domenica 11 settembre 2022

Quando il giallo scolora - 11 settembre 2022

Dopo una settimana al top, ecco una settimana in fondo alla scala, quasi in fondissimo. Con ben tre romanzi, gialli o thriller o polizieschi, che si attestano intorno ad un librino di gradimento, quasi il minimo per non essere citati neanche tra i libri brutti. Due vengono dalla collana thriller del Corriere, e sappiamo non essere una collana riuscitissima. Ed uno dai consigli di Robinson, non sempre indovinati. Si sale un po’ con una spy d’annata, quel Bourne portato agli onori del teleschermo da Matt Damon. E ci si attesta su due libri per l’ultima, non solo in senso temporale, fatica di Qiu Xiaolong.

Thomas Tryon “L’altro” Fazi euro 16,50 (consigliato da Robinson)

[A: 10/03/2021 – I: 21/10/2021 – T: 23/10/2021] & e ½

[titolo: The Other; lingua: inglese; pagine: 349; anno: 1971]

Non è che sia un libro particolarmente brutto, ma sicuramente datato, attualmente sopravalutato. Nella mia esperienza di lettore, infatti, ho visto libri che, nel contesto dell’epoca della loro scrittura, hanno un senso ed un valore. Che poi magari perdono nel corso del tempo. Mentre i libri che io chiamo “solidi” mantengono il loro fascino attraverso gli anni.

Intanto, parliamo dell’autore. Che nasce in realtà come attore, ruolo che svolge per una ventina di anni, con non tantissime fortune. Laddove i suoi maggiori risultati furono in una serie western della Disney, non approdata in Italia, e nel ruolo di protagonista nel film “Il cardinale” di Otto Preminger. Proprio lì comincia la sua crisi. Il regista, insoddisfatto, lo licenzia. Poi, pressato dalla produzione, lo riprende. Ma l’umiliazione lascia il segno, e pian pianino, abbandona il regno di celluloide, per dedicarsi a quello della carta stampata.

In quegli anni si appassiona alle tematiche horror anche a fronte del suo grande amore per il film di Polanski “Rosmary’s Baby”. Inoltre, svela finalmente la sua vita sessuale, confessando di essere gay. Un rapporto profondo ma tormentato con il pornodivo Casey Donovan gli farà contrarre l’AIDS, di cui morirà sessantacinquenne.

Ma veniamo al libro. Che cerca, appunto, di proporci atmosfere cupe, momenti che forse, scritti da Stephen King, avrebbero raggiunto maggiori intensità. Qui si fanno lettura, ma non passione. Qui si seguono, ma, come direbbe Holiday Hall nel suo unico libro, “La fine è nota”.

Intanto, si parla di gemelli, e quando si parla di gemelli già sappiamo che c’è qualche gioco di “nascondino”, di mescolamento delle situazioni. Unico elemento gradevole e gradito, è il fatto che i due, come Gastone e Giuliano, sono “gemelli diversi”. Cioè sono nati a cavallo della mezzanotte, così che festeggiano il compleanno in due giorni diversi. Non solo, essendo il giorno a cavallo del 20 marzo, Holland è del segno dei Pesci, come loro sfuggente, e Niels del segno dell’Ariete, che carica a testa bassa e cozza contro ogni ostacolo (citazione parafrasata di pagina 75).

Il gioco è fin dall’inizio abbastanza scoperto: c’è un gemello cattivo ed uno buono, o almeno così ce li presenta Tryon. Ma soprattutto c’è la casa Perry, così il nome dei gemelli, funestata da una serie di incidenti, apparentemente casuali, ma forse causali.

Si inizia prima dell’inizio del libro, con la morte del padre dei gemelli, cui casca intesta una botola, che lo fa precipitare dalle scale. Poi c’è la morte del gatto di casa, impiccato nel pozzo da Holland, che nel farlo precipita anche lui, con ferite anche serie.

Ora entriamo nella scena, dove vediamo (e sentiamo) sempre Niels agire sul proscenio, mentre Holland lavora nell’ombra. Niels che ha una scatola con strani reperti, tra cui un dito umano. Niels che indossa l’anello di famiglia (il “Falcon Perry”, dove è inciso appunto il falco pellegrino, ed è di proprietà del primo maschio Perry). Vediamo il cugino Russell che vuole sbugiardare una menzogna di Niels, precipitare in un covone di fieno e rimane infilzato in un forcone. Vediamo la vicina dei Perry, che aveva fatto malevoli insinuazioni, morire di infarto a seguito di un gioco organizzato da un gemello.

Sui misteri della casa aleggia l’ombra di nonna Ada, immigrata russa, con poteri divinatori, poteri che sembra aver trasmesso ai gemelli. Tanto che Niels, a volte, si immedesima in cose altre, un fiore, una nuvola, immaginiamo anche una persona.

L’apice si ha alla nascita della nipote Eugenia, figlia di Torrie, la sorellastra dei gemelli. Siamo nel 1936, e sull’onda del processo per il rapimento Lindbergh, anche Eugenia viene rapita, e trovata morta in una botte di vino.

Finalmente Ada capisce la verità, fa confessare a Niels che Holland non fu ferito nella caduta, ma ne morì. E citando la Brunilde wagneriana cerca di purificare con il fuoco tutta la vicenda. Ma solo lei muore.

Che noi sappiamo, sin dalle prime righe, che un gemello da anni vive in una casa di cura. Quello che non sappiamo, quello che avvolge di un piccolo thriller la poco thrilleriana vicenda è chi sia il gemello: Niels o Holland?

La scrittura tenta di svariare su molti fronti, tenta di portarci elementi cupi, descrive circhi che vanno su e giù per gli States, descrive un treno che porta a Babylon (elemento immaginifico di una città favolosa) ma che forse porta solo all’ospedale psichiatrico. Certo, per un libro di cinquanta anni fa, poteva avere ed essere d’impatto. Letto ora, spinti dalle recensioni di “Robinson”, non fa lo stesso effetto, lasciandomi moderatamente deluso.

Qiu Xiaolong “Processo a Shanghai” Feltrinelli Marsilio s.p. (Regalo di Mario&Ines) 

[A: 25/01/2022 – I: 09/03/2022 – T: 10/03/2022] - &&

[tit. or.: Inspector Chen and Judge Dee; ling. or.: inglese; pagine: 269; anno 2020]

Mi sa che, oltre al fatto di essere il dodicesimo ed ultimo uscito volume delle serie dell’ispettore Chen, sarà forse (e non ci mancherà di certo) anche l’ultimo ad uscire, dove credo che ormai la serie abbia dato tutto il possibile.

Abbiamo seguito nelle undici puntate precedenti tutta la parabola di Chen Cao. Poliziotto, investigatore, poeta e letterato, risolve i primi gialli, cominciando da subito ad entrare in conflitto con il potere cinese, come d’altra parte ci aspettiamo tranquillamente, visto che Qiu è da anni riparato in America, e non è certo tenero con la patria lontana. Utilizza la scrittura per porre critiche, anche sensate, all’oligarchia in patria, deliziandoci anche con delle belle poesie, seppur per me non sempre di facile comprensione.

Chen all’inizio è protetto dalla fidanzata, ma poi si lasciano. Poi da alcuni “ricconi” tornati in patria e beneficianti di alcune sue ben congeniate indagini. Ma più si va avanti, meno protezioni riceve, ed anche se non è facile emarginarlo, dopo l’ultima indagine sui “prìncipi” del potere, viene promosso da ispettore a direttore dell’Ufficio per la riforma del sistema giudiziario. Promoveatur ut amoveatur, ovvio.

Per far sì che possa avere un senso Qiu si immagina una buona trama, facendo un parallelo, e citando a mani basse, i romanzi del sinologo Robert Van Gulick. Questo diplomatico olandese, profondo conoscitore della lingua e delle tradizioni orientali, prese spunto dalle storie tradizionali di un magistrato cinese vissuto prima del 1000  d.C., Di Renjie, ne romanzò le storie e pubblicò una ventina di romanzi radunati sotto il titolo “I casi del giudice Dee”.

Qui, ci si pone subito un interrogativo: Qiu, infatti, titola il romanzo “L’ispettore Chen ed il giudice Dee”, proprio per sottolineare questo aspetto. In italiano, compare un “processo a Shanghai” che è di nulla pertinente al testo. Quando si riuscirà a rispettare gli autori?

Il parallelo, comunque, che fa Qiu lega l’ultimo libro di Van Gulick “Poeti e assassini” (pubblicato solo nel 2013 in Italia dalla “O barra O” edizioni) alla vicenda che segue, obtorto collo, spinto più dal suo antico sodale, il Vecchio Cacciatore, padre di Yu, il collega di Chen che lo ha sostituito nel Dipartimento di Polizia.

Brevemente il mistero riguarda la morte di una cuoca della cortigiana Min. Questa, come alcune escort altolocate fanno in Cina, organizza banchetti suntuosi e ristretti, dal costo proibitivo. Dato il successo, Min si fa aiutare dall’assistente Qing. Dopo un banchetto, Qing viene trovata uccisa, e Min, ubriaca e sconnessa.

Da qui, il potere cinese tenta di incastrare Min, anche per fermare quel tipo di attività. Mentre Chen viene coinvolto, di lontano, per provarne l’innocenza. Benché, come detto, non sia più un ispettore. Nelle sue ricerche si muove tra vecchi amici e mondi che ben conosce, aiutato, inaspettatamente, dalla sua nuova segretaria Jin, carina, volitiva, intraprendente. Insomma, pronta per finire nel letto di Chen, forse.

Muovendosi ai bordi della burocrazia, interpolando la lettura di Van Gulick alla realtà, alla fine, non potrà che risolvere brillantemente il caso. Ovviamente, continuando ad inimicarsi il potere, per cui, dopo il romanzo, Chen (mie ipotesi) avrà davanti due alternative: ritirarsi in buon ordine o emigrare. Per questo, ipotizzo sia la sua ultima avventura. Anche perché, da mie ricerche, il nuovo libro di Qiu narra un’avventura del giudice Dee. Sarà un caso?

Comunque, la scrittura di Qiu è sempre abbastanza gradevole (e ben tradotta), anche se i “cinesismi” che Qiu utilizza nella versione inglese, a volte, nella traduzione italiana risultano fuori posto, come se si leggesse un testo di narrativa ottocentesco. Inoltre, seppur sempre presente, la parte poetica, che sicuramente ha un senso per l’autore, profondo conoscitore sia della poesia cinese che di quella occidentale, a me lasciano un senso di incomprensibilità totale. Come la poesia che riporto in fondo.

È stato bello viaggiare con te, ispettore Chen, ma è giunto il tempo dei saluti.

“A Zi’an guardando l’altra riva del fiume, addolorata

Mille foglie d’acero / E poi ancora mille / Si stagliano contro il ponte, / poche vele rientrano attardate, nel crepuscolo.

Quanto mi manchi? / I miei pensieri scorrono / Come l’acqua del fiume Occidentale, / che fluisce verso est, incessante, / giorno e notte.” (265)

Robert Ludlum “Ascendente Bourne” Repubblica Spy 7 euro 7,90

[A: 24/02/2019 – I: 04/07/2022 – T: 06/07/2022] - && ---

[tit. or.: The Bourne Ascendancy; ling. or.: inglese; pagine: 461; anno 2015]

Robert Ludlum negli anni ’80 del secolo scorso comincia una serie di libri d’azione, poi definiti meglio come “spy stories” incentrati su di un personaggio che si presenta amnesico (come il sergente Monk di Anne Perry) e poi, riacquistando in parte o totalmente la memoria, diventa una spia al servizio di quasi tutti. Non entro in questa descrizione che non fa parte di questo contesto.

Comunque, Ludlum muore d’infarto nel 2001, mentre Matt Damon stava girando come Jason Bourne il primo film tratto dalla scrittura seriale della spia. Visto poi il successo del film, oltre a metterne in cantiere altri, la “Ludlum Company” comincia a cercare un “ghost writer” per continuare le gesta di Jason. Scrittore che viene trovato in Eric Van Lustbader, il cui nome comparirà in piccolo nelle copertine dei libri della serie “Bourne” dal 2004 al 2017.

La serie continua ancora, con altro autore, ma non credo che andrò oltre questo libro, letto per interesse di collana.

Intanto cerchiamo di capire il titolo, che in italiano rimane un po’ anodino. L’ascendente Bourne sembra in italiano qualcosa legato al panorama dei rapporti del protagonista, quasi fosse una stella ed avesse influssi come in una costellazione zodiacale. In inglese il termine “ascendancy” ha un significato più stringente, legato in particolare al potere di controllo che si può esercitare su altri, o alla conquista di qualcosa. Una frase tipica presa dal calcio è ad esempio “Manchester gained the ascendancy after half-time” cioè “Manchester prese il sopravvento nel secondo tempo”.

Ma veniamo al testo. Un tipico esempio di storia di spionaggio di forte impronta americana, che riprende le gesta di Jason Bourne, senza però entrare troppo nel suo passato (cioè nei precedenti undici libri). Sappiamo tuttavia (magari avendo visto i film) che Jason è un agente “solitario”, una volta legato ai meccanismi spionistici americani, poi, per motivi che qui non sono chiari, allontanandosene e diventando una sorta di battitore libero.

Nel contorno dei personaggi che vengono dal passato, qui abbiamo una donna che potrebbe aver avuto una storia con lui, tal Soraya, ma che ora è sposata con un diplomatico francese ed ha una figlia di due anni, Sonya. Sodale a Jason, c’è poi Sara/Rebecka, astuta agente del Mossad, che invece è la storia attuale di Jason, anche se si paleserà apertamente solo a pagina 459. Quello che c’era prima, non è dato sapere.

La storia complicata ruota intorno ad un complotto ordito, forse, da qualche terrorista islamico, o di matrice islamica, guidata da tal El Ghadan (in arabo “Il Domani”). Un gruppo che coinvolge arabi di diversa fattura, ma anche ceceni, nonché un trafficante internazionale, Josip Broz, uno che agisce per i soldi e non per l’ideologia.

El Ghadan ha imbastito un complottone, per arrivare ad uccidere il presidente americano. Luogo finale sarà Singapore, dove si dovrebbe tenere un summit di pace tra israeliani e palestinesi sotto l’egida degli Stati Uniti. L’idea del turpe è di coinvolgere Bourne nella trama, facendo in modo che sia lui ad uccidere il Presidente. Per far ciò rapisce Soraya e famiglia, uccide il marito ed usa la signora e la figlia per far pressione sul nostro.

Jason non può tirarsi indietro, e si imbarca in complicate vicende tra il Qatar, il Waziristan (regione pakistana) e Singapore. Ovviamente coinvolge Sara, che si inventa una sottotrama per agganciare El Ghadan. Dall’altro lato, i Servizi Segreti americani (o meglio quelli deviati dice l’autore) sanno quasi tutto e tentano un aggancio alla trama, inviando il capo dei Servizi, la bella Camilla, a Singapore con lo scopo di uccidere Bourne. Ma anche con il sottoscopo di uccidere Camilla, che stava vivendo una sorta di amore trasgressivo con il Presidente.

L’asso nella manica di Bourne sarà invece trovare, durante i vari attentati, il figlio di El Ghadan, Asir, che si era allontanato dal padre, in quanto omosessuale e ovviamente poco amato dai fondamentalisti arabi modello talebani.

L’autore fa tutto un papocchio per arrivare al finale che ovviamente sarà in gloria ed amor dei, ma che non vi svelo sia perché arzigogolato nello svolgimento, sia perché a volte tendo a spoilerare troppo. L’unico commento è che la fotografia del tutto che esce fuori è molto filoisraeliana, più che filoamericana, anche se qua e là compaiono “arabi buoni”. Ma è una trama di matrice molto conservativa.

Un appunto finale all’editing del libro, che non ha curato la correzione di palesi errori. Ne cito solo un paio, a pagina 208, dove sta agendo Sara, che la riga seguente viene chiamata Camilla. E poche pagine dopo, compare un “penando” laddove ci doveva essere un “pensando” in una frase che sul libro risulta “Stava penando a Nighthawks, il famoso dipinto di Edward Hopper”. Incuria massima.

S. K. Tremayne “La gemella silenziosa” Corriere Thriller 7 euro 7,90

[A: 01/10/2018 – I: 06/07/2022 – T: 08/07/2022] - & --

[tit. or.: The Iced Twins; ling. or.: inglese; pagine: 302; anno 2015]

Come si intuisce dalla costruzione del nome, questo “S.K. Tremayne” non può che essere uno pseudonimo. Come infatti è, laddove lì si nasconde tal Sean Thomas, prima giornalista e poi scrittore, ma in particolare figlio di D. M. Thomas, autore di un unico importante romanzo, che ho letto e che non mi è mai piaciuto. Parlo de “L’albergo bianco” del 1981, uno dei primi esempi di quel “realismo magico europeo” con cui non sono mai andato d’accordo.

Non ho altre particolari notizie sull’autore, ma basandomi su questo libro non è che mi abbia convinto granché. Tuttavia, cominciamo al solito con le note non positive relative al titolo ed alla sua traduzione, che sapete essere un mio pallino ormai storico. Il titolo originale parla di gemelle di ghiaccio (Iced Twins) soprannome dato alle due gemelle Kirstie e Lydia dal nonno materno. In italiano si sposta l’accento su una delle due, ribattezzandola “silenziosa” forse in contrasto con l’altra “chiacchierosa”. O, peggio ancora, già buttando il lettore nel caos della gemellitudine, e del fatto che un anno circa prima dell’inizio del racconto una gemella muore in maniera tragica. Ed essendo morta, non può che essere silenziosa (a meno che non parlino i morti, cosa che non crediamo né ci sembra credibile far credere).

Il tentativo dell’autore, invece, era quello di mescolare molto le carte istillando dubbi su tutto quanto avviene durante il periodo, breve, di svolgimento del nucleo della trama. Sarah e Angus erano una coppia apparentemente normale, con due gemelle sui sei anni. In apparenza che entrambi non avevano probabilmente superato il trauma della gestione dei figli. L’una e l’altro in sofferenza ed in progressivo distacco dal lavoro. Tutto precipita con la morte di una delle due gemelle, che precipita dal balcone della casa dei nonni.

Angus si dà all’alcol e viene licenziato. Sarah ha un blocco mentale sugli avvenimenti funebri e riversa il suo affetto sulla gemella vivente. Qui c’è il solo “colpo di genio” dell’autore. Kirstie sostiene di essere Lydia, la morta, e che i genitori si sono sbagliati. Ovvio che anche la piccola ha i suoi traumi, e cerca di esorcizzarli in qualche modo. Ma la sua affermazione fa cadere nel panico Sarah. Anche perché, pur avendo studi recenti mostrato la possibilità attraverso particolari analisi di dirimere l’identità di gemelli monozigoti, l’autore sembra ignorarlo e per complicare il tutto ci dice che Lydia è stata cremata. Quindi chi è viva e chi è morta? Ma soprattutto quanto tutto ciò è veramente importante?

Ora, io non ho un’esperienza gigante in materia, pur avendo conoscenze gemellari. Sia le mie carissime cugine, sia le mie amiche dell’università, sia, pur se molto recenti, i miei ultimi nipoti. In tutti i casi, ho sempre avuto chiaro la differenza tra i due, o le due. Immagino che un genitore che per cinque-sei anni vive a contatto diretto con dei gemelli non abbia, o non debba avere, di questi “tormenti”.

Thomas confonde ancor di più le acque con un lascito di una nonna di Angus nella lontana Scozia, una casa in cui i nostri tre si trasferiscono (essendo ormai in grosse difficoltà economiche). Ovvio che persone diversamente disturbate, poste in un ambiente dalla natura ostile, tendano ad accentuare le loro paranoie. Così vediamo progressivamente la famiglia Moorcroft incartarsi in paure ed atteggiamenti ai limiti della paranoia.

Vogliamo complicare ancor più le cose? Come spesso accade, Sarah e Angus avevano sviluppato un affetto differenziato verso le gemelle, lei propendendo per la studiosa Lydia, lui per la turbolente Kirstie. Sarà Angus che avendo non provati atteggiamenti pedofili provoca la morte di Lydia? Sarà Kirstie, gelosa della gemella, che ne provoca la morte per riconquistare l’affetto materno? Sarà Sarah che allontanandosi da Lydia ne provoca risentimento e tentativo mal riuscito di imitare la sorella?

L’autore tenta di coinvolgerci in tutte queste domande, usando spesso la soggettiva di Sarah, ma passando anche ad una terza persona che, nelle sue ipotesi, servirebbe a creare un distacco di comprensione con il testo. Ma tra brutto tempo scozzese (dove se non piove, tira vento, o viceversa), malumori, incapacità di aprirsi, tradimenti veri o presunti, agnizioni, ed altri tentativi di volgere il dramma in un racconto sulla psicologia dei personaggi, la scrittura scivola via, verso una conclusione che chiarisce tutti i “misteri”, ma che non solleva il romanzo da una difficile digestione letteraria.

Insomma, continua la caduta di tono della collana, con, ad ora, poche possibilità di risollevarsi.

Amy Gentry “La ragazza del passato” Corriere Thriller Psicologici 16 euro 7,90

[A: 19/11/2018 – I: 14/07/2022 – T: 16/07/2022] & e ½ 

[titolo: Good as Gone; lingua: inglese; pagine: 253; anno: 2016]

Continuiamo a non risalire, con autrici poco note (ma questo non sempre è un difetto, anzi), di cui poco si trova in rete, ma con delle trame che sembrano quasi delle piccole “variazioni Goldberg” (e mi scuso dell’aulico paragone). Sarà un caso ma le ultime letture di questa collana parlano praticamente solo di sorelle (normali o gemelle), dove una delle due ha dei problemi (muore, sparisce, o altro). Gentry, texana da anni impegnata come volontaria nell’aiuto ai casi di violenza domestica, introduce alcune tematiche nuove, che avrebbero potuto essere interessanti, ma che, alla fine, sono poco significative.

Come poco significativo è il tentativo di “raddrizzare” un testo utilizzando un “catch title”, un titolo acchiappino diremmo noi, visto che nello stesso anno di questo esce un titolo che ha molto successo (“La ragazza del treno”). Peccato che l’autrice avesse voluto fare un appello al cielo, invocando un clima (che in realtà pervade il testo) “come se non ci fosse Dio”. Titolo senza dubbio più pertinente e coeso con il testo scritto.

Il nucleo della storia, che si svolge ad Austin nel Texas, dai primi di maggio a giugno inoltrato, ruota intorno al personaggio di Julie Whitaker. Una ragazza misteriosamente scomparsa otto anni prima dell’inizio del libro, mentre i genitori dormivano e la sorella Jane guardava nascosta in un armadio. Ed il libro inizia con il ritorno a casa di una ragazza. Julie o non Julie?

A domandarselo fin dall’inizio è la madre Anna, docente universitaria d’inglese, che, pur contenta del ritorno a casa di Julie, si interroga sui suoi comportamenti forse non in linea con quello che lei ricordava della Julie tredicenne. Ora, in otto anni adolescenziali, si cambia in maniera spaventosa, anche senza sparire di casa; quindi, noi lettori non ci si meraviglia più di tanto che la “nuova” Julie sia diversa.

Non se lo chiede invece il padre Tom, anche per una serie di motivi non inerenti al corpo del racconto, e che neanche vi accenno. Non se lo chiede la sorella Jane, sia perché non si è ancora rimessa dal trauma subito otto anni prima, che l’ha fatta diventare una ragazza scontrosa e ribelle, sia perché, non si sa bene per quale motivo, è intimamente convinta che la neoarrivata sia Julie.

Facendo una parentesi, senza tanti fronzoli, noi lettori di gialli da anni, avremmo fatto subito un’analisi del DNA, e via con i dubbi fugati. Ma questo avrebbe ristretto molto l’ambito del racconto. Invece, bisogna scrivere, coinvolgere il lettore ed allargare il tiro.

Così Amy si inventa la solita scrittura a due vie. Da un lato i capitoli in soggettiva di Anna, con le sue azioni, i suoi dubbi, e tutto il resto. Dall’altro una serie di capitoli in cui in soggettiva compare la storia di una ragazza, ogni volta con un nome diverso, ed ogni volta più giovane. Il tentativo è di istillare il seguente dubbio: è sempre Julie di cui si racconta la storia, o sono comunque una o più ragazze, magari coinvolte nella stessa tresca, con tutto il corredo di violenze, stupri, morti ed altre nefandezze (facilmente ipotizzabili).

Il tutto poi conduce sempre, Julie e non Julie, Anna e non Anna, ad una strana setta religiosa, presente lì nel Texas, soprannominata “la Porta”, un’enorme costruzione religiosa, dove si celebra il rito “Cerchio della guarigione”, dove il capo setta, l’ex-sacerdote Maxwell, celebra una meditazione di gruppo, tesa a guarire i fedeli dai problemi che provengono dalla vita quotidiana. Facile capire che siano (o siano stati) problemi. Anche se quali non è dato subito saperlo.

Il peccato del libro è soprattutto, a parte le scelte fatte su alcuni passi, che sembrano poco comprensibili a noi smaliziati giallisti, che, dopo una partenza di buon ritmo, l’introduzione di tutti quei giovani personaggi femminili, rallenta il ritmo e toglie suspense ad un possibile giallo basato sulla ricerca della vera identità di Julie.

L’altro punto, che poteva essere forte, ma che poi si annacqua, è l’elaborazione del lutto dovuto alla perdita, alla scomparsa di una persona cara. Scomparse che in America sono molto più frequenti di quanto si pensi, e che portano ad una casistica cruda: il rapitore è spesso una persona nota al rapito, il rapito viene ucciso nei primi tre giorni dal rapimento, la famiglia del rapito si scioglie come neve al sole, non riscattandosi quasi mai dalla perdita e da una elaborazione comune.

Quindi, un romanzo con molte potenzialità, ma che alla fine delude abbastanza,

“Perché hai sempre bisogno di una citazione per capire le cose? Tutto ciò che ho sono le parole degli altri.” (253)

Come avete potuto vedere da queste trame post-islandesi, ancora non ho ripreso il ritmo abituale di scansione tra nuovi arrivi, vecchie proposte ed altri commenti. Dovrete avere ancora un po’ di pazienza, che anche questo settembre è a scartamento ridotto, dovendo, come spero ricorderete, festeggiare il primo anno.

Intanto, non vi faccio mancare una frase che rimane come una bolla sulla memoria. Anche perché viene da uno dei personaggi da me più amati in gioventù. Lo scrittore, jazzista, chansonnier nonché esistenzialista e francese Boris Vian. In un gradito e lontano regalo della mia amica Nico, “La schiuma dei giorni” il nostro chiosava in finale, anche con un po’ ai amarezza: “L’amore … vale la pena di essere vissuto solo perché è amore, sebbene, anch’esso, come tutto, sia perituro.” (263)

Quindi ci deve senz’altro ritrovare intorno alle castagne, sperando che caldo e pioggia non ci rovinino la festa. Ma noi tutti, si sa, siamo sempre ottimisti. Quindi, un abbraccio e una caldarrosta a tutti.

domenica 4 settembre 2022

Pietro e il Super Week - 04 settembre 2022

Una settimana piena di ottime letture: un bellissimo Graham Greene che mi riporta al bellissimo film con Orson Wells, un Lamartine caro al mio vecchio francesismo ed ai regali che adoro, un accogliente Fermine che mi riporta agli albori della mia scrittura. In mezzo, un dimenticabile libro proposto da Robinson ed un libro, bello, interessante, da leggere del mio amico Pietro. A lui ed a tutti i miei nuovi lettori dedico questo fine settimana, dove a quest’ultimi consiglio di leggere le note finali che forse spiegano qualcosa (o forse no).

Graham Greene “Il terzo uomo” Sellerio s.p. (regalo di Raul&Vivi)

[A: 22/11/2021 – I: 16/02/2022 – T: 18/02/2022] - &&&&

[tit. or.: The Third Man; ling. or.: inglese; pagine: 206; anno 1950]

Non scopriamo certo ora Graham Greene, né tanto meno ci può giungere nuovo il film strettamente connesso a questo testo. Quello che però non possiamo non sottolineare è l’eccellente prodotto che abbiamo sottomano. Il cui piacere è aumentato dalla conoscenza cinematografica.

Quindi qui abbiamo alcuni piani diversi su cui ragionare per apprezzare la grandezza dello scrittore: il romanzo in sé, la genesi del testo, l’eventuale confronto con il film (su cui si tornerà a lungo), la scrittura in sé, i personaggi ed il clima dell’opera.

Come apprendiamo dalla postfazione dello stesso Greene, e dai due commenti (quello iniziale, poco incisivo, di Ben Pastor, e quello finale, meglio strutturato, di Domenico Scarpa), l’autore viene incaricato di scrivere una base per una sceneggiatura di un film. Partendo da una sua idea (dieci righe su di un taccuino), calandola nella realtà viennese del dopoguerra, piena di spie e di intrighi, Greene scrive questo testo, che il regista Carol Reed trasformerà nel bellissimo film che conosciamo. Poi, un paio d’anni dopo, modificando solo qualche passo, ma lasciando inalterate le varianti rispetto al film, Greene fa uscire il romanzo.

Che ora possiamo leggere, a distanza di settanta anni, senza più essere influenzati dal film, dagli attori (che ricordo erano Orson Wells, Joseph Cotten e Alida Valli), dal clima. Lo leggiamo per quello che è, un romanzo che ci fa tornare nella Vienna mutilata del dopoguerra, nell’ambiente da guerra fredda che si respirava, e, soprattutto, nell’analisi dei rapporti umani sottesi alla vicenda.

Una vicenda, in sé, abbastanza scarsa e lineare. Rollo Martins, squattrinato autore di romanzi western, si reca a Vienna su invito del suo amico Harry Lime. Ma vi arriva solo per assistere al suo funerale. Ma la morte in seguito ad un incidente d’auto sembra sospetta, tanto che Rollo decide di indagare da solo sulla morte di Harry, scontrandosi con il capo della polizia, il colonnello Calloway. Si mette in contatto con i presunti amici di Harry, l’austriaco Kurtz ed il medico tedesco Winkler. Ma soprattutto con Anna Schmidt, la ragazza di Harry.

Con le sue mosse, i suoi colloqui, individua una falla: sul luogo sembrano presenti tre e non due uomini. Chi è il terzo uomo, quello del titolo? Interroga a lungo Anna, verso cui nasce un suo sentimento. Dopo varie peripezie, che tralasciamo per brevità, incontra Harry, che non è morto. I due hanno un lungo colloquio girando sulla ruota del Prater di Vienna.

Che non convincono Rollo, forte anche delle rivelazioni di Calloway. Per questo organizza una trappola con Calloway, con conseguente fuga ed inseguimento nelle fogne, e con morte finale di Harry (anche qui, se non ricordate, leggete che Greene ci fa arrivare al punto con la sua maestria). Il romanzo, iniziato con il funerale del finto Harry, si chiude con quello del vero Harry. E Rollo ed Anna si allontanano dal cimitero, sottobraccio.

Greene usa al meglio le armi della scrittura: cambi di vista, iati temporali, personaggi che raccontano scene poi riprese in soggettiva. Un maestro della scrittura. Che riesce anche a riportarci, a più di settant’anni dai fatti, sulla scena viennese. Le case diroccate, le forze vittoriose che si spartiscono il controllo della città, il mercato nero (Harry era implicato nel traffico di penicillina contraffatta), il Prater, l’Hotel Sacher e gli altri Caffè Viennesi. Ma anche sui personaggi. Il serio colonnello di Scotland Yard Calloway che cerca di tirare le fila e narra le parti salienti della trama. Il trentaseienne Harry Lime, impiegato nell’Ufficio Rifugiati, medico e iniziatore dei loschi traffici. L’austriaco Kurtz, sodale di Harry, vive nel settore russo, e già questo ci insospettisce. Il dottor Winkler, collezionista di reliquie religiose, e longa manus verso gli ospedali. L’attrice Anna Schmidt, dal volto sincero, e forse ignara dei traffici di Harry. E poi lui, Rollo, l’amico di sempre, con un pessimo rapporto con le donne. Ma che, camminando ignaro per il mondo, smuove mari e monti, e trova il bandolo di una matassa che tutte le Intelligence presenti a Vienna non erano riusciti a trovare.

Una delle scene “inutili” alla trama, ma funzionali al romanzo, è un dibattito che un promotore letterario organizza al British Council di Vienna, avendo scambiato Rollo, che per i suoi western utilizza lo pseudonimo di B. Dexter, con un esimio scrittore di nome Benjamin Dexter. Le discussioni sul romanzo che lì si svolgono danno un tocco di leggerezza che solo Greene riesce ad inserire nei suoi romanzi, anche quelli più pensosi.

Ultimo punto che vorrei toccare è ancora sul rapporto tra film e romanzo. Visto che il personaggio di Rollo, inglese, deve essere impersonato da Joseph Cotten, americano, vengono cambiate sequenze di battute che fanno perdere un po’ il senso dell’ambiente. Anche perché, Greene non vede di buon occhio gli amici di oltreoceano, trattando male anche i Servizi Segreti americani. E poi, Rollo sembra un nome un po’ stupido per gli americani, così che il nome viene cambiato in Holly. Ma noi stiamo parlando del libro, ed il libro è ben fatto, ben costruito e magistralmente trattato dal grande Graham Greene.

“Non ci abituiamo mai al fatto di essere meno importanti per gli altri di quanto loro non lo siano per noi.” (27)

Michele Caccamo “Fili di rame e d’amore. Dal diario inesistente di Anna Coleman Ladd” Elliot s.p. (libro in dono per la partecipazione al “Torneo Letterario Robinson”)

[A: 14/03/2022 – I: 14/03/2022 – T: 15/03/2022] & e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 118; anno: 2021]

Introduzione comune al torneo: era da tempo immemorabile (mi pare più di un anno), che scrissi a Giorgio Dell’Arti per propormi come lettore e giurato in una delle tante edizioni dei tornei da lui organizzati per la testa “Robinson” del gruppo GEDI. Finalmente, sono stato contattato, e questo è uno dei due libri che mi sono stati proposti per lettura e giudizio, chiedendomi di rispondere entro due settimane. Capite bene che, data la mia velocità di lettura (accentuata dal periodo pandemico), ho letto i due libri in due giorni.

Qui, allora, parliamo del libro del poco più che sessantenne poeta ed editore Michele Caccamo. Una vita da sempre dedicata (anche) all’editoria, ed una buona (mi si dice, visto che io poco ne so) produzione poetica. Animo e scrittura poetica che emergono con forza in questo breve scritto, cui l’autore cerca di da dare una duplice valenza. Da un lato, riproporci una figura poco nota della storia mondiale, quella della scultrice Anna Coleman Ladd, che intraprese, negli anni della Prima Guerra mondiale, un’opera meritoria e poco ricordata. In tempi in cui ancora lontana era la chirurgia plastica, Anna, con calchi, fili di rame ed altro materiale, cercava di ricostruire i lineamenti facciali di persone uscite deturpate da scontri a fuoco, ed altre ferite di guerra.

Utilizzando il registro di un diario inesistente (come dice il sottotitolo), Caccamo ci presenta tante microstorie di persone deturpate dalle ferite. Descritte con una crudezza giustamente corrispondente agli orrori di una guerra insensata, allora come ora. Queste mini-storie sono forse la parte migliore del libro, pur se brevi ed in un certo senso, slegate tra loro.

Il secondo lato, quello che dovrebbe dare un senso alla ricostruzione, è invece quello che ne fa precipitare giudizi e gradimenti. Qui, la scrittura si fa molto “svolazzante”, a volte troppo ellittica, richiamo (anche) alle radici poetiche dell’autore. Che ci porta in un futuro di poco posteriore all’oggi, dove la lezione pandemica portata all’eccesso, convince un inusitato governo mondiale, a modificare i tratti somatici di ognuno, quasi a far indossare una mascherina covid, che standardizzi l’espressione di ciascuno, frenandone slanci vitali ed altro.

Per fare ciò, si deve anche riscrivere la storia passata, come vediamo fare ai due protagonisti che, cancellando librerie e biblioteche, ritrovano il famoso diario inventato di Anna. Tuttavia, il modo di scrivere, le idee, il clima di controllo totale, rimandano troppo facilmente a Orwell e Bradbury, senza, ovviamente, raggiungere la loro profondità. Finendo per essere un’operazione molto velleitaria e poco riuscita. Non prende, non coinvolge. Anche il modo di dire, di agire, di parlare dei futuribili controllori delle maschere è quanto mai respingente.

Insomma, se la storia di Anna è interessante, ed encomiabile lo sforzo di farla uscire dall’oblio, il testo complessivo che ne viene fuori non risulta agile, e, soprattutto, non se ne capiscono le motivazioni profonde. Se Caccamo ci vuole dire che, nei guasti attuali, stiamo precipitando in un baratro da “Grande Fratello”, da una parte è ovvio, dall’altra non aggiunge nessuna pietruzza alla comprensione ed alla decodifica del mondo.

Poiché infine, mi si chiedeva un giudizio per il torneo, ve lo riporto, laddove, è vero, dico cose come le sopracitate, ma mi fa piacere condividerlo con voi.

Due evidenti errori che si poteva evitare in stampa. La storia di Jerome finisce a pagina 75, poi il nome ricompare a pagina 79, ma si sta parlando di Igor. Quindi, a pagina 92, la frase “sono strumenti potenti di ri-civilizzazione potenti” non mi pare sensata (qualche potenti di troppo).

Pietro De Santis “C’era una città” Armando editore s.p. (regalo dell’autore)

[A: 13/04/2022 – I: 18/04/2022 – T: 19/04/2022] &&&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 78; anno: 2022]

Anche se come vedete sopra, è l’autore stesso, nonché amico, che mi regala i suoi libri, il mio giudizio, di lettura, di gradimento, di riuscita, resta sempre imparziale. Leggo Pietro come leggo Vargas, commento Pietro come commento Auster.

Sgomberato quindi il campo da favoritismi ed indulgenze, ma anche da rivincite verso una persona che riesce a scrivere, al contrario di altri, devo dire che, pur ritenendo questo un buon libro, nel suo genere, purtroppo non è il mio, di genere. Certo, l’autore ci dà due avvertimenti, diretti ed indiretti, su come affrontare il libro. C’è il sottotitolo, “Una fiaba contemporanea”, e quindi non ci dobbiamo aspettare né un romanzo, né quelle pennellate di personaggi presenti in altri suoi scritti. E c’è l’editore, “Armando editore”, discendente in filo diretto dalla casa editrice fondata dal Professor Armando Armando che da sempre pubblica editoria per ragazzi e saggistica di indubbio interesse.

Allora, immergiamoci nella fiaba, facciamo conto di tornare bambini e cerchiamo di muoverci tra le parole di Pietro. Per noi adulti, infatti, i passaggi sono chiari: descriviamo un mondo ideale, iperuranico, commettiamo un peccato (originale?) ed il nostro mondo decade, rimanendo nelle teste quel che c’era un dì. Ricordo che rimane negli anziani, poi nelle storie, poi si mescola con pensieri inventati. Quindi, la risalita, il riscatto che viene dai bambini (e da chi altro se no?). Che non a caso sono due, un maschio ed una femmina, come dei novelli Adamo ed Eva. Non lo sono, ma possono salvarci, visto che si chiamano Miriam, cioè Maria madre di Gesù, e Matteo, che vuol dire dono di Dio. Così dalla caduta al riscatto. Non per tornare al mondo di prima, ma per approdare ad un mondo nuovo che sappia del vecchio e si protenda verso il futuro, rispettoso della natura e di tutto ciò che ci circonda.

Ma questa è la storia degli adulti. La storia è (soprattutto) per i bambini, per farli ragionare sull’oggi, ricordando loro (in modo non pedante) l’esistenza di uno ieri diverso. Migliore? Forse no. Di sicuro, ci ricorda Pietro, la possibilità che esista un modo per “pulire” l’oggi, per renderlo ecologicamente compatibile. E non è un caso che i nostri eroi, per poter costruire quel mondo, non possano che passare per il sonno. Un sonno che dura sei mesi o un sogno che dura altrettanto? Un sonno/sogno che mi riporta a “I fiori blu” di Queneau che ci ricordava nel risvolto del libro: "secondo un celebre apologo cinese, Chuang-tzé sogna d'essere una farfalla; ma chi dice che non sia la farfalla a sognare d'essere Chuang-tzé?”

La fiaba, poi, tocca tanti altri punti, che sarebbe interessante, quando se ne parla con i bambini (ma forse anche con gli adulti), approfondire. La questione della provenienza (non uso il termine “razza” che potrebbe fuorviare) che Matteo ha gli occhi a mandorla e Miriam la pelle scura. La plastica che ci invada. I bambini, riuniti in bande, che mal si comportano (e si sa che una banda non è solo la somma degli individui che la compongono). Il rapporto dei ragazzi con la scuola, amore e odio che spesso deriva (anche) dal distorto modo di porsi dei genitori piuttosto che degli insegnanti. Per non dimenticare le canzoni che inframezzano il racconto, rimandandoci alle fiabe cantate che sempre il nostro autore ha prodotto.

Pietro, forse, semplifica troppo la sua scrittura, per adeguarsi alla dimensione fiaba. Ma non può certo dimenticarsi di sé stesso, del suo retroterra. Così che, certo, spiega l’uso della parola “incarnato” che di certo non è di facile utilizzo. Ma poi continua ad utilizzarla (sperando che i bimbi ne ricordino). E se avesse usato “carnagione”?

Un secondo trappolone per i bimbi distratti viene, ad esempio, quando dice che gli antichi avevano inventato due cose utili. La prima, e lo dice, è il calendario. La seconda, ma non lo sottolinea, è la scrittura. Di certo, un ragazzo sta lì che aspetta, e Pietro si diverte alla sua curiosità. Per cercare il capello nell’uovo (un pelo è troppo poco), direi che, come veniva fuori anche dalle nostre discussioni, più che di calendario, si inventò a contare, si pensarono i numeri. E contando, cosa di più semplice che pensare ai giorni che passano, e quindi arrivare al calendario?

Due menzioni finali. Uno per l’autore (ignoto seppur citato) dei disegni che accompagnano il testo. Disegni semplici, quasi “infantili”, che nella loro giovinezza trovano il modo di non stonare con il tono della fiaba. La seconda è per Mirko, cui auguriamo di poter arrivare a vedere un mondo più portato al rispetto reciproco (mi raccomando, Pietro, mai parlare di tolleranza), e che per ora notiamo, casualità o causalità, ha un nome in M, come Miriam e Matteo.

Ben fatto, professore.

Alphonse de Lamartine “Graziella” Nutrimenti s.p. (Regalo di Benedetta)

[A: 07/05/2022 – I: 18/05/2022 – T: 19/05/2022] - &&& +

[tit. or.: Graziella; ling. or.: francese; pagine: 142; anno 1852]

Nell’anno in cui Procida è eletta “capitale italiana della cultura 2022”, ricevo questo sentito regalo, a valle della visita isolana di Benedetta. Omaggio gradito, nonché pensieri solari rivolti alle lontanissime gite tra Baia e Lucrino (con vista sul Monte di Procida).

Come molti discreti conoscitori della letteratura francese, avevo sempre e soltanto associato Lamartine alla poesia, derivandone il buon giudizio dalla preparazione alla maturità passata sui testi di Francesco De Sanctis. Sapevo anche, seppur in via meno informata, della sua presenza sul piano politico. Poco o nulla ricordavo della produzione in prosa. Di cui qui abbiamo un esempio interessante e pieno di spunti, quasi fosse un compendio delle tematiche romantiche dell’Ottocento.

C’è il “Grand Tour”, con Goethe nella memoria, laddove il giovane Alphonse parte per un viaggio che doveva portarlo principalmente in Toscana, poi allargatosi prima a Roma e poi a Napoli. C’è, grande, il sentimento dell’amicizia che sorge spontanea tra i giovani di mente aperta. Con l’amico con cui parte dalla Francia, con un pittore presso cui alloggia a Roma, con una cantante che gli farà da guida nella città eterna, con un amico di collegio casualmente incontrato a Napoli e con cui legherà moltissimo. C’è il sentimento di libertà e di patriottismo, che nasce dalle frequentazioni romane, per poi sbocciare al sole di Napoli, al contatto con la vita dei pescatori.

E proprio dai pescatori nasce anche lo schema narrativo spesso e volentieri riproposto all’epoca, del naufragio in mare, della lotta contro l’avversa natura, nonché della salvezza, faticosa e felice, sull’isola procidana.

A Procida, nell’umile casa di nonno Andrea, ne conosce la famiglia, ed in particolare la bella e spontanea nipote Graziella. Qui, lo scrittore sviluppa un altro duplice elemento romantico. Dal naufragio della barca si sono salvati solo due libri. Uno lo leggono Alphonse ed il suo amico, rinforzando, al bisogno, il loro amore per la libertà. Si tratta delle “Ultime lettere di Jacopo Ortis” di Foscolo. L’altro, usato per intrattenere la famiglia procidana, è tradotto all’impronto da Alphonse. Si tratta di Paolo e Virginia di Jacques-Henri Bernardin de Saint-Pierre, una storia di amore bello e sfortunato, che ha l’unico vero risultato di far a sua volta innamorare la bella Graziella.

Qui comincia una seconda parte più melensa e meno avvincente. Ci sono i turbamenti di Alphonse, che rimasto solo per la partenza dell’amico, si avvicina sempre di più a Graziella. C’è Graziella che, non tanto inconsciamente, sente crescere un sentimento verso il bel ventenne. Fino a che una richiesta di matrimonio rompe l’equilibrio, ed in una notte di amore (platonico, ovvio, che alla carne si arriverà più di cento anni dopo), i due avvicinano ed avvinghiano i loro cuori. Anche se il rapporto è nei fatti sbilanciato. Alphonse, ricco e francese, prima o poi dovrà tornare in patria. Graziella, povera anche se bella, non potrà che rimanere nel Golfo.

Così Alphonse parte e promette a Graziella di tornare. Ma non sarà così, neanche quando riceverà una di lei lettera che gli comunica la malattia (tisi, ovvio) e la sua imminente morte. Cosa che puntualmente si avvera. Il poeta porterà sempre con sé la lettera in ricordo del suo primo amore, ma quando anni dopo tornerà a Napoli non troverà più traccia né di Graziella, né della famiglia di nonno Andrea.

La scrittura (redatta da un Lamartine sessantenne che ricostruisce la memoria della sua giovinezza, che il testo risulta redatto intorno alla metà degli anni ’40 dell’Ottocento, poi pubblicato in volume nel 1852) è già piena delle sensazioni forti dei romanzi coevi. Ma resta un po’ ingenua, anche se alcuni descrizioni ne danno gran forza: l’isola di Procida, il Vesuvio, la vita quotidiana a Napoli, quando si parla di sera, al fresco delle terrazze. E come già rilevato, se nella prima parte i punti forti del romanticismo sorreggono il testo, la seconda parte risulta meno avvincente. Tanto che Flaubert ne parla come di un’opera poco riuscita. Tant’è.

Se volete, infine, non tanto rendere omaggio a Lamartine, quanto alle grandi capacità della televisione italiana di sessant’anni fa, vi consiglio di cercare, nelle Teche Rai, lo sceneggiato “Graziella” con Corrado Pani nei panni di Lamartine, ma soprattutto con una stupenda Ilaria Occhini in quelli di Graziella.

“Come stupirsi … se i più sublimi scenari del creato siano contemplati dai viaggiatori con occhi così diversi? … Lo spettacolo è nello spettatore.” (102)

Maxence Fermine “Il palazzo delle ombre” Bompiani euro 9,90 (in realtà, scontato a 4,95 euro)

[A: 23/02/2022 – I: 12/07/2022 – T: 14/07/2022] - &&& ---

[tit. or.: Le Palais des ombres; ling. or.: francese; pagine: 221; anno 2014]

Incominciamo con il tributare un doveroso omaggio all’autore ed a chi, ormai quasi venti anni fa, me lo fece scoprire. Fu allora, in uno dei momenti postumi ad alcune svolte significative, che la mia amica Chiara mi disse di leggere un libro “L’apicoltore” di un certo Maxence Fermine. Fu amore a prima vista con l’autore. Che non ha mai scritto cose dirompenti, mantenendo sempre un tono pacato. Ma non cessando mai di interrogarsi (ed interrogarci) sul senso della vita, sui sogni che accompagnano il nostro procedere dalla vita alla morte, le passioni che tutti abbiamo ed il loro modo di entrare nella nostra vita, a volte per migliorarla, a volte per metterci in seria difficoltà.

Lo stile di Fermine, di cui credo di aver letto in questi anni sei o sette libri, rimane proprio per quanto sopra detto, sempre simile a sé stesso. Non eccelso ma neanche stancante, si legge con facilità, e, se riusciamo a lasciare andare i nostri freni, ci conduce in giro per mondi e situazioni che ci fanno riflettere.

Lo stesso impianto emozionale si ritrova in questa storia che ci porta agli inizi degli anni ’60, e dove seguiamo le vicissitudini di Nathan Tanner. Figlio di un romanziere di buon successo, Hugo, che lo aveva comunque lasciato dai nonni quando, nel ’32, a tre anni, muore in un incidente automobilistico la madre Rebecca. Lo zio Hadrien, nonché fratello di Hugo, scompare a Buchenwald nel ’43. Mentre Hugo, dal ’46 al ’51 sforna sei romanzi di discreto successo, che gli consentono di proseguire la sua vita non particolarmente dura.

Nathan, una volta cresciuto, trova la sua dimensione come costruttore di marionette. Un mestiere certo non proprio redditizio, ma che gli dà da vivere. E consente all’autore di discettare a lungo sulla vita, sulle marionette, e su chi tira i fili.

Lo scatenarsi del racconto avviene quando Nathan riceve una lettera da Hugo che gli annuncia il proprio suicidio, nonché il fatto che gli lascia in eredità il Palazzo da lui comprato nel ’30: il Palazzo delle Ombre, una costruzione architettonicamente complicata, di cui si dicono stranezze (soprattutto fantasmi e morti sospette). A patto però che riesca a trovare il manoscritto del suo ultimo scritto, di cui gli editori parlano da decenni, ma che nessuno ha letto.

Il romanzo si riempie di piccoli misteri e di personaggi, a volte solari, a volte misteriosi. Tra i primi c’è la violinista Anna, vicina di casa, cui Nathan si confida, si accompagna nelle spedizioni all’ombroso palazzo, e di cui sospettiamo da subito che possa finire con un loro coinvolgimento sentimentale.

Tra i secondi c’è un losco editore che non si arrende alla perdita del manoscritto, ed un personaggio ombroso (tale palazzo…) che si aggira misteriosamente, prendendo il nome del primo proprietario del palazzo, un argentino morto suicida negli anni ’20.

Le fila (della trama e delle marionette) si intrecciano e si intersecano con le scritture, del padre, di Nathan, e di altri (mica vi posso dire tutto), costringendo Nathan a fare un lungo viaggio intorno a sé stesso, ricostruendo, a volte inventando, la sua storia familiare. Ma Nathan è buono ed alla fine il suo amore e la sua passione riuscirà a portare il romanzo verso una fine congruente.

Rimane, dal punto di vista narrativo, la costruzione interna del palazzo, con le sue stanze nascoste, i suoi automi meccanici, ed altre piccole cose che servono a tirare fili… Sempre con quella leggerezza calviniana che, appunto, ripeto e concludo, non sarà eccelsa, ma è per me un buon ausilio di lettura nei momenti pensosi.

Personalmente, infine, non posso che ringraziare l’autore per avermi fatto tornare con la mente in alcuni luoghi della mia adolescenza parigina. Il Père-Lachaise, dove anch’io come Nathan mi rilassavo in passeggiate, alla ricerca delle tombe famose. Ricordo rue de Lesseps, ma i palazzi con torrioni ed altre invenzioni architettoniche li ricordo più spostate sotto Pigalle. E soprattutto rue des Barres, e tutta la zona del basso Marais fino a quello che ora è il centre Pompidou, ma che per me (e per Nathan) era la zona delle Halles. Proust e le sue madeleine ci fanno un baffo.

“Dopo una certa età, non si torna più indietro.” (15)

“Bisogna guardare avanti per continuare a vivere … Non sono d’accordo … Il passato fa parte del presente e costruisce il nostro futuro.” (114)

Prima trama di un mese post-estivo, e quindi vi sorbite l’elenco delle massicce letture del mese di giugno. Dove spiccano due Simenon d’annata e svetta un ricordo personale dovuto ad uno dei miei tanti cugini. Di converso, sempre verso il fondo, precipitano i pochi attraenti libri robinsoniani.

 

#

Autore

Titolo

Editore

Euro

J

1

Ragnar Jónasson

Fuori dal mondo

Marsilio

9,50

3

2

Martin Walker

Grand Prix

Repubblica Noir

7,90

2

3

Ian Stewart

I numeri uno

Le Scienze

15

3,5

4

Gaetano Savatteri

Il lusso della giovinezza

Sellerio

14

3

5

Ann-Marie MacDonald

Chiedi perdono

Corriere – Saghe

7,90

2

6

Piergiorgio Pulixi

Lo stupore della notte

Corriere Profondo Nero

7,90

2

7

Georges Simenon

Pioggia nera

Repubblica

9,90

4

8

Brigitte Glaser

Morte sotto spirito

Repubblica Noir

7,90

2,5

9

Georges Simenon

Il viaggiatore del Giorno dei Morti

Repubblica

9,90

3,5

10

Ricardo Piglia

Solo per Ida Brown

Repubblica Noir

7,90

3

11

Adriano Ossicini

Gli esami non finiscono mai... ma chi l'ha detto! I ragazzi del '49

Youcanprint

s.p.

4

12

José Saramago

Le intermittenze della morte

Feltrinelli

9,50

3,5

13

Mirko Zilahy

È così che si uccide

Corriere Thriller

7,90

3

14

Georges Simenon

La vedova Couderc

Repubblica

9,90

4

15

Ragnar Jónasson

La donna del faro

Repubblica Noir

8,90

3,5

16

Haruki Murakami

La strana biblioteca

Corriere

9,90

2

17

Silvio Danese

In pace con la pancia

Sonzogno

s.p.

1

18

Haruki Murakami

Gli assalti alle panetterie

Corriere

9,90

2,5

19

Enrico Brizzi

Una notte sull’alpe della luna

Repubblica Montagna

9,90

3

20

Simone Alliva

Fuori i nomi

Fandango

s.p.

1

Come dicevo incipiando questo testo, molti e nuovi sono i compagni di viaggio che spero ci terranno compagnia in queste letture. Se vi piacciono, continuerete a riceverne; se vi stufate, mandatemi una mail, e sarete esentati da nuovi invii.

Intanto, anche questa come scadenza periodica, vi riporto un frase sulla memoria del troppo presto scomparso scrittore sardo Sergio Atzeni che ci ammoniva in un bel libro di Sellerio, “Il figlio di Bakunin”: “sui fatti si deposita il velo della memoria, che lentamente distorce, trasforma, infavola [sinonimo di “rende leggendario”, ripreso da Atzeni da “Horcynus Orca” di D’Arrigo dove venne usato per la prima volta. N. mia] il narrare dei protagonisti, non meno che i resoconti degli storici” (153).

Visto che ho scritto troppo, per ora taccio, che si scriverà di più e meglio nel futuro. Quindi un arrivederci alla prossima scrittura.