!). Il terzo, infine, è composto da una serie di lettere scritte da un immigrato ebreo austriaco alla donna con cui ha avuto una grande storia d’amore, ma che lo ha lasciato ed ora è in America (almeno così pensa). Il nostro scrive, raccontando di quei primi giorni del settembre del ’47. Non sa se Hermina riceverà le lettere. Ma sfoga la sua nostalgia (così il titolo del racconto), sulla carta. Narrando dei vicini (e ritroviamo tutti i personaggi precedenti, compreso Uri che compare fortemente anche qui, ma che qui vediamo con l’occhio dell’adulto, mentre prima era con l’occhio soggettivo che ne seguivamo le gesta). Nussbaum fa in modo, inoltre, di tratteggiare la sua storia d’amore. E soprattutto, ci coinvolge nella sua malattia (ha un tumore in stato avanzato). E sa che il suo futuro non potrà essere nell’Israele che verrà. Anzi non sa se arriverà a vederlo. Un racconto dolente, pieno di momenti fortemente intimi. Ma anche qui, lo scrittore poi ci fa le foto del quartiere, dei soldati inglesi, dei vicini che abbiamo incontrato nei primi due racconti. Del suo scrivere in balcone alla fioca luce di una lampada. Alla sua vita che si sta spegnendo come la stessa lampada. Tutto il trittico è poi radunato sotto il titolo che si riferisce al Monte che vide Giuda accordarsi con Caifa per tradire Gesù. Il Monte, appunto, del Cattivo Consiglio. Non tutta la scrittura è allo stesso alto livello, anche se ci sono buone punte. E mancano completamente (ed interverranno solo in scritti successivi) gli arabi, come se non ne fosse ancora contemplata la presenza sulla Terra d’Israele. Ma nel complesso, una lettura che rispecchia l’alta considerazione mia personale sull’insieme della produzione dello scrittore. (PS1 leggete “Una storia di amore e di tenebra” se non lo avete letto). (PS2 a pag.209 il traduttore utilizza la parola “esempla” per “esemplifica”; sarà corretto?)
“Nessuna parola è brutta di per sé. È brutta la volgarità che sta dietro o in mezzo alle parole.” (26)
“Parliamo così solo per disperazione. Ma tutti siamo armati delle migliori intenzioni.” (118)
“Qualcosa bisogna pur fare, e farlo con il cuore e l’anima.” (207)
“È finito l’inventario del tempo e dello spazio.” (231)
Amos Oz “Una pace perfetta” Feltrinelli euro 9
[A: 13/05/2012 – I: 11/11/2012 – T: 23/11/2012]
[titolo: A Perfect Peace; lingua: ebraico; pagine: 350; anno: 1982]
Parafrasando il titolo, mi verrebbe da commentare: “Un libro perfetto”. Un’iperbole, certo, ma che si avvicina abbastanza alla verità. Un libro con tutti gli elementi al posto giusto. I personaggi e la loro caratterizzazione. Il luogo ed il tempo della storia. Il succedersi (o il non succedere) degli avvenimenti, che, infatti, sono quasi inesistenti (seppur ci sono), dato che la maggior parte del tempo la passiamo, con interesse e partecipazione, nella testa dei protagonisti. E mi chiedo, ma come si fa a dare premi Nobel a Le Clézio o ad Herta Muller, e lasciare sempre in ombra questo gigante della letteratura. Misteri insondabili del mondo e della politica. Certo, è israeliano, e dare un premio potrebbe essere visto “politically scorrect” dato ciò che succede in quelle terre. Mi domando quando riusciremo a fare delle riflessioni che vadano al di là delle apparenze! Torniamo allora a questi pochi mesi narrati dalla densa storia, questo passaggio da un inverno ad una primavera, in un biennio paradigmatico delle vicende israeliane, visto che la storia terminerà pochi giorni dopo la fine della “Guerra dei 6 giorni” con l’Egitto. E torniamo a questo sperduto kibbutz, che collocherei tra Gerico e Masada, sull’orlo del Negev con vista verso Petra. Ci sarebbe da aprire una parentesi sull’esperienza kibbutzim in Israele, sul modo come siano nati, come piccole comuni verso l’autosufficienza. Un esperimento di comunanza di beni e di interessi. Dove tutti danno una mano per il bene comune. Dove ognuno fa quello cui riesce meglio, condividendo tutto. Una grande stanza per il mangiare in comune. Insomma una grande speranza di vita (ed Oz stesso, fuggì dai suoi per andar a viver in un kibbutz, che credeva fermamente in questo modo di condividere: tutti insieme, ognuno portando il suo granello per gli altri). Ed un’esperienza che poi mostra la sua corda. Non evolvendosi, ma rinchiudendosi in sé, passa dall’essere una molecola per la costruzione di un nuovo modo di essere, ad una monade auto-contenentesi. E chi vi è “costretto” a vivere e non lo fa per scelta, ne erode le fondamenta. Ancora ci sono, anche ora a distanza di decenni. Ma già ai tempi del romanzo di Oz se ne vedeva il limite. Ed il nostro lo usa come uno degli elementi pilastro della storia, per narrare la vicenda di Yoni, costretto a vivere nel kibbutz in quanto figlio del segretario. Che sposa Rimona, da cui avrà una figlia morta. E Yoni si sente stretto in questo mondo senza prospettive. Vede decadere Rimona. Vede ammalarsi il padre Yolek. Vede inacidirsi la madre Hava. E si domanda cosa c’è di là. Cosa c’è in questi posti che si leggono sui libri e sui giornali. New York? Bangkok? Cosa potrei fare se fossi libero? Di contraltare c’è la vicenda di Zaro, giovane pieno di problemi, che invece sceglie di entrare nel kibbutz, che crede nel kibbutz. È solo molto irruento, vorrebbe spostare mari e monti. E lo fa con l’uso della parola. Mirabili sono le rese che fa Oz del modo di parlare e di ragionare di Zaro. Che dice anche cose giuste. Ma che poi ne ha paura, si trincera dietro altre parole. Le dice e le nega. In un modo che, se mi fosse davanti, verrebbe quasi di prenderlo a schiaffi. Ma è comunque in fondo buono Zaro. E si trova a lavorare con Yoni, ed i due entrano in empatia. Zaro con la sua estroversione verbale, Yoni con la sua introversione. Entrambi attenti alle piccole cose. Tanto che il loro diventa sodalizio forte. E vanno a vivere insieme, Yoni, Zaro e Rimona. Scandalo? Forse per i benpensanti, non per i giovani del kibbutz. Tanto che, Yoni vedendo l’affidabilità (tolta la patina verbale) di Zaro, decide di seguire il suo sogno. E nottetempo, si invola dal kibbutz. Senza una parola. Senza un messaggio. Attraversa il Negev, ed ipotizza (in una mirabile pagina) prima di andare per l’universo mondo, di visitare, poco oltre il confine, la stupenda città dei Nabatei. Petra cui tornerei domani, che tanto ho visitato, che tanto rivedrei con piacere. Non vi dirò se ci andrà, né se tornerà al kibbutz natio. Mentre scorrono i mesi che avvicinano Israele a quella ferita ancora insanata che sarà la guerra del ’67, il kibbutz prosegue la sua strada. Vediamo il padre Yolek aggravarsi e lasciare il suo ruolo al mite Shrulik. Vediamo nascere una nuova figlia a Rimona, ed addolcirsi l’astio di Hava. Vediamo passare anche la storia, che si affaccia il primo ministro Levi Eskhol, amico di Yolek (e storicamente fondatore del primo kibbutz israeliano a Degania Beit, dove nacque Moshé Dayan). Continuiamo a seguire le vicende private dei nostri abitanti del kibbutz, e dal privato capiamo anche il politico. La solidarietà umana. La tensione verso il bene comune. Ma anche la nascita dei rancori. Una capacità di unire micro e macro cosmo, che rende alla fine leggere le dense pagine dello scritto. Che fa riflettere sulla politica, e su come questa sia fatta dagli uomini, oltre che dagli ideali. Che fa riflettere sulla vita propria e sul rapporto con gli altri. Su cosa sia importante nella vita. Un vestito? Un disco? Una passeggiata nel deserto? Non smetterei di scriverne, che tante corde solleva. Sono contento di averlo letto, e, per una volta, sono in completo accordo con l’autore. Se fossi capace di scriverne, avrei fatto le sue stesse scelte, per portare a compimento la vicenda. Ed è un complimento che riservo a ben pochi autori. Grazie, Amos!
 “Non potevi mica restare per tutta la vita ad aspettare, senza sapere cosa e perché stavi aspettando.” (21)
“Non è forse una frana tutta la nostra vita, il tempo stesso è una frana che non torna mai più, e allora?” (126)
“Non giudicare il tuo prossimo prima di metterti nei suoi panni.” (148)
“La cosa bella del sonno è che ci si ritrova finalmente soli, senza gli altri. … [Nel sonno] … ognuno è solo con se stesso.” (204)
“Tutti hanno un compito nella vita e nessuno ha altra scelta a parte quella di capire qual è il suo, di compito.” (255)
“Figli piccoli, guai piccoli. Figli grandi, guai grandi.” (263)
“Una città rossa come una rosa, vecchia come metà del tempo” (303)
Sempre più vicino il Natale, ed anche l’ultimo giorno palindromo per anni a venire. Si vociferano profezie infondate, tuttavia, nell’approssimarsi della data, almeno il mio corpo da qualche segnale di stanchezza: periartrite alla spalla destra, lombosciatalgia al fondo schiena, lussazione del medio della mano sinistra. Beh, mi sembra che per ora l’unica cosa rossa del Natale sia la croce. 

sabato 8 dicembre 2012

Historyfiction - 09 dicembre 2012


Uso il termine inglese, che in italiano viene tradotto con l’altisonante “storiografia metanarrativa”, che uno lo legge e si impressiona. Elaborato teoricamente dalla canadese Linda Hutcehon, è la commistione tra storia e fatti forse inventati, ma altrettanto forse verosimili. Così spaziamo tra il passaggio dell’Angola dalla servitù bieca a tentativi di libertà (intorno al 1650), per poi saltare in India agli albori dei primi sentimenti libertari (duecento anni dopo, intorno al 1840), quindi un salto all’indietro prima in Spagna intorno al 1210 e poi a Venezia per tornare quasi al tempo iniziale (risaliamo infatti verso il 1590). Una bella scorrazzata nel tempo e nello spazio, anche se i risultati non sono tutti all’altezza (tipo il deludente Simoni).
Isabel Valadão “Loanda. Escravas, donas e senhoras” 11-17 euro 8
[A: 15/08/2012 – I: 22/08/2012 – T: 06/09/2012]
[tit. or.: originale; ling. or.: portoghese; pagine: 367; anno 2011]
Un buon libro, che ha prolungato nella mente e negli occhi il riposo portoghese di Agosto. Con alcuni indubbi meriti, ed anche con dei limiti, naturalmente. Intanto, scritto in modo molto piano, senza troppi fronzoli linguistici, anche ad un non conoscitore come me, ha consentito di leggere un libro in lingua. Da svariati anni non mi mettevo alla prova, ma l’approfondimento dello spagnolo, ed il fatto che il portoghese scritto non è complicato dalla difficile pronuncia, permette di leggere abbastanza agevolmente il libro. Certo non si comprendono tutte le parole, ma il senso scorre. Un po’ come leggere un libro di Camilleri in siciliano. Secondo punto a favore, avermi costretto all’immersione in una tematica che non conoscevo: la politica coloniale portoghese del XVI secolo, i conflitti con l’Olanda, e le interazioni luso-africane nella vita quotidiana della colonia. Che la storia si svolge essenzialmente in Angola, concentrata nei trenta anni centrali del secolo, dal 1630 al 1660. Il terzo, è l’uso di quello strumento letterario definito “storiografia metanarrativa”, su cui tornerò. I punti deboli, sono la leggerezza dei caratteri, non sempre ben delineati. L’attenzione di sfuggita agli attriti tra nativi e conquistadores. La decisione di convergere verso un finale un po’ troppo buonista, dove quasi tutto si raccorda. Il libro in sé, è ben diviso in due parti, anche se con qualche sovrapposizione temporale nel centro. Nella prima si seguono le vicende di Maria Ortega, una ex-schiava, affrancatasi, ma poi esiliata dall’Inquisizione in quanto “vicina all’eresia”, e rispedita nella natia Angola. Dove seguiamo il suo riscattarsi, passo dopo passo. La sua volontà di non cedere alle facili scorciatoie (tipicamente femminili, del tipo di usare il suo pur bel corpo) per ritrovare il suo stato di donna libera. La sbandata per il bel tenente Antonio. Ed infine, l’arrendersi all’amore del buon Sebastiano. E decidere di preferire la pace ad un’inutile e forse non vincente battaglia. Nella seconda invece, stiamo sulle orme di Dona Anna di São Miguel, all’inizio una giovane e dissoluta farfallona dedita a far strage di uomini (per quello che si può, essendo comunque una Dona del Seicento in Africa). Ne seguiamo i tristi matrimoni, dove i suoi sposi muoiono presto uno dopo l’altro, riuscendo solo ad arricchirne le fortune. Poi la sua storia si intreccia casualmente con quella di Maria, e si prosegue in tandem. Nella parte migliore, il rapporto d’amicizia profonda che nasce tra le due pur così distanti (l’una che nasce schiava, l’altra Dona). Ma (e qui esce il messaggio di Isabel come donna e conoscitrice dell’africa) l’essere “signore” le porterà al salvamento. Faranno fronte comune. Maria farà conoscere il bell’Antonio di cui sopra, che sarà il grande amore di Anna. Ma anche Antonio muore, ed Anna comincia una sua strenua lotta contro lo schiavismo. Trovandosi a fianco Maria. E Sebastiano. E Jaime che sempre l’amerà. E la figlia Anna Maria. Il finale è un po’ troppo consolatorio ed unificante di tutti i destini narrati. Ma ci può stare. Ci sarebbe invece da tornare su quel terzo punto, definito dalla sua teorica, la canadese Linda Hutcehon come appartenenti a quei romanzi “auto-riflessivi ma anche paradossalmente legati ad eventi e personaggi storici”. Non parliamo perciò di ucronie, utopie ed altre “invenzioni SUL reale”. Ma di connessione che sono nella trama degli eventi, che non vediamo, e che possono spiegare situazioni, in assenza di documenti certi. Come uno degli epigoni di questo filone, il Michael Ondatje de “Il paziente inglese”. Non parliamo, infatti, di romanzi basati sulla storia, del tipo di Adriano della Yourcenar o di Giuliano di Vidal. Siamo più dai lati, paradossalmente, di Marquez, di Borges, di Eco perfino. Ornando con i piedi per terra, diremo comunque che la Valadão è senz’altro leggibile, anche se qualche gradino più in basso. Ma mi rimane nel cuore, per quegli elementi di “saudade” citati all’inizio.
 Amitav Ghosh “Mare di papaveri” Beat euro 9 (in realtà, scontato 7,65 euro)
[A: 02/11/2011 – I: 18/09/2012 – T: 22/09/2012]
[titolo: Sea of Poppies; lingua: inglese; pagine: 507; anno: 2008]
Un bel volumone, a volte con qualche ripetizione, ma di gradevole (anche se non facile) lettura. E con qualche freccia al proprio arco, che mi fanno aumentare la già notevole ammirazione per lo scrittore indiano. Qui soprattutto per due fatti, incidenti sullo stesso tasto, ma di notevole interesse. Il primo è l’idea alla base del testo. Anzi dei testi, che questo dovrebbe essere il primo volume di una trilogia dedicata all’India (almeno così ho capito, e visto che sicuramente un secondo volume, intitolato “Fiume di oppio” dovrebbe essere uscito). Ed in un certo senso alla nascita di sentimenti ed avvenimenti (civili) che hanno alla fine portato all’India moderna. Questo primo volume si situa nel 1838, cioè 110 anni prima dell’indipendenza che, se non ricordo male, è dell’agosto 1948. Deve quindi tener conto: della dominazione inglese, dell’intrigo tra razza e religioni presenti, della presenza di altri stranieri (olandesi e cinesi in testa, ma anche francesi), del commercio alla base della nascita dell’economia indiana (e del motivo per cui era appetita dagli europei). Soprattutto quest’ultimo ha il suo interesse, ripreso dal titolo: papavero. È la coltivazione intensiva del papavero che fa appetire l’isola dallo straniero. E sopratutto per l’esportazione dei suoi derivati oppiacei verso il mercato cinese. Già quest’idea è bella e stimolante. Ghosh inoltre la rende facendo interagire i vari personaggi cercando di ricreare il miscuglio di lingue presente. Il bhojpuri (dialetto parlato in alcune zone indiane, nei dintorni di Delhi e nelle isole Mauritius), l’indostano (o hindu), la lingua dei lascari (i pirati-marinai del mare indiano), l’inglese degli inglesi e quello degli stranieri (e tutte le altre varianti di pidgin english esistenti). E qui bisogna innalzare un momento sia a Ghosh che ai suoi traduttori. Perché se ottima è la padronanza dello schekeraggio linguistico, altrettanto interessante è la felice traduzione di Nadotti & Gobetti, nonché (come rivelato in coda) le direttive di Ghosh ai traduttori del testo, affinché cerchino di riprodurre il senso di queste lingue, il rumore di fondo che questo brusio interraziale creava in India (ed anche nella testa degli indiani), senza cadere in facili virgolettature di parole astruse. Ed in effetti, l’operazione riesce, soprattutto nella parlata dei lascari (questi strani marinai dell’oriente), misto di scurrilità, cameratismo e padronanza dei termini navali. Mi ricorda un po’ i miei amici libici, che parlano solo arabo, ma conoscono tutti i nomi e i pezzi di ricambio delle jeep in italiano! Ma torniamo ai papaveri indiani. Il 1838, dove Ghosh situa l’azione, è anche un anno cruciale nella cronologia asiatica. I mandarini cinesi decidono di dare una sterzata al malaffare, e bandiscono per la prima volta il commercio dell’oppio, creando enormi difficoltà alle compagnie inglesi che, per sopravvivere, devono barcamenarsi anche con altri traffici. In particolare il trasporto di coolie verso destinazioni oltre oceaniche, in genere le isole Mauritius. In questo momento di crisi, si intrecciano e convergono sulla nave inglese Ibis i destini di varie persone che seguiamo lungo le appassionate pagine del nostro scrittore. C’è Zachary, partito mozzo e meticcio con la Ibis da Baltimora, che, per tutta una serie di fortune si ritrova ufficiale (anche se in seconda), meticcio tra i meticci, amico del capo dei lascari, l’ambiguo ladrone Singer Alì. Ed a Calcutta trova modo anche di invaghirsi di Paulette, orfana francese del botanico di corte, affiliata dalla famiglia inglese padrona della nave (e di molto oppio). C’è appunto Paulette, detta Putli, cresciuta dal padre e da una balia indiana insieme al fratello di latte Jodu, che si vede costretta a fuggire da Calcutta a fronte di avance poco convenienti del padrone inglese. C’è Jodu che sogna di diventare lascaro. C’è Neel Rahputi, rajà locale, che viene rovinato dall’indolenza e dalla cattiveria sempre dello stesso inglese (un po’ il cattivone universale), viene arrestato e condannato all’esilio, costretto alla vita priva di libertà, lui che mangiava da solo per non farsi contaminare il cibo. E soprattutto c’è lei, Deeti, vedova di un oppiomane, destinata al sacrificio rituale, salvata dal senza casta Kalua, con il quale comincia a vivere una vita felice ed errabonda. Ma gli strali della famiglia la raggiungono ovunque. Ed è costretta anche lei a fuggire dal suolo natio. Tutti (eccetto il padrone inglese) si ritrovano sulla goletta in rotta verso le Mauritius. E si intrecceranno le loro storie, con altre. Con vittorie, sconfitte, illusioni e disillusioni. Purtroppo li lasciamo prima che la saga finisca, che questa prima parte tratta del papavero, della sua coltivazione, dei derelitti, dell’emigrazione. Toccando tanti tasti senza la volontà di chiudere. Ed in effetti, le ultime pagine scorrono come un arrivederci al prossimo libro. Che bisognerà leggere per fare il tifo per i miei beniamini. Alla fine un libro non sempre bilanciato, per cui di un gradimento onesto (fatti salvi i punti sottolineati all’inizio). Ancora plausi a Ghosh, che mi è sempre piaciuto (da “Cromosoma Calcutta” a reportage sulla Cambogia post-khmer).
Marcello Simoni “Il mercante di libri maledetti” Newton Compton euro 9,90 (in realtà, scontato 8,85 euro)
[A: 31/01/2012 – I: 22/09/2012 – T: 24/09/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 348; anno: 2011]
Una grossa delusione. D’altra parte continuo a fidarmi poco della mia avversione verso la Newton Compton, veicolante un’ennesima operazione editoriale a me poco congeniale. E stranamente, che da notizie e battage vari, sembrava il libro dell’onesto Marcello Simoni avere qualità nascoste. Campione di vendita grazie ai passaparola. Questo si diceva del libro. Tanto che sale ai primi posti delle vendite nella fine del 2011. E conseguentemente vince anche il Premio Bancarella 2012. Detto così, ci si dovrebbe trovare di fronte un prodotto agile ed avvincente. Ma ecco che la Newton decide di intervenire, con i suoi fucili spuntati. E via allora, paragoni con la rosa di Umberto Eco, i thriller medioevali, sette di filo-browniana memoria, ed altre nefandezze di marketing. Fosse rimasto nel solco del passaparola, forse lo avrei letto con meno attese. Apprezandone la facile lettura, ed anche il lavoro di ricerca sottostante. Che un po’ di storia si deve aver letto per mettere insieme un’ennesima “storiografia metanarrativa”. Sulla quale non torno, dopo averne parlato nel libro della Valadão. Ma quando si carica di aspettative qualcosa, forse si sta più attenti. E viene alle ossa la povertà del libro stesso. Trama esile, con qualche tentativo di thrilleraggio e di camuffamento. Ma talmente palese, che dopo i primi tre capitoli ed il prologo, già vi potevo delineare la storia, i protagonisti, le insidie, nonché lo scioglimento finale. Tutto ruota intorno alla figura di avventuriero di tal Ignazio da Toledo della casa Alvarez (primo tentativo metastorico fallito, che gli Alvarez de Toledo nascono come casata circa 250 anni dopo i fatti). In quegli inizi del secolo 1200 (l’azione si estende tra il 1203 e il 1218) non solo come al solito fiorivano alchimisti e negromanti. Ma anche la ricerca di (false) reliquie religiose (stupenda la vendita del mignolo di non so quale santo al mercato di Burgos). Ignazio è uno degli elementi di punta di questi traffici. Sodale con tal Viviano di Narbona, insieme tentano di vendere un libro dotato di poteri magici ad un arcivescovo di Colonia, il quale però si rivela capo di una setta di giustizieri teutonici (che però nacque dopo la morte di Federico II di Svevia intorno al 1250, quando l’azione del libro è già ben terminata). Da qui si dipartono le mille tracce che pervadono il pamphlettone. Viviano si ritira in convento, viene comunque scovato, pare muoia, per poi riapparire oltre 10 anni dopo cercando l’aiuto di Ignazio per capire i misteri del libro di cui sopra. Inventandosi tutta una trama di intrighi che sa d’operetta (e forse era meglio che rimaneva nelle pagine di Martin Mystere, un fumetto che trattò argomenti similari in un suo numero). Anche Ignazio fugge, trova le tracce di Viviano che lo reclama. Parte, insieme ad un francese, cataro, da lui salvato dai templari e ad un giovane di 15 anni (ah, le date) da lui preso in un convento nel Ravennate. Le tracce dall’Italia li portano sin a Santiago de Compostela, per poi tornare e sciogliersi definitivamente nella suggestiva Basilica di San Marco a Venezia. Oltre la parte cruenta, come tutte le opere para-impegnate, c’è anche il tentativo di creare crittogrammi ed altre diavolerie per poter arrivare al mistero del famoso libro. Ma sono tentativi enigmistici talmente astrusi, che fortunatamente Simoni li disvela nel giro di poche righe. Ignazio e il giovane Uberto arriveranno alla fine delle peripezie con la soluzione in tasca (quella prevista da pagina 38). Con i cattivi puniti. Ed altre amenità da fiction televisiva di secondo ordine. Ancora un po’ di degno lavoro su qualche colore locale. Mettiamoci dentro anche la morte (reale) di Simone IV di Monfort durante l’assedio di Tolosa nel 1218 (tanto per far vedere che si sa di storia, anche se si sottace che era un tentativo di riconquista, che i tolosani lo avevano cacciato poco prima). Insomma, un grande ed insoddisfacente zibaldone. Con altre perle interne, come il saluto da “vecchi conoscenti” tra Ignazio e l’abate Rainiero (a pagina 11). Per poi scoprire che il suddetto abate venne spostato nell’abbazia di cui sopra solo nel 2010, quando Ignazio vi era transitato nel 1203 (pagina 92). Scivoloni che si possono ammettere in un giovane di nuove pretese. Non in un libro acclamato e conclamato a chiare lettere con “Enigmatico come Il nome della rosa ed avvincente come I pilastri della terra”. Ma non diciamo stupidaggini. Se avessi potuto, gli darei un voto negativo. Tanto per ribadire che non sempre i passaparola passano informazioni buone per tutte. A volte si rischiano rumori di fondo. O castronerie da social network.
Alessandro Barbero “Gli occhi di Venezia” Mondadori s.p. (regalo di Rosa&Emilio)
[A: 13/05/2012 – I: 04/11/2012 – T: 08/11/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 425; anno: 2011]
Dopo aver letto le tre tipologie di scrittura dello storico Alessandro Barbero da Torino (anche se non ancora uscite nelle mie trame), riconosco che i racconti sono il suo modo espressivo minore. Saggi e romanzi hanno il respiro che si confà al suo modo di narrare. E non è un caso che questo romanzo si collochi in quell’ambito di “Historyfiction” di cui per primo lessi la genesi nel libro della portoghese Valadao. Qui c’è più fiction che storia, anche se la vicenda si svolge a Venezia durante il dogato di Pasquale Cicogna (presente in carne e corno ducale nella parte finale del libro). Così com’è presente il consigliere Morosini, non doge, ma fratello della futura “dogaressa” Morosina Morosini (fantasia di nomi ‘sti veneti!). O il buon Lorenzo Bernardo, realmente ambasciatore veneziano a Costantinopoli. Il  resto è finzione e ricostruzione. Che si svolge, come nucleo centrale, in Venezia e nelle sue colonie. E che quindi, come ci mostrano le due ottime cartine, possiamo seguire nel narrare e nel mappare. Quella delle carte è anche un’idea non male. Che una ci mostra Venezia ed i luoghi della vicenda in città. La casa di Zanetta. La casa di Donna Faustina. I Derelitti. Campo San Polo. Palazzo Bernardo. E l’altra ci mostra i viaggi per mare delle navi. La Loredana da Venezia a Creta passando per Corfù. L’Aquila Da Cipro alla Sicilia all’Albania fino a Cipro. La legazione veneta da Venezia a Costantinopoli lungo le coste dalmate e poi tagliando per la Grecia e Salonicco. Un aiuto a seguire appunto le vicende. Che ci ricordano inoltre che, tra un avvenimento e la sua conoscenza in altri luoghi, passavano mesi, in quegli anni intorno al 1585. Infatti, in quell’anno comincia la vicenda dei due sposi quasi novelli, Michele e Bianca. Poco più che diciassettenni (ci si sposava presto all’epoca). Lui carpentiere nell’impresa del padre. Lei lavandaia. Impresa del padre che viene fatta fallire dal nobile Lippomanno, per cui il padre si ribella, viene ucciso dalle guardie e Michele fugge senza avvertire nessuno sulla nave del nobile Loredan (che appunto dal nome del nobile, prende nome Loredana). Da qui seguiamo tutte le vicende della maturazione del giovane, legato ai remi delle navi. Le conoscenze con liberi e galeotti. Le angherie dei potenti. Le amicizie con i poveri e, soprattutto, con “gli altri” (ebrei, musulmani, e miscredenti vari). La scoperta di loschi traffici del Loredan, la fuga su di una barca corsara. Le peripezie fino alla fuga da Cipro ed all’avviarsi via terra verso Costantinopoli. Dall’altra vediamo in Venezia il decadere di Bianca nella miseria, il non voler cedere a far la vita vendendo il proprio corpo, all’andare a servizio in diverse case (con la pessima riuscita in quella di Donna Faustina), fino a ritrovarsi ai servigi dei nobili Bernardo. Ad aiutare il difficile parto di Donna Cecilia. Al benvolere della famiglia stessa, che la aiuta a togliere il bando al suo amato Michele. Che consente al nobile Bernardo di ottenere il posto di ambasciatore presso il Turco, al posto dell’attuale un po’ furfante. E che guarda caso è il Lippomanno di cui sopra. Le difficoltà di Michele a mostrare la sua innocenza, se non fosse per un colpo di fortuna (forse un po’ troppo veloce, ma già siamo sulle 400 pagine ed il lettore forse si sta stancando). Fatto che alla fine porta ordine in tutta la vicenda. Consente di sistemare i giusti al loro posto e condanna i malvagi a scontare le loro pene (e non vi dirà chi siano né quali siano). Lo scorrere della scrittura consente di arrivare con facilità alla fine del tomo pur voluminoso. E sopra ogni altra cosa, consente al nostro storico – scrittore di dilettarsi in alcuni quadri di vita vissuta, che tanto mi avevano coinvolto nelle sue fabulazioni vocali. La vita dei muratori. Le differenze nelle galere tra sudditi veneziani e sudditi genovesi. La vita al remo di galeotti e di liberti. E poi, salendo le scale sociali, quella dei patrizi a comando delle navi. Quella dei rettori delle sorti veneziane, sia il sommo capo, il Doge, sia la coorte di elementi che lo coadiuvano, ma che servono anche a mitigarne la troppa autorità, come il Consiglio dei Dieci. E poi la vita familiare dei patrizi in quel di Venezia. E ridiscendendo dal lato opposto, la vita dei servi di casa. Le cuoche, le sguattere, le lavandaie, e quant’altre mandano avanti la quotidiana della Repubblica. Insomma, ho gustato l’affresco, piacevolmente scorrendo la venezianità, nelle more di un novembre ancora solatio.
Capitando il dì di festa congiunto alla festività ero indeciso se tediarvi con una o due trame. Ha prevalso il buon senso, e ne mando una sola, alla metà della festa, piena anche di sorrisi, di buoni propositi, financo di speranze e perché no di auguri, personali e salutari che i tempi delle feste dovranno aspettare ancora un po’. Un forte abbraccio