domenica 18 ottobre 2020

Isole - 18 ottobre 2020

 

Ripeto e pluralizzo il titolo di una della trame, che questa settimana parliamo di scritti più o meno riusciti, ma in ogni caso, isolati, scollegati tra loro. Ce ne sono di bellissimi e coinvolgenti, come quello di Giorgio Amendola e la sua Ponza. Ce n’è di belli e stimolanti, nella Svizzera di Dicker. Ce n’è di caldi, amari, e forse da rivalutare, nel Giappone di Kawaguchi. Ce n’è di migliorabili, nell’Irlanda di McCourt. Ma anche laddove meno riusciti, tutti che permettono interessanti letture.

Giorgio Amendola “Un’isola” Rizzoli s.p. (dalla Biblioteca di Proba Petronia)

[A: 27/02/2018 – I: 12/05/2020 – T: 14/05/2020] &&&&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 252; anno: 1980]

Durante il doloroso trasloco dei libri della casa genitoriale in altre sedi (Santamaura, Soriano e altri), ho trovato alcuni libri che mi ero segnato da leggere e che non avevo ancora iniziato. Questo è il primo della serie, che ho letto con piacere per una serie elencabile di motivi. È scritto in un italiano scorrevole, partecipato e che si legge con facilità. Parla, più o meno, di 10 anni della vita italiana, dal 1930 al 1940, in molti sensi eredi dell’inizio del secolo e forieri di messaggi per la ricostruzione. Ci coinvolge con le avventure pubbliche e private di una delle personalità di spicco del mondo italiano, soprattutto dal ’45 alla morte. Mi fa sentire vicine tutta una serie di voci, che hanno vibrato sin dalla mia infanzia, in particolare quella di mio padre Franco e di mio zio Adriano.

Con la straziante immagine di copertina, di un quadro di Germaine, seguiamo la metaforica isola anche in un contesto concreto. Abbiamo infatti tutta una serie di isole che vagano per l’universo italico in quegli anni, ed intorno alla persona di Amendola. C’è Giorgio isolato nella sua Napoli che non raccoglie l’eredità liberale del padre Giovanni, ma la prende e la spinge sempre più a sinistra. E poi Giorgio isolato nella fuga a Parigi, nell’inizio del lavoro clandestino di cucitura tra le varie anime della sinistra. Un lavoro di Sisifo, che non solo non avrà fine allora, ma che ancora adesso continua ad essere improbo ed irrealizzato. C’è l’isola d’amore che si spande intorno a Giorgio e Germaine (che mi piace pensare uniti, in quella doppia G, in quel “G&G”), quando si conoscono a Parigi nel 1931, quando si sposano nel 1934, fino a quando (anche se non è detto nel libro, ma noi lo sappiamo bene), moriranno a poche ore di distanza il 5 giugno del 1980. E c’è l’isola-isola, cioè Ponza. Isola di confinati dal regime, ma anche isola delle nozze di G&G.

Nelle parole vibranti di Amendola, seguiamo le vicende che partono dalla sua fuga da Napoli nel 1931. Ma anche, con una serie di piccoli flash, con quelle che successe prima proprio lì a Napoli. L’uccisione del padre nel ’26 dalle squadre fasciste, l’allontanarsi dall’Italia della madre lituana (sempre sull’esterofilia che contraddistinse la famiglia), le discussioni con gli amici, l’adesione al Partito Comunista. Poi appunto la fuga, con l’aiuto della rete clandestina, i lunghi giri in treno per sfuggire alla polizia, i documenti falsi.

La vita a Parigi, tra un tocco bohemienne e la vita di funzionario di partito (inciso personale ad uso dei miei amici più cari, un ricordo del funzioMario). Le discussioni feroci e gli incontri significativi. Come il viaggio ad Oxford per incontrare Sraffa e riportare a Togliatti alcune lettere di Gramsci. Ed ancora le discussioni, le aperture e le rotture. Il tentativo di Amendola, da sempre considerato vicino all’ala destra del Partito, di fare un fronte comune con i socialisti contro il fascismo. Tentativo mandato a monte dalle direttive di Mosca. Dove nessuno metteva in discussione gli ordini di Stalin. E ne vediamo i guasti: rotture interne, odio (ahi quanto immotivato) con troskisti e bordighiani. Le liti per accettare una direzione del partito all’estero prima affidata a Togliatti, e poi a Ruggero Grieco, con la sottomissione dello scalpitante Longo.

La lotta interna, mai sopita anche dopo la Guerra, tra Amendola e Pajetta. Le sconfitte dovute a tradimenti vari, che portano all’arresto di Amendola nel 1934, quando, su ordine del Partito, tenta di tornare in Italia per organizzare la lotta clandestina. Ed allora, eccoci a Ponza, alla vita da confinati, isolati, certo, ma in grado di leggere e studiare. Una strana contraddizione, in un’Italia purtroppo sempre più vicina alla Germania. Ma a Ponza arriva l’amata Germaine, arriva il matrimonio, ed arriverà anche la nascita dell’adorata figlia Ada. Qui Amendola, con tocco lieve ma fermo, ci riporta anche al lato privato della sua vita, alla presenza della suocera, al ritorno della madre, alle discussioni con la sorella, al sodalizio con il fratello Pietro. Pieni di umanità, i ritratti dei sodali al confino, dove ancora più forte si fa (e Amendola ben la sente sulla sua pelle) la differenza tra intellettuali ed operai. Ed infine l’amnistia, il ritorno a Roma, e la nuova ultima fuga verso Parigi, preceduto da Germaine e Ada. Qui i ricordi si fermano, accennando a poche cose, e adombrando l’avvicinarsi della Guerra. Qui sarebbe dovuto cominciare un nuovo capitolo, se la morte a soli 73 anni non lo avesse portato via.

Rimane nella mente un ultimo ricordo, con tutte le persone incontrate e nominate, cui Amendola, con tocco lieve, ne dice il futuro. Quasi tutti moriranno, chi nella Guerra Civile spagnola chi sul fronte della Resistenza partigiana. Si nota l’empatia che Amendola comunque ha per tutti. Per tutti quelli che, seguendo un’idea e le proprie convinzioni, hanno votato la vita ad un ideale di libertà. Un ricordo che per me rimarrà indelebile, anche per tutte le vicende private che, di lì a poco, avrebbero visto in prima linea una grossa fetta dei miei parenti. Consiglio quindi di far seguire a questa lettura quella di “Un’isola sul Tevere” di Adriano Ossicini.

“È necessario un ‘comunismo nazionale’ che parta dalle condizioni concrete esistenti nel nostro paese.” (58) [da una discussione con Rodolfo Morandi nel 1932]

“Preferivo starmene solo, conoscere Parigi … ero accusato di individualismo piccolo-borghese, ma me ne fregavo.” (78)

“Ogni crisi non può durare in eterno e deve avere uno sbocco, o rivoluzionario o capitalistico.” (123)

Toshikazu Kawaguchi “Finché il caffè è caldo” Garzanti s.p. (Regalo di Alessandra)

[A: 07/05/2020 – I: 30/06/2020 – T: 01/07/2020] - && e ¾     

[tit. or.: コーヒーが冷めないうちに Kohi Ga Samenai Uchi Ni; ling. or.: giapponese; pagine: 177; anno 2015]

Un regalo super gradito (visto che sono dipendente dal caffè, e soprattutto lo bevo caldo). Purtroppo, mitigato da alcune colpe, in parte dovute alla distribuzione ed in parte dovute alle edizioni (che a me, personalmente, la Garzanti non mi piace molto).

Allora, veniamo subito alle pecche. La prima è il titolo, che, da attente ricerche, in giapponese significa: “Prima che il caffè si raffreddi”. Che è quasi simile ma con una piccola sfumatura. Nuance che poi ha un importante risvolto nel romanzo stesso (e ne parleremo poi).

La seconda, e molto più grave, è che la traduzione è di seconda mano, essendo stata fatta (come si confessa nelle pagine dei “credits”) dalla versione inglese del romanzo e non dall’originale. La storia poi del romanzo in sé e dell’autore è altrettanto singolare (ed io, sinceramente, ne avrei fatto oggetto di una qualche nota o pre o post-fazione).

Kawaguchi è uno sceneggiatore e regista teatrale giapponese sulla cinquantina. Una decina di anni fa mette su un laboratorio teatrale con un suo testo sperimentale appoggiato da una classe di suoi allievi attori. Sono quattro quadri ambientati in un caffè. Il successo è buono, ed un editore presente lo convince a farlo diventare un romanzo. Cosa che si avvera dopo cinque anni. Non solo, ma il romanzo avrà anche altri due seguiti, sempre preceduti da episodi teatrali. Il successo anche qui è di buon livello, tanto che si decide di farne un film. Che purtroppo, avrà l’assurdo titolo di “Caffè Funiculì Funiculà” (almeno nella distribuzione europea).

L’idea di base su cui Kawaguchi ha sviluppato le sue trame teatrali, cinematografiche e di scrittura, è quella di un caffè dove si possa viaggiare nel tempo. Però, con delle regole precise ed inderogabili:

1.    Non si possono incontrare persone che non sono mai state al caffè.

2.    Anche se interferisci nel passato, il presente non cambierà (o anche il futuro).

3.    C'è solo una sedia nel caffè che ha il potere di farti viaggiare nel tempo e se è occupata, devi aspettare che il cliente lasci.

4.    Quando vai nel passato o nel futuro, resta sulla sedia.

5.    Puoi rimanere nel passato o nel futuro finché il caffè nella tua tazza è caldo e devi finirlo prima che si raffreddi.

Capite anche, dall’ultima regola, il motivo del titolo originale come ho riportato sopra.

Su questo palcoscenico (un caffè ed un viaggio nel tempo), che è molto teatrale, l’autore imbastisce alcune storie. Che vedono alla ribalta alcuni personaggi fissi, ed altri che ruotano intorno, e che a volte ritornano.

C’è Nagare, il gestore del caffè, con la moglie Kei con problemi al cuore e la cugina di Nagare, Kazu. C’è Hirai che gestisce una tavola calda lì vicino, ma passa la maggior parte del tempo al caffè. C’è il signor Fusagi, seduto in un angolo a leggere riviste. E c’è una donna che non parlerà mai, un fantasma che occupa permanentemente la sedia del viaggio. Poi, appunto, ci sono personaggi che entrano ed escono. Kotake, la moglie del signor Fusagi, Kumi, la sorella di Hirai e Fumiko, una giovane donna in carriera. Intorno a questi personaggi, si costruisce, nel romanzo, l’intreccio di quattro storie, di quattro racconti. Legati certo, ma anche episodi che si possono montare in una scatola seriale, come è stato poi per i libri successivi e per una miniserie uscita in Giappone. La storia di Fumiko che nel caffè è stata lasciata da Gore e che vorrebbe tornare indietro per spiegare quello che non è riuscita a dire. Ci sono Fusagi e signora, legati dal progressivo Alzheimer di lui. Ci sono Kumi e Hirai che dovrebbero trovare il modo di fare pace. C’è infine Kei che vorrebbe sapere se riuscirà a portare a termine una gravidanza difficile.

Utilizzando abilmente i vincoli sopra esposti, l’autore riesce a trovare il modo di rispettarli, ma anche di fare in modo che i quattro nodi si risolvano. Forse non sempre in modo positivo, ma di certo in modi interessanti. A volte può essere ripetitivo (una volta capito il meccanismo, non vale la pena ripeterlo ad ogni capitolo), ma si intuisce lo sforzo teatrale che c’è stato. Quasi si tocca con mano, per noi che un po’ conosciamo i laboratori di teatro, l’impegno degli alunni a portare avanti una trama, ad intrecciarla, lasciando poi a Kawaguchi, il maestro, di annodare i fili che si possono allentare. Insomma, un tentativo interessante, che poteva aspirare di più senza le pecche riportate in alto.

“Capisco solo adesso quanto devi aver sofferto ad avermi come sorella maggiore.” (132) [o fratello maggiore]

“Aveva pianto al funerale, ma da quel giorno in poi non si era più mostrata triste.” (160)

Frank McCourt “Le ceneri di Angela” Adelphi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)

[A: 22/01/2018 – I: 18/07/2020 – T: 20/07/2020] - && e ¾

[tit. or.: Angela’s Ashes; ling. or.: inglese; pagine: 377; anno 1996]

Ne avevo sentito parlare molto e non avevo mai capito se mi andava di leggerlo o meno. Ma nella testa a volte si confondeva con altri titoli, non mi veniva in mente il film di Alan Parker. Insomma, una confusione totale, che finalmente decido di prendere per le corna. Ne risulta tuttavia una lettura assai datata, poco coinvolgente. Certo con una scrittura efficace, ma con una storia talmente “dickensiana” da sembrare finta. L’autore, americano figlio di irlandesi immigrati, scrive qui l’autobiografia dei suoi primi diciannove anni, ma la scrive quando ne ha sessantasei, dopo aver insegnato letteratura inglese per più di quaranta anni in una scuola americana. Con un successo immediato e folgorante, tanto da portarlo l’anno successivo al Premio Pulitzer, e poi a scrivere altre parti autobiografiche, seppur con minor successo.

Forse, quello che spinse più di altro al successo, è proprio quel sentimento americano che tutti, impegnandosi, riescono nella vita. McCourt, dopo l’infanzia qui narrata, torna in America che aveva lasciato a quattro anni, fa lavoretti, studia, si laurea, e poi, come detto, insegna. E da pensionato, scrive queste memorie.

La famiglia McCourt, in effetti, sembra essere una delle famiglie più sfortunate e peggio assortite di tutta la storia irlandese. I genitori sono Malachy senior di Belfast e Angela Sheehan di Limerick. Con il mito di altri immigrati vanno negli Stati Uniti. Ovvio che capitano nella Grande Depressione del 1929. Malachy non troverà mai, né qui né altrove, un lavoro. Tutto quello che, eventualmente, ottiene, in genere lo beve, essendo un alcolista perduto (anche se poi morirà a 84 anni). E lì in America nascono Frank (il 19 agosto del ’30) e Malachy jr. (il 30 settembre del ’31). Poi vengono due gemelli. Poi una femmina, l’unica, che muore dopo venti giorni. Angela ha un crollo verticale, e la famiglia McCourt decide di tornare in Irlanda. Prima dalla famiglia di lui, nel Nord, ma i parenti di Malachy sr. Praticamente li buttano fuori casa (il figlio ha sposato una cattolica…). Così che si rifugiano a Limerick, dalla famiglia di Angela. Dove non saranno mai bene accolti, solo sopportati. Per due ragioni fondamentali: non hanno mai un soldo ed il genitore è del Nord (oltre ad essere un ubriacone impenitente).

Lì a Limerick assistiamo alla morte dei due gemelli. E poi alla nascita di Michael e di Alphie. Sempre con gli occhi di Frank assistiamo alle sciagure di Limerick: la vita tra fame, fanghiglia, pulci; il padre disoccupato che, quando trova un lavoro precario, si beve al pub i soldi della paga, torna a casa ubriaco, poi finisce col non tornarci più e sparire; la madre costretta a mendicare, a raccogliere il carbone per terra, ad andare a letto con un parente in cambio dell'alloggio per sé e per i figli; e dopo i fratellini morti di stenti, il gabinetto in mezzo alla via, i troppi funerali, la casa sempre allagata. E via discorrendo, chi più ne ha più ne metta, di disastri che già sarebbero indecenti appunto nella Londra dickensiana dell’Ottocento, sono spaventosi in questa Irlanda nella Seconda Guerra Mondiale.

Nonostante tutto, Frank cresce, legge, si ammala, guarisce, fa mille lavori visto che il padre sparisce, fattorino, porta giornali. Finendo anche per fare lo scrivano di missive minatorie per una usuraia locale. E quando muore, le ruba anche l’ultima parte dei soldi che gli servono per comprare un biglietto in nave e tornare in America. Dove il Frank scrittore farà le attività sopra elencate, mentre il libro finisce con un’imprevista sortita amorosa, e con l’idea che, quando sarà, le ceneri della “povera” mamma, torneranno comunque in Irlanda.

Mi aspettavo sinceramente un libro di formazione più intenso, anche perché (solito mio pallino rompiscatole), un bimbo di tre anni difficilmente parla come il Frank del libro, ragiona come il Frank del libro, ed altro. Qualcosa riesce a farci immedesimare. Quando non capisce le parole e le cerca sul vocabolario. Quando non capisce gli adulti che gli dicono che capirà quando sarà grande. Quando si interroga su comportamenti assurdi per un tredicenne (le vergini suicide rimarranno sempre per lui un mistero). Ritengo, al fine, che sia un libro imprescindibile per una sana e variata biblioteca. Anche se non imperdibile.

Vorrei finire con una piccola citazione. Nel libro, proprio alla fine, tornando in America sbarca a Poughkeepsie, che per noi “informatici” rimarrà sempre la sede dell’IBM. Mentre per i letterati è anche la sede del Vassar College, la prima Università completamente femminile americana. Vassar che diventerà mista solo nel 1969. Vassar che vedrà tra le sue allieve, tanto per fare due nomi a caso, Jacqueline Kennedy e Meryl Streep.

“Shakespeare è come il purè di patate, non ti basta mai.” (283)

Joël Dicker “L’enigma della camera 622” La Nave di Teseo s.p. (Regalo di Kikko & Bene)

[A: 24/06/2020 – I: 12/08/2020 – T: 15/08/2020] - &&&& --

[tit. or.: L’énigme de la Chambre 622; ling. or.: francese; pagine: 632; anno 2020]

Interessante secondo libro letto dello svizzero Dicker. Molto metatesto, ma intriga, coinvolge ed alla fine propone uno scioglimento globale delle vicende interne ed esterne che soddisfa.

Dicker è ormai abbonato a best-seller che vendono e vendono. Tuttavia, gli altri due libri usciti non hanno avuto il successo editoriale di “Harry Quebert” e di questo Enigma. Un libro, in un certo senso, anche doloroso, in cui l’autore entra ed esce dal testo, non a caso il protagonista si chiama Joël Dicker. E nasce da un blocco e da uno sblocco. Il blocco è il tipico blocco dello scrittore che sente di avere una storia, ma che non riesce a farla uscire. Lo sblocco deriva da un fatto doloroso, che verrà riproposto più volte nel corso del libro. La morte del mentore dello scrittore (uso il minuscolo per l’autore ed il Maiuscolo per il protagonista), l’editore Bernard de Fallois. Colui che aveva spinto lo scrittore a pubblicare, che lo aveva consigliato, aiutato, pubblicato. Varie volte lo Scrittore ci fa uscire dal corso della storia, ci porta dai suoi momenti con Bernard, che sono belli e toccanti. Poiché poi Bernard aveva detto allo scrittore che doveva solo scrivere, quello fa, e ci porta in questa multi-dimensione abbastanza affascinante.

Lo Scrittore pensa il suo blocco derivi dalla sfortunata storia d’amore che sta vivendo con Sloane, che con un freddo biglietto lo lascia il 22 giugno. Per distrarre la mente, decide di fuggire in un paesaggio incantato nel pieno delle alpi svizzere, rifugiandosi nel lussuoso Palace de Verbier. Lì gli viene assegnata la stanza 623, e recandovisi, scopre che c’è la stanza 621, poi la 621 bis, poi la 623. Non la 622. Si incuriosisce ma non andrebbe avanti se un’ospite dello stesso hotel non lo coinvolgesse in questo mistero. Entra così in scena la dinamica Scarlett Leonas. Ed insieme scoprono tante cose.

Quindici anni prima si stava svolgendo nell’hotel un grand gala organizzato da una delle più potenti banche d’affari svizzere. Morto l’anno precedente il patriarca, si doveva nominare il successore: il figlio Macaire o il rampante Lev? Tuttavia, prima della proclamazione, una persona muore assassinata nella stanza 622. La bravura dello scrittore, a questo punto, è portare avanti tutta la storia, per dire chi sia morto solo dopo quattrocento pagine.

In tutto questo, insieme a Scarlett, entra nella storia della banca, nella storia dei personaggi, nei loro intrecci. C’è appunto Macaire, abbastanza bravo, ma prima succube del padre, poi incapace di volare con le proprie gambe, sposato con la bella Anastasia, ed in amicizia/competizione con il molto più bravo Lev. C’è Anastasia che sposò sbadatamente Macaire, pur amando Lev. E, ritrovandolo, si trovano a tessere trame altre, sia tradendo Macaire, sia pensando a futuri congiunti. C’è Lev, di cui veniamo a brandelli a conoscere la storia, con il padre attore/fantasista che fa mille mestieri per sopravvivere. Lui viene accolto dal padrone del Palace de Verbier, che lo fa studiare, che lo mette in condizione di fare grandi opere e grandi soldi, anche perché vuole che diventi il suo successore. Ci sono gli altri due membri del Consiglio d’Amministrazione, padre e figlio, che vorrebbero pesare di più nella Banca. Infine, c’è il misterioso Sinior Tarnogol, un finanziere entrato nella banca a fronte di una incauta vendita di azioni da parte di Macaire.

Scartabellando, facendo entrare altri personaggi, lo scrittore scrive e lo Scrittore indaga. Nel flusso della storia compaiono rivoli di narrazioni intriganti. Macaire è realmente una spia dei Servizi Segreti? Dov’è finito il padre di Lev? E, soprattutto, chi è morto nella stanza 622 e perché?

La bravura dello scrittore è portarci passo dopo passo anche verso il finale, quando grazie al pensiero del suo mentore Bernard, finisce il libro, scioglie l’enigma della stanza. Ed esce dalle multi-dimensioni testuali. Per spiegare a Denise, la sua segretaria che lo Scrittore ha finito il libro, e lo Joël confessa che la coprotagonista si chiama Scarlett perché adora “Via col Vento”, che l’autista tuttofare di Lev si chiama come il segretario di Marcel Proust.

Noi che siamo attenti lettori poi non possiamo che notare come il cognome di Scarlett, Leonas, non sia altro che un anagramma della fiamma dello scrittore (Sloane). E che la stanza porta un numero che non è altro che la data dell’abbandono di Sloane scritta all’inglese (22 giugno à 22/6 à 622).

Alla fine, un buon romanzo, che mi ha portato in giro fra le mie rimembranze di scrittori che si insinuano nelle pagine, e nel mondo dei piccoli editori. Dicker mi rimanda a Fallois ed alla sua casa editrice, che mi fa venire in mente Nicolas Bouvier ed i suoi “scrittori viaggiatori”, per portarmi ai piccoli editori svizzeri, ed all’opera poco conosciuta ed a me cara di Vladimir Dimitrijević. Insomma, se si comincia a fare metatesto non si finisce più. Ma io finisco, tributando il dovuto omaggio ad un libro che va letto.

“Il successo di un libro … non si misura dal numero delle copie vendute, ma dalla felicità e dal piacere che si prova a editarlo.” (196) [e a leggerlo…]

“Quando sei un artista, lo sei per sempre! Ce l’hai nel sangue.” (287)

“La vita è un romanzo di cui già si conosce la fine: il protagonista muore. La cosa più importante, in fondo, non è come va a finire. Ma in che modo ne riempiamo le pagine.” (632)

Sebbene sia la terza settimana, non metterò alcun allegato, che, avendo praticamente esaurito i libri felici, devo spulciare le mie raccolte per vedere se sia rimasto qualcosa.

È vero, siamo ad una ripresa dei contagi e del virus, anche se (come dicono i miei amici matematici), i numeri sono diversi da marzo e aprile (essendo aumentati il numero di controlli effettuati). Sebbene quindi con molta cautela, spero di non avere occasione di inviarvi altre mail per il mese di ottobre, augurandomi di poter fare quello che programmo da mesi.  

domenica 11 ottobre 2020

25 anni di Courtney - 11 ottobre 2020

 Torniamo ancora una volta alla grande saga della famiglia Courtney scritta da Wilbur Smith. Che riporto in ordine cronologico degli avvenimenti, e non di scrittura. Siamo agli episodi dal decimo al tredicesimo, con un piccolo inserto, poco significativo, della saga parallela dei Ballantyne. Mentre proseguiamo nella storia, notiamo come la scrittura invece sia sparsa nel tempo, con un episodio scritto nel 1966 ed il successivo nel 2009, per poi tornare prima al 1985 e poi al 1977. Tutti, rispetto alle solite scrittura, con un indice di gradevolezza più che sufficiente.

Wilbur Smith “La voce del tuono” TEA euro 6,90

[A: 25/08/2018 – I: 02/06/2020 – T: 04/06/2020] - &&& --

[tit. or.: The Sound of Thunder; ling. or.: inglese; pagine: 446; anno 1966]

(periodo: 1899-1906) (COURTNEY 10)

Come al solito Smith ci abitua a viaggiare nel tempo della scrittura. Avendo deciso di leggerne, ho cercato di ricostruirne una linea temporale, seguendo la cronologia dei fatti e non quella della scrittura. Così, dopo aver veleggiato con scritti redatti nell’ultimo decennio, ecco saltare indietro, allo scrittore poco più che trentenne, alle prese con i motori primi delle sue avventure.

Questo in realtà è il terzo libro scritto da Smith, ed il secondo dedicato alla saga della famiglia Courtney, anche se per la storia in sé risulterebbe come decimo. Anche qui, con alcuni distinguo, che è realmente la continuazione diretta del settimo (“Il destino del leone”), essendo l’ottavo ed il nono coevi temporalmente, ma dedicati sia ad una zona più a nord della saga originaria (cioè Sudan ed Eritrea) sia alla convergenza con l’altra grande saga di Smith, quella dei Ballantyne. Questa convergenza non mi pare abbia dato frutti interessanti, rimanendo i personaggi ancora senza una reale deriva comune. Quindi torniamo al filone “sudafricano”, che qui riprendiamo le vicende dei fratelli Courtney, Sean e Garrick.

Ricordo brevemente gli antefatti: figli di discendenza inglese in terra sudafricana, Sean fortuitamente ferisce Garrick, che risulta amputato di una gamba e menomato nella sessualità. Sean è uno sciupafemmine, che in particolare circuisce la un po’ grossolana Anna, ingravidandola. Ma non è il suo amore, la lascia subito e lei, per vendicarsi, sposa Garrick, e fa nascere Michael. Sean fugge dalla casa avita in cerca di avventure, sposa la disturbata Katrina, con cui produce il giovane Dirk. Poi Katrina si suicida, lui e Dirk vanno in cerca d’avorio ed altri soldi (trovandoli).

Qui cominciamo che i due stanno tornando a casa, e si imbattono in una serie di problemi: la guerra anglo-boera e Ruth. Sean è ben dibattuto: è inglese, vive nelle colonie inglesi, ma da sempre ha convissuto con i boeri, apprezzandone le qualità, sposando Katrina, e vivendo una vita simile alla libertà d’origine olandese. Dopo che gli vengono confiscati avorio e denari, torna alla casa avita, dove trova la dolce matrigna Ada, la super acida cognata Anna ed il figlio non riconosciuto Michael. Per rimediare ai debiti ed altre angustie, non può che partire soldato.

Andando verso il battaglione, si imbatta in Ruth, donna, ebrea, sposata e super bella. Non vi sto a spiegare i come ed i perché, ma capite che i due hanno una notte d’amore selvaggio. Ruth sparisce, Sean raggiunge il reggimento, si arruola nelle Guide, ed è ovvio che diventi il miglior amico di Saul, che noi già capiamo essere il marito di Ruth. La scrittura è quella del poco più che trentenne abitante al di sotto dell’equatore: quindi una grande parte viene dedicata alla guerra ed alle sue battaglie.

Come spesso anche successivamente, la cura storica delle vicende è ben centrata, e quindi possiamo seguire una descrizione abbastanza accurata dell’andamento della seconda guerra anglo-boema. Con una iniziale prevalenza dei boeri, sino a che gli inglesi non cambiano tattica, cominciano una guerra da terra bruciata, e con l’ardore dei numeri, finiranno per prevalere. La guerra è anche un momento per mettere a fuoco alcuni elementi: il rispetto tra Sean e Jan-Paulus Leroux, uno dei capi boeri nonché parente della sua prima moglie; l’insipienza di Garrick che anche sotto le armi non sa uscire dal suo guscio difensivo ed autocommiserativo; l’amicizia tra Sean e Saul, con la nascita di Storm, che è figlia di Ruth e Sean, ma Saul non lo sa, e con l’ovvia morte di Saul, così che, anche se in un paio di anni, Sean riuscirà a convolare a giuste nozze con Ruth. Ovvio che ci siano anche “danni” collaterali. Garrick viene scoperto nella sua poca autorevolezza, congedato, rispedito a casa, dove la sua parte di mondo continua a deperire. Suo “figlio” Michael è sempre più attratto dal vero padre Sean, e sua moglie Anna è sempre più acida, tanto che alla fine avrà il suo, lasciandoci intravedere un possibile ricongiungimento tra i due fratelli.

Sean dovrà anche superare molte prove: raccolti poco felici, piante che non crescono. Ma soprattutto, la gelosia di Dirk nei confronti sia di Ruth che di Michael. Tanto che il giovane sedicenne (ci risulta nato nel 1890) inavvertitamente brucia tutta la foresta paterna, con un guasto economico stratosferico. Che solo ritrovamenti fortuiti di non dico cosa permetteranno di superare. Alla fine, anche se con qualche zoppicamento, tutto sembra andare per il meglio: Michael diventa l’aiutante di Sean, Sean adotta Storm, la figlia di Ruth, Garrick si pacifica con il fratello e comincia a scrivere le memorie della “gens Courtney”, Dirk, per evitare altri guai, si allontana per vivere altrove.

Sono tuttavia sicuro che questa calma sia solo apparente. Intanto, chiuderei con un piccolo mistero: ad un certo punto, ed in una sola pagina, Ruth chiama la figlia “Thunder” invece che “Storm”. Però poi da un lato dice che rimarrà in cinta solo concependo durando un colpo di tuono, dall’altro il titolo del libro parla della “Suono del tuono”, cosa che ci fa riflettere. Sicuramente meglio del cambiamento italiano tra “suono” e “voce”.

Wilbur Smith “Il destino del cacciatore” Harper Collins euro 9,90 (in realtà, scontato a 9,50 euro)

[A: 16/07/2020 – I: 29/07/2020 – T: 30/07/2020] - &&& +

[tit. or.: Assegai; ling. or.: inglese; pagine: 550; anno 2009]

(periodo: 1906 - 1920) (COURTNEY 11 & BALLANTYNE 06)

Come dicevano i media librai, dopo molti anni, ecco l’attesa ristampa dell’unico volume mancante della mia mega saga Courtney & Ballantyne. Non più nella scuderia TEA, ma presso Harper Collins che da alcuni anni ha preso in mano le pubblicazioni di Smith.

Vengo così a colmare un buco nella storia, tra i due romanzi posteriori come scrittura “Re dei Re” dove vedevamo la fine delle storie di Ryder e Penrod, e “Grido di guerra”, dove vediamo il seguito della storia di Leon e Eva, ma soprattutto dei figli e parenti vari. Certo, avendoli già letti, un po’ di sorpresa ci manca, ma qui la scrittura di Smith ritorna ad essere gradevole, anche perché molto più centrata sull’Africa e sui suoi paesaggi.

Una volta tanto la storia non si complica eccessivamente, quasi fosse un passaggio di relax nella scrittura del nostro avventuroso avventuriero. Una volta tanto, seguiamo solo il personaggio principale, Leon Courtney, figlio di Ryder Courtney e Saffron Benbrook, nonché quindi nipote di Amber Benbrook sposatasi con Penrod Ballantyne. All’inizio della storia ci scordiamo subito di quasi tutti, meno di Penrod. Leon dovrebbe avere circa 19 anni, essendo nato nel 1887. È nell’esercito con lo zio, ma il suo carattere indipendente collide con le gerarchie. Così che preferisce seguire la sua natura, iniziando a fare il cacciatore, anche se lo zio gli lascia una copertura da riservista dell’Intelligence (che servirà più avanti). Si collega al grande vecchio dei fucili, Percy Philipps, ogni tanto va a salutare la sua madre adottiva Lusima (che troveremo ancora nel successivo episodio), e si aggira per la vallata del Great Riff con i suoi amici masai.

Qui c’è una delle parti del miglior Smith, quando parla della “sua” Africa, anche se a volte è un po’ troppo indulgente nei rapporti tra locali ed immigrati. Ma qui, appunto, vediamo dispiegarsi al meglio il suo talento. La descrizione dei paesaggi africani, maestosi, dai deserti secchi come il Caprivi namibiano fino al massiccio del Kilimanjaro, passando per l’Arusha National Park, su, su sino a Nairobi, ed oltre. Tutta la parte centrale è dedicata alla caccia, ed alle varie tipologie di assalto alla fauna locale: noi ora animalisti, assistiamo esterrefatti alle stragi lì perpetrate. Vengono uccisi kudu a iosa (cioè antilopi), ma anche gazzelle di Thompson, facoceri, bufali, elefanti e leoni. Smith si ingegna nel mostrarci i vari tipi di caccia, e la differenza tra i bianchi con i fucili ed i locali con l’assegai. Che è lo strumento del titolo (anche se è pure il nome del dirigibile usato nella lotta finale), e che in italiano andrebbe tradotto con zagaglia. Nei vari safari incontriamo l’ex-presidente americano Teddy Roosvelt con il figlio Kermit, la principessa tedesca Hohenzollern ed altri. Ma questi incroci servono solo per far entrare nella storia il ricco industriale tedesco Otto Von Meerbach, con la sua amante Eva von Wellberg.

Questa parte serve anche ad introdurre e farci godere il secondo punto forte della narrazione: l’aviazione. Prima con gli aerei pilotati da Otto, poi da Leon, con le descrizioni dall’alto del territorio africano. Poi con la nascita dei primi dirigibili adattati ad usi bellici. Otto, oltre ad essere un industriale, è anche una specie di collegamento tra le milizie del Kaiser ed i tedeschi residenti in Africa. Dove si cercherà di farli insorgere contro i britannici. Questo collegandosi con uno dei capi boeri, quel Koos de la Rey (realmente esistito) padre di Lothar che sarà al centro di future vicende che noi abbiamo già letto e digerito.

Sappiamo anche, dal “Grido di Guerra”, che Eva in realtà è una spia inglese che cerca di carpire le informazioni da Otto. E sappiamo anche che nascerà un grande amore tra lei e Leon. Avremo modo di gustare, tra un volo e l’altro, non solo la nascita dell’amore, ma anche le modalità con cui Eva e Leon riusciranno a sabotare i pieni tedeschi, causando (finalmente) la morte di Otto.  Per poi gustarci la nascita dell’impero Courtney e l’inizio della nuova dinastia, con la nascita di Saffron (chiamata come la nonna) delle cui vicende già sappiamo a lungo.

Ripeto, sono contento di essere riuscito a colmare questo buco temporale, ed a ricostruire tutta la trafila genealogica dei Courtney. Inoltre, è un libro che, lasciando da parte le storie troppo “politiche” che a volte non rendono giustizia della penna di Smith, si concentra sulla vita africana di tutti i giorni, nelle pianure e nei monti dell’Africa subequatoriale. Un buon libro, da leggere tuttavia seguendo lo schema temporale degli avvenimenti.

“È la vita che è difficile. Non esistono certezze. Dobbiamo prendere i giorni a noi assegnati e farne quello che possiamo.” (462)

Wilbur Smith “La spiaggia infuocata” TEA euro 6,90

[A: 12/12/2017 – I: 05/06/2020 – T: 07/06/2020] - &&&

[tit. or.: The Burning Shore; ling. or.: inglese; pagine: 522; anno 1985]

(periodo: 1917 - 1920) (COURTNEY 12)

Come potete constatare ho ritrovato il volume 11 della saga dei Courtney e colmato i salti temporali della grande famiglia. Qui la ritroviamo, almeno in parte, e poi, avventura dopo avventura, quasi tutta nuovamente schierata sulle “verdi colline d’Africa”. Anche se questo dodicesimo volume è massimamente dedicato ad un nuovo personaggio, Centaine de Thiry. Nata le prime ore del Nuovo secolo, da cui il nome, così dice lei. Anche se “centinaia” mi suona malino come nome proprio. Come si mischia allora la bella francesina con i nostri eroi?

Intanto, l’azione (saltati una decina d’anni) si sposta nel 1917, in Francia, dove durante la Prima Guerra Mondiale combattono il colonnello Sean Courtney (ormai cinquantacinquenne) ed il figlio/nipote Michael (per districare l’intreccio rimando ai libri precedenti). Seguiamo soprattutto Michael, giovane aviatore (anche se non proprio giovane, che secondo la cronologia dovrebbe avere 37 anni). Dopo una prima parte sui combattimenti aerei, filologicamente interessante ma poco avvincente, Michael incontra la bella Centaine, di venti anni più giovane. Amore a prima vista, sesso subito (sai, la guerra…), e matrimonio da organizzare (così che la ragazza incontra anche zio Sean). Ovvio che Michael muore il giorno delle nozze, Centaine scopre di essere incinta e decide, con l’aiuto dello zio, di andare dai parenti africani di Michael.

Sappiamo bene, avendo già alle spalle una bella dose di scritti dello scrittore australe, che la sua capacità è di complicare le vicende semplici, così che si riesca quasi sempre a veleggiare verso le 500 pagine. La nostra bella Centaine si imbarca allora su di una barca-ospedale, al fine di arrivare a Cape Town dove la aspetta il suocero Garrick. Ma lungo le coste della Namibia, per un errore notturno, la nave viene affondata da un sommergibile tedesco, le cui armi sono fornite da un manipolo di guerrafondai tedeschi che non vogliono arrendersi all’egida del Commonwealth verso cui veleggiano le nazioni della punta africana. Manipolo comandato dal bello, biondo e tedesco Lothar de la Rey.

La nave affonda, si salvano in pochi. Da un lato, insieme ad altri, c’è la tata francese Anne. Dall’altra solitaria e sperduta lungo la “Skeleton Coast” (tratto di spiaggia che ho visto ed ho capito come possa essere fonte di naufragi a rotta di nave), Centaine sopravvive. Anne si ricongiunge con Garrick, non ci meravigliamo che finiscano anche a letto, visto che la francese “cura” l’impotenza del nostro. Ed i due da quel momento cominciano a cercare Centaine per ogni dove. La nostra ormai diciottenne, invece, dopo aver corso molti pericoli, viene salvata da due anziani boscimani, con i quali intraprende un lungo viaggio iniziatico.

Qui, Smith ha agio di mostrare la sua empatia verso gli aborigeni, i locali, ed in special modo, i più deboli, emarginati anche dagli altri di colori. Parliamo dei piccoli, molto poco noti (se non per il nome) popolo San, chiamato spregiatamente boscimani. Abbiamo modo di capirne i riti, le modalità, le paure, la forza. Cose che Centaine vivrà sulla sua pelle, e che i due vecchi boscimani le restituiranno in molti modi. Il primo aiutandola a far nascere l’erede, Michael Shasa de Thiry Courtney. Quindi portandola nel luogo segreto della loro razza. Infine, lasciandola quando si avvicinano dei bianchi, così che lei possa tornare “alla civiltà”. Il guaio è che i bianchi sono il manipolo di Lothar e dei suoi filotedeschi.

L’ignara Centaine plaude al salvataggio, si incapriccia del biondo Lothar e ci fa anche un figlio. Poi vicissitudini varie, portano Garrick e consorte a salvare Centaine, e con lei Shasa. Ma la nostra eroina, quando torna a Cape Town, scopre che Lothar ha ucciso i due boscimani. Così lo accanna, ma a quel punto si trova anche senza soldi. Risolverà tutto (molto?) con l’ultimo regalo dei due aborigeni (questo ve lo lascio scoprire). Così che alla fine troviamo la seguente situazione: a Cape Town ci sono le due famiglie Courtney “ufficiali”: da una parte Sean e Ruth (la seconda moglie) con Dirk (il figlio di Sean e Katrina) e con Storm (la loro figlia ufficiale) e dall’altra Garrick con la forse moglie Anne (la governante francese). In Namibia c’è Centaine con Shasa, figlio suo e di Michael (figlio segreto di Sean adottato da Garrick). In giro per l’Africa australe c’è Lothar con Manfred (figlio suo e di Centaine).

Insomma, uno Smith d’annata, con tante avventure discrete, molta descrizione di scenari africani spesso la cosa migliore, qualche scena di sesso, e molti intrighi da Jane Austen di colore (o da Dynasty se fossi molto cattivo). La scrittura è gradevole, ed il tempo passa piacevolmente, in attesa di impegnare altrove la testa.

“La città di Swakopmund era uno sbalorditivo pezzo di Baviera trasportata nel deserto sudafricano, con tanto di casette della Foresta Nera.” (273) [nonché birrerie e ristoranti con wienerschnitzler, come trovai nel 2007]

Wilbur Smith “Gli eredi dell’Eden” TEA euro 6,90

[A: 25/08/2018 – I: 24/06/2020 – T: 26/06/2020] - &&& --

[tit. or.: A Sparrow Falls; ling. or.: inglese; pagine: 545; anno 1977]

(periodo: 1917 - 1925) (COURTNEY 13)

Una nuova puntata della saga dei Courtney, con i tempi leggermente sovrapposti al precedente, e con alcuni rimandi. Peccato si noti che questo capitolo è stato scritto prima del precedente, tanto che avrebbe avuto senso anche menzionare la bella Centaine. Ma tant’è, siamo ancora nell’epoca in cui la scrittura di Smith era abbastanza acerba, dondolando tra ambientalismo in bozze ed erotismo senza troppe pulsioni.

Come si vede, in fatti, è scritto nel 1977, una decina d’anni dopo le prime scritture, ed una decina di romanzi dopo. Anche se in quella fase, Smith alternava romanzi a sé stanti con alcune puntate della saga dei Courtney. E della saga questo è il terzo scritto, dopo “Il destino del leone” (puntata numero 7) e “La voce del tuono” (puntata numero 10). Noi però lo leggiamo nella sequenza ormai consolidata delle successive scritture e riscritture.

Così che ci troviamo nel gorgo della Prima guerra mondiale. Sappiamo anche che Michael il figlio naturale di Sean ma adottato dal gemello Garrick è morto in Francia. Non avendo ancora ipotizzato lo sviluppo con il figlio di Michael e Centaine, qui praticamente viene ignorato Garrick, e si rimane sul lato “Sean” della famiglia, soprattutto inserendo Storm, la figlia naturale di Sean e Ruth, da lui adottata alla morte del marito di Ruth. Ci aspettiamo quindi una narrazione che porti a compimento i nodi del dissidio tra Sean ed il figlio Dirk (figlio di Sean e della prima moglie Katrina, quella disturbata che si era suicidata nel capitolo 10).

L’abilità di Smith è quella di inserire il ramo solido della storia con qualche innesto fresco, che ne rivitalizzi l’aria. Anche se, vedendo il complesso della sua opera composta da 44 libri di cui la metà dedicata ai Courtney & Ballantyne, ci sono elementi ricorrenti. I principali sono: il dissidio tra genitori e figli (non sempre, a volte solo verbalmente, ma c’è sempre qualche screzio), i matrimoni combinati per salvare gravidanze indesiderate, la presenza di aborigeni solitamente più simpatici dei bianchi al potere, la storia della terra australe. Perché se è vero che il romanzo comincia in Francia, i nodi principali si svolgono nella provincia del Capo, incentrati intorno ad uno dei momenti topici locali: la cosiddetta “Ribellione del Rand”, con i conseguenti scioperi, massacri e caduta del governo del “Partito Sudafricano” di Jan Smuts.

Facendo un passo indietro, l’elemento nuovo è l’introduzione di Mark Anders. Cecchino eccellente come vediamo nella prima parte durante le battaglie in Francia, dove, al comando del generale Sean Courtney, ha modo di farsi valere (anche se rimane un mistero perché sia rimasto sconvolto dalla vista del cecchino tedesco morto). Lo ritroviamo poi in Sudafrica, cercare di tornare sulle sue terre, per scoprire solo che gli sono state rubate da una combriccola capeggiata da Dirk Courtney. Qui, com’è ovvio, si innesta il filone principale. Mark non ha le prove, ma sospetti. È anche povero, ma onesto. Inoltre, come Sean, è un profondo amante della terra locale e dei suoi animali (eccoci al tocco ambientalista). Dopo qualche sbandata, entra nell’entourage di Sean, fa carriera, e gli si prospetta un futuro da controllore delle terre affinché siano ripopolate, visto che i bianchi (inglesi, boeri o afrikaans che siano) non fanno altro che sterminare le bestie. Prima però bisogna risolvere la ribellione del Rand.

Per chi fosse poco aduso alla storiografia sudafricana, ricordo brevemente i fatti. La caduta del prezzo dell’oro dopo la Guerra, porta la necessità alle grandi compagnie di abbassare i salari. Poiché i bianchi non accettano tale riduzione, i capitali internazionali decidono di introdurre manodopera di colore, modificando quella che viene definita “Colour Bar”, cioè la percentuale di lavoratori di diverse etnie che possono accedere al lavoro. Il sistema legale che non concede gli stessi diritti a persone di razze differenti. Fatto sta che Smith ci porta un pezzo di questa storia, incluso il (reale) massacro di Fordsburg. Dove, per stroncare gli scioperi, l’esercito di Smuts massacra quasi 200 minatori. Massacro che porterà poco dopo alla sconfitta elettorale di Smuts ed alla presa del potere del Partito Nazionalista di Hertzog. Sean e Mark sono dalla parte dei perdenti. Tant’è che Sean perde anche il seggio al congresso a favore del cattivissimo Dirk. Ovvio anche che nelle more Mark si sia innamorato di Storm. Un amore all’inizio molto consensuale, poi rotto per iniziali diverse vedute sul futuro, anche se Storm è incinta (ma Mark non lo sa). Mentre Mark vive nel veld la sua vita ecologista, Storm mette al mondo il piccolo John (siamo nel 1923, l’anno di nascita di mio padre), si sposa con un terribile ubriacone, divorzia, ed aspetta il ritorno di Mark.

Ci sono tanti piccoli rivoli narrativi che opportunamente salto, altrimenti riscriverei il libro, e non è proprio il caso. Il nodo finale sarà il redde rationem all’interno della famiglia Courtney. Anche perché Mark trova le prove dei tradimenti di Dirk. Come sappiamo da altri accenni, ci sarà una moria generale, mentre Mark, Storm ed il piccolo John si avviano ad una vita discretamente serena a tutela dei boscimani e degli animali in pericolo. Quasi ad instaurare il primo dei tanti Parchi sudafricani. Che se non li avete visti, vi invito a vistare prima o poi.

Pur essendo molto “antico” con gli innesti successivi, Smith è riuscito ad inserirlo agilmente nella trama complessiva. La sua buona scrittura non mente e la trama scorre agile tra fiction e realtà. C’è ancora qualche concessione alle scene di sesso, che erano uno dei marchi di fabbrica delle sue prime storie, ma si vanno sempre meglio inserendo negli ingranaggi generali. A volte sembra peccare di vedute non propriamente liberali, ma le asserzioni ecologiste ante-litteram di Sean Courtney sono da condividere in pieno.

“A cosa serve vivere, mi domando io, se uno deve rinunciare a tutto nella vita?” (458)

Seconda trama di ottobre ed allora un bell’allegato dedicato agli acufeni.

Passati gli auguri al nipote Filippo, non posso non ricordare in questa trama un compleanno sempre più caro e sempre più forte. Per il resto siamo qui a vedere numeri e sperare a vaccini di ogni tipo. Facendo un grande tifo per tutti i dottori, noti e ignoti. 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

OTTOBRE 2020

Io pensavo agli acufeni, ma Franzen mi dici si debba parlare di tinnito.

TINNITO

Jonathan Franzen “Libertà”

A chi soffre di tinnito - un sibilo o ronzio nelle orecchie, costante e generalmente incurabile, a volte paragonato al frinire delle cicale in una notte d’estate - si consiglia spesso di coprirlo con un suono alternativo. L’idea è che il cervello consideri il secondo suono più accettabile e più immediatamente riconoscibile come rumore «di fondo» - ossia un rumore che il cervello non ha bisogno di «udire» - e dunque confini entrambi i disturbi in secondo piano. Il problema, però, è che le alternative sonore più diffuse sono ancora più fastidiose del tinnito - il temuto fruscio in stile new-age delle onde che lambiscono la spiaggia è un ottimo esempio. Allora, cosa dovrebbe fare una persona di gusti più raffinati?

Il nostro suggerimento è leggere a voce alta, mentalmente, “Libertà” di Jonathan Franzen. Ecco un romanzo che ha studiato la società americana contemporanea con le sue preoccupazioni, tendenze, ossessioni e angosce e ha incorporato tutto in un documento che si potrebbe chiudere in una capsula e lanciare nello spazio. La tecnica di Franzen è proprio quella di mettere dentro ogni cosa, e non lasciare fuori nulla, così i due personaggi al centro della storia, Patty e Walter Berglund, insieme con la punta del loro triangolo coniugale, ovvero Richard Katz, diventano altrettanti ricettacoli di quelle caratteristiche che tutti riconosciamo - anche se ci vuole qualcuno col genio di Franzen per estrarle dalla realtà, condensarle in un momento significativo e mettere tutto per scritto.

Patty e Walter sono due «giovani pionieri» di Ramsay Hill, avanguardie della sua trasformazione in un quartiere signorile, e anche se ci viene detto subito che «i Berglund avevano sempre avuto qualcosa di sbagliato», all’inizio non capiamo che cosa sia. Lei ha la coda di cavallo e lui va al lavoro in bicicletta. Sono una coppia d’oro con due figli, Joey e Jessica. Una simile, apparente esemplarità, tuttavia, non è priva di una stridula vibrazione interiore, che rivela quanto il loro equilibrio sia invece in bilico e in procinto di spezzarsi. Quando accadrà, usciranno fuori tutti i difetti.

Questo è un romanzo impegnativo, raccontato con la caratteristica voce di Franzen - un incessante chiacchierio farcito di slang, marchi e riferimenti ad eventi mondiali, denso di monologhi interiori e scoppiettante di metafore, spesso divertenti e sempre precise. In questo senso è il muro di suono perfetto per coprire il tinnito: non manca un mattone, non c’è una crepa. Il fatto che uno dei personaggi, Richard, ne soffra - una conseguenza, si suppone, di anni di violenze acustiche dei Traumatics, il suo gruppo punk - è più una dimostrazione della completezza dell’analisi di Franzen che il suggerimento di una possibile cura. Siamo solo dispiaciuti per Richard che, facendo parte del romanzo, non può usarlo per curare sé stesso. Il tinnito è proprio così. È dentro di voi, e anche se è possibile trovare un sollievo temporaneo, in ultima analisi non c’è via d’uscita. 

Bugiardino

Un libro che non posso dire di aver apprezzato a pieno, pur lodandone struttura e complessità.

Jonathan Franzen “Libertà” Einaudi euro 14 (in realtà, scontato a 12,60 euro)

[tramato il 1° novembre 2016]

Chissà perché, le mie amiche libropeute consigliano questo ponderoso libro per chi soffre di tinnito. Che non è una malattia del vino, ma quella specie di fischio di sottofondo che si manifesta in fondo all’orecchio, alterando la percezione uditiva. A volte, provocando dei veri e propri fastidi dell’attenzione, nonché, può capitare, anche sensazioni di sordità selettiva (gli acufeni coprono e si sostituiscono ad alcuni suoni, rendendo il portatore sano di questa malattia impermeabili ad alcune sollecitazioni uditive).

Certo, ne soffre il nostro Richard, uno dei protagonisti del ponderoso romanzo di Franzen. Ma mi sembra una scusa quanto meno labile, e poco in linea con un romanzo che, in linea generale, non mi è particolarmente piaciuto. Anche se, per la scrittura e per alcune parti di testo e contesto, non posso portarlo sotto la soglia della sufficienza. Il primo elemento meta testuale che rilevo, dalla prima riga del testo, è che uno dei protagonisti principali si chiama Walter Berglund. No comment. Ricordo solo che il padre di Franzen è di origini svedesi. Ed è probabile, come spesso accade, che ci sia molta meta-autobiografia nel libro (come in quasi tutti i libri). Dove vediamo ancora una volta Franzen alle prese con una saga familiare a più voci (rimando a “Le correzioni” per chi lo avesse letto e gradito, non come a me che non è che sia piaciuto gran che). Proprio perché si parla di am-biti familiari, inoltre, consiglierei il libro come manuale terapeutico su come (non) si devono educa-re i figli e su come si dovrebbe avere un rapporto con loro. Riprendo anche l’aggettivo ponderoso sopra utilizzato, che questo è un libro di oltre 600 pagine, che il buon critico americano James Wood etichetta come appartenente al genere di “realismo isterico”. Una scrittura prolissa, come molte digressioni dalla trama principale, nonché inserti nella vita reale. Questo infatti fa Franzen, narrandoci la storia della famiglia Berglund, saltabeccando avanti ed indietro nella saga familiare sia della radice “Walter”, sia dei rami Emerson, quelli della moglie Patty. Mescolando narrazione, finta autobiografia e capitoli incentrati sui vari personaggi, quasi fossero delle storie autosostenen-tesi. Con l’intento di dare uno spaccato di vita americana, magari prendendo anche in giro alcuni elementi maniacali della vita d’Oltreoceano: puritanesimo pruriginoso, ambientalismo, musica e successo. Il tutto come detto seguendo le vicende della famiglia Berglund, composta da Walter (il padre), Patty (la madre), Joey e Jessica (i figli). Con l’aggiunta di Richard (l’amico musicista) e di Lalitha (factotum dell’ambientalismo). La meno trattata nella lunga narrazione è Jessica, mai inter-venuta in prima persona, sempre brava a scuola, vicina idealmente alle aspirazioni ambientaliste paterne, ma sempre a supporto della madre. Joey, invece, è ben presente, con la sua lunga para-bola tipicamente americana. Si innamora della sedicenne vicina di casa andandoci a vivere e scate-nando la crisi familiari che andrà a ridefinire gli spazi di ognuno. Avrà una lunga storia di vicinanza ed allontanamento con Connie, fino a sposarla segretamente, farà immeritatamente soldi a palate, svilupperà un’anima repubblicana in contrasto con il “sanderismo” del padre. E sarà eletto da Patty suo confidente primario, anche non volendolo essere. Ma alla fine, tutto torna nel flusso normale delle cose, con Joey e Connie che si avvieranno verso la seconda decade del millennio fiduciosi e danarosi. Lalitha entra per un breve periodo nella storia, entusiasta dell’ambientalismo di Walter, coinvolta con lui nella costruzione di una grande riserva per la “dendroica coronata”, un uccello na-tivo americano a rischio estinzione. I due dovranno fare compromessi con le industrie carbonifere per raggiungere il loro scopo, compromessi che Walter non regge per lo stress di avere un rappor-to sempre più deteriorata con Patty e un’attrazione sempre maggiore verso Lalitha. Purtroppo, nel momento del culmine della loro felicità (comunque apparente) Lalitha avrà la peggio, e ci vorranno sei anni per Walter per elaborarlo. Richard è l’amico musicista di Walter, suo compagno di universi-tà, quello che scopa come un riccio e suona come Eric Clapton (e non viceversa). Richard che pre-senta Patty a Walter, Richard che ha quasi un rapporto omo con Walter, venerandolo come più in-telligente, e decidendo prima di non toccare Patty quando da ventenni ne avrebbe l’occasione. Poi, venti anni dopo, quando anche il successo gli arride, decidendo invece di fare quel passo, e scate-nando tutta la serie di avvenimenti che portano alla separazione tra Patty e Walter, alla sua convi-venza con Patty, al loro lasciarsi. Fino a perderlo nelle nebbie del New Jersey. Inciso: Richard è quello che soffre di tinnito, avendo abusato dei suoni musicali quando era leader della mitica band “Walnut Surprise”. Walter è quello che a me piace di meno. Non per il suo impegno ambientalista. Ma perché è sempre irrisolto. Impiega mesi e mesi per dichiararsi a Patty, non affronta mai il pro-prio antagonismo verso Richard, non prende posizione sulla vicenda Joey, si piega a compromessi sapendo bene a cosa va incontro, per poi scagliarsi come un toro nel momento che la pressione lo sommerge. Soprattutto quando capisce che Patty ha molte più facce di quelle che pensava, che potrebbe averlo scelto proprio non riuscendo ad andare a letto con Richard. E non ha neanche la forza, se non veramente costretto, di dichiararsi e di avere un rapporto felice con Lalitha. Inoltre, non sembra capire nessuna delle persone a lui intorno, chiudendo le orecchie a qualsiasi discorso lo metta in difficoltà. Solo quando capirà (implicitamente) che deve anche ascoltare, potrà perdonare tutti e, forse, avviarsi ad una vecchiaia più serena. Patty è il motore primo di tutta la storia, che lei si oppone agli amori di Joey scatenando la prima tempesta. Poi è lei che ripercorre la sua vita, i motivi e le mosse per cui scelse Walter e non Richard. L’idea che amare Walter sia anche com-prendere le sue debolezze (cosa che Walter non capirà mai). Il ritorno di fiamma verso Richard, la delusione, il difficile rapporto con la ricca famiglia Emerson, e con i suoi squinternati fratelli. Al soli-to, sono sempre perplesso quando vedo un maschio cercare di calarsi a fondo in un personaggio femminile. E ritengo che Franzen ne abbia leggermente abusato, tanto che scatenò a suo tempo fior di polemiche. Tuttavia, complessa viene rappresentata la vita di Patty, complessi i suoi senti-menti, incomprensibile il suo imperituro amore per Walter. Bene, ho cercato di dare i caratteri pri-mari che mi ha rimandato questa storia, senza entrare nel dubbio di fondo che mi attanaglia dalle prime righe: libertà? Ma quale? Certo non ne capisco il senso in queste 600 pagine, forse dovrei fa-re un salto logico. Libertà di amare, di fare sesso, di fare soldi, di vivere nella natura, di suonare, di fregarsene di tutto e di tutti. Potrei continuare per pagine, ma non ne capisco bene il suono (ri-cordate Jacopo Ortis e la sua ricerca di libertà così cara). Certo è un romanzo di relazioni, e le re-lazioni si fondano sul grado di indipendenza che riescono a creare reciprocamente. Tant’è che più che libertà, qui vedrei meglio il titolo “Vincoli”. Cioè tutti quei legami (consci ed inconsci) che negano di fatto la nostra libertà. Tuttavia, ho parlato troppo di questo libro e di questo autore. Vediamo se qualcuno riesce anche a farmi capire meglio qualcosa di lui e di questo scritto. 

Conclusioni

Beh, questa volta non c’è scampo, per curare tinnito, c’è solo la libertà.


domenica 4 ottobre 2020

Pensare e ordinare - 04 ottobre 2020

 Una settimana di inizio ottobre dedicata anche alla mia amica Marina, che tanto ama i saggi. E qui ne abbiamo di diversi, spesso di buona e ottima fattura. Come per il mio sempre amato Terzani o come al non tanto frequentato Calasso. Meno in rilievo, ma foriero di domande, il saggio di Goleman. In mezzo, un fumetto, anzi una graphic novel, che non è un saggio, non è propriamente un romanzo, ma è una lettura che rimane anch’essa negli occhi e nella mente (vero Luana?).

Tiziano Terzani “In Asia” TEA euro 5           

[A: 02/10/2017 – I: 01/04/2020 – T: 04/04/2020] - &&&&& -- 

[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 434; anno 1998]

Una serie di articoli, riflessioni, appunti e digressioni, in uno dei più bei saggi sull’Asia da me letti sino ad ora. Certo, sono condizionato dal mio amore per Terzani e dalla mia passione per i mondi altri. Quelli che lui visita e descrive con il suo occhio indagatore (ma mai giudicante a priori), quelli che io ho girato in tutti questi anni e che mi rimangono nell’occhio e nel cuore (e quando Tiziano ne parla, la mia mente vaga e torna lì con lui).

Per poi finire con uno sguardo interno. Lui con quella vista su Orsigna che sarà il suo ultimo rifugio. Io pensando che prima o poi passerò più tempo nella nostra Soriano. Questa raccolta, di certo a volte non organica, ci permette di percorrere con il bravo giornalista venticinque anni di storia mondiale, sempre dall’ottica asiatica da cui lui lavorava. Lui che venne rifiutato dai giornali italiani, lui che voleva fortemente andare in Asia, per cui accetta il posto di corrispondente di “Der Spiegel”, e dal 1971, cominciando da Singapore e poi in giro per tante città, scrive, come confessa, in una lingua non sua per un lettore che non conosce. Ma forse proprio per questo, per questa mancanza di preconcetti, questi articoli e riflessioni che qui leggiamo sono di una bellezza e di un coinvolgimento totale.

Già sapevamo che era in Vietnam prima, durante e dopo la sconfitta americana (vedi il bellissimo “Pelle di leopardo”), sappiamo anche dei lunghi mesi a cercare la morte del comunismo in Russia (vedi il libro citato alcune settimane fa “Buonanotte, signor Lenin”). Qui escono fuori quelle e tante altre piccole perle.

C’è la Cambogia di Pol Pot e del dopo khmer rossi. C’è il Laos della fine della guerra e del Pathet Lao. C’è la Corea del Nord, ma c’è anche la Corea del Sud al tempo delle Olimpiadi di Seul. Ci sono le Filippine delle guerriglie con gli islamici, ma anche della vittoria di Cory Aquino e della fuga di Marcos e famiglia. C’è la Birmania dei militari e della prigione di Aung San Suu Kyi, ed il passaggio a Myanmar, e le morti di Mindanao. C’è lo Sri Lanka delle Tigri Tamil. C’è il Giappone in tanti suoi aspetti. Qui, in particolare, ho trovato potente la sua penna. Non tanto quando si aggira per Hiroshima (come facemmo pochi anni fa con uno dei miei avventurosi gruppi), quanto per quella domanda che lì aleggia e che solo lui riesce a formulare in termini non offensivi. Certo, la bomba atomica è una ferita che non si risanerà mai, ma perché non si parla mai di tutto quello che negli anni Trenta ha combinato il Giappone nelle sue campagne asiatiche? Ed è lì che riesce ad analizzare con calma il ruolo ambiguo di Hirohito. C’è la Cina di Mao, della morte di Mao, dei giovani di Tienanmen e di Deng Xiaoping, in vita ed in morte. Mi ha ben colpito la narrazione della morte del grande timoniere, che sarebbe da mettere in risalto come contraltare alla descrizione della morte di Hirohito. E sempre con il Giappone, ci sono tutte le scene di vita quotidiana, dalle toilette, agli incolonnamenti nelle metropolitane, dai bonsai ai soprusi di yakuza e compagnia.

Poi ci sono i grandi abbandoni: i portoghesi che lasciano Macao, ma soprattutto, ed a lungo, il calvario della restituzione (!?) di Hong Kong alla Cina (e come sia questo calvario lo vediamo ancora oggi). Poi c’è l’India, la confusione, l’amore di Delhi. La visione di persone assolutamente anormali comportarsi in modo assolutamente normale, tanto che la moglie Angela giustamente gli dice: “Questi qui sanno qualcosa che noi non sappiamo”. Tutti i piccoli pezzi dell’India sono pieni di rispetto e amore, ed io con lui torno alle passeggiate per i monti del Ladakh, alle fatiche di camminare in salita a 3600 metri per raggiungere l’albergo, ai laghi, alle visioni di pace che mai mi abbandoneranno.

E da vari posti dell’India arrivano le tre interviste più toccanti, seppur diverse nel tempo e nello spirito. A Delhi, con Giovannino Agnelli prima che si ammalasse, per condividere ma anche contrastare quella visione del capitalismo che pare avesse “il ramo buono degli Agnelli”. A Dharamsala, parlando a lungo e condividendone la calma, se non le visioni, bevendo calmo un thè con il Dalai Lama. A Calcutta, in una lunga chiacchierata senza esclusioni di colpi con Madre Teresa di Calcutta. Tre punti dell’India dove, anche se parlando con non indiani (un italiano, un tibetano ed una albanese), ci restituisce, mi restituisce quello che dell’India ho sempre pensato (e vedi anche la citazione finale). L’India puoi amarla o odiarla, ma non ne puoi fare a meno.

In fine, ritornando all’inizio di queste rimembranze condivise, il ritorno già nel 1998 ad Orsigna, che prefigura quello che poi sarà il giro di giostra finale, mi riporta alla mancanza della nostra Soriano, dove spero di tornare presto, all’ombra di quegli alberi che abbiamo piantato. Terzani è forse un amore di vecchiaia, che, proprio per quel suo scrivere molto all’estero, a volte avevo ignorato. Ma è un amore tenace. Come dico spesso, non è importante la prima, la seconda o altra moglie o donna con cui si sta. L’importante è l’ultima. Ed andremo avanti così a leggere saltando qua e là tutto quello che ci viene riproposto dell’amato toscano.

“La guerra è una cosa triste, ma ancora più triste è il fatto che ci si fa l’abitudine.” (14)

“Diversamente che in altri Paesi, in Giappone i terroristi hanno un numero di telefono e un indirizzo e non mi è stato tanto difficile andarli a trovare.” (197)

“Il Giappone noto e ammirato nel mondo sfavilla di luci, ma … dietro la sua apparenza di apertura e modernità, dietro la sua pretesa di essere un Paese industrializzato come gli altri, anzi migliore degli altri, il Giappone resta, nell’anima, un Paese ottuso e feudale.” (261)

“Sono arrivato a Pagan a bordo di un vecchio battello che da Mandalay scende lungo il corso limaccioso dell’Irrawaddy.” (296) [ah, che ricordo…]

“Le autorità avrebbero dovuto bloccare la città e impedire alla gente di scappare … [Non è possibile, perché ndt] siamo una democrazia e non possiamo togliere alla gente la libertà di movimento.” (318) [non parla di coronavirus, ma della peste indiana nel 1994]

“- Ma come si vive in India? … - Male, ma s’impara a morire, e anche quella è un’arte… L’India ti ricorda in continuazione la tua caducità … ti prende per la gola, ti prende allo stomaco, ti prende alle spalle … ma è proprio con quelle sue mille costanti, aggressive, ripugnanti contraddizioni che l’India ti dà – stranamente – anche pace.” (404)

Roberto Calasso “Come ordinare una biblioteca” Adelphi euro 14 (in realtà, scontato a 12,85 euro)

[A: 13/06/2020 – I: 14/06/2020 – T: 15/06/2020] &&& e ¾ 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 127; anno: 2020]

Girando poco per le librerie in questi tempi di coronavirus, non ho mancato alla riapertura della Feltrinelli-Arion di via Libia. Scaffalando nel nuovo, ecco che un agile volume di Calasso attira il mio occhio. Sarà che non so realmente come ordinare i libri, sarà che Calasso promette sempre buoni spunti, ecco che decido l’acquisto e l’immediata lettura. Veloce, come l’acquisto, anche se non altrettanto foriera di felicità.

Prima di tutto perché è un saggio suddiviso in quattro saggi, e ciò già storce se non viene detto in qualche punto della presentazione. Secondo, che molto del materiale non è inedito. Anzi realmente, solo il secondo saggio dedicato alle riviste è realmente inedito. Quindi, da un’ideale top position che avrebbe meritato, scende gradatamente in basso. Non in modo sensibile, che la scrittura mi aggrada, stimolando la ricerca di punti di riferimento ed altre connessioni, altrimenti poco raggiungibili (o prevedibili).

Diciamo subito che, dei quattro saggi, i due centrali mi hanno coinvolto di meno. Il primo, quello inedito, è dedicato alle “Riviste” e sebbene comprenda che siano cose di cui tener conto, ne rimangono echi solo dal punto di vista cerebrale. Certo, nelle mie lunghe peregrinazioni, ho bazzicato anche riviste. Ma erano più politiche che letterarie (anche se la letteratura, come tutta la vita, è sempre, anche, politica). Per cui rammento all’inclito lettore “Appunti ‘70” e “Praxis”. Mentre ricordo di aver spulciato più e più volte, nella biblioteca paterna, “Il Mulino” e “Limes”. Il secondo meno appetibile è l’elzeviro, già edito sul Corriere, dedicato alla prima recensione libraria della storia. Che ricordo uscì il 9 marzo 1665, a firma di Madeleine de Souvré, marchesa de Sablé, e dedicata alle “Massime” di François de La Rochefoucauld. Articolo elegiaco, il cui unico spunto di interesse è la comparazione tra l’originale ed il pubblicato. Quest’ultimo venne rivisto dallo scrittore stesso, per evitare che venissero, secondo lui, dette inesattezze. Calasso ci mostra invece, come l’originale della marchesa fosse sicuramente superiore alle correzioni del duca.

Rimangono allora i due scritti che danno senso e valore al testo: “Come ordinare una biblioteca” e “Come ordinare una libreria”. Fatto salvo che, giustamente, Calasso non interviene fornendo consigli alla “Marie Kondo” su “bisogna far questo, bisogna pensare a quello”, la scrematura delle sue parole ci invita a trovare il nostro ordine nelle biblioteche e nelle librerie. Di certo, le prime hanno anche una funzione pubblica, devono essere frequentate per reperire libri e testi altrimenti poco trovabili. Devono consentire un giusto accesso. Devono essere comode. E soprattutto silenziose. Non si può leggere con profitto nella confusione. E se si vuole avere della musica, basta prendersi un iPod e mettersi le cuffie. Così, Calasso ci parla di British Library, di librerie tedesche, di librerie spagnole. Con uno stile dotto che mi piace seguire, anche se poi non sempre sono all’altezza di una totale comprensione. Quello che ricavo dallo scritto sono allora momenti che ritrovo nel mio personale (dis-)ordine librario. Con, ad esempio, le tre frasi sotto riportate. Per primo, essendo io stesso un cultore dell’acquisto anticipato rispetto alla lettura. Secondo, perché da ogni libro (anche se non da tutti) mi rimangono nel cuore e nella testa delle frasi che risuonano. Non sono certo suoni che l’autore voleva risvegliare (o quasi sempre non lo sono), ma sono bolle di reminiscenze che vengono fuori e mi restano appiccicate. L’altro elemento fondante dell’enucleazione dei libri su degli scaffali, è il concetto di “buon vicinato”, che spesso libri che sono affini nella mente capitano vicini nella sede. Io poi, personalmente, sono anche culture delle serie. Per cui, cerco di porre “guancia a guancia” libri della stessa collana. Poi libri dello stesso autore. Ma come tutti i “librofili”, per noi è anche importante la libreria dove si vanno ad acquistare le nostre droghe. Con il must dell’ultima frase, che è importante “scoprire quello che non si cercava”.

Per me, alla fine, rimane l’esempio massimo di una buona libreria nella citata “La Central” di Barcellona. Dove, a parte il gradevole arredo, c’è il primo nucleo della buona libreria: mettere accanto, in posizioni gestibili dall’utente, non solo e non tanto l’ultimo libro di un autore, ma quello ed altri suoi testi. Magari affiancandone anche testi in originale, o in traduzioni usabili (penso al russo o all’arabo che non spesso sono da tutti frequentati). L’ultimo accenno a questo bel libro mi viene per riproporre un’altra idea intrigante: fare uno scaffale, librario, intitolato “Autori”, dove mettere libri appunto di autori, a prescindere da generi e divisioni. Che saggi, gialli, romanzi, graphic novel, ed altro non sono, appunto, che letteratura. E spesso della miglior specie. Grazie Calasso, mi hai fatto pensare.

“Essenziale è comprare molti libri che non si leggono subito.” (31)

“Il bene che viene da un libro non è nei fatti che se ne possono trarre, ma nel tipo di risonanza che risveglia nelle nostre menti.” (44)

“[In una libreria] l’importante è che [il lettore] possa trovare facilmente i libri che cercava e scoprire quelli che non sapeva di cercare.” (126)

Zerocalcare “La profezia dell’armadillo – Artist Edition” Bao publishing s.p. (Regalo di Flavio)       

[A: 07/05/2020 – I: 22/06/2020 – T: 23/06/2020] - &&& + 

[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 160; anno 2017]

Veramente un gradito regalo per il mio ultimo compleanno, da parte dell’inaspettato Flavio. Ho sempre seguito, con mezzo occhio e mezzo orecchio, le “nuvole” di Michele Rech in arte Zerocalcare. Ma per una serie innumerevole di incidenti non avevo mai letto una storia completa. Grazie alla pandemia, alle visioni di “Propaganda Live”, Flavio si è accorto del mio interesse, ed eccoci qui. Per chi ne fosse ignoto, ricordo che lo pseudonimo Michele lo scelse perché, partecipando ad una discussione su Internet, aveva bisogno di un nickname. In quel mentre andava in TV la pubblicità di un detersivo, ZeroCal. Beh, il resto lo immaginate.

Essendo un “graphic novel”, dovremmo analizzarne le due componenti. Devo dire che entrambe, per la parte a loro relativa, e per la loro interazione, sono ben fatte. La grafica non è banale, ma si spalma sulle pagine seguendo i ritmi personali e le pulsioni del protagonista. Così che non solo vediamo svolgersi i suoi momenti di vita, ma li vediamo legati ai suoi stati d’animo. Affastellantesi quando la vita si incasina. Svolgendosi piano nei rari momenti di quasi serenità. Unita alle parole che servono a farci seguire momenti della vita di Michele-Calcare. Saltabeccando nel tempo. Inseguendo, a volte in due battute, a volte in qualche pagina, i piccoli e grandi avvenimenti che scandiscono la vita del protagonista.

La storia prende inizio quando Michele viene a sapere della morte di Camille, una sua vecchia amica, nonché il suo primo amore. Ogni storia, ogni momento, viene ripercorso, ricordato, narrato, sempre con l’affiancamento di un personaggio immaginario, che concretizza in una presenza altra le paure e le insicurezze del protagonista, l’Armadillo. Ci sono poi altri personaggi ricorrenti: gli amici Secco e Greta, i genitori, dove ad esempio presenta la madre sempre con le fattezze di Lady Cocca ed il padre con quelle del Signor Ping.

Il racconto per microstorie si svolge sempre su due piani: il ricordo della giovinezza con Camille, ed il presente, duro, quasi insopportabile, di un trentenne che, forse, l’unica cosa che sa fare bene, è disegnare, è rendere in immagini i suoi stati d’animo. Così, le storie e le paure della gioventù, con Camille, Greta e Secco, si alternano con i disastri di tutti i giorni: la lotta mortale contro le zanzare, le preghiere al “dio del giorno dopo” perché aggiusti quel che il dio del giorno corrente ha irrimediabilmente sfasciato, i viaggi temporali nel box della doccia, lo slalom tra i mobili di casa su una sedia con rotelle e le imprecazioni lanciate come coriandoli verso gli stramaledetti vicini di casa.

E se i flashback ci raccontano la costruzione della personalità attuale, la tristezza, la nostalgia, il presente con tutti i suoi disastri ci parla del Michele di ora, con tutto il suo carico di problematiche e con alcuni punti che emergono forti: il rapporto, difficile ed insuperabile, con la morte, la difficoltà, quasi impossibilità, di riuscire ad elaborare il lutto, ma anche la forza che possiedono i legami tra le persone.

C’è un’immagine, un momento tipico e topico che poi mi è rimasto impresso, nell’occhio e nella testa. Quando Michele e Camille riescono a chiudere fuori della porta i loro compagni/incubi di vita: l’armadillo di Michele ed un enorme mostro nero di Camille. Così che riescono a passare una notte senza brutti pensieri.

Michele-Zerocalcare aveva cominciato in sordina, facendo uscire queste vignette in un blog innalzatosi al clamore del pubblico con il passaparola. Dobbiamo quindi ringraziare l’ottimo Makkox che lo ha convinto e sfidato ad uscire allo scoperto e riunire le vignette in un volume e pubblicarlo per la Bao.

Credo proprio che questo (e poi gli altri volumi pubblicati da Michele) abbia segnato un punto di svolta nella percezione della graphic novel in Italia. È un’opera prima basilare, che segna tutti i punti della poetica di Zerocalcare. E che mi ricorda sempre la mia amica Luana, costretta ad emigrare in Francia per poter vivere delle sue bellissime novelle (se la trovate in giro, andate a ricercare “Ely è là” una poetica sulla narcolessia).

“Si chiama ‘profezia dell'armadillo’ qualsiasi previsione ottimistica fondata su elementi soggettivi e irrazionali spacciati per logici e oggettivi, destinata ad alimentare delusione, frustrazione e rimpianti.” (65)

Daniel Goleman “Intelligenza emotiva” BUR s.p. (regalo di Benedetta)

[A: 07/05/2020 – I: 01/08/2020 – T: 04/08/2020] - && --

[tit. or.: Emotional Intelligence; ling. or.: inglese; pagine: 486; anno 1995]

Premettendo che i regali sono sempre graditi, perché permettono di scoprire o esplorare dei mondi che a volte non vedono il nostro passo incedere con la solita sicurezza, sono rimasto un po’ deluso da questo libro. Intanto, nel riportarne i dati, ho utilizzato la versione più vicina al testo inglese, evitando di mettere quel sottotitolo utile solo ad accalappiare i patiti del self-help: “che cos’è e perché può renderci felici”. Soprattutto perché se giustamente Goleman si sofferma a lungo nello spiegare cosa sia l’intelligenza emotiva (o emozionale), il fatto di renderci felici è solo una conclusione che ognuno deve trarre per sé stesso.

Intanto, e preliminarmente, l’indubbio merito di Goleman e di questo suo libro, è che vi è esposta la sua rivoluzionaria teoria che ha cambiato il modo di pensare l’intelligenza. Dove Goleman, con esempi e lunghe esposizioni, ci mostra l’esistenza non solo della parte razionale del pensiero, cosa che più o meno tutti condividiamo da sempre, ma anche la sua componente emozionale. Una disamina complessa, che certo non posso affrontare con le mie limitate capacità psicoanalitiche. 

Goleman parte da una costatazione banale, che si condensa in alcune domande. Perché persone che nei test attitudinali sono fenomenali, risultano inadatte al loro lavoro? Perché persone con un Q.I. stratosferico vanno comunque incontro a fallimenti matrimoniali? In poche parole, perché non esiste una intelligenza a tutto tondo?

La risposta di Goleman si articola nel dimostra che l’intelligenza è in realtà una complessa miscela, dove diversi fattori si amalgamano, e solo il loro giusto equilibrio porta poi ad una intelligenza globale. Che non sarà mai comunque esaustiva.

Volendo condensare il succo delle parole di Goleman in poche affermazioni (laddove l’autore si dilunga in analisi ed esempi), possiamo pensare l’intelligenza emotiva come costituita da cinque fattori fondamentali:

Ø  l’autoconsapevolezza, cioè la capacità di riconoscere, capire e gestire gli stati d’animo, le emozioni e gli impulsi per raggiungere un obiettivo;

Ø  l’autoregolazione, cioè la capacità di indirizzare le emozioni verso il giusto obiettivo prima di passare all’azione;

Ø  la motivazione interiore, cioè la capacità interna di gioire ed essere appagati dal compimento di un’azione volta al conseguimento di un obietto, al di là di qualsiasi ricompensa esterna o materiale;

Ø  l’empatia, cioè la capacità di entrare in contatto con gli altri, in particolare nella loro sfera emozionale;

Ø  le abilità sociali, cioè le modalità positive finalizzate alla costruzione delle relazioni interpersonali.

Capite bene, che a partire da queste cinque affermazioni, volendo ed avendone le capacità, è possibile costruire pagine e pagine di discussione. Cosa che ben fa Goleman, a volte, tuttavia, soprattutto nella seconda parte del libro, troppo teso ad esemplificare il tutto con esempi presi dal mondo dell’infanzia. Certo, e ben lo sappiamo, che l’imprinting emotivo ed intellettuale di ognuno di noi è fortemente condizionato da quello che avviene in noi ed intorno a noi nei primi momenti di vita. Ma la scrittura di Goleman qui si fa un po’ troppo didascalica e logorroiche.

Questo, in pratica, il motivo di una scarsa sufficienza di lettura. Capisco che corredare di esempi una affermazione ne fa risaltare meglio la valenza e le implicazioni. Tuttavia, al fine di rendere il libro più agile, a volte bisognava sacrificare la completezza con la velocità.

Non è quindi facile leggere questo libro, e ritenerne i punti salienti. Pur nella sua difficoltà, è in ogni caso un valido spunto per lavorare su sé stessi al fine di essere più consapevolmente capaci di gestire la propria vita.

“A tutti gli effetti, abbiamo due menti, una che pensa, l’altra che sente.” (28)

“La leadership non è esercizio di potere, ma l’arte di persuadere le persone a lavorare per un obiettivo comune.” (244)

“Un amico può fare la differenza, anche quando tutti gli altri coetanei ti girano le spalle.” (406)

Prima trama di ottobre dedicata ai tanti libri letti in un luglio che avrebbe dovuto portare altri viaggi, ma d’altra parte, non si parte, e sulle rive del Tirreno si legge con molta intensità. Un mese illuminato dalla morte dell’apicultore del bravissimo nordico Gustafsson. Ed ombrato da due assolutamente poco riuscite prove di Fabio Volo (aspettabile) e Don DeLillo (inatteso). 

#

Autore

Titolo

Editore

Euro

J

1

Toshikazu Kawaguchi

Finché il caffè è caldo

Garzanti

s.p.

3

2

Fabio Volo

Quando tutto inizia

Mondadori

7,90

1

3

Claudia Piñeiro

Le vedove del giovedì

Repubblica Noirissimo

7,90

2

4

Wilbur Smith

Grido di guerra

TEA

13

3

5

Lisa Halliday

Asimmetria

Feltrinelli

s.p.

2

6

Vittoria Baruffaldi

C’era una volta l’amore

Repubblica FilosofiaViva

9,90

2

7

Brigitte Glaser

Delitto al pepe rosa

Repubblica Noirissimo

7,90

3

8

Wilbur Smith

Il potere della spada

Longanesi

s.p.

3

9

Alessandro Robecchi

I cerchi nell’acqua

Sellerio

s.p.

2

10

Lars Gustafsson

Morte di un apicultore

Corriere Boreali

8,90

4

11

Michael Connelly

Il passaggio

Pickwick

10,90

3

12

Frank McCourt

Le ceneri di Angela

Adelphi

12

3

13

Elizabeth Jane Howard

Il lungo sguardo

Repubblica Duemila

9,90

3,5

14

Johan Harstad

Che ne è stato di te, Buzz Aldrin?

Corriere Boreali

8,90

3,5

15

Kwei Quartey

Omicidio nella foresta

Repubblica Noirissimo

7,90

2

16

Andrea Vitali

Viva più che mai

Garzanti

12

2

17

Don DeLillo

Cosmopolis

Repubblica NewYork

9,90

1

18

Wilbur Smith

Il destino del cacciatore

HarperCollins

9,90

3

19

Edgar Lustgarten

Signori della corte …

TEA

10

3

 Comincia questo mese pieno di rimembranze, di feste e di pensieri. Con auguri a chi già ha compiuto la propria festa. In attesa di altri genetliaci. Sempre con il pensiero che è comunque il mese di mia madre, cui leggendo va spesso il mio pensiero. Un filo di tristezza, ma anche tante speranze.