domenica 26 aprile 2020

Dei Nobel e di altro - 26 aprile 2020


[A: 18/12/2017 – I: 26/11/2019 – T: 28/11/2019] - &&& --
[tit. or.: Someday this Paine will be useful to you; ling. or.: inglese; pagine: 205; anno 2007]
Una specie di giovane Holden in minore, questo libro scritto cinque anni dopo “Quell’estate dorata” che mi aveva a suo tempo piacevolmente sorpreso. Non sembra, comunque, che io sia molto originale, se questo libro, put con le opportune diversità, mi ha fatto pensare a Salinger e Holden. Anche se sono in sintonia con chi poi lo trova diverso. Entrambi sono due ragazzi sulla soglia della maturità, qui con il nostro James Sveck che, diciottenne, deve decidere cosa fare dopo il “liceo”: università o autonomia solitaria nel più piccolo stato americano, il Rhode Island. Entrambi hanno un adulto di riferimento, qui c’è la nonna che tutti vorremmo avere: accogliente, che non fa domande, e che dà consigli parlando d’altro. Ma Holden ha fobia di tutto, non vuole vedere nessuno, mentre James è affascinato dal mondo degli adulti, considerando i suoi coetanei (ed a ragione) immaturi, illetterati, capaci solo adorare le inutili compagnie per paura di rimanere soli con sé stessi. James ci fa sentire al centro delle sue riflessioni, condividendo con lui il dolore che accompagna la crescita. Un dolore esorcizzato da un ricordo di un campo estivo il cui motto era “Sii forte e paziente: un giorno tutto questo dolore ti sarà utile” e dalle parole della nonna, che gli ricordano come siano poco interessanti le persone che sono sempre felici. Come dice ad un certo punto, “godersi i momenti felici è facile; il difficile è non lasciarsi abbattere dai momenti brutti.” James è sempre accompagnato da un perenne senso di inadeguatezza, e quindi si rifugia nel suo porto sicuro, la solitudine, unica chiave che James considera per arrivare a conoscere sé stesso. James viene anche considerato un disadattato, dai suoi coetanei e compagni, ma anche dalla sua famiglia. Dalla madre compulsivamente spinta a nuovi matrimoni dopo il divorzio dal padre. Dal padre stesso, che da un lato si accompagna con ragazze molto più giovani di lui, dall’altro si rende irreperibile al figlio per un intervento chirurgico mirato. In altre parole, per una chirurgia estetica tesa ad eliminare le rughe intorno agli occhi. Dalla sorella invischiata in una relazione clandestina con un suo professore dell’Università. Ovviamente non dalla nonna, di cui abbiamo parlato. Ed anche da John, il giovane gay che gestisce l’inutile galleria d’arte della madre, almeno fino a che lo stesso James non gli fa uno scherzo stupido che rovina i loro rapporti. Si capisce, quindi, che Cameron porta avanti anche una critica, feroce e puntuale, della società attuale. Attuale almeno rispetto alla data di scrittura ed al tempo di svolgimento del racconto. Infatti, il testo è del 2007, e l’azione si svolge dal marzo al settembre del 2003. Devo dire che questa collocazione temporale non mi ha ancora convinto, né sono riuscito a trovarne una spiegazione. Personalmente non conosco così a fondo la storia americana per capire al volo cosa succede nel tempo del racconto. Il nucleo del racconto si svolge tra la sfortunata “gita scolastica” nella capitale, dove James, non sopportando i suoi inutili compagni, sparisce per due giorni, rintanandosi nella Biblioteca Nazionale. Fuga che lo porta a dover frequentare una psicologa, e lì apprezziamo il modo con cui Cameron descrive le sedute psicoanalitiche, ed anche capiamo come, pur nell’inutilità delle sedute, James comincia a maturare. Lì nelle riflessioni e nel discorso con la psicologa, James riesce a ragionare sull’altro nucleo del romanzo: l’inesprimibilità dei propri pensieri. Nel passaggio tra il cervello e la bocca avviene una trasformazione che non consente (almeno quasi mai) di comunicare esattamente con il nostro interlocutore. Per questo ognuno rimane sostanzialmente solo, nella monade della sua vita. E quando James non introduce un filtro tra pensieri e parole (grazie ai grandi Mogol e Battisti, per chi ne sa), è difficile che il mondo esterno capisca chi sia veramente. Il terzo ed ultimo nucleo è quella paura del futuro, quell’indecisione sulle scelte da fare che attanaglia i giovani, i diciottenni quando cominciano a diventare adulti. Ricordo ancora con tremore il tempo dal luglio all’ottobre del 1971. Aspettare il giorno dell’esame di maturità sapendo di sapere, ma sapendo anche che un piccolo passo falso, sempre possibile, avrebbe portato disastri e rovine. Stare in fila in segreteria alla Sapienza, con due moduli in mano: matematica o lingue? Voi sapete quale scelta ho fatto, anche se dopo 50 anni ancora ho dubbi e pensieri diversi. In fondo, non succede molto in tutto il romanzo, è solo un susseguirsi di pensieri, e di elementi che ci consentono, non senza un intimo piacere, di entrare in sintonia con James. Che in fondo è un po’ come noi, come me, un giovane che non è disturbato, e che a me suscita affetto e sintonia. Noi e James, alla fine, abbiamo un solo grosso problema: non riuscire a rapportarsi con le persone superficiali. Solo la fine, ad una lettura in sintonia con il libro, mi sembra troppo veloce. Avrei meglio diluito le ultime avventure e le decisioni finali di James. Rimane comunque uno dei migliori libri che ho letto negli ultimi tempi.
“Se uno divorzia, secondo me perde il diritto a fare commenti sui comportamenti o sul carattere dell’altro.” (38)
Orhan Pamuk “Istanbul. I ricordi e la città” Repubblica Duemila euro 9,90
[A: 14/03/2017– I: 24/01/2020 – T: 29/01/2020] - &&&&-
[tit. or.: İstanbul. Hatıralar ve Şehir; ling. or.: turco; pagine: 460; anno 2003]
Devo dire che 12 anni passano in fretta, che forse non ce ne accorgiamo. Ma probabilmente è una bugia. Tante cose sono successe in questi dodici anni, e, tra le altre, la non lettura di altri libri di Pamuk. Qualche articolo di giornale, qualche presa di posizione, ma dal castello bianco e dal mio nome è rosso, ero rimasto talmente poco attratto, che ho sempre lisciato altro del Nobel turco. Ringrazio allora questa nuova/vecchia collana di Repubblica, dedicata ai romanzi del Duemila che hanno dato dei segni alle letterature del mondo, che mi ha costretto a riprendere in mano l’autore. Leggendone un libro/saggio/romanzo/memoir non saprei bene dire cosa. Ma di sicuro con due elementi fondanti e caratterizzanti: la storia della propria vita e la storia della propria città. Sebbene non sia cronologicamente autobiografico, passando di ricordo in sensazione, vediamo Orhan dalle prime conoscenze di sé sino alla svolta della sua vita, sul passar dei vent’anni, quando, dopo una giovinezza passata a disegnare ed ipotizzare un futuro di architetto, abbandona Università e propositi, decidendo di diventare scrittore (e mai decisione si rivelò più fausta, visto il prosieguo della sua vita). Dall’altra parte, in parallelo con la crescita, vediamo e seguiamo con lui Istanbul in tutte le sue sfaccettature. Dalla città ancora quasi orientale degli Anni Cinquanta, alla metropoli affollata, bellissima ed invivibile di ora. L’affabulazione è avvincente, con la scrittura di Pamuk che passa dalle descrizioni familiari, i rapporti con i genitori, il continuo guerreggiare amichevole con il fratello più grande, l’attraversamento di tante crisi che portano la famiglia Pamuk dall’agiatezza iniziale ad una condizione borghese limite (ma poi lui, con la sua scrittura, risalirà di molto), per poi andare all’esterno, alla città ed alle mille sfaccettature di una metropoli assai complessa. Seguo gli impronunciabili (ed intrascrivibili) nomi dei vari quartieri che Pamuk attraversa ed esplora nella sua vita, e li ricollego a quanto, nelle mie visite istambuliote, ho fatto, visto, sentito, odorato. Lo segue per le strade di Galata, o la salita della grande strada di Pera (passando per l’hotel di Agatha Christie, ovvio), su fino a Piazza Taksim (o giù fino al Tunel). Sulle barche che risalgono il Corno d’Oro, sino al bar di Pierre Loti, ma anche sui barconi che risalgono tutto il Bosforo. Per il traghetto che ci porta nella città asiatica, così diversa nell’impianto, così uguale nell’atmosfera personale. Non ho la preparazione libraria ed architetturale di Pamuk, che mi fa sognare citando libri e miniature, su cui tornerò. Ma non posso non fermarmi, io, ai mosaici della chiesa di San Salvatore in Lauro ed al Cristo Pantocratore, ma anche alle mosche di Eyup. Ricordo in particolare poi, una delle prime visite alla moschea di Solimano, non per la moschea, ma per le case in legno che ancora allora stavano nelle viuzze intorno. Ricordo le passeggiate per i bazar, gli hammam, il panino con il pesce preso al volo sotto il ponte di Galata, il tè con i narghilè nel cimitero abbandonato, i primi pranzi con le lire turche (e quei conti in milioni di lire…). Come Pamuk, prendo spunto da lui per parlare di me, e lui prende spunti della città per parlare (anche) di altro. Di sé, è ovvio. Ma anche i dipinti di Melling (Antoine-Ignace, l’architetto di Selim III) che ci danno uno spaesamento strano: vediamo i luoghi della città prima che diventino città, deserti così come ora sono popolati. Con impressioni parallele ad alcune vedute di Roma che ci danno le incisioni di Piranesi. E degli scritti. Ovvio che parli di autori turchi, a me tristemente ed immancabilmente ignoti, anche se scrissero opere memorabili sulla città: Yahya Kemal, Reşat Ekrem Koçu, Ahmet Hamdi Tanpınar o Abdülhak Şinasi Hisar. Tuttavia, Istanbul nell’Ottocento è anche visitata da molti occidentali, che segue e ben conosco. Assaporiamo con Pamuk alcune frasi di Gerard de Nerval, gli articoli agili e ben confezionati di Théophile Gautier, le maledizioni orientali che proferisce Gustave Flaubert. Pamuk cita, ma solo di passaggio, anche il libro di De Amicis, che io, da buon ricercatore internettiano ho trovato e scaricato. Ma poi rimangono in mente i disegni di Orhan che non vediamo. Ed io non posso staccarmi dalle pagine del suo primo accorato amore con la bella “Rosa Nera”, ricordo di tanti giovanili trasporti personali. Certo, a volte è lento. Certo, a volte vorrei descrivesse più e meglio situazioni e modi (ad esempio, il mai risolto su queste pagine rapporto con il padre). La scrittura è tuttavia gradevole, la lettura, benché ostica, non difficile da seguire. E mi lascia con l’idea di ritornarvi, prima o poi. Magari per vedere con Rosa i dervisci rotanti alla partenza dell’Orient Express. E passeggiare, sempre e comunque, con Alessandra per tutti i luoghi che ancora non ci hanno visto passeggiare.
“Ancora oggi, quando cammino in una piazza grande o in un corridoio, sui marciapiedi, cerco di non calpestare le fughe tra le pietre, oppure salto i quadrati neri e comincio a passeggiare saltellando, spinto da forme di superstizione che mi creo così, all’improvviso.” (227)
David Foster Wallace “La ragazza dai capelli strani” Repubblica Duemila 13 euro 9,90
[A: 18/04/2017 – I: 25/01/2020 – T: 31/01/2020] - && ---
[tit. or.: Girl with Curious Hair; ling. or.: inglese; pagine: 299; anno 1989]
Avevo già detto, in occasione dell’altro libro da me letto, che DWF (sigla che racchiude più velocemente il lungo David Foster Wallace) non mi convinceva. Certo, quella “cosa che non farò mai più” aveva anche lati divertenti, ed un piglio di simpatia che questo scritto, anche in virtù del suo essere una raccolta di racconti (genere a me molto ostico) non raccoglie. Qui escono fuori due caratteristiche peculiari ed opposte di DWF, la sua indubbia capacità di scrivere (punto a favore) e la sua onnisciente cerebralità (punto molto a sfavore). Caratteristiche che si intrecciano spesso, che DWF usa (almeno in parte) i racconti per dire (anche) altro. Non è a caso che si lancia in strali o analisi crude su diverse caratteristiche della cultura americana. La cultura della televisione, ad esempio, in due dei migliori racconti (Piccoli animali senza espressione, La mia apparizione), o il delirio punk alienato sadico lisergico nel racconto del titolo (La ragazza dai capelli strani). Fino a quello che a me più è rimasto impresso, per la ricostruzione storico-farsesca di decenni della politica americana, attraverso gli occhi e la carriera di un segretario omosessuale di un presidente americano emblematico (Lyndon). Devo notare comunque che l’edizione italiana è monca rispetto all’originale, laddove il decimo è più lungo racconto ha visto luce autonoma presso la “minimum fax”, editore italiano di DWF. Come altrove notato, i racconti non hanno legami tra loro, se non per la continua tensione verso la denuncia delle paranoie del mondo americano. Notando anche che, in ogni testo, DWF riesce a variare registro, ad utilizzare un modo di scrivere e di proporre consono al tema trattato. Il viaggio comincia con Piccoli animali senza espressione dove si narra, con continui salti temporali e logici, la vicenda di una ragazza lesbica che partecipa ad un quiz televisivo per pagare le cure al suo fratello autistico, aprendo la prima riflessione sia sulle tematiche personali che sul ruolo della televisione. Si prosegue con uno dei meno riusciti: Per fortuna il funzionario commerciale sapeva fare il massaggio cardiaco resoconto dell’incontro di due funzionari in un notturno parcheggio, ma che non riesce ad intrigarmi. Il livello si alza con La ragazza dai capelli strani racconto in prima persona di un sadico avvocato repubblicano e del suo incontro don uno strano gruppo di punk, all’interno di un concerto di Keith Jarrett. Che essendo uno dei miei numi tutelari della mia colonna sonora della vita, trovo faticosamente la capacità di astrarmi, pur riconoscendo le astuzie e le cattiverie narrative verso l’avvocato stesso. Si arriva così al migliore, Lyndon fittizia ricostruzione della carriera di Lyndon B. Johnson, dal governatorato del Texas, alla presidenza degli Stati Uniti, alla morte, attraverso gli occhi di un suo stretto collaboratore omosessuale. Un utilizzo delle capacità di scrittura di DWF che passa dall’intimismo del segretario alla volgarità del Presidente. Da qui si comincia a scivolare. Prima con John Billy storia della vendetta perpetrata del ranchero Chuck Nunn Junior, che in originale mi si dice ben resa allo strano accento del narratore, ma che in traduzione non riesce a riportarci nei luoghi della storia (per chi lo volesse sapere, l’Oklahoma). Poi con Da una parte e dell'altra dove due ragazzi narrano la versione personale della loro storia, senza grandi patemi. Si risale abbastanza con un’altra narrazione anti-televisiva con La mia apparizione dove vediamo un’attrice una volta famosa ed ora dedita a spot commerciali partecipare allo show di David Letterman “Late Night”, e dove DWF riesce a ridicolizzare tutti, dall’attrice ai vari personaggi che ruotano negli show televisivi, sino all’intoccabile, all’epoca, Letterman. Il finale è tutto in discesa verso la poca incisività. La lunga storia a più voci di un adulterio nell’ambito di un circolo ebraico di Chicago in Dire mai ed il brevissimo testo sul matrimonio di un uomo ed una donna nel conclusivo È tutto verde. Come dicevo, DWF scrive maledettamente bene. Ed inoltre ne è consapevole, motivo per cui a volte gigioneggia un po’. I suoi strali ci sono, ma per me si annegano nella brevità del testo, nelle modalità di porlo. Non ultimo, io mi perdo quando le storie rimangono sospese, quando non si arriva mai al punto, quando si parla a nuora perché suocera intenda. E poi, personalmente, non riesco mai a disgiungere il DWF scrittore dal DWF uomo. Per cui, ad un certo punto, mi perdo. È di certo un autore migliore di quanto riesco a comprenderne, ma non ce la faccio ad entrare mai di più nel dettaglio.
“Un ragazzo … prende in prestito una copia dell’’Anatomia del Gray’…” (49) [capisco al momento della prima traduzione di trenta anni fa, ma ora si può citare il libro come ‘Grey’s Anathomy’ e tutti capiscono]
“Mi mandò dei fiori dicendomi di andare a vivere con lui e di essere il suo amore.” (216) [dalla poesia di Marlowe che dice ‘come live with me and be my love’, bellissima]
Kazuo Ishiguro “Non lasciarmi” Repubblica Duemila 21 euro 9,90
[A: 13/06/2017 – I: 09/02/2020 – T: 12/02/2020] - &&&
[tit. or.: Never let me go; ling. or.: inglese; pagine: 348; anno 2005]
Continuo ad essere perplesso non della scrittura del premio Nobel, ma di alcune sue scelte espressive, del modo in cui pone ad ambienta i romanzi. Continuo a ritenere “Quel che resta del giorno” un capolavoro assoluto, mentre il secondo che ho letto (“Il gigante sepolto”) non mi ha lasciato una grande impressione. Questo risale decisamente nel gradimento, pur lasciando delle perplessità, che spero siano colmate anche dalle letture delle mie quasi esaurite “libropeute”. Come spesso accade, ci sono almeno due letture del testo. Una filologica che segue gli avvenimenti, ed una di rimando. Che poi è quella che più mi ha interessato e lasciato pensare. Un rimando sulla finitezza della vita, sulla sensazione, sulla certezza della morte. Ed anche sull’amore, quello che serve comunque a farci sopportare questa vita ed andare avanti. I protagonisti del romanzo sanno (consciamente o meno) che la loro vita è “finita”, cioè avrà un fine. Ma un conto è essere come noi, e saperlo ma ignorarlo. Un conto è averne la certezza perché si è impostati, perché tutta la propria vita è tesa alla salvezza degli altri ed alla propria morte. Kathy, Tommy e Ruth, diversamente e con diverse sensibilità, attraversano uno spazio finito dei nostri giorni, cercano di capirne il senso (e spesso non ci riusciranno), cercano di usare l’amore e il sesso per esorcizzarne il percorso. Ovvio che solo Kathy, voce narrante del romanzo, riuscirà a capire qualcosa, riuscirà a pensarne le positività, con quella canzone della giovinezza in collegio, che prima l’abbandona (ma credo siano i “tutor” a farla sparire) e poi ritrovarla casualmente. Ed è anche ovvio che la canzone sia “Never let me go” (che aggiunge un “mai” al titolo italiano che secondo modifica il senso della frase). Un “fictional hit” cantato da una improbabile Judy Bridgewater (mix tra Judy Garland e Dee Bridgewater), che serve da rasoio di Occam a Ishiguro. Quando se ne parlerà, alla fine del romanzo, sembra un testo d’amore, di quello tra Ruth e Tommy o tra Tommy e Kathy. Quando Kathy ci pensa, lo immagina come un inno ad un bambino immaginario che mai non potrà avere, e che, se avesse la ventura di averlo, non vorrebbe che si allontanasse da lei. Ma tornando al testo ed al contesto, quella rimane la domanda di fondo. Quanto saremmo disposti a vivere se sapessimo che abbiamo una “dead line” marcata e quasi riconoscibile? E come affronteremo la vita? La bravura di Ishiguro è nel rappresentare tutto ciò in maniera di farci pensare, senza mai porre una domanda, una frase, anche un semplice accenno che vada in questa direzione. Perché questo testo affondo in un contesto “altro”, quasi, anzi senz’altro, irreale. Ma possibile. In seguito ad avanzate ricerche mediche, si riesce, nel dopoguerra reale, ad avanzare le tecniche mediche, sino a realizzare dei cloni umani, che verranno utilizzati per effettuare donazioni compatibili a persone malate. Tutto è il contesto è per questi cloni, per come non sanno di esserlo, o lo sanno in maniera trasversa. Di come si dividano in donatori puri ed assistenti degli stessi. Che le donazioni debilitano ed alla fine consumano i cloni, rendendo necessaria la presenza di persone consapevoli che li aiutino, confortino, supportino sino alla fine. La domanda che viene sottesa allora in questa parte è cosa sia la vita. Cosa sia la coscienza, la creatività, lo sviluppo mentale, più di quello fisico. Le due trame si intrecciano, e si infittiscono a mano a mano che si va avanti nella lettura e nella consapevolezza. Portati per mano dalla scrittura di Ishiguro, che con raffinata abilità, non sbava mai. Non prende mai posizioni decise, ma cerca di spingere il lettore a prendere lui posizione, a porsi lui le domande che i protagonisti del romanzo non fanno mai. Chiudendo gli occhi, ci immaginiamo l’esistenza di Kathy, e dei suoi sodali, ognuno con il suo brandello di verità, ognuno andando avanti per una strada che solo noi, esternamente, sappiamo riconoscere. Personalmente, è stata l’idea del contesto che non sono riuscito sempre a seguire, a percorrere, a riconoscere percorribile. La dimentico, e penso a come Tommy sia ingenuo nei suoi sfoghi rabbiosi, di come Ruth sia fuorviata da una sua idea di bene, di come Kathy sia, nel fondo, capace di fare quel salto di qualità interna, ma che non farà mai. Per questo, alla fine, non sale tantissimo nella mia classifica gradimento, pur essendo un libro da leggere. E che mi rimarrà nel cuore per queste sue due domande inespresse. Che cos’è la morte? E soprattutto, che cos’è la vita?
“Avete avuto una vita migliore di molti di quelli che vi hanno preceduto.” (324)
La quarta settimana è la settimana di respiro. Niente libri letti mesi fa, niente libri che curano, niente libri per essere felici, che felici lo siamo già di nostro. Ma è anche l’ennesima (sesta? Settima?) di reclusione, che ho perso il conto. Siamo tutti stanchi, io sto facendo una prova di vita che sono contento di fare, che avrei fatto a prescindere, e vedremo cosa se ne farà in futuro. Aspettando, con tutta la mia ansia, di poter salire di nuovo su di un aereo. 

domenica 19 aprile 2020

Rob(iv)ecchi - 19 aprile 2020


Alessandro Robecchi “Di rabbia e di vento” Sellerio euro 15 (in realtà, scontato a 12,75 euro)
[A: 28/03/2017 – I: 30/11/2019 – T: 01/12/2019] &&& --
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 407; anno: 2016]
Due anni e mezzo sono passato dalla lettura della precedente puntata delle “straordinarie avventure” di Carlo Monterossi, ed io, come il nostro eroe, sto aspettando di sapere dove è andata a finire Maria, con la quale sembrava essere nata una promettente storia. Poiché forse anche il nostro Alessandro non ha le idee chiarissime, ci riserva una nuova puntata che solo per affetto posso considerare sufficiente. Non viene (o non sono stato capace io) chiarito il mistero del titolo, che i primi avevano sempre riferimenti canori. Io qui non lo ho trovati (se non molto lontanamente, con un titolo quasi simili in “Of rage and war” del Savatage del 1989, ma penso c’entri poco), se non il vento che continua a soffiare a Milano (forse memore del dylaniano “Blowin’ in the wind”) e della rabbia che i maggiori protagonisti della vicenda covano verso le assurdità che loro e noi stiamo vivendo. Robecchi cerca di incanalare il racconto sui binari noti delle prime due puntate, ma non riesce a trovare il modo di far scattare la vicenda verso un qualche punto di maggior interesse. Certo, si approfondiscono, almeno un poco, i caratteri maggiori. E se è vero che Monterossi rimane un punto fermo, non è più solo lui al centro, anche se il finale sarà tutto suo. Cerca sempre di sganciarsi dalla “televisione fabbrica di merda”, ma questa parte rimane un po’ sullo sfondo, senza neanche trovare sbocchi plausibili. A parte il cenno alla vicenda della matura signora appassionata di lap dance e del suo geloso marito, ma è solo uno svolazzo. Lui è certo uno dei motori dell’azione, con le costanti del whisky (rigidamente Oban di 14 anni) e delle citazioni di Bob Dylan, che però prendono meno. Esce meglio fuori il poliziotto Ghezzi, quello che aveva iniziato un po’ caricaturato “alla Catarella”, con i suoi fantasiosi travestimenti. Qui è vero che inizia vestito da frate, ma si imbatte in cattivi che lo maltrattano, gli rubano la pistola, e lui seguirà le azioni un po’ convalescente (accudito dalla meravigliosa macchietta della moglie Rosa), un po’ intraprendendo iniziative di massa, collaborando cioè con Monterossi e con il trova tutto Oscar. Tra le pieghe della polizia esce poi fuori anche un altro poliziotto, il sovraintendente Carella (qui, Robecchi tributa un sentito omaggio al re del “police procedural”, l’italo americano Salvatore Lombino in arte Ed McBain ed al suo personaggio principale delle storie dell’87° distretto, Steve Carella). Un poliziotto all’opposto di Ghezzi, ordinato, metodico, ma altrettanto determinato nel raggiungere gli stessi obiettivi dei nostri, pur sempre all’interno del solco giudiziale tracciato. Non può mancare la comparsa, qua e là, dell’esimia moldava Katrina, colf e cuciniera di Carlo, ma sono quei personaggi di sfondo, che servono a dare il senso della continuità al racconto. La storia principale si innesca quando una escort, che Carlo incontra per caso, e con la quale scambia una serata di chiacchiere di buon livello, viene trovata uccisa. Anzi, torturata e uccisa. Con la stessa arma che aveva freddato poco prima un concessionario di auto di lusso, dove l’assassino, fuggendo aveva travolto Ghezzi vestito da frate. Ecco che Robecchi riesce a far convergere i nostri due eroi, che si imbattano nei due omicidi, e che però non sono disgiunti. Ma dov’è il nesso? La polizia ed Oscar scavano, trovando fuori una serie di misteri. L’escort Anna non esisteva fino a 4 anni prima. Il primo morto pareva implicato, sette-otto anni prima, nel rapimento con forte riscatto di un giovane rampollo. Ma gli autori del sequestro pare abbiano fatto una brutta fine. Uno sconta l’ergastolo in Serbia per altri reati. Il secondo, Enrico, risulta morto in una rapina in Austria. Ma i nostri eroi, uniti e disgiunti, cominciano con lo scoprire che Anna aveva una seconda vita come Anita, e poi una terza come Angela. Una donna colta, laureata in lettere, che era stata la donna del bandito Enrico. Ma Enrico è veramente morto? Cosa celano i ritagli giornalistici in tedesco? E c’era veramente un terzo uomo, come si sospettava? Dove sono finiti poi i 3 milioni di euro del riscatto? Tutto lascia supporre che li abbia Anna dalle tre vite. Che aspetta il ritorno di Enrico. Che capisce che Enrico non è più il bandito bello e tenebroso della sua infanzia. Quando poi viene trovato un nuovo morto, con la pistola che aveva ucciso i due accanto, apparentemente suicidatosi con la pistola di Ghezzi, tutto sembra tornare al proprio posto. Ma Ghezzi e Monterossi hanno dubbi, hanno rabbia, ed il vento su Milano non scema mai. Sarà nel finale che il nostro Carlo samaritano scioglierà il mistero (che però era chiaro fin da metà libro; solo i nostri non capiscono gli strani numeri che Anna teneva segreti, ma basta leggerli bene e sono di un ovvio lampante). Così anche questa storia finisce. Carella ha la sua vendetta su chi ha torturato la bella Anna. Carlo farà le sue solite buone azioni. Ghezzi torna alla sua vita di trasformista poliziotto. Noi, invece, aspettiamo una nuova puntata, sperando che si risollevi un po’ dai piccoli pantani cui si è andata infognando.
Alessandro Robecchi “Torto marcio” Sellerio euro 15 (in realtà, scontato a 12,75 euro)
[A: 04/04/2017 – I: 02/12/2019 – T: 04/12/2019] &&& ---
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 415; anno: 2017]
Prima passano anni, poi quasi neanche un giorno, e siamo già ad una nuova avventura del buon Monterossi. Ma questa volta, e sempre più, sembra che Robecchi voglia allargare il tiro, coinvolgendo meglio e più in profondo i contraltari della vicenda. Perché, si, abbiamo sempre il nostro Carlo alle prese con il lasciare o meno i suoi programmi “TV spazzatura”. Ma abbiamo ancora e meglio, Ghezzi e Carella, i due poliziotti agli antipodi, ma che, ognuno per il proprio verso, cerca di dare un senso ed un indirizzo alle indagini. Tuttavia, Robecchi ci vuole parlare anche d’altro. Del clima italiano, che si va sempre più deteriorando, dove la solidarietà ed il rispetto stanno scomparendo, e ci rimane solo, forse, qualche scorcio di una Milano non più da bere ma da evadere. Tanto per essere ancor di più allegri, in questa fine decennio che allegra di certo non è (almeno dal punto di vista pubblico). Robecchi mescola vari piani di romanzo, riuscendo, anche un po’ tirando per i capelli, a far quadrare i cerchi prima della fine. Ci sono vari morti, uccisi con armi da fuoco abbastanza datate, che sembrano non avere nulla in comune, se non un sasso lasciato sul luogo del delitto. C’è il furto di un bellissimo anello alla madre di Katia, l’agente procacciatrice d’affari di Carlo. C’è infine un morto, sempre con il sasso, ma con una pistola moderna. Dei morti ammazzati si dovrebbero occupare Ghezzi e Carella, ma, altro colpo alle idiosincrasie moderne, qualcuno adombra sospetti di terrorismo, talché viene ingaggiata una squadra speciale da Roma. Il capo dei nostri si scorna, e decide un’operazione in copertura. Mette in ferie i nostri, lasciandoli indagare. Indagini che avranno come campo di battaglia casa Ghezzi, con i mitici pranzetti e spuntini della signora Rosa. Dell’anello si occupa direttamente Carlo con la sua longa manus, il faccio-qualsiasi-cosa Oscar. Che ben presto trova traccia di ricettatori, di possibili giri al nero. Con una facile manovra avvolgente, di cui non vi rivelo altro, l’anello è salvo. Ma c’è un sottoprodotto alla rapina: il ladro-truffatore si lascia sfuggire un accenno ad un detenuto morto in carcere che aveva detto qualcosa sugli avvenimenti degli anni caldi. Perché i primi due morti, ora rispettabili cittadini, anche carichi di soldi e di affari vicino ai potenti della finanza e della politica, avevano partecipato ai vari moti studenteschi degli anni di piombo. Per poi allontanarsene improvvisamene ed immotivatamente. Ecco che i fili di Robecchi si avvicinano e si ingarbugliano: tutti i morti hanno un sasso in comune. Tuttavia, quello della pistola moderna all’epoca delle BR e simili aveva 12 anni, quindi sembra una variabile strana. Altro filo unificante è, non a caso, il programma spazzatura ideato da Carlo e dal quale, sin dal primo romanzo, cerca di allontanarsi. Intanto la mitica Flora, la conduttrice dalla lacrima facile, convince Carlo a coinvolgere i parenti dei morti in varie puntate televisive. Solo la moglie altera e nobile dell’ultimo morto, dal nome aulico di Isabella De Nardi Contini si rifiuta ostinatamente, e Carlo riesce solo ad instaurare un bel rapporto di probabile amicizia con lei. Sono spiriti quasi affini, anche se Isabella è troppo presa dai suoi Nietzsche ed altri filosofi, mentre Carlo continua pervicacemente con il suo Bob Dylan. Visto che non ci facciamo mancare nulla, seguiamo in sottofondo le vicissitudini di tal Francesco, che capiamo abbia qualche legame con la vicenda. Ma che soprattutto serve a Robecchi per parlarci di case occupate (e non da Casa Pound ma da collettivi studenteschi), di piccoli giri di cannabis, di gestione delle case da parte della mafia calabrese, delle lotte possibili e future tra la stessa mafia ed immigrati islamici di profilo poco chiaro. Il tutto in un super condominio fatiscente, di cui seguiamo alcune vicende umane toccanti. Dove Ghezzi darà prova ancora una volta delle sue doti di mascheramenti e pedinamenti. Alla fine, saranno Ghezzi e Carella, con la spinta delle soffiate di Carlo, a trovare il bandolo finale della vicenda dei sassi, che non servivano per dire “mettiamoci una pietra sopra”, ma “ricordiamoci di quando si spaccavano le vetrine”. Ma come dice il titolo, più che torto marcio, che nessuno ha veramente sbagliato molto, sarà una vicenda marcia, dove l’amaro in bocca rimarrà e non poco. Per le vicende degli anni studenteschi (anche mie, anche nostre) che non ho mai digerito. Per gli indigenti che non hanno casa. Per chi non avrà mai giustizia, e per chi la giustizia non toccherà mai. Anche Ghezzi sarà travolto da questi torti, e speriamo che se ne risollevi. Io, ne approfitto solo per una piccola chicca, su tutta la parte del ricettatore, avido di soldi, ma alla fine disponibile anche a compromessi onorevoli. Un cammeo dell’orefice, signor Venanzi.
Alessandro Robecchi “Follia maggiore” Sellerio euro 15
[A: 26/03/2018 – I: 13/12/2019 – T: 15/12/2019] && e ¾
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 390; anno: 2018]
Come spesso accade nei romanzi seriali, ad un certo punto la trama comincia a traballare un poco. Come se venissero meno gli spunti fondanti della serie stessa, e non si trovasse ancora nuovi ed altrettanto coinvolgenti momenti espressivi. Succede così anche in questo quinto capitolo delle avventure di Carlo Monterossi e soci. Cade abbastanza il lato “televisione di merda”, che il nostro si allontana da Flora De Pisis & co, anche se rimane la presenza di Bianca, che sembra aver un suo possibile posto nelle storie, nella televisione ed anche nel letto di Carlo. Aumenta leggermente il lato giallo, visto che c’è una persona che muore, e che i nostri poliziotti Ghezzi e Carella sono sul pezzo, con ampia voglia di riuscire anche se con risultati non sempre all’altezza. C’è invece tutta una storia trasversale, legata a Monterossi ed al suo amico e sodale Oscar, che ovviamente (altrimenti come si reggerebbe tutto il romanzo) si collega alla precedente. Tuttavia, il collegamento è talmente casuale che non solo risulta improbabile in un mondo reale, ma che si vede essere inserito a forza. Anche se, e Robecchi non è certo l’ultimo arrivato nella scrittura, pian piano l’intreccio si fa più consistente, almeno nell’interesse delle storie che vengono da lontano. Ma facciamo un piccolo punto o riassunto. Per chi non mi avesse seguito sin qui, ricordo che le storie di Robecchi partono dalle avventure tra ironia, sarcasmo e polizia di Carlo Monterossi, star di programmi televisivi, che però vuole (e riesce ad) abbandonare. Monterossi è anche un discreto melomane, in particolare devoto anima e core a Bob Dylan (e le citazioni delle canzoni del Nobel, sono sempre calzanti). Carlo è legato al suo strano amico Oscar, uno che riesce a sapere molte cose attraverso suoi canali che noi (ancora) non conosciamo. Il circo “Monterossi” era stato allietato all’inizio dalla presenza di Ghezzi, un Catarella intelligente. Purtroppo, il poliziotto Ghezzi, a contatto con la realtà, ed entrando sempre più verso il centro della scena, perde la sua giocosità, ed acquista profondità e cupezza. Sembra quasi la parabola del PD! Nelle ultime puntate, quasi a farne da contraltare, entra l’altro commissario (pardon vicequestore) Carella, molto più sul pezzo, tanto che lavora solo senza una sua vita privata. Robecchi, da buona vecchia firma di “Cuore” aveva anche iniziato con molta ironia, che però si è andata perdendo, ed ora ci sono anche momenti ilari, ma con un’andatura poco allegra. L’ossatura del romanzo si impernia sulla figura di Umberto, facoltoso ed anche più anziano. All’inizio, Carlo e Oscar lo ricercano su indicazione del figlio, ma Umberto non era scomparso, solo che “carico d’anni” aveva deciso di fare cose che non aveva fatto in una vita tuta dedita all’accumulo di denaro (e tanto). Ritrovatolo, si trovano coinvolti nella seconda fase. Una signora cinquantenne, Giulia, muore durante (sembra) uno scippo. Morte su cui indagano Ghezzi e Carella. Ma Giulia era stata, circa venticinque anni prima, un grande amore di Umberto. Questo l’improbabile legame tra le due coppie al lavoro. Tutta una parte del romanzo viene dedicata da Robecchi al racconto del modo disinibito e libero da condizionamenti, ma realmente profondo, di rapportarsi tra Umberto e Giulia. Un amore che non poteva avere sbocchi (per una serie di ragioni che non stiamo qui ad indagare, se no che vi andate a leggere?). Quindi ci si lascia, ma Umberto avrà sempre Giulia nel cuore. Tanto che una delle follie del libro (la maggiore?) è quel vangare e rivangare sui rimpianti, sul non averne, sui rimorsi e sulla differenza tra le due entità. Quindi Carlo e Oscar, per Umberto, approfondiscono cosa sia stata per questi venticinque anni, la vita di Giulia, con la nascita anche della bella Sofia, ora promettente soprano (questa è la parte “in maggiore” come un buon andante rossiniano). Tralascio volutamente di addentrarmi nelle trame parallele di Umberto e Giulia, di Umberto che fa da Pigmalione a Sofia, ed anche di casa Ghezzi, o di Bianca e Carla, o di Katrina e la Madonna di Medjugorje. È chiaro fin da subito che Umberto è incazzato nero della morte di Giulia, e farà di tutto per risolvere, a suo modo, la faccenda. Vedremo solo che sarà Oscar a trovare il bandolo di una matassa che collega mafiosetti, protezioni di negozi, usura, poliziotti corrotti ed altre amenità “fuori legge”. Sarà sempre Oscar a fornire a Ghezzi i contorni di un puzzle che il nostro poliziotto porterà a compimento. Anche se… Vedremo in futuro, se e come evolverà questo rapporto tra Oscar e Ghezzi, che il poliziotto è ben stufo dell’andamento politico e poco risolutivo della burocrazia statale. Vedremo in qualche prossimo romanzo se Carlo e Bianca avranno un seguito. Per ora segnaliamo la sempre gradevole presenza di una Milano non scontato, la scorrevole prosa di Robecchi ed il piacere, comunque, di averne letto, di leggerne e di poterne continuare ad usufruire in futuro.
Alessandro Robecchi “I tempi nuovi” Sellerio euro 15 (in realtà, scontato a 10 euro)
[A: 25/03/2019 – I: 21/12/2019 – T: 23/12/2019] &&& --
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 428; anno: 2019]
Ed eccoci al sesto titolo della saga di Carlo Monterossi e della Milano di Alessandro Robecchi. Come tutti i serial, un po’ si ripete, e cala di intensità. Come tutti i serial ben riusciti, l’autore riesce trovare qualche nuova buona idea per non rimanere nel solco del già detto e già visto. Certo, cambia poco il nostro protagonista, sempre con una indovinata citazione di Bob Dylan, che dovrebbe aver scritto di tutto, quasi una Bibbia in musica, perché si trova sempre un giusto riferimento a quanto accade (o forse è il contrario?). Carlo continua a non essere soddisfatto della sua creatura, quel “Crazy Love” dedito a punte di ascolto fenomenali in quanto esempio di punta di tv spazzatura. Continua a cercare di uscirne, tutte le colte ritirato dentro dal suo agente, da circostanze esterne ineluttabili, ed anche dalla bella Bianca, con la quale sembra poter instaurare un rapporto un filo più serio delle “scopate e via” delle precedenti puntate. Vedremo se Carlo e Alessandro avranno il coraggio di far seguire questo filone le sue scie naturali. Così come hanno fatto con gli altri personaggi. Il poliziotto Ghezzi, benché saturo di burocrazia, decide comunque di rimanere in polizia, continuando a lavorare con il tenebroso Carella. Ma favorendo l’uscita dalla polizia di Agatina Cirielli, delusa dalla lentezza amministrativa, e convolante in una bella impresa di un’agenzia investigativa con il mai troppo chiaro amico di Carlo, Oscar. In questo quadro generale, con tutte le teste di lungo corso al loro posto (senza dimenticare l’ombra angelica di custode della casa della bella Katrina, né l’irruzione sulla scena di Rosa, la moglie di Ghezzi), comincia a svilupparsi una nuova avventura. Che, come sovente nella scrittura di Robecchi, parte su binari paralleli, destinati tuttavia ad incontrarsi ben presto. Da una parte c’è un bravo ragazzo, Filippo, tutto casa – fidanzata – università, qualche lavoretto per arrotondare le entrate e magari finanziare un viaggetto con gli amici, trovato morto nella sua auto, le mani legate al volante, un foro sulla tempia, i pantaloni abbassati come a valle di un rapporto clandestino. Una morte incomprensibile, che fa sbattere la testa al muro ai nostri Ghezzi & Carella. Dall’altra l’irruzione in scena di Gloria Grechi, impiegata anonima, ma donna affascinante, che si rivolge a Oscar e Agatina per ritrovare il marito scomparso, offrendo ricompense che sembrano (e sono) assolutamente al di fuori delle normali entrate di una coppia normale. A parte le storie collaterali, ma su una torneremo, che sono il sale della scrittura di Robecchi, il centro di queste due storie si unifica ben presto. Scopriamo l’esistenza di una banca della mafia, dedita alla ripulitura di denaro sporco. Una organizzazione ben congeniata raccoglie gli incassi in nero di commercianti, spacciatori, gestori di case da gioco e di agenzie di scommesse clandestine, li fa recapitare da ignari fattorini, dietro compensi superiori alla media, in una serie di basi logistiche. In cambio di una congrua percentuale, riporta ai fornitori del denaro sporco, una serie di transazioni legali, così che ognuno ha la sua parte di convenienza, di certo fuori dai canali legali. Qual è allora il legame? Filippo era uno degli ignari corrieri che per motivi che scoprirete leggendo finisce deragliando dalla strada maestra. Gloria ed il marito, dopo aver scoperto il trucco del denaro riciclato, stavano cercando di rubare ai ladri, quando il marito, non sappiamo ancora per quale motivo, scompare. Quindi, gli sforzi degli investigatori pubblici e di quelli privati convergeranno, per trovare il modo di risolvere tutti i misteri. Robecchi ci serva qualche bel colpo a sorpresa nel finale, che risolleva un po’ tutto l’andamento. Non vi dico i colpi, né vi dico di Carlo e Bianca. Questo lo leggete. Quello che accenno è uno dei filoni interni. Una nipote di Ghezzi viene bullizzata da un compagno di scuola per alcune foto leggermente osé. Compagno ovviamente figlio di un illustre professore, che scrive sul “Corriere” ed altre amenità di rango. Carlo ha l’opportunità, con l’aiuto di Rosa, di smascherare il bullo ed il professore sepolcro imbiancato. All’interno della trasmissione che pur tuttavia non ama. Ma riuscirà a sfondare le porte di una televisione blindata, più vicina a Bruno Vespa che a Fabio Fazio? Riusciranno i nostri a portare alla luce questi “tempi nuovi” di cui tanto si parla, anche nel titolo? Vi lascio all’amena lettura di Robecchi, sperando tuttavia che ritorni anche alle battute sagaci di cui ci ha abituato nei copioni da lui scritti per Crozza. Qui si sta scivolando un po’. Aspettiamo fiduciosi.
Terza domenica d’aprile, quindi vi sorbite una bella cura di felicità con uno dei più lunghi rimedi seriali (e non pandemici).
Purtroppo, anche Lucho ci ha lasciato, in questi mesi in cui, ed è ovvio, siamo molto attenti a chi non c’è più vicino per lottare. Ci sono anche lutti più privati, ma quelli li conosciamo e li teniamo per noi, modestamente. Pasqua è passata, e noi ci avviamo verso un 25 aprile anch’esso di mestizia. Speriamo di vedere una luce in fondo, in fondo, che ci permetta di illuminare i miei abbracci a tutti voi e il mio grandissimo affetto 

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
APRILE 2020
E dopo svariati mesi di cure “rapide”, passiamo a cose più massicce, a delle cure intensive, indicate anche in questi mesi di scarsa mobilità.

CURE INTENSIVE 1


Ci sono situazioni in cui un approccio terapeutico tradizionale si rivela insufficiente e si richiede un intervento più prolungato e massiccio, cure intensive da ripetere a cicli.

IL TRONO DI SPADE di GEORGE R. R. MARTIN (1996-2011 per ora)

Cicli di cure: in fieri. Nonostante il titolo sarebbe Cronache del ghiaccio e del fuoco, la saga è ormai comunemente nota come Il trono di spade. A seconda dell’edizione (deluxe o economica) potete trovare i vari episodi raggruppati in un unico volume oppure divisi in più libri per una cura diluita e più leggera. Attenzione a non fare confusione con i titoli, la prescrizione resta la stessa così come l’azione del farmaco.

Principio attivo: fantasy.

Eccipienti: potere, guerra, sangue, sesso, vendetta, tradimento.

Composizione

Per ragioni di spazio, tempo e complessità è quasi impossibile raccontare la trama dell’opera monumentale di George R. R. Martin. Ci viene in aiuto il titolo del primo romanzo, Games of Thrones, in originale, e Il trono di spade nella versione italiana: si tratta di un gioco di ingarbugliate lotte di potere per sedere sul Trono di Spade. Questa saga s’inserisce di diritto nella tradizione della migliore letteratura fantasy di cui, però, ha sovvertito alcune regole con riusciti azzardi che gli hanno permesso di conquistare, anzi di sottomettere, un pubblico più ampio rispetto ai soli cultori del genere. Non mancano gli elementi tipici del fantasy, come le creature fantastiche e le atmosfere da Medioevo immaginario, ma sono inseriti in un contesto molto realistico dove la cruda descrizione di un circolo vizioso fatto di vittime, vendette, odio, alleanze, tradimenti, guerra, sangue, battaglie e sesso trasforma la saga in una sorta di epopea storica per la conquista del potere, che è tutto fuorché un’invenzione della fantasia. Al gioco del trono o si vince o si muore: la lotta per la poltrona è sempre stata all’ultimo sangue e sempre lo sarà. Cambiano le epoche e le modalità della partita, ma la battaglia per non cedere la poltrona nella stanza dei bottoni non cambia mai. A rendere originale la saga è anche la scelta dell’autore di non eccedere nella meticolosa descrizione dei luoghi o delle situazioni, indugiando in lunghe digressioni il cui effetto collaterale sarebbe la produzione di abbondanti quantità di latte dalle ginocchia e la sua conseguente trasformazione in mozzarelle fresche, che è tra le prime cause di libri abbandonati a metà nonché fonte di dolori alle suddette ginocchia, per non parlare di qualche cos’altro che si rompe irrimediabilmente. Con Il trono di spade questo non succede, perché la concentrazione dell’autore si focalizza soprattutto sui personaggi, che, realistici in modo fantastico, sono l’altro grande punto di forza. Bandita la tradizionale distinzione tra buoni e cattivi, hanno tutti le loro zone d’ombra, le loro debolezze e le loro colpe. Nessuno è buono in assoluto e tutti sono drammaticamente umani. Ma George R. R. Martin osa ancora di più. Per avviluppare senza scampo in una trama crudele e sensuale di amori, incesti, mutilazioni, vendette, tradimenti, lotte, massacri e sangue, sangue, sangue, ha scelto di affidare ogni capitolo al punto di vista di un personaggio, una tecnica narrativa dinamica che permette al lettore di vedere le cose da differenti angolazioni, calandosi nei panni di tutti i protagonisti, anche di quelli negativi, seguendone il filo dei pensieri e sviluppando empatia. Ma attenzione a non simpatizzare troppo né ad affezionarsi eccessivamente perché, e questa è l’altra novità, l’autore è spietato e non ci pensa due volte a sacrificare un personaggio ai fini della storia. Non si fa scrupoli a spezzare il cuore del lettore, lasciandolo orfano e pieno di dolore. George R. R. Martin è perfido. O coraggioso, proprio come i suoi protagonisti. E per quanto sia cattivo e perverso, il lettore non può che continuare a pendere dalla sua penna in attesa di nuovi episodi.

Posologia

Visto l’argomento, la prima ragione per un ciclo di cure a base de Il trono di spade è per contrastare i sintomi di claustrofobia da realtà e conseguente bisogno di evasione. Mi sento, però, di prescrivere questa fantasy-terapia intensiva soprattutto per la sua efficacia nel soddisfare un’altra necessità troppo spesso sottovalutata: il bisogno di essere sorpresi. Non mi riferisco solo alla sorpresa provocata dai continui colpi di scena che movimentano la trama tenendo sempre la noia a distanza di sicurezza, ma soprattutto alla sorpresa intesa come possibilità di essere sbalorditi nello scoprirsi incantati da una lettura che mai si sarebbe creduto potesse piacere. Ovviamente non mi rivolgo agli amanti del genere, che avranno già divorato tutta la saga probabilmente anche più di una volta, ma ai detrattori delle storie di fantasia, agli allergici cronici al fantasy e agli intolleranti nauseati dai fenomeni letterari di successo. In caso foste tra questi, vi consiglio di fare un test provando a leggere il primo romanzo. Chiunque si sia mai sottoposto alle prove allergiche sa bene che raramente si arriva a capire la vera causa scatenante le allergie, che come vengono, così se ne vanno via inspiegabilmente. Così voi, leggendo Il trono di spade, potreste scoprire che quello per il fantasy è un rifiuto psicosomatico e quindi facilmente superabile. Sono quasi certa che questi romanzi saranno una sorpresa e, dato che ormai non ci si meraviglia quasi più di niente, scoprire di poter essere stupiti da un libro e da sé stessi è fantastico oltre che un sintomo di buona salute.

Effetti collaterali

Fate attenzione perché Il trono di spade è un virus potente il cui contagio è rapido e immediato. Possono bastare poche pagine per venire risucchiati nel vortice della trama. Il primo sintomo di contagio è stato individuato nella tentazione di voler scomparire dalla faccia della terra per tutta la durata della lettura (piuttosto lunga), staccando telefoni, spegnendo computer, interrompendo ogni forma di comunicazione con il mondo esterno, arrivando a fingersi malati per evitare impegni e appuntamenti che distrarrebbero dai libri.

Vera e propria pandemia a livello mondiale, la saga è diventata un’esperienza collettiva, un fenomeno sociale oltre che culturale (e virale), accendendo dibattiti e stimolando discussioni, senza contare tutto il merchandising. Il secondo sintomo del contagio potrebbe essere la brama di condividere la vostra nuova passione-ossessione, possibilmente contagiando chi ne è ancora immune. Nei casi più gravi potrebbe seguire l’ingresso in un mondo extra-metaletterario, fatto di giochi di ruolo, convention a tema e travestimenti vari. Se da allergici-scettici che eravate all’inizio, vi ritrovate mascherati da Tyrion o Arya a un raduno di fan, sappiate che siete guariti e malati nello stesso tempo: sorprendente!

Terapia televisiva sostitutiva
La fortuna serie televisiva è da intendersi come parte integrante della cura, un episodio a settimana se riuscite a sopportare la suspense, o tutta di fila se rischiate di essere divorati dalla tensione e dalla curiosità. I punti forti della serie sono gli stessi della saga (d’altra parte l’autore è anche uno sceneggiatore e nei romanzi combina perfettamente la tecnica cinematografica con quella narrativa): i personaggi (eccellente la scelta degli attori), le atmosfere, i continui colpi di scena, i finali che lasciano con il fiato sospeso e le scene cruente di sesso e violenza contraddistinguono un racconto duro e appassionante.Avvertenza: può dare dipendenza, e proprio come i romanzi, può causare la voglia, difficile da gestire, di commentare e analizzare ogni singolo episodio nei minimi dettagli. E questo potrebbe compromettere il normale svolgimento delle vostre attività.
Commenti
Ho trovato gradevole il primo (ed unico) libro che ho letto. Ma ancor di più la serie televisive che, grazie a mio fratello, ho potuto vedere integralmente. Sino all’ultima puntata che parla di avvenimenti che l’autore ancora non ha descritto in uno dei suoi libri delle cronache di fuoco e di ghiaccio.
George R.R. Martin “Il trono di Spade” Mondadori euro 12
[pubblicato il 27 gennaio 2019]
Ci sono voluti più di 20 anni per arrivare a leggere in maniera critica ed analitica il primo libro de “Il Gioco dei Troni”, così come appunto nel 1996 l’immaginifico George Raymond Richard Martin decideva di chiamare l’inizio di una delle saghe più lette, più viste e più amate. Purtroppo, oltre a scontrarci con i titoli italiani (ma ormai “Il trono di spade” è diventato un marchio), ci si imbatte anche nella pervicacia delle edizioni, dove i cinque romanzi di Martin dedicati alle “Cronache del ghiaccio e del fuoco” vengono spezzettati in circa una dozzina di volumi. Per cui questo, in realtà, è metà del primo libro della serie, dove appunto “A Game of Thrones” viene diviso in questo e nel successivo “Il grande inverno”. Comunque, dopo averne letto qualcosa quando fantasy e fantascienza erano più presenti nel mio orizzonte letterario, e dopo averne parlato con gli appassionati, e dopo aver visto almeno la Croazia e la Scozia, due dei luoghi must dove è stata girata la serie TV (manca la Nuova Zelanda, un po’ lontana forse), non potevo esimermi di includere anche questo esempio, ormai classico, di letteratura. Sicuramente la scrittura è di buon livello (anche se qualcuno si è lamentato delle traduzioni mondadoriane non sempre accurate), ed accompagna una saga che ha il sapore di un classico, pur essendo farcita di elementi nuovi ed interessanti. Martin ambienta la sua epopea in un mondo altro, forse futuro, ma di sicuro regredito ad un Medioevo europeo di stampo classico. Tornei di cavalieri, strutture feudali ed altro ne sono un chiaro esempio. Su questo si innestano tre elementi “diversi”: il lato fantasy, rappresentato da animali fantastici (i meta-lupi), uova di drago dormienti per millenni, e zombie (o simili creature) che vengono a minare i fragili equilibri del mondo conosciuto; il lato “guerresco”, con una struttura che sembra ricalcare la Guerra dei Cento Anni di britannica memoria, con alleanze, tradimenti ed altre tipologie ben presenti in Europa negli anni bui; il lato “osé”, che c’è sesso, normale e straordinario, etero ed omo, incestuoso perfino, tanto per solleticare il lettore di quando in quando a non distrarsi dalle vicende. Che sono poi vicende corali, che si svolgono in un mondo diviso tra due grandi continenti: Westeros (riportato in italiano come “Il grande Nord”), luogo freddo e dove è difficile vivere, dove arrivano stagioni senza cadenze e durate predeterminate, diviso in Sette Regni, che rispondono ad un unico re, ed Essos (“Il libero Sud”), dove scorrazzano popoli nomadi e sorgono e prosperano città libere. Tra l’altro, all’estremo Nord c’è una Barriera, un gigantesco muro di ghiaccio, mutuato dal Vallo d’Adriano in Inghilterra, controllato dalla confraternita dei Guardiani della Notte, per tener fuori dal mondo civile i Bruti e gli Esterni. Non ho molta intenzione di addentrarmi nei meandri del primo volume, che, pur tipicizzanti, andrebbero corredati da tutti i restanti altri undici tomi italici, cosa che per il momento non è nelle mie intenzioni. Per chi si incuriosisce, vorrei invece delineare quanto succede prima dell’inizio della saga. Infatti, quindici anni prima del primo romanzo, i Sette Regni sono sconvolti da una prima Guerra Civile. Il figlio del Re Folle, Aerys II Targaryen, Rhaegar, rapisce Lyanna Stark, a scopi sessualmente comprensibili, suscitando, com’è ovvio, le ire del promesso sposo di Lyanna, Robert Baratheon. Ma quando la famiglia Stark ne chiede la liberazione, il Re Folle uccide i capi della famiglia. Eddard Stark, capo del più grande regno del Nord, “Grande Inverno”, si unisce a Robert e Jon Arryn, dichiarando guerra ai Targaryen. Nel gioco delle alleanze, Eddard e Jon sposano le sorelle Tully, Catelyn e Lysa, rinsaldando i legami tra loro. Il culmine della contesa si avrà nella famosa “Battaglia del tridente”, dove Robert uccide Rhaegar (che aveva già fatto fuori Lyanna), e Jaime Lannister, di una casata un tempo fedele ai Targaryen, li tradisce, uccide a tradimento il Re Folle, concedendo a Robert di farsi nominare Re dei Sette Regni, suggellando l’accordo tra le famiglie con il matrimonio tra lo stesso Robert e Cersei Lannister, la sorella gemella di Jaime. Pur essendo sconfitti, i due ultimi Targaryen, il giovane Viserys e la neonata Daenerys si salvano fuggendo al di là del Mare Stretto, verso i regni del Sud. Avete già capito quanto e come si possa sviluppare la trama. L’ultima invenzione di Martin, molto efficace dal punto di vista narrativo, è permettere ad ogni personaggio di narrare in prima persona una sequenza di avvenimenti, così che ogni capito è esposto dal Punto di Vista di uno di questi. In questo inizio, ne parlano Eddard Stark e la moglie Catelyn Tully, il primo perché il re Robert lo vuole come suo secondo, essendo improvvisamente morto il terzo sodale, Jon Arryn, la seconda perché cerca di capire chi ha attentato la vita del suo secondogenito, Bran. Poi abbiamo tre dei figli Stark: Bran, dalla cui voce capiamo come siano stati Jaime e Cersei a cercare di ucciderlo, avendone lui scoperto le tresche amorose, Sansa, la quattordicenne figlia maggiore degli Stark, promessa sposa al figlio di Robert, e Arya, la minore degli Stark, dodicenne irrequieta, più dedita a cercare di imparare la scherma che a giocare alle bambole. C’è poi Jon Snow, il figlio bastardo di Eddard, di cui non si consce la madre, e che entra, per sfuggire alle ire della famiglia, nei Guardiani della Notte. Altre due voci sono poi importanti: Daenerys, ormai anche lei quindicenne, che va in sposa con il re dei Dothraki, Drogo, cercando di portarlo sul sentiero di guerra contro i Sette Regni, e Tyrion Lannister, il cadetto della famiglia, chiamato il Folletto (in inglese “Imp” che propriamente sarebbe “Diavoletto”), per le capacità verbali, le intemperie sessuali, nonché il fatto che è affatto da nanismo (inoltre ha gli occhi di due colori diversi!). Non so esattamente come si è andata sviluppando l’intera saga, ma da questo primo assaggio, direi che quattro sono i personaggi che più mi vengono in mente ed in simpatia: Bran e Arya Stark, Jon Snow e Tyrion il Folletto. Concludo ribadendo la poca voglia, attuale, di seguirne le vicende letterarie, ma l’idea, quando se ne ha tempo, di vederne i vecchi episodi della Serie TV (di cui ho visto il primo che ritengo in ogni caso ben fatto).
“Le storie … non sono mie. … Le storie esistono prima di me e dopo di me.” (252)

Finalino

Non so a cosa possa servire, ma sicuramente seguire le otto stagioni del Trono può essere utile a passare del tempo. Inoltre, a posteriori, come dice la chiusa della trama, avevo visto bene su chi puntare dei miei affetti.

domenica 12 aprile 2020

Nun cataminatevi - 12 aprile 2020


Andrea Camilleri “La cappella di famiglia e altre storie di Vigata” Sellerio euro 14 (in realtà, scontato a 11,90 euro)
[A: 21/10/2016 – I: 04/02/2019 – T: 08/02/2019] - && e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 319; anno 2016]
Facendo una pausa nelle storie di Montalbano, in attesa che il fratello buono faccia qualcosa di sinistra, eccoci alla lettura di una raccolta di storie dedicata al mondo di Montalbano prima di Montalbano. Le storie di Vigata, scritte sempre nel “camillerese” stretto, consentiranno, prima o poi, ad un attento lettore ed esegeta, di fare un resoconto cronologico e “storico” di quanto sia potuto avvenire in quel mondo della Sicilia orientale, a me caro, più che per il buon Salvo, per la mia amica Marina e per le bellezze da Agrigento a Ragusa e Siracusa. Qui abbiamo otto racconti (di cui sei inediti) che coprono quasi un secolo di storia (dal 1862 al 1950) del luogo dell’anima dello scrittore empedoclino. Come certo i miei lettori sanno, i racconti non sempre vanno nella direzione del mio cuore, e questo florilegio non si smentisce. Certo, seppur diversi i personaggi, sempre vigatesi sono, e sempre meticoloso, Camilleri ce le inquadra nel tempo. Ma le storie, con difficoltà prendono ed avvincono. Non certo il primo, “Il duello è contagioso”, ambientato nel marzo del 1911, quando a Roma avviene un fatto di sangue: la contessa Giulia Trigona dei principi di Sant’Elia, nata Mastrogiovanni Tasca di Cutò, viene uccisa dall’amante il tenente Vincenzo Paternò del Cugno. Tutta l’Italia si divide tra repubblicani che attaccano la contessa in quanto dama di corte della regina Margherita e monarchici che la difendono. Così come accade a Vigata. Qui la penna di Camilleri vola, portando il conflitto verso una serie senza fine di duelli, che i focosi vigatesi, divisi nelle due schiere, non vedono l’ora di mettere in piazza. Divertente l’escalation, poco coinvolgente la fine della storia. Con il secondo saliamo al 1929; ma nonostante “La cappella di famiglia” dia il titolo alla raccolta, risulta una farsa un po’ scontata. Amori corrisposti o meno. Eredità che non vanno al loro posto. Gelosie e tradimenti. Certo intorno alla cappella del titolo, ma con poco mordente. Mordente che invece si trova nel miglior racconto del libro. “Teresina”, ambientato nel 1920, che ci presenta una lady Macbeth che si mette a lavorare in prima persona per uscire dalla povertà e dalla servitù. E con costanza e veleno dei topi riesce nel suo intento. E devo dire che fa anche piacere che riesca. Gli altri che seguono vanno in tono minore. Dal più debole, ambientato nel 1937, con quel giovane che risulterà avere “Il palato assoluto”, così come qualche musicista poteva avere l’orecchio assoluto. Ovvio che finirà tra le cucine, cuoco o assaggiatore. Ovvio che andrà in difficoltà per i suoi giudizi stroncanti. Ovvio che dovrà trovare il modo di “dileguarsi” o meglio di dissimulare il suo dono. Ma il gioco di Camilleri è ormai abbastanza scontato. Come in “La rettitudine fatta persona”, che copre uno dei più lunghi archi temporali, dal 1896 al 1948. E dove non ci sorprende certo che il deus ex-machina della vicenda, quello contornato da donne che non lo lasciano, e che per lui e con lui fanno di tutto, alla fine, posso essere iniziato ad una causa di beatificazione. Stesso plot, anche se con le carte cambiate, nel post-bellico “Il morto viaggiatore”, dove ci sono tutta una serie di scambi di persone e cose, intorno ad un morto che nessuno vuole e che tutti spostano di qua e di là. Saltando il penultimo, l’ultimo racconto ricalca abbastanza il plot del palato, perché ne “L’oro a Vigàta”, iniziato nel 1920 e proseguito nel pieno del ventennio, il protagonista Mizzica, non ha il palato, ma ha la capacità di trovare cose: acqua, oro, giacimenti, persone. A Camilleri serve per mettere in berlina il fascismo ed i suoi creduli gerarchi. Senza però riuscire a coinvolgerci di più. Ho saltato il penultimo perché “Lo stivale di Garibaldi”, ambientato nel 1862 merita qualche riga in più. Non per la storia, dove si sunteggia la vita del prefetto di Girgenti (come allora si chiama Agrigento), mandato in Sicilia per ristabilire l’ordine, ma travolto dagli avvenimenti, soprattutto per una manifestazione di blasfemo rispetto per lo stivale del titolo. Perché quello che più si coglie, e con piacere è l’aspetto umoristico e spaesante della vita di Enrico Falconcini, il prefetto di cui sopra. Dove, oltre al corteo di cui sopra, nella sua prefettura avviene di tutto dallo stato d'assedio imposto per reprimere la mobilitazione filo garibaldina che culminerà nei fatti dell'Aspromonte, ai disordini politici, agli innumerevoli episodi di criminalità e banditismo fino all'evasione dal carcere di Girgenti di ben centoventisette detenuti. Un buon mini-pamphlet di accuse contro uno Stato che (allora come ora) manda le persone sbagliate nei posti sbagliati, per poi accusarle di essere inefficienti. Tuttavia, alla fine, questi racconti non entrano né nel cuore, né nello stomaco del lettore. Si alza un poco il labbro in un sorriso di poco conto. Poi si chiude il tutto aspettando che ritorni Salvo.
Andrea Camilleri “Conversazione su Tiresia” Sellerio euro 8 (in realtà, scontato a 6,40 euro)
[A: 17/12/2019 – I: 29/12/2019 – T: 29/12/2019] - &&&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 60; anno 2018]
Ho deciso, in maniera postuma di omaggio, di regalarmi la lettura, seppur non ravvicinata, delle due ultime avventure letterarie del compianto autore siciliano. Cominciando da questo divertissement creato per il teatro, in cui è lo stesso Camilleri che ne interpreta il personaggio. Quasi a voler riflettere su sé stesso, vecchio e cieco, per ripercorrere un mitico vecchio e cieco, l’indovino Tiresia. Non a caso, entrando in scena sulle note dei Genesis (“The Cinema Show”) che non a caso cita nel testo: ‘fai un viaggio con padre Tiresia, ascolta il vecchio parlare di ciò che ha vissuto’, come Melville, dice “Chiamatemi Tiresia”, per poi passare la suo essere “tiresiano” con un “Tiresia sono”, che ce lo fa riconoscere per quello che è. Un autore versatile, che attraversa il mondo della scrittura e della rappresentazione, dalle mitiche regie televisive alle scritture di Vigata e dintorni. Non ho visto la rappresentazione teatrale, ma da questo libretto ben si intuisce la sua presenza, su di una sedia al centro della scena, parlare a ruota libera del personaggio, e delle sue interpretazioni. Quindi, dopo averci descritto la nascita del mito-Tiresia, sulla base della scrittura del Pseudo-Apollodoro, ecco che lo scrittore ci porta per mano, attraverso i secoli nelle innumerevoli interpretazioni del personaggio. Quello appunto che per volere di Zeus avrebbe vissuto almeno per sette generazioni, pur non consecutive. Lo vediamo quindi nelle parole di Omero, quando nell’Odissea Ulisse lo cerca nel regno dei morti per spere quale sia la strada per Itaca. Nell’Edipo Re di Sofocle, e nella sua trasposizione cinematografica di Pasolini. Nell’Inferno di Dante, con la testa volta all’indietro così che non possa predire il futuro ma guardare il passato. Lì insieme alla figlia Manto, cui si deve la fondazione della città di Mantova. Nell’opera teatrale surrealista di Apollinaire “Le mammelle di Tiresia” (contestata nel ’68 dalle femministe in quanto contro le donne, ma c’era dell’ironia nel 1917…). Nei “Dialoghi con Leucò” di Pavese, e per precisione nel terzo, intitolato “I ciechi”. Nel capitolo a lui dedicato da primo Levi ne “La chiave a stella”, capitolo fondamentale per comprendere il libro stesso. E poi in Borges (“La cecità”), in Dürrenmatt (“Dialoghi con la Pizia”), Ezra Pound (“Canti pisani”). E ne “Il sermone di fuoco”, parte del grande poema “La terra desolata” di Thomas Stearns Eliot. Finendo il suo errabondare nel fare la comparsa ad Hollywood, ne “La dea dell’amore” di Woody Allen. Camilleri ci lascia con una nota di speranza. Siamo quello che abbiamo fatto, resteremo per questo. E ci rincontreremo, forse qui, forse altrove, tra altri cento anni. Ma voglio però ritornare sulla genesi del mito Tiresia, e cioè nelle parole dello Pseudo-Apollodoro. Che ci presentò le sue tre versioni di Tiresia. Il diventar cieco perché gli dèi non volevano divulgasse i loro segreti (prima genesi poco convincente). La seconda ipotesi è che sia stata Atena, che lui aveva visto nuda che si faceva il bagno. La dea lo punisce con la cecità, ma dietro supplica della madre, poi lo rende indovino. La terza è la più bella e complessa. Tiresia è un tranquillo cittadino tebano che, passeggiando tra i monti, incontra due serpenti che si stanno accoppiando. Preso da paura, ne uccide uno, la femmina, che però era una qualche dea che stava sollazzandosi in modo nascosto. Per punizione, Tiresia viene mutato in donna, e da donna vive tutte le possibili vite che una donna vive, provandone tutti i piaceri. Dopo sette anni, sullo stesso monte, incontrando un serpente lo uccide. Era il maschio di sette anni prima e Tiresia torna uomo. Ma la cecità? Ecco il bello. In una disputa tra Zeus ed Era su chi goda di più nel rapporto, viene chiesto a Tiresia di dirimere la questione, lui che è stato sia uomo che donna. Qui c’è la grande invenzione di Tiresia nel piacere ci sono dieci parti, di cui l’uomo ne prova una e la donna nove. Mal gliene incoglie, che così svela il mistero femminile, Era si adira e lo acceca. E Zeus, per ricompensarlo, lo rende indovino. Alla fine, e con piacere, tutta la tirata di Camilleri, che si segue e si legge con gusto, mira essenzialmente a farci riflettere su due punti fondamentali: l’importanza della memoria per l’agire di ognuno ed il valore del tempo che si vive. Non se ne vivono altri, quindi sfruttiamo al meglio quello che abbiamo. E non scordiamo nulla, per la gioia degli storici, ma anche per la dannazione di Ireneo Funes di Borgesiana memoria. Io vorrei solo ricollegare questa memoria, con un passo del testo, quello di Levi, quello dove la poesia salvò il grande scrittore ebreo nei campi di concentramento, facendolo restare uomo tra gli uomini. E portandoci quella testimonianza che non possiamo, non dobbiamo dimenticare. Per terminar con le parole di Camilleri stesso: “Da quando sono diventato cieco, ci vedo meglio”. Un bellissimo libro, ed un doloroso pensiero a chi ci ha lasciato.
Andrea Camilleri “Autodifesa di Caino” Sellerio euro 8 (in realtà, scontato a 6,80 euro)
[A: 27/01/2020 – I: 20/03/2020 – T: 20/03/2020] - &&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 81; anno 2019]
Come dice la stringata eppur commossa introduzione, questo è il primo libro di Camilleri pubblicato da Sellerio dopo la morte del grande protagonista della scena letteraria degli ultimi anni. Doveva essere il secondo capitolo teatrale di Camilleri, dopo il bellissimo e sopra commentato Tiresia. Ma non ebbe il tempo di esibirsi a Caracalla. Peccato, perché credo che una volta interpretato, Camilleri si sarebbe accorto di alcune cadute nella storia, ed avrebbe probabilmente raddrizzato il tutto, non dico portandolo a livello di Tiresia, che ritengo una summa del suo essere “cantastorie omerico”, ma facendo appunto risalire quelle cadute di tensione che in questo testo ci sono. E che avrebbero potuto non esserci, che, dal punto di vista della scelta del soggetto e della sua interpretazione e riproposizione, è senz’altro un’idea meritevole e foriera di ragionamenti. Così come lo è stato poche letture fa il “Giuda” di Amos Oz. Come per Tiresia, Camilleri si immerge nel mondo delle interpretazioni e delle esegesi della figura di cui sta parlando. Ne fa anche un ritratto a posteriori utilizzando Borges e Dario Fo, Belli e Coleridge. Non si tira indietro neanche per quella filastrocca infantile che nei miei ricordi ben datati si accoppiava con “Fumo, fumo va diritto”. Non so se la ricordate anche voi: “Vedo la luna, vedo le stelle, vedo Caino che fa le frittelle; vedo la tavola apparecchiata, vedo Caino che fa la frittata”. Ma queste sono solo le passeggiate fantastico-letterarie di un uomo di lettere che sa. E che potevano essere migliorate e approfondite, se ne avesse avuto il tempo. La parte per me più significativa è la genesi Caino, la nascita nel mito (da un lato) e nelle religioni (dall’altro). Camilleri prende a piene mani e mescola la tradizione classica ebraico-cristiana con alcuni intarsi derivanti dalla Quinta Sura del Corano detta “La tavola imbandita”. Riesce così a creare un mix del personaggio Caino, con alcuni tocchi di novità e di curiosità. Innanzi tutto (e questo ce lo ricordiamo) Caino è il primogenito, generato insieme alla sorella gemella Calmana (o Aclima), quando Adamo ed Eva erano ancora nel Paradiso Terrestre. Un motivo per cui esegesi ebraiche dicono che avesse in lui anche del sangue del serpente tentatore. Una volta scacciati, dopo varie peripezie (che il Cantastorie Andrea ci narra con il suo gusto ironico) nasce anche Abele, generato insieme alla sorella gemella Debora. Al fine di popolare la terra, esortati dall’andate e moltiplicatevi, vengono allora celebrate le nozze incrociate tra Abele e Calmana da una parte e Caino e Debora dall’altra. Anche i compiti si dividono, ad Abele le greggi e a Caino le messi. Da qui si dipartono molti sentieri interpretativi, che alla radice hanno comunque un rifiuto dei doni e delle richieste di Caino da parte del Signore ed un’accettazione invece dei doni di Abele. Si narra anche che Caino, essendo il primogenito, voleva lui scegliersi la moglie, optando per Calmana che era sicuramente la più bella (essendoci una mezza dozzina di persone, non esisteva ancora il problema dell’incesto). Fatto sta che Caino e Abele vengono ai ferri corti. Abele è più forte e sta per avere la meglio, ma si ferma. Caino allora prende una pietra e lo uccide, così come aveva visto Abele uccidere gli animali per il macello. Qui c’è tutta una parte molto legata al Corano su come, dove ed in che modo seppellire Abele, ma poco significativa per il contesto generale. Perché a quel punto il Signore chiede ragione del suo gesto a Caino, e non vedendone il pentimento, lo condanna. Come diceva anche Saramago, lo condanna a vita. Cioè a continuare a vivere con la colpa. La cosa strana (per me che non sono un conoscitore a fondo dei testi sacri) è che a quel punto l’errante Caino fa tante cose: costruisce città, laddove prima erano solo nomadi. Da solo agricoltore, si trasforma e trasforma parte nella sua discendenza, in allevatori di bestiame. Inventa strumenti musicali, trova il modo di forgiare il metallo. E tante altre attive, pur complesse. In pratica, tutto il mondo moderno. Così che, con Camilleri, possiamo sottolineare come dal male non sempre scende il male, come dal bene non scende sempre il bene, come anche riporto nella bellissima battuta di Orson Wells. Camilleri, come al suo solito, non giudica, essendo troppo umano per farlo. Presenta, argomenta possibilità. A me, al solito, viene in mente la genesi del Giuda di Oz, che potrebbe aver senso anche qui. Perché se il Signore sa, ed organizza in modo di, ecco che Caino è anche un suo strumento per mostrare. Che c’è sempre il modo di scegliere. Che scegliere male è un peccato e non una condanna. Che senza il male, non ci può essere il bene. Caino fa riflettere. Soprattutto in questi tempi tormentati.
“Questo finché vivrà il mondo sarà l’impegno dell’uomo: fare le giuste scelte.” (59)
“In Italia per trent’anni sotto i Borgia ci furono guerre, terrore, omicidi, carneficine, ma vennero fuori Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera non ci fu che amore fraterno, ma in cinquecento anni di quieto vivere e di pace che cosa ne è venuto fuori? L’orologio a cucù.” (78) [dal film ‘Il terzo uomo’]
Andrea Camilleri “Il re di Girgenti” Sellerio s.p. (prestito di Fako)
[A: 07/01/2018 – I: 09/04/2020 – T: 11/04/2020] - & e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 448; anno 2001]
E con questo, abbiamo esaurito tutti i libri di Camilleri che sono entrati nella mia biblioteca, tra acquistati, prestati e regalati. Ora aspettiamo solo che Sellerio, prima o poi, decida di far uscire il famoso “Montalbano postumo”. Qui, siamo di nuovo nel filone “storico” di Camilleri, quello che, attraverso vicende di varia estrazione, ripercorre le vicende legate a Vigata, intesa come luogo fantastico che poi ci porterà sino a Salvo sia come luogo territoriale più o meno imprecisato, ma collocabile tra Agrigento e Porto Empedocle da un lato e Scicli e Ragusa dall’altro. Purtroppo, spesso queste storie sono abbastanza intricate, ed anche quando, come in questo caso, hanno degli agganci “reali” non sempre riescono a prendere. Non sono come le prime, fulminanti, come l’inarrivabile “Birraio di Preston”. In questo romanzo, Camilleri parte sì da un piccolo nocciolo storico, ma lo utilizza con una duplice funzione: espletare il suo pensiero in difesa dei deboli e dei diseredati e tratteggiare, in maniera magari non convenzionale, elementi storici concreti. Il nocciolo, come confessa in finale, deriva da alcune note lette in una “Storia di Agrigento”, dove si parla del piccolo regno di poche giornate che nel 1718 coinvolse la città di Girgenti, portando in quei pochi giorni sul trono un tal “Zosimo”. Quelli erano giorni particolari per la Sicilia, in quanto si stava consumando l’ardua lotta tra i Sabaudi, con a capo il re Vittorio Amedeo II, e gli spagnoli che avevano ceduto l’isola ai piemontesi nel 1713, comandati da Filippo V. Una lotta con qualche scaramuccia, “feritine e ammazzatine”, e che si concluse due anni dopo, in maniera diversa dall’aspettato, in quanto i Savoia decidono di scambiare la Sicilia con la Sardegna, dando l’isola agli Asburgo di Carlo VI. Da questa piccola nota, Camilleri con la sua indubbia capacità narrativa, che anche qui non viene meno, imbastisce la lunga parabola di codesto “Zosimo”, che lui fa diventare Michele Zosimo figlio di Gisué e Filonia. Retrocedendo quindi al concepimento di Michele, nella prima parte del romanzo, che è senza dubbio la più gradevole e meglio riuscita. Vediamo Gisué salvare un nobile da morte certa, ma poi, convinto da questo, ad aiutarlo al suicidio visto che il nobile stesso ormai aveva perduto tutti i suoi averi al gioco. Vediamo lo spagnolo che, barando, lo aveva derubato, ma che, afflitto da “impotentia generandi”, baratta la vita di Gisué con una sua prestazione sessuale che ingravida la moglie. E dopo nove mesi, nascono i due fratellastri. Noi ci si aspettava un loro incontro – scontro nel futuro, cosa che l’autore accenna, ma di passaggio, lasciandoci la bocca un po’ amara di questo episodio mancato. Perché invece, da quel punto in poi, seguiamo un doppio binario: la vita della famiglia Zosimo e quella delle terre di Sicilia. Mentre tuttavia la prima ha qualche momento di interesse, la seconda è una inutile sbrodolatura di fatti che poco coinvolgono. Vediamo nascere alcuni fratelli a Michele, senza poco sugo. Vediamo Michele, unico della famiglia, studiare, imparare a leggere e far di conto, con una viva intelligenza che lo porta anche a sapere di latino e di leggi. Vediamo Michele sposare la dolce Cicinna, e con lei mettere su famiglia, nascere e morire figli. Vediamo la triste morte di Cicinna. Vediamo come Michele diventi punto di riferimento della vita del territorio. Vediamo anche l’inizio dell’intreccio con la storia alta. Le lotte dei poveri, i soprusi dei latifondisti, le diatribe infinite tra Chiesa e Stato. Anche se poi la Chiesa di Roma si vede solo sullo sfondo, e mai si intravede la figura dell’urbinate papa Albani, eletto al soglio pontificio con il nome di Clemente XI. Tra l’altro, anche se sarebbe necessaria una diversa sede, il pontificato di Clemente XI fu discretamente interessante e pieno di avvenimenti religiosi e civili. Come dicevo tutta questa parte, seppur potrebbe essere di interesse per uno storico più ferrata di me, nell’economia del piacere del testo e di quanto ci comunica, rimane molto fredda. Fatto sta che, alla fine, Michele Zosimo decide di mettersi a capo delle lotte contadine (almeno nell’immaginario di Camilleri) e per tre giorni governerà con mano ferma il regno di Girgenti, cercando anche di intavolare un “compromesso storico” con i latifondisti. Ovviamente tutto questo non avrà buon fine. Michele ed i suoi sodali saranno sconfitti senza possibilità di scampo. Con un bel finale, tuttavia, legato ai ricordi infantili di Michele verso il suo primo aquilone che voleva libero nei cieli. Così come liberi sognava di far diventare i suoi concittadini poveri e senza terra. Camilleri ci dice che era un’illusione. E forse che l’illusione dura ancora. E per molto. Interpreti più ferrati di me, legavano anche il testo a “Croniche” medioevali, ed altre cantate popolari che nella sua grande cultura Camilleri conosceva e ci riproponeva, senza farci lo sforzo di studiare. Un lavoro che nel corso degli anni si è andato sempre più raffinando, fino a quel testo su Tiresia che ho tramato poco sopra, e che rimane un punto finale insuperato nella sua produzione. Addio, grande maestro. Aspetto con ansia le tue ultime parole.
“A cangiari una poisia è facili … lu difficile è cangiari lu munnu.” (327) [una verità scritta venti anni fa e sempre viva, ora più che mai in questi tempi virali]
Anche l’allegato di oggi è in tema con il nostro momento, visto che parliamo di solitudine.
Come detto all’inizio, una Pasqua diversa nel modo, ma non, per me, nello spirito. Certo, stiamo a casa, certo non facciamo l’usale gita di Pasquetta, che quest’anno volevamo andare al mare. Ma sono sereno, perché noi, anche rinchiusi, siamo sempre noi. Ed io vi penso, leggo anche per voi.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
APRILE 2020
Siamo in casa, abbiamo nulli contatti fisici. Ma non siamo soli, ed allora possiamo parlarne.
Solitudine
Philip Pullman               “La bussola d’oro”
Robert Graves               “Io, Claudio”
Armistead Maupin        “I racconti di San Francisco”
Non potete sentirvi soli con una stanza piena di romanzi – e nemmeno con l’unico che portereste su un’isola deserta: abbiamo tutti i nostri amici letterari preferiti. Ma è inevitabile che arrivino tempi di siccità letteraria. Può capitare che non si abbiano affatto romanzi a portata di mano, e per quei momenti dovete essere certi di avere popolato in via preventiva il vostro cervello con una folla di personaggi, idee e dialoghi interessanti, raccolti nella vostra esperienza di lettori, come garanzia che potrete sempre fare affidamento sulla vostra memoria e sul vostro mondo interiore per tenervi compagnia.
Uno dei migliori di questi vaccini contro la solitudine è “La bussola d’oro” di Philip Pullman, insieme agli altri due romanzi che compongono la trilogia “Queste oscure materie”. Perché nel mondo immaginario che più assomiglia al nostro – Pullman ha creato molti altri mondi all’interno dei suoi libri – i personaggi umani hanno tutti un daimon, ovvero un animale che sta sulle loro spalle e li accompagna per tutta la vita. I daimon non sono solo dei compagni, però, ma anche rappresentazioni dello spirito di una persona. Se un daimon si allontana troppo dal proprio umano entrambi si sentono fisicamente compromessi, e se il daimon si fa male, anche l’uomo sente dolore. Un po’ migliore amico, un po’ partner, un po’ manifestazione fisica della propria anima, un uomo con un daimon non è mai solo.
Il terrore, in questo avvincente romanzo, arriva quando l’“Autorità” – l’organizzazione religiosa che governa sul paese, come ai tempi di Cromwell – decide di separare i bambini dal loro daimon, ufficialmente per il bene della loro anima. Lyra, una grintosa preadolescente, soffre moltissimo quando arriva molto vicina a perdere il suo daimon Pantalaimon, che si mostra per lo più sotto forma di martora (il daimon non acquista una forma definitiva fino all’adolescenza del compagno). Mentre verrete coinvolti dal tentativo di Lyra di prevenire questa atrocità e salvare Roger e gli altri bambini dagli “Ingoiatori” tra i ghiacci del Nord del paese, vi convincerete dell’assoluta necessità dei daimon - e sicuramente saprete quale forma potrebbe avere il vostro.
È difficile pensare che Robert Graves si sia mai sentito solo, per quanto sono affollate di personaggi intriganti le sue lunghe e popolose storie. Dallo splendido angolo di Maiorca dove abitava, Graves scrisse i suoi due romanzi più riusciti, “Io, Claudio” e “Il divo Claudio”, per finanziare il suo stile di vita esuberante – non visse solo con una garrula moltitudine di personaggi nella testa, ma ospitò anche parecchia gente in casa. Scrittori alla moda, artisti e stelle del cinema accorrevano alle sue feste e prendevano parte alle rappresentazioni teatrali da lui organizzate. Utilizzate i suoi scritti per far continuare la festa nella vostra testa.
“Io, Claudio” è l’autobiografia immaginaria di un nobile che inizia la propria vita come uno sciocco balbuziente, deriso e ignorato dalla sua odiosa famiglia, per poi arrivare assai più in alto di tutti loro. I sicofanti e i personaggi infidi che lo circondano sono una compagnia assai variegata e divertente: tra di loro, il saggio Augusto e la moglie Livia, sua complice, il sadico Tiberio e il decisamente folle Caligola.  Con la famiglia sempre divisa da lotte intestine, e tutti che cercano di continuo di avvelenarsi a vicenda, Claudio è sempre in mezzo a una folla di gente. Tutto questo dà il senso, vivace e affascinante, di come doveva essere la vita nell’Impero Romano del primo secolo. Una volta messo giù il volume, potreste addirittura scoprirvi contenti della vostra solitudine.
A volte, quando siamo soli – capita perché non abbiamo abbastanza energia per nuovi amici -, sono i vecchi amici, quelli più intimi, che vorremmo accanto. In questo caso, vi raccomandiamo di includere di nuovo nella vostra vita gli abitanti del 28 di Barbary Lane, i personaggi della sinfonia per San Francisco di Armistead Maupin (se non li conoscete già, non ci vorranno più di un paio di pagine per sentirsi parte della banda). Creati tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, Mary Ann Singleton, Mona Ramsey, Michael “Mouse” Tolliver, Brian Hawkins e la loro padrona di casa che coltiva marijuana, la signora Madrigal, sono ancora sorprendentemente freschi. Con la sua forma episodica (è quanto di più simile a guardare la televisione esista in letteratura), questo romanzo e i suoi sette sequel dovrebbero stare in cucina insieme ai libri di ricette. Non mangiate da soli, ma con la spiritosa Mona, che vi farà ridere mentre vi cuoce un uovo all’occhio di bue, Mouse prepara un po’ di rassicurante caffè forte e la signora Madrigal vi toglie la tazza dalle mani e la sostituisce con qualche perla di saggezza e uno spinello. Chi ha bisogno di uscire il venerdì, quando ha in casa i libri di Maupin?

Bugiardino

Conosco sia i libri Pullman (di cui ho letto altro) sia la scrittura di Graves, ma ho letto e commentato solo il divertente libro di Maupin.
Armistead Maupin “I racconti di San Francisco” BUR euro 10 (in realtà, scontato a 8,10 euro)
[tramato il 7 settembre 2014]
Un libro allegro, scanzonato, fuori le righe, certo, sicuramente datato (ha quasi quarant’anni!). Anche, se vogliamo, pieno di luoghi comuni (San Francisco città della gioia, dove tutto è permesso e tutto è possibile, ma anche città della tristezza dove non si realizza nulla e si va alla deriva). Sarà, comunque Maupin proprio quaranta anni fa, nel 1974, inizia a scrivere prima su un giornale locale, poi sul più diffuso “San Francisco Chronicle”, dei piccoli pezzi sulla città. E non a caso questi si chiamavano “Tales of the City” (Racconti della città). In cui si parlava di rapporti, di lavoro, di gay, di spinelli, di licenziamenti, di appartamenti, di strade. Quasi come tanti anni dopo, anche se con meno allegria, farà McCall Smith con Edimburgo e il 44 di Scotland Street. Dopo due anni di raccontini, l’editore gli chiede di omogeneizzarli nello stile, e di dar loro una veste “libresca”. Esce così il libro che ho appena finito di leggere. Che per molti versi è irraccontabile. Proprio perché è un continuo “episodizzare”, anche se, volendo tirare un filo, possiamo seguire Mary Ann Singleton (cognome tutto un programma, che, in effetti, è forse la sola che non riuscirà a concludere nessuna storia) che decide di lasciare la triste e natia Cleveland per cercare fortuna nella grande città. Trova un posto da dormire al 28 di Barbary Lane, dalla simpatica Anna Madrigal, che nel retro della casa ha una piccola coltivazione di “maria”, ed accoglie gli ospiti offrendo loro uno spinello augurale. Trova anche lavoro presso il boss Halcyon, che è il contraltare come atmosfera di Barbary Lane: posto di lavoro duro, dove si licenzia facile, ma che vive una vita parallela con la casa. E spesso i personaggi si mischiano. Quando si innescano giri alla Schnitzler, con Michael, abitante della casa, gay sfortunato che ha una storia con Jon, il quale lo lascia, ed in una sauna è rimorchiato da Beauchamp, il genero di Halcyon, la cui moglie è in cura dal ginecologo Jon (si quello gay). E così sfreccia la vita, dove appunto, sono più i personaggi che fanno la storia che la storia in sé. Oltre alla sunnominata Mary Ann, ne abbiamo tanti. Anna Madrigal, come detto la proprietaria della casa, che cerca un rapporto materno con ciascuno dei suoi inquilini, solo un po’ più aggressivo con Mona Ramsey; spinge sempre Mary Ann verso qualche “avventura”, ma più che altro, intreccia una tenera storia d’amore con il morente Edgar Halcyon (sempre nell’intreccio tra i due filoni). Mona Ramsey il contraltare di Mary Ann, bohemien, e malinconica, si ritrova disoccupata, licenziata da Beauchamp dopo una giornata tremenda in ufficio, convince il suo amico gay Michael a restare con lei, fino a che non decide di riallacciare un rapporto con la sua vecchia fiamma D'orothea Wilson, una strana modella di colore. Michael 'Mouse' Tolliver, il migliore amico di Mona ed il confidente di Mary Ann; Mouse è fiducioso che alla fine tutto andrà bene, anche se passa di storia in storia, e tutte gli vanno male, anche quella che sembrava promettente con il ginecologo Jon. Brian Hawkins un cameriere per scelta dopo aver abbandonato la professione di avvocato a seguito dei moti del ’68; considerato un donnaiolo, passa quasi tutto il suo tempo alla ricerca di discoteche e taverne dove rimorchiare. Norman Neal Williams vive nel sottotetto della casa, ed è schizzato da tutti, solo Mary Ann prova ad avere una relazione con lui, che finirà male quando si scopriranno segreti che non vi narro (volete leggerlo o no questo libro?). Jon Fielding, il ginecologo, si fidanza con Mouse per un breve periodo, ma lui è della cerchia dei gay di alta levatura, gli omosessuali snob che fanno una casta a sé stante, oltre però ad essere il centro di quel girotondo che ho accennato sopra. Beauchamp Day è il marito narcisista e donnaiolo di DeDe, che trova modo di avere relazioni extraconiugali sia con Mary Ann (che è segretaria di Edgar, ma con cui esce una volta sola) e con Jon. DeDe Halcyon è una delle infelici donzelle d’alto bordo della parte “ricca” di SiFi (come viene chiamata San Francisco per contrapposizione con LA – Los Angeles), per noia ha una relazione con un fattorino cinese, che la mette incinta, poi va in una clinica sofisticata per dimagrire, dovendo al ritorno, magra ed agguerrita, combattere con la gravidanza e le scappatelle del marito. Infine, Edgar Halcyon, capo della ditta dove transitano molti dei nostri, allontanatosi da Frannie, la moglie alcolista, che si accompagna con Anna durante la fatale malattia. Il tutto per restituirci il senso della vita nella città, al tempo in cui tutto sembrava possibile. E Maupin lo fa con una scrittura fresca, che attraversa con ironia anche i momenti cupi, e rende plausibile ogni eccesso (ma poi scopriamo che si fanno veramente le gare di ballo in mutande per soli gay…). Chiudendo, come fa l’autore nella bella postfazione che percorre anche i fatti ed i libri successivi a questo primo, con la “gioiosa accettazione della differenza che è il bello della vita a Barbary Lane”.

Conclusioni

Con un libro, non si è mai soli. Ma soprattutto, stare soli è di una abissale diversità rispetto a soffrire di solitudine. Questa è un sentirsi (o essere) abbandonati. Quella è una scelta di vivere momenti privati, per poi, e sempre condividerli. Per ora, da lontano. Presto, invece…