domenica 20 settembre 2015

Italiani soggettivi - 20 settembre 2015

Tornati dalle fatiche della Valdarno, eccoci ad un bel quartetto italiano. Tutto sopra la sufficienza di almeno mezzo libro (e vi dirò subito perché tutto). Con autori italiani collaudati anche se non da me amatissimi come Gianni Mura (anche se ne apprezzo gli articoli repubblicani). Con autori invece da molto amati, come Francesco Piccolo. Con autori poco visitati ma gradevoli, come l’ottima Versilia di Fabio Genovesi. E con il lavoro di un collettivo di scrittura, a me vicino per molta amicizia, ed a cui dedico il titolo. Ed a cui ho tolto qualcosa non per la scrittura, ma per un editing che potrebbe essere migliorato.
Gianni Mura “Ischia” Feltrinelli euro 7,50 (in realtà, scontato a 6,38 euro)
[A: 01/07/2014– I: 25/12/2014 – T: 27/12/2014] - &&& e ½   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 175; anno 2012]
Devo dire che mi aspettavo qualcosa in più dal secondo libro di Mura sulle inchieste (o presunte tali) del suo ineffabile commissario Jules René Magrite, anche se alla fine il libro non mi ha certo deluso. Di Mura ricordo la buona prova d’esordio (“Giallo su giallo”) nonché il gioco di parole del commissario, che ricorda, appunto, il Jules Maigret del buon Simenon ed il René Magritte dei quadri surrealisti. E pensavo fosse un altro “giallo”, anche se atipico. Invece è un inno d’amore. Per una serie di cose, alcune palesi altre meno, care al giornalista – scrittore. Amore per la cucina, di cui si parla una pagina si ed una no, cominciando dai ristoranti di Milano, per proseguire con la cucina ischitana, di terra e di mare. Con il vino. Con le citazioni gastronomiche. Amore per Ischia, di cui si parla a più riprese, si analizza, si esamina. E se ne tirano fuori particolari, forse ad altri noti, ma interessanti e coinvolgenti: dall'esilio foriano di Donna Rachele, vedova di Mussolini, alla morte sull'isola dell’anarchico Gino Lucetti, responsabile del fallito attentato al dittatore nel 1926, passando per i soggiorni dei due premi Pulitzer, Auden e Capote negli anni ‘50 del secolo scorso, fino alla recente presenza sul Castello Aragonese del compositore Vinicio Capossela. Amore per la politica, e per un’Italia che rischia di affondare in mezzo a tante storture. Certo si parla della politica dell’isola, dei mostri che con il cemento deturpano i sassi e le scogliere, delle frane provocate dall’incuria. Amore per la Francia, cui Mura è da sempre legato per tutti gli anni passati a seguire il Tour de France, ma non solo. Un amore che si istanzia nei due protagonisti, il commissario Magrite, appunto, e l’amore della sua vita, trovato ora in tarda età, il giudice Michelle Lapierre di Vannes. Bella è la loro scoperta di un amore d’età (visto che Jules ha 58 anni), con tanti rimandi a luoghi sia parigini che bretoni (da cui è originaria Michelle). Soprattutto due intriganti: la storia della cantante Fréhel e quella dei due suicidi, di Jean Seberg e Romain Gary (chi ne vuole sapere di più di tutte queste storie, può leggerne sunti in Wikipedia sezione francese, o leggere il libro di Mura o anche le anime baltiche su cui si tornerà; io ne parlerei ma andremmo un po’ fuori dal seminato). Amore per l’amicizia (e non è un ossimoro), quella che ben presto lega i nostri a Giuseppe Iovine, detto Pépé le couteau.  Peppe è il personaggio cui lo scrittore affida il compito, centrale nella trama, di svelare il lato oscuro, nascosto dell’isola. Un personaggio di cui conosciamo presto la tragica storia ai limite della legge, dove per difendere la sua donna uccide un pappone slavo e farà più di dieci anni di carcere in Francia. Ma ne uscirà, ritrovando la sua Denise, ritrovando l’aiuto del commissario Jolivet (conoscenza anche di Magrite), mettendo su prima un ristorante a Parigi, poi tornando nel buon ritiro di Ischia con la sua bella, fino alla morte di lei per tumore. Ma Peppe continua a vivere con lei la sua esistenza, pur isolato, continua a cercare di mettere pezze ai brandelli delle storie isolane, e dei tanti soprusi che ne possono venir fuori. E che Mura ci fa scorrere, un po’ in secondo piano, ma non tanto da farci dimenticare come possono andare male le cose in Italia. Qui abbiamo le parti poliziesche, che però, come detto, ne sono da sfondo anche se a forti tinte. Si comincia con la morte del giovane romeno Ovidiu, che non ha voluto piegarsi a fare il corriere della droga per Rocco o Purp’. Si intramezza con l’assalto alle due donne gay da parte di uno scalmanato isolano, che viene ben sistemato da Magrite a suon di pugni, e che per questo viene avvertito (neanche tanto velatamente) da un poliziotto corrotto di farsi gli affari suoi. E si finisce con il suicidio provocato della piccola Anna, che qualcuno (Rocco? Il poliziotto? Qualcuno da loro protetto?) vorrebbe avviare a sordidi mestieri, ma che, rosa dalla vergogna, preferisce togliersi la vita. Tutta una somma di elementi che fanno si che Peppe decida di fare piazza pulita, facendosi saltare in aria insieme ai camorristi ed ai poliziotti corrotti. Noi, invece, pur dolenti, prenderemo il traghetto con Jules e Michelle, ricordando si tutti i momenti poco felici passati, ma ricordando ed aspettando tutti quegli altri momenti di grande amore che Mura ci ha fatto vivere, pur nella brevità delle men che duecento pagine. Insomma, un libro che avevo comperato come giallo italiano, e che si è rivelato invece una guida letteraria per un’isola che si dovrà tornare a visitare, prima o poi.
“Tu sei … una persona perbene, un ottimo professionista e un buon compagno. Un buon amante, vorrei aggiungere, ma non dispongo di una vasta campionatura in cui inserirti. Sai quand'è il momento di ridere e quando è meglio tacere. Con te sto bene a tavola, in giro e a letto.” (78)
“Una volta ho sentito dire che conoscere il passato è fondamentale per capire il presente e immaginarsi il futuro.” (83)
Francesco Piccolo “Momenti di trascurabile infelicità” Einaudi euro 13 (in realtà, scontato a 11,05 euro)
[A: 03/04/2015– I: 04/04/2015 – T: 08/04/2015] - &&& e ½   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 140; anno 2015]
Sto mangiando un churro con Chiara in una grigia Pasqua limeña, mentre Nadia vomita e Sergio telefona. Beh, in questo momento di (non) trascurabile felicità, inizio la lettura del secondo capitolo dell’enciclopedia tascabile dei momenti della vita, scritta dall'esimio Francesco Piccolo, di cui tanto ho già letto e parlato. Perché qui il nostro passa dalla felicità, e dal desiderio di omologazione, alla descrizione dei momenti infelici della vita. Anche di questi ognuno ha i propri personali (ricordate sempre l’attacco di Anna Karenina di Tolstoj). Ma se noi si sa individuare e sorridere di questi momenti, già si sono fatti passi avanti verso il terzo libro che scriverà il nostro autore (Momenti di trascurabile serenità, suggerisco).  Ovviamente anche questo è un libro non raccontabile. Non è una storia, sono momenti, che partono dai suoi personali, per poi collegarsi ai miei ed a quelli di molti altri. Solo uno di questi piccoli cammei mi ha un po’ irritato, non capendone l’uso e la necessità, quello del bambino giapponese (adottato?) e della sua non inseribilità nel contesto italico. Forse mi mancano dei parametri per giudicarne, ma è una parte che non mi ha dato né felicità né infelicità, ma solo un po’ di fastidio. Perché se è vero che cercare la felicità è la continua e giornaliera ricerca di sensazioni ed emozioni che facciano star bene, individuare l’infelicità serve a dribblare quegli stati d’animo che ci mettono a disagio. Come la storia (mia e di altri e non di Piccolo) del regalo, fatto sottolineando che se non piace lo posso cambiare. Con la solita risposta, ma no, mi piace tantissimo. E l’omaggiato il giorno dopo va al negozio a cambiarlo. O le storie sentite e risentite (ma che non mi sono ancora capitate) di gente lasciate con un messaggio su WhatsApp. Certo, questi sono momenti di autentica infelicità. O di grande inc…tura. Ricordo gli asciugamani stesi con cura sulla sabbia, per evitare gli odiosi granelli, ed i bambini che corrono e li riempiono nuovamente (e ripenso alla scena di Nanni Moretti, ai bimbi che giocano a pallone sulla spiaggia, ed a quando lui, ferocemente, prende il pallone e lo buca, cattiveria mitica). Continuare a leggere libri che non mi piacciono solo per stroncarli scrivendo queste trame (ma possibile che riesca a trovare poche letture “immortali”?). Come fare poi a non essere d’accordo con Francesco, nel ribadire che quando qualcuno ti dice che devi sapere che ti vuole molto bene, quasi sempre sta per dirti qualcosa di terribile. Mi capita di stare con mia madre e veder lo sport in tv (si sa che lei è patita di tutto dal grande calcio ai campionati mondiali di snooker). E di fare il tifo (io che non faccio tifo per quasi nulla) per i più deboli sperando che battano i più forti. Poi non trovo la tristezza dell’autore, ma il gusto sadico di infierire sui perdenti, quali essi siano. Nell'agile manuale di pennellate infelici, ci sono anche capitoletti più lunghi (a parte quello del bambino giapponese di cui ho già parlato male), come quello molto intrigane sulla dieta Dukan. O quello sulle feste dei bambini (terribili e da abolire in toto). Ma questi non diventano più momenti trascurabili (che come dice il mitico Devoto – Oli sta per momenti di cui si può non tenere conto) ma sono i momenti fondanti della nostra vita. Che è sempre a tutto tondo, come dice l’ultima delle frasi che sotto riporto. Vorrei finire con delle parole altrui, dove in un intervista di Nicola Mirenzi al nostro grande Piccolo, si dice: “Il mondo è terribile. Però quando leggi Francesco Piccolo ti sembra più lieve, pieno di godimenti nascosti. La forza di Piccolo è che sa vedere, e sa far vedere, il lato esaltante di ogni piccolo istante che viviamo.” A proposito, qual è il vostro momento di trascurabile infelicità preferito?
“Quest’anno è volato. Si dice di tutti gli anni, alla fine dell’anno. Mi chiedo come sono gli anni lenti, che non passano mai. Perché non li ho mai vissuti.” (13)
“Quando i ristoranti (o i bar o qualsiasi negozio), dopo il nome scrivono ‘dal 1972’ o ‘dal 1983’. E io ero già nato. E alle volte ero già grande.” (75)
“I camerieri non sentono mai quando li chiamo.” (92)
“Sei su WhatsApp, vedi che l’altro “sta scrivendo”, ti sta rispondendo, aspetti, e non arriva niente. Ci ha ripensato.” (95)
“Ognuno di noi è fatto di un equilibrio finissimo di tutte le cose, belle e brutte; e ho imparato che – come i bastoncini dello shangai – se tirassi via la cosa che meno mi piace della persona che amo, se ne verrebbe via anche quella che mi piace di più.” (140)
Terzi Soggettivi “Né capo né coda” Unilibro euro 15 (in realtà, scontato a 12,75 euro)
[A: 25/08/2014– I: 17/05/2015 – T: 19/05/2015] - &&&--   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 204; anno 2014]
Confessione numero uno: io (e si sa) non amo molto i libri di racconti e questo è un libro di racconti. Confessione numero due: io sono moderatamente scettico sui libri autoprodotti e questo è un libro autoprodotto. Confessione numero tre: ho fatto stampare, comperato e letto questo libro perché uno degli autori è un mio amico e volevo vedere che effetto mi faceva non più leggerne su foglietti volanti, ma su della carta stampata e rilegata. Fatte queste confessioni veniamo allora al merito del libro, ed al fatto che, come nella mia vecchia scuola, si sia meritato un bel 6 meno meno. Cioè di quelli che il prof diceva, sarebbe da 5, ma la buona volontà ed alcuni spunti gli fanno meritare una stringata sufficienza. Gli autori presenti in questa raccolta sono scrittori appassionati, che si riuniscono settimanalmente sotto la guida di Claudia Masia, curatrice dell’antologia, per le loro scritture “creative”. Che si consolidano annualmente in una raccolta, e che nel 2014, pur autoprodotta, è la prima che rendono pubblica. Devo dire, preliminarmente, che il titolo rispecchia grandemente la raccolta. I racconti non hanno un grande filo che li accomuna (primo significato del termine) né possiamo dire che ce ne sia qualcuno che si stacca dagli altri in alto o in basso (secondo significato). Almeno nella scrittura. Qualcosa di diverso, certo, nel mio gradimento, che come tutti i sentimenti è puramente soggettivo ed a volte inspiegabile. In tutti, comunque, ho trovato una stessa mancanza, di una qualche conclusività. Non che per forza un racconto deve avere un mondo chiuso intorno, ma sento come se in ognuno ci sia (volutamente o meno) qualcosa di lasciato in sospeso, di zona grigia in cui possa intervenire il lettore (come sagacemente viene detto in “Provvisoriamente inconcluso”), ma che, proprio per alcuni momenti slabbrati del discorso, sia troppo poco concluso. Ne “Il mare al di là” c’è una interessante trama di fondo, un bambino trovato sotto le macerie del terremoto di Skoplje (quello del ’63, per chi non ne avesse memoria), adottato, amato ma non compreso, che, cresciuto nelle marche anconetane, da quel mare è attratto. Tanto da abbandonare appena possibile i genitori adottivi per farsi una propria vita in mare. Tanto da crescervi, da diventare un bravo pescatore, da cadere nelle trappole della vita con amori poco leciti. Cadere e rialzarsi, trovare (pare) un amore vero, ritrovare (forse) alcune sue radici visitando le terre natie. E poi cadere (qui senza spiegazioni, se non qualche lontana eco di genetica che rifuggo immediatamente) nel turbine del malaffare, del guadagno immediato, e nel poco e per nulla lecito. Tanto da perdere nave e moglie e tutto il resto. Con un ultimo soprassalto di coscienza che lo porterà dove forse non sarebbe voluto andare. Ma la coda non ci porta dentro di lui, dentro le sue motivazioni. Rimane tutto sospeso ed inspiegato. La “Promozione a Roma” è forse quello che più mi ha deluso: una ditta trasferisce i propri quadri a Roma, seguiamo il buon Elio trasferirsi da Monza, pensare alla sua Franca lontana. Per poi inserirsi in una trama gialla di bassa fattura. La moglie del capo viene uccisa, e non si fa fatica a capirne le motivazioni e l’identità dell’assassino. Lasciando il buon Elio a metà racconto, mentre ne sembrava il protagonista. E scivolando nelle ricerche del buon commissario, con tanta fatica che noi lettori già s’era capito tutto. E con molta fortuna, che se non bussavano i poliziotti a quella porta di mercoledì staremmo ancora lì ad aspettare la soluzione. Abbastanza inconcluso anche “Ritorno a casa” dove c’è un lungo racconto che vorrebbe tracciarci la vita della protagonista (un memoir appunto), ma che, usando quella tecnica, che io odio, del flashback, quando abusato, ci lascia tante zone grigie. Qual è il nesso tra le tante operazioni che la protagonista subisce da bambina per curare credo qualcosa di poliomielitico ed i noduli al seno che la attanagliano ora nell'età adulta? Certo, ci fa piacere seguire le vicende familiari e quel traslocare dal Quadraro al centro e poi di nuovo in periferia (buona questa parte). Ma mi sono perso con i suoi amori, chi è questo e chi è quello, e da chi va e da chi ritorna. Certo, non possiamo non sottoscrivere il quasi urlo soggettivo finale, dopo tutte le peripezie, che è quello di “viverre” (ma in sottofondo io cattivo e maligno, mi chiedo che differenza ci sia tra “imparare un’altra lingua” e “studiare inglese e francese”). Troppo scontato il “Ritorno a Silvi”: mini-incidente in motorino, mentre Anna va dalla sua amica ad Amelia, Luca che prima la aiuta poi cerca di violentarla, poi si ferma prima di e si pente. Meglio del flashback (anche se il principio è simile) quell'uso alla Vasco Rossi di “forward” e “rewind”. Ma come dire scontato che quando scopriamo che Luca si butta nell'eroina e che Anna fa la volontaria in un centro alla “don Ciotti” essendo essa stessa uscita dal tunnel, il fatto che i due si incontrino, e lei decida (forse) di aiutarlo ad uscire anche lui. Giocato sul filo dell’autoironia “Cose dell’altro mondo”, laddove le protagoniste non sono altro che due aspiranti scrittrici, che seguono un corso di scrittura poliziesca, cercando nella loro realtà di tutti i giorni di trovare uno spunto. E ben dosate le descrizioni (il condominio, il colonnello, i possibili intrighi). Tuttavia cade su quegli intarsi dove intervengono improbabili alieni, di cui non si capisce cosa ci siano a fare. Né perché i bambini li possano vedere. Né perché questo crei panico negli alieni stessi. Un po’ di sorrisi, ma poco altro. Più complesso invece l’impianto di “Provvisoriamente inconcluso”, che mostra da un lato una sapiente capacità di utilizzare diversi registri di scrittura, che ha una intrigante idea di fondo, ma che si perde forse proprio nella gestione complessiva di troppe cose. Come si diceva una volta “troppa carne al fuoco”. Uno scrittore che ha successo perché pubblica sotto pseudonimo. Che è una specie di Jekyll e Hyde tra il se stesso pubblico e quello che esce dalla penna. E tutta la prima parte è gradevole: presentazione in libreria, due registri di scrittura (forse tre, con la prosopopea dei critici), confusione e litigi. Ecco, se il racconto si fermava qui mi sembrava interessante e riconciliante con la forma racconto. Poi un’altra ventina di pagine tra ospedale, rapporto con i genitori, ricordo di un amore, quotidianità squallida, sogni pieni di promesse e di altre possibilità. Per finire con lo scontro tra il se della scrittura ed il se della vita, senza saper decidere per quale dei due propendere. Ed una domanda: perché usa come pseudonimo “//327//” che è anche la scrittura che compare nella sacca di plasma in ospedale, ma che l’autore già utilizza prima di essere ferito? Ringrazio comunque gli autori per il loro sforzo, citandoli in nominale ordine alfabetico: Clelia di Cicco, Eduardo Conte, Fako, Maria Laura Rocchetti, Mirella Fasiolo e Renata Comandini. Che ho volutamente mescolato, per evitare di collegarli facilmente ai racconti tramati, così che sarete costretti, piacevolmente, a cercarvi anche voi questo libro. Un ultima confessione, legato al mio amico Fako, motivo per cui parlo di questo libro. Ho letto per primo il tuo racconto, e mi era piaciuto fino ad un certo punto. Poi l’ho riletto dopo aver letto anche gli altri dell’antologia. E si è meglio sedimentato nelle mie corde. Forse è un po’ come il buon vino rosso che ogni tanto ci beviamo: aveva bisogno di essere un po’ ossigenato. Comunque, bravi tutti. E grazie a te, Fako. Dimenticavo: come per la citazione che riporto, un editing migliore avrebbe fatto salire ancora il gradimento finale.
“Sono io, ho l’età mia ma vedo girare automobili vecchie: Fiat 500, 600, 125, una Duphine, una Giulietta spider una Ami 6, un’Anglia Ford e poi una Vespa 50, un Ciao, un motorino Marelli, un Gilera 125, una Lambretta…” (70) [ho riprodotto fedelmente quanto scritto, ed opino: la Renault era Dauphine,, tra spider e una ci va la virgola e il motorino forse era Garelli; l’ho già detto altrove: un po’ di editing…]
Fabio Genovesi “Versilia Rock City” Mondadori euro 10
[A: 05/08/2014– I: 19/05/2015 – T: 21/05/2015] - &&& e ½   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 211; anno 2008]
Un arguto suggerimento venuto da quella piccola fucina di idee, che sembra ora scomparsa, che fu la fanzine “Satisfiction”. Una cosa che si trovava qua e là un po’ per caso, ma che aveva una rubrica che mi rimandava ai tempi mitici della nostra radio (vero Luciano?). Si intitolava: “Recensioni / soddisfatti o rimborsati”, dove se la parole della rivista ti convincevano a comperare il libro, che poi si dimostrava una schifezza, ti rimborsavano il prezzo di copertina. Ora, io ne ho comperati alcuni, e devo dire non sono mai stato deluso. Come in questo caso, con Genovesi, che, tuttavia, aveva anche altri due atout nel suo arco: avevo già letto un bel reportage sulla Versilia, di quelli scritti per la bellissima Contromano di Laterza, dal titolo “Morte dei Marmi” e questo romanzo uscito un paio d’anni fa da Mondadori, aveva visto la luce, come dico sopra, nel 2008 presso Transeuropa, casa editrice legata a Massa . Ed anche qui, insieme a Fabio, siamo in Versilia vista sotto gli occhi da antropologo di chi si domanda come sia possibile una mutazione genetica del toscano della costa, che, docile e compagnone, diventa insopportabile ed odioso al cospetto dei nordici colonizzatori. Ma qui non siamo, tuttavia, nell'analisi, un po’ spietata ma reale, del divenire di Forte dei Marmi, dai villeggianti milanesi ai mafiosi russi. Qui seguiamo le vicende di alcuni sfigati versiliesi che, con la loro stessa vita, ci presentano il degrado della vita lì al Forte. Per cercare di essere obiettivamente crudeli, a volte si ha l’impressione che i piccoli capitoli siano una specie di siparietto teatrale, in cui abbiamo delle scenette, a volte comiche, spesso tragiche, caparbiamente fini a sé stesse. Poi ci pensa la penna di Genovesi a creare un cappello ed una coda, a mettere gli stessi personaggi, ed a rendere il tutto un godibile libro di lettura. I tre eroi eponimi del romanzo sono i due coetanei Mario e Renato nonché lo zio del primo, Nello detto il Botta (e scopriremo anche il perché del soprannome). Si inizia con i due dodicenni che cercano di rubare partite ai videogiochi, rimediando (Renato) una solenne schicchera elettrica che secondo lui da primo della classe lo fa diventare un normale sfigato, guardati di là della strada da Nello, già preso nel vortice di sesso, droga e rock’n’roll della metà degli anni Ottanta. Li ritroviamo poi venti anni dopo. Nello ha passato molti stadi di droga, si è disintossicato in Comunità ed ora “riga dritto”, solo la testa è un po’ fumina, dove insegue il mito delle rock star e, nel suo buco in giardino (che come ex-tossico non lo fanno più entrare in casa) costruisce una zattera per andare a rapinare gli yacht (parole di Nello: “le vecchie professioni non le fa più nessuno, stanno morendo, e secondo me è un peccato. Ci vuole qualcuno che continua a fare il fabbro, il maniscalco, e anche il pirata.”). Mario ha fatto il dj per anni, poi, improvvisamente (ma alla fine ci viene spiegato il perché) sono tre anni che non esce di casa, legato ai suoi computer da cui scarica (non si sa perché) film porno e musica a raffica, senza esserne legato in maniera particolare, ma con degli aneliti di idiozia pura verso una pornostar (Vanessa Sex), che però vede solo in video. Infatti in tre anni che sta chiuso in casa, come dice lui stesso, “l’unica donna vera che ho visto, a parte la mamma e la psicologa, è quella volta che entrarono le zingare a rubare”. E poi c’è Renato, quello dello shock al videogioco, quello che era la star del Carnevale del Forte, ma che dopo lo shock si fa un vestito da Gianni Agnelli (ricordate l’Andreotti di Pif? Uguale), dove non lo caca nessuno e da dove comincia la sua parabola discendente. Tanto che ora fa il raccontatore di viaggi per persone che vogliono andare altrove ma non hanno soldi o coraggio. Queste tre vite in caduta sono, quasi involontariamente catalizzate da Roberta, avvocato rampante ed insoddisfatto, unica donna a circolare nel libro. Donna che in gioventù ebbe una cotta per Nello, che poi per tutti questi anni ha fatto carriera in modo triste ed insoddisfatto. Che rivede Nello, il quale le fa avere orgasmi a ripetizione (avete capito il soprannome?). Cosa che sconvolge la nostra, che vuole abbandonare tutto e tutti, che ricostruisce parte dei venti anni di Nello che lui aveva buttato nel tunnel della droga. E gli restituisce un figlio che lui non sapeva di aver avuto. Poi, come uscendo da un sogno, si rende conto della realtà, e disumana come è sempre stata, esce dalla scena per tornare al suo algido mondo di enoteche, prime a teatro ed altre freddezze. Intanto ha buttato Nello jr. nella mischia, e sarà proprio il bimbo a prendere metaforicamente per mano i tre sbandati (e vi tralascio tutte le peripezie di contorno che sono da leggere per quanto sono tristi e divertenti) per portarli verso un improbabili sbarco in Sardegna. Con alla testa Nello sr., con di lato Renato, sempre più spaventato, ed in coda Mario, che finalmente esce di casa. Speriamo per non tornarci mai più. Il finale è discretamente aperto per lasciar spazio ad eventuali idee che possano passare nel lettore. Intanto noi abbiamo passato in rassegna due grandi ordini di problemi: quello dei versiliesi che per tre mesi all'anno vengono colonizzati, e per nove mesi vivono la loro normale miseria e quello di tre possibili eroi di questa vita, immersi, fino alla gola, nel degrado che ci può stare nella provincia italiana degli ultimi venti anni. Libro amaro, libro divertente, a tratti scorrevole, a volte con qualche invenzione che non gira come vorrebbe. Ma complessivamente un libro che si legge tutto di un fiato, e che ho piacere di aver letto. C’è una bella immagine che poi mi rimane tra tutte, ad un certo punto, un personaggio si chiede da dove dovrebbe cominciare a raccontare una storia (o la sua storia). Ha senso iniziare ad un certo punto? E tutto quello che viene prima? Non è arbitrario, ad esempio, iniziare a parlare di Mario d quando sta chiuso in casa. E tutto quello che c’era prima ed intorno? E non è un problema di filologia letteraria, che ce ne ritroveremo a parlare, magari più apertamente, in un saggio di storia che sto leggendo in questi giorni ed a cui rimando la palla (1914 di Luciano Canfora, per essere precisi).
Si diceva della Valdarno, della partecipazione mia per la prima volta ad un raduno di avventurieri. Ne sono rimasto colpito nel bene delle tante voglie di fare e nel male delle tante goliardate a volte un po’ fini a se stesse. Ma anche con delle riflessioni che vedremo se matureranno. Come dovrà maturare la sfiga che “bersaglio di guai era e centro” (e vediamo se qualcuno mi sa riconoscere questa citazione), per fare si che si raddrizzino un po’ le prossime giornate.

domenica 13 settembre 2015

Saggi regali - 13 settembre 2015

Regali sia perché (almeno 3 su 4) veramente suntuosi, sia perché la maggior parte frutto di graditi regali (anche qui 3 su 4). Con un crescendo di gradimenti che raramente ho riscontrato nelle ultime letture. Perché Kapuściński è bellissimo, ma Lodoli su Roma e su alcune sue parti segrete mi ha stregato. Non ci sono parole per ritrovarne su Terzani. Si è scritto tanto che le mie sono gocce nel mare. Letture che consiglio vivamente.
Michel Pastoureau “Il maiale” Ponte alle Grazie s.p. (Natale di Silvia)
[A: 25/12/2014– I: 02/03/2015 – T: 03/03/2015] - & e ½
[tit. or.: Le cochon. Histoire d’un cousin mal aimé; ling. or.: francese; pagine: 152; anno 2009]
Apprezzo lo sforzo  della donatrice di trovare libri inusuali (e questo lo è) ed apprezzo lo sforzo dello scrittore per trattare, brevemente ma alla ricerca di esaurirne tutti i possibili aspetti, una  materia non certo canonica. Ed è per questo che metto quel mezzo librino in più di stima. Pur tuttavia, ritengo sia un libro che poteva risolversi meglio, pur mantenendo l’agilità che ne è una caratteristica peculiare. Così come lo è dell’autore, che sforna, un po’ a getto continua, libri agili su argomenti tendenzialmente marginali. Come le serie sui colori, di cui è (pare) uno specialista mondiale (con la serie “Blu”, “Nero”, “Verde”, e poi “Il piccolo libro dei colori” e “I colori del nostro tempo”). Ora, fortunatamente qui non si tratta di colori, sui quali la mia competenza e capacità analitica rischiano di rasentare lo zero assoluto. Si tratta di animali. Anzi di un animale, il maiale, qui trattato, analizzato ed anche, perché no, difeso, in mille modi e mille sfumature. La prima parte, in cui si cerca di tratteggiare un excursus del maiale, dalle origini ai giorni nostri, pur nella sua scarna scrittura, ha comunque alcuni spunti di riflessione sull’uso che viene fatto di questo animale. Sia nell’analisi del passaggio dal cinghiale selvatico al porco domestico, dove si apprezza l’idea che l’addomesticamento avvenga nel momento in cui si passa dalla vita nomade ai sedentari agricoltori. Sia anche nella breve disamina di chi ammette il maiale nella propria cultura e nella propria gastronomia e chi lo esclude. Dove incontriamo gli ebrei che elencano tutti gli animali impuri, e gli arabi che, in effetti,  parlano solo del maiale. Alla domanda sui motivi dell’esclusione, la risposta più ragionevole è la devianza. Nelle culture antiche vengono esclusi gli animali devianti, come può essere il maiale che ha lo zoccolo ma non rumina. Ma altrettanto vivida è l’idea della prossimità del maiale stesso all’uomo, quasi che mangiarne sia atto di cannibalismo. E, ma questo non lo sapevo, dal punto di vista medico il maiale è più simile all’uomo della scimmia. Tant’è che molti sono i medicinali che ne fanno uso e tant’è che con il maiale si sono tentati xenotrapianti (cioè trapianti di parti di animali nell’uomo, cosa su cui, per ragioni etiche non torniamo a disquisire). Non è a caso, quindi, che il sottotitolo parli di un cugino poco amato. Perché se il maiale non c’è fratello, certo può essere un parente, magari un po’ emarginato. Sempre qui, si riportano tutti i passaggi di chi alleva maiali, dal guardiano dei porci all’allevatore intensivo per arrivare ora ai salumieri e gli insaccatori vari. Perché, come si sa, del maiale non si butta nulla, e, nella cultura contadina, chi ha un maiale (o meglio una scrofa) possiede un tesoro. Ed è per questa serie di motivazioni consequenziali che poi il maiale assume connotazioni emblematiche, e spesso negative, come ci mostra “La fattoria degli animali” di Orwell, ma anche tutti i banchieri rappresentati spesso come maiali. Certo, ce ne sono anche di positive, come Sant’Antonio abate (quello che cura il fuoco di Sant’Antonio con estratti di maiale), o il maialino che tutti abbiamo presente nelle raffigurazioni del salvadanaio. Senza dimenticare, come accennato, farmaci e medicamenti con parti di maiale. Ovviamente non entro qui, sarebbe troppo lungo, nella gastronomia che utilizza i suini (anche se nel libro, ad esempio, manca una parte che sarebbe stata gustosa sia del maiale spagnolo, il Pata Negra, sia di quello italiano, la Cinta Senese, mentre si dilunga su quello che ormai è diffuso in tutto il mondo, il Large White). La seconda parte, invece, sembra molto raccogliticcia. Prima di tutto è molto franco-centrica, basata su esempi e citazioni francesi (dai proverbi al Flaubert della Prima Tentazione di Sant’Antonio), mentre il maiale nella letteratura ha esempi su esempi (dall’Eccellenza e trionfo del porco di Giulio Cesare Croce del 1594 ai tre porcellini di Disney). Ed è questa la parte che porta in basso il giudizio complessivo. Gli esempi e le citazioni ci sono, ma è come un continuo saltabeccare di lemma in lemma come sfogliando pagine di Wikipedia. Altro ci si aspetta da un trattato sul maiale. Alla fine, si, qualche nozione nuova, qualche conoscenza in più, ma, purtroppo un’occasione mancata.
Ryszard Kapuściński “La prima guerra del football” Feltrinelli s.p. (Regalo di Paola per Natale)
[A: 25/12/2014– I: 18/03/2015 – T: 22/03/2015] - &&&& 
[tit. or.: Wojna Futbolowa; ling. or.: polacco; pagine: 245; anno 1978]
Sesto libro che leggo della grande bibliografia di reportage del compianto autore polacco. E, ringraziando Paola del dono assai gradito, torno a stupirmi su queste pagine per la chiarezza, la lucidità, la temerarietà. Un corrispondente da zone perigliose che non molla mai, e che mi ricorda l’altro mio autore assai gradito, il grande Terzani. Qui Kapuściński raccoglie una serie di sue esperienze che vanno dal 1960 al 1976, intercalandole con un commento attuale, una sorta di appunti in fieri di libri che avrebbe voluto e/o avrebbe dovuto scrivere. E proprio di questi brevemente si tratta, perché ne avremmo voluti altri, di personali, di vissuti, ma non possiamo che convenire con una riflessione incidentale che l’autore fa ad un certo punto. Per scrivere tutto quello che si sarebbe potuto scrivere ci si deve fermare, e magari sedere dietro una scrivania. Ma la voglia di essere nel vivo, di capire cosa succede, di riportarlo a noi che ne siamo lontani, non avrebbe mai permesso (come non lo ha fatto) a Kapuściński appunto di fermarsi. Per questo riporto la lunga ed illuminante citazione di Lévi-Strauss. Meglio allora continuare così, con questi reportage a caldo, e magari con quelle riflessioni che in altri suoi libri dalle vicende vissute in prima persona nascono e si sviluppano. Penso al libro sul Negus, alle varie vicende africane, all’ascesa ed alla caduta di Reza Pahlavi, ed a tutti gli altri libri scritti ed in parte letti. Qui cominciamo vedendo il giovane Ryszard, dopo i primi reportage asiatici, partire per una lunga trasferta estera, che, con una breve interruzione lo porterà, dal 1960 al 1976, tra il Ghana ed il Congo, il Tanganika (ora Tanzania), il Sudafrica degli afrikaner, l'Algeria, la Nigeria, il Cile, l'Honduras ed El Salvador, per finire in Medio Oriente, tra Siria, Israele e Cipro, fino agli ultimi colpi di coda, con interventi tra la Bolivia e l’Eritrea. In ogni capitolo, Ryszard pone sempre basi di riflessione ed ora, letti a distanza di anni, idee di ricordi e di ricostruzioni storiche. Ero un po’ troppo giovane per seguire da vicino il Congo di Patrice Lumumba, o il Ghana di Kwame Nkrumah o l’Algeria di Ben Bella. Ma quelli erano già nomi inscritti in un panorama di riflessioni su cosa stava accadendo in un’Africa sconosciuta. E sono ancora validi per capire sia le vicende nordafricane (stupenda l’analisi del divario tra Algeri ed il resto del paese) sia le altre vicende centroafricane. Dove spicca, quasi una mini-perla tra le altre, il resoconto sulla discussione al parlamento del Tanganika sul mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio. E non è un caso che leggo questo libro fermandomi spesso, ed andando a riprendere altre cronache ed altri brandelli di storia (e della mia storia), per seguire l’ascesa e la caduta della rivoluzione congolese, o le storie di Sékou Touré e le rivoluzioni in Guinea. Lucido e da condividere fino all’ultima virgola la lunga analisi di come nasca il sentimento razzista in Sudafrica, di come proliferino i boeri, di come nasca la razza mista degli afrikaner. E chi è stato oggi in quei posti, e mi riferisco soprattutto a Johannesburg, a Pretoria, ed a parte della conte di Orange, non può che convenire come poco sia cambiato nei sentimenti reciproci, anche se ora i bianchi laggiù sono minoranza. Non si può poi tacere la genesi, il racconto e le conclusioni del brano che dà titolo e tono al libro. Quello della guerra dei poveri in Centroamerica. Kapuściński stava in Messico, ed un suo sodale gli suggerisce che sia il caso di andare a vedere cosa succede a Tegucigalpa. Unico e precursore lì si reca, dove le due partite tra Honduras e El Salvador per la qualificazione ai mondiali messicani del 1970 (quelli del mitico 4-3 tra Italia e Germania) fanno da detonatore ad una guerra che durerà 100 ore. Ma che nasce dietro, nelle lotte tra latifondisti, che espellono i salvadoregni emigrati, creando un clima di tensione prima e di odio poi, di cui l’unico a beneficiare è la United Fruit americana. Si potrebbe continuare a lungo, ma il mio vivo consiglio a tutti è di leggere queste pagine, dove alla fine, anche a voi rimarrà la sensazione che non esistono motivi giusti di fare guerre, che saranno sempre i poveri, a tutte le latitudini, a subirne le conseguenze. Illuminanti, a questo proposito, le poche righe sul conflitto siro-israeliano, con il popolo israeliano che combatte contro l’esercito siriano (e non sono definizioni casuali, nella guerra sulle alture del Golan, era quella la differenza). Chiudo con un ultima immagine che, in altri contesti, sento mia: andando in giro, si torna pur sempre al punto di partenza, sebben cambiati, ma come Ismaele di Melville, si continua a partire.
“Chi vuole capire l’Africa dovrebbe leggere Shakespeare. Nelle sue tragedie politiche tutti muoiono, i troni grondano sangue e il popolo contempla muto e atterrito il grande spettacolo della morte.” (145)
“A Lagos, …, ho letto “Tristi Tropici”. Da molto tempo Claude Lévi-Strauss vive nella giungla brasiliana, dove svolge ricerche etnografiche fra le tribù indigene. Si scontra con varie difficoltà, con la resistenza degli indios, è stanco e avvilito. "Soprattutto,” scrive, “ci si domanda una cosa: che siamo venuti a fare qui? Con quale speranza? A quale scopo? Che cos’è esattamente un’inchiesta etnografica? L’esercizio di una professione come un’altra, con la differenza che l’ufficio o il laboratorio distano alcune migliaia di chilometri da casa? O è la conseguenza di una scelta più radicale, implicante la discussione del sistema nel quale si è nati e cresciuti? Avevo lasciato la Francia da quasi cinque anni, avevo abbandonato la carriera universitaria; nel frattempo, i miei compagni più giudiziosi ne salivano i gradini; coloro che, come una volta anch'io, erano portati alla politica, oggi si ritrovavano deputati e domani sarebbero forse diventati ministri. Io, invece, giravo per i deserti inseguendo rifiuti di umanità. Chi, o che cosa, mi aveva spinto a fare esplodere il corso normale della mia vita? Si trattava di un’astuzia, di un raggiro che mi permettesse di reintegrare la mia carriera con benefici supplementari che sarebbero tornati a mio vantaggio? Oppure la mia decisione esprimeva una profonda incompatibilità verso il mio gruppo, dal quale ero comunque destinato a vivere sempre più isolato? Per uno strano paradosso, invece di aprirmi un nuovo universo, la vita avventurosa mi restituiva piuttosto all’antico, mentre il mondo cui aspiravo mi svaniva tra le dita. Quanto più gli uomini e i paesaggi alla cui conquista ero partito perdevano, a possederli, il significato che avevo sperato di trovarci, tanto più a queste immagini deludenti, benché presenti, se ne sostituivano altre, messe in riserva dal mio passato e alle quali non avevo attribuito alcun valore quando facevano ancora parte della realtà che mi circondava. Percorrendo zone che pochi sguardi avevano contemplato, dividendo esistenze la cui miseria era il prezzo pagato, prima di tutto da chi le viveva, perché potessi risalire il corso dei millenni, non vedevo più quello che mi stava intorno, ma avevo solo visioni fuggitive della campagna francese da me ripudiata, oppure ricordavo frammenti di musica e poesia che erano l’espressione più convenzionale di una civiltà contro la quale bisognava pure che mi persuadessi di aver optato, se non volevo smentire il senso attribuito alla mia vita. Per settimane e settimane, su quell’altopiano del Mato Grosso occidentale, ero stato ossessionato non da quel che mi circondava e che non avrei più rivisto, ma da una melodia trita e ritrita che il mio ricordo impoveriva ancora di più: lo Studio numero 3, opera 10 di Chopin, dove pareva riassumersi, per una derisione di cui avvertivo in pieno l’amarezza, tutto quanto mi ero lasciato dietro. ” (161)
Marco Lodoli “Isole. Guida vagabonda di Roma” Einaudi euro 10
[A: 07/08/2014– I: 23/03/2015 – T: 25/03/2015] - &&&& e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 145; anno 2005]
Ne avevo letto ogni tanto nella Cronaca di Roma di Repubblica. Brevi elzeviri che in una bandella davano (e danno) colori e immagini di questa città che amo. Concordo anche con titolo e sottotitolo, che abbiamo dei piccoli frammenti, per me di bellezza, dedicati alla città, ad alcuni suoi aspetti nascosti, a luoghi che non siamo in molti a conoscere ma, conosciutoli, non li dimentichiamo. Andando così, a zonzo e senza scopo, appunto vagabondando. Ma quanto farebbe bene, a noi romani ed ai visitatori di questa città, tirarne fuori spunti di visione e di omaggio. Certo, Lodoli non dimentica di essere anche insegnante di italiano, ed ogni tanto condivide con noi suoi pensieri sulla città, e sulla sua vita, per farci ragionare, per aiutarci a non dimenticare che se abbiamo (e ne abbiamo) cose belle, tanto ancora ci sarebbe da fare. Non sono qui, però, a disquisire sui giovani, sui vecchi, sulle periferie, su zingari e prostitute, su trans e degradi. Sono qui per condividere il meglio dei suoi vagabondaggi e per darvi alcuni suggerimenti su cose da fare e da vedere. Cominciando da un luogo che gli amatori conoscono: Dolce Maniera a via Barletta, con i suoi cornetti super-economici a tutte le ore. E poi andiamo anche noi in giro senza meta, ma visto che sono “pignolo” vi do qualche suggerimento. La confluenza tra Tevere ed Aniene, ad esempio. Ed essendo Roma città d’acqua, una passeggiata sull’isola Tiberina, la fontanella per cani di Piazza San Salvatore in Lauro o la Fonte dell’Acqua Sacra in via Passo del Furlo 57. Oppure i cimiteri: quello acattolico a Testaccio e quello militare francese in via dei Casali di Santo Spirito. Ma anche palazzi, nobili o meno: la prospettiva Borromini di Palazzo Spada, il Palazzo dei Pupazzi a via dei Banchi Vecchi, ma soprattutto Palazzo Federici a via XXI Aprile, dove Scola girò “Una giornata particolare”. E visto che siamo in zona, una sosta degli occhi in Piazza Caprera, pensando ad altri scorci che pochi conoscono ma sono da urlo (fino a che non costruiranno troppe case) in Piazza Socrate. Statue laiche ce ne sono a iosa, ma io ricorderei forse soltanto la statua di Quinto Sulpicio Massimo a piazza Fiume. A meno che, con Lodoli, non si voglia fare un quiz su quante persone si conoscano raffigurate nelle statue del Pincio (ad esempio ricordate Atto Vannucci? O Francesco Lomonaco detto “il Plutarco d’Italia”?). Ma Roma, si sa, è anche città d’artisti e di quadri. Senza scomodare il Bar Rosati dove vegetava Schifano, facciamo un salto indietro per vedere il “Cardinale Decano” di Scipione alla Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea, un museo pieno di altre chicche. E con i quadri e gli artisti, quante sono le chiese che hanno piccoli o grandi doni da regalarci? Vi lascio scoprire le meraviglie che sono contenute nelle chiede dei Ss. Quattro Coronati, di Santa Prassede, di San Clemente, di San Giovanni dei Fiorentini o di Santa Maria della Pace (piccolo gioco perverso). Invece con Lodoli vi porto dal Borromini di San Girolamo alla Carità al Bernini di Santa Bibiana, dal Rubens di Santa Maria in Vallicella al Guido Reni di San Gregorio al Celio. E se lo trovate, il Tempietto di Sant’Andrea del Vignola. Altre ce ne sono che invece meritano un accenno: la meridiana di Santa Maria degli Angeli, i mosaici preraffaelliti di Edward Burne-Jones a San Paolo entro le Mura, la finta cupola di Sant’Ignazio di Loyola, il profluvio di ossa all’Immacolata Concezione. E poi c’è la Madonna del Parto di Jacopo Sansovino a Sant’Agostino o la Deposizione di Daniele da Volterra alla Chiesa di Trinità dei Monti. Storie minime si intrecciano, con l’angelo sulla facciata di Sant’Andrea della Valle, che ha un ala spiegata ed una malconcia. Avrebbe poi dovuto collocarsi in San Lugi de’ Francesi, il San Matteo di Jacob Cobaert, ma era tanto brutto e riuscito male, che i frati commissionarono di corsa dei quadri al Caravaggio (e li ringraziamo) e la statua fu riposta nella Chiesa della Santissima Trinità dei Pellegrini. Un ultima chiesa, legata ad un ricordo personale: il soffitto di Santa Maria in Domnica (dove feci la prima comunione). Con la cattiveria che mi contraddistingue, al contrario di Lodoli, ho citato solo il nome corretto delle Chiese, che a volte sotto altro e più popolare nome sono note. Chiudo allora con alcune indicazioni più precise: le tre chiese di Piazza del Popolo e la caserma dei pompieri di via Caposile in Prati. Ecco, della scrittura e del resto che Lodoli ci mette nelle sue isole altro dir non vo’, ma, come dice Silvia Bre in una poesia che l’autore cita : “è mestiere del vento alzare le vele / ma noi possiamo scegliere il colore”.
“Forse non c‘è un punto della città più intenso e profondo di un altro: ci siamo noi e le cose che abbiamo davanti agli occhi.” (82)
Tiziano Terzani “Le parole ritrovate” Editrice La Scuola s.p. (regalo di Ale)
[A: 07/05/2015– I: 14/05/2015 – T: 16/05/2015] - &&&&&  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 120; anno 2015]
Un regalo graditissimo ed un libro letto e divorato in poche ore. E poi riletto in parte e meditato. Già con un pieno di libricini per le cose che dice. In più, aumentati dall’affetto generale verso la famigli Terzani (e mi sa che comincerò a leggere anche i primi scritti). E definitivamente consacrato alla lettura imperitura perché si parla di tre cose fondanti anche per me: la pace, l’amore, la vita. In realtà, non è che vengano dette tante cose nuove nell’agile volume curato dall’amico di famiglia Mario Bertini. Sono quattro interventi che il barbone (nel senso di uomo con la barba) vestito di bianco fece all’indomani dell’11 settembre per quell’impulso ad uscire dalla tana dove la vita e la malattia lo avevano “rinchiuso”. Per andare a proclamare ed a ripetere ad alta voce in ogni dove un grido di dolore che ancora oggi, dopo quasi quindici anni, è ancora vivo e doloroso. Terzani già da alcuni anni sapeva di avere un cancro, ed aveva iniziato un percorso molteplice (che forse leggerò in “Un altro giro di giostra”) sia per curarsi con metodologie classiche (presso un centro medico americano) sia con metodi tradizionali e/o “alternativi” (ripresi dai paesi orientali che tanta parte hanno avuto nella sua vita), sia, infine, per fare un percorso verso se stesso, cercando di capirsi, di interrogarsi, di assimilarsi alla natura. Per questo da alcuni anni (dal ’97 credo), viveva alcuni mesi dell’anno a 2800 metri ai piedi dell’Himalaya ed altri nella casa familiare ad Orsigna. Ed è qui, nel pistoiese che viene tramortito dall’11 settembre. Ed è qui che decide di innalzare il suo urlo di pace. Come ben dice in questo libretto, si fa “pellegrino di pace”, ed in convegni ed altre pubbliche manifestazioni, soprattutto dinanzi alle giovani generazioni, cerca di scardinare il dualismo che Bin Laden da una parte e l’America dall’altra sembrano imporre: la forza delle armi o la forza della ragione? Lui, umilmente, ribatte: la forza dell’amore, la forza della pace. In questi quattro interventi datati più o meno 2002, con semplici parole (come spesso usava nei suoi scritti), spiega (o cerca di spiegare) come possa nascere l’ideologia fondamentalista araba, lui che 6-7 anni prima aveva visitato, da giornalista, i campi di addestramento dei primi gruppi talebani di Osama. Cercando (e non riuscendo, tuttavia) di capirne la genesi mentale. Genesi che, forse, può riferirsi solo al rifiuto di un modello di cultura imposto. E che solo con l’amore per l’altro (e quanto si ritrova in queste parole quell’amore che ritrovo anche negli scritti di Enzo Bianchi!!) può portare verso momenti superiori di pace. Una cultura altra, imposta da mezzi di comunicazione, messaggi, internet, e via dicendo. Terzani (ed io con lui) dice una cosa semplice: se non ti piace quello che dice la televisione, spegnila! Mettersi sullo stesso piano dei Bush significa già aver perso, che le forze in campo sono così disparate. Negli orecchi, poi, mi risuona la polemica di allora, la contrapposizione (che si volle feroce, ma che era per due persone che, pur con visione opposte, si sono sempre rispettate) tra Tiziano ed Oriana. Due toscanacci passionali, pur con passioni opposte. E tengo sempre nel mio computer quelle due lettere tra rabbia, orgoglio e ricerca di una soluzione positiva. Ma non solo di pace si parla, anche se ne è il filo portante. Che si parla, e molto (come dicevo all’inizio) anche d’amore. In primo piano, e sempre, quello di Tiziano per la sua Angela. Un amore sbocciato poco dopo la soglia dei venti anni, e portato avanti per più di quaranta senza un tentennamento. Ogni volta che sento Terzani nominare la moglie (ma anche i figli Folco e Saskia) sono preso da una commozione interna, per quegli affetti che tutti cerchiamo e che in pochi si ritrovano a vivere. E non dimentico, concludendo, le parole di Folco (qui ed in altri contesti) che toccano quel tema di cui Terzani parlò poco ma percorse fino in fondo. La vita, il modo di portarla avanti. Sia nei momenti felici, quando il giornalista prendeva moglie e figli, ed ogni cinque anni cambia nazione, scenario, lingua, perché ogni nuova esperienza portava granelli di sapere e di avvicinamento verso qualche cosa che, anche nella fine della sua vita, non si riusciva a nominare. Ma c’era. Un altro. Un senso del divino. Una trascendenza. Soprattutto, un modo di capire quali sono le cose fondamentali per sé stesso, per la propria vita. E quanta zavorra è possibile poi eliminare. La tastiera del computer vola sulle parole, portandomi lì, in India, ai piedi delle montagne alte, guardando giù, verso vallate e fiumi che placidamente scorrono nelle pianure. E così capisco meglio, Tiziano e le sue parole, di pace, d’amore, di vita. Non dimentichiamocelo.
“Forse la non violenza è la soluzione alla quale dobbiamo guardare per il futuro, perché la guerra che mette fine a tutte le guerre non c’è mai stata.” (26)
“Vi auguro … di fare qualcosa che vi piaccia … allora non avrete bisogno di week-end, di hobby, perché l’hobby è semplicemente una distrazione, per dimenticare l’orrore della vita quotidiana. Ma se fate della vita quotidiana qualcosa di bello … non avrete bisogno di hobby.” (42)
“La formula del mio matrimonio è questa: grandi presenze e grandi assenze.” (55)
“Io ho fatto il viaggiatore, perché il viaggiare non ha una meta … [anzi] la meta è il viaggiare stesso.” (61)
“Rimuovere la morte vuol dire perdere la bellezza della via, della sua terminabilità.” (77)
“Essere … non avere. Ognuno di noi può fare un piccolo passo e tutti insieme ne possiamo fare uno molto grande.” (83) [ed io penso subito a Don Milani].
Siamo alla seconda trama del mese, e quindi vi prendete in sovrappiù anche il solito allegato dei medicamentosi libri. Questa volta dedicato alla gestione della famiglia, con il bel libro, anch’esso da poco tramato, di Seth.
Visto comunque che le partenze tardano a venire, sto anche pensando ad altri momenti di approfondimento dei viaggi. Motivo per cui il prossimo fine settimana sarò alla grande convention di Avventure per capirne meglio l’andamento attuale. Ora, sotto il diluvio romano, non posso altro che salutarvi.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

SETTEMBRE 2015
Incominciamo al ripresa invernale con un argomento di sicuro interesse, anche se, forse, non di altrettanta presa sul pubblico. Un Settembre che suggerisce un buon (anche se lunghissimo) libro su come gestire (o non gestire) la propria famiglia.

FAMIGLIA, GESTIRE LA PROPRIA

Vikram Seth “Il ragazzo giusto”
Quando siamo in famiglia stiamo benissimo e malissimo, per parafrasare Dickens. Si sa, è nel nucleo famigliare che nascono i nostri peggiori conflitti – affrontati a viso aperto o nascosti sotto il tappeto. Chiunque sia che vi dà sui nervi più degli altri - quel piccolo tiranno di vostro figlio, i vostri fratelli che non fanno che litigare, i vostri genitori che vi stanno sempre addosso, i suoceri che non la smettono di criticarvi, i vostri fuorilegge adolescenti, il vostro gatto crepuscolare - o magari quel membro della famiglia che continua a non voler fare la propria parte e lavare i piatti - vi proponiamo di leggere “Il ragazzo giusto” di Vikram Seth, un discreto tomo sugli infiniti giochi di potere all’interno delle case.
La storia non è proprio nuova: la signora Rupa Mehra vuole scegliere l’uomo giusto da sposare per Lata, la figlia più giovane, ma Lata ha altre idee. «Io so cosa è meglio per te» dice la signora Mehra, e «lo faccio solo per te». Non c’è bisogno di essere indiani per avere già sentito queste parole. (Immaginate che, invece che di un marito, la signora Mehra stia parlando di un capo d’abbigliamento, un taglio di capelli, o dell’ora giusta per alzarsi). Per quasi 1.500 pagine Lata rimbalza tra Haresh, il «ragazzo giusto» scelto dalla madre, «robusto come un paio di scarpe Goodyear», Kabir, il giovane attore suo compagno di corso di cui si innamora, e Amit, il simpatico poeta dilettante sostenuto dalle sorelle.
Lata è circondata da persone che cercano di influenzarla. E comunque, di chi è la vita che sta vivendo? Lei sa che alla fine dovrà essere lui a scegliere – non come atto di ribellione o per ottenere l’approvazione di qualcuno, ma liberamente. La lunghezza del romanzo dimostra quanto sia difficile.
La scelta che farà dimostra che per quanto possiamo lottare con le nostre famiglie per la libertà di essere noi stessi, siamo anche parte integrante di queste famiglie - immersi nella loro cultura, nelle loro tradizioni e nei loro valori. Possiamo voltare loro le spalle, ma sono loro che ci hanno resi ciò che siamo. Combattete con le vostre famiglie, dunque, ma siate consapevoli che in fin dei conti state combattendo con voi stessi.

Bugiardino

Sebbene ne abbia parlato poco più di un mese fa, ecco che ne ripropongo la scrittura per chi lo avesse perduto per qualche insondabile ragione (non capisco come si fa a non leggere i miei superlativi scritti).
Vikram Seth “Il ragazzo giusto” TEA euro 16
 [pubblicato il 2 agosto 2015]
In vista della partenza per il lungo tour indiano di gennaio ero preso dall’atroce dubbio se e come portare materiale da leggere, visto che, a parte le guide, non riesco ad usare iPad ed affini per leggere libri (ho ancora bisogno della carta…). Molti libri piccoli o il contrario? Ho deciso il contrario ed ho scelto questo veramente grosso libro, che credo sia il libro con il più alto numero di pagine che io abbia letto. E che ho portato da Delhi a Kolkata impiegando ben 20 giorni per assimilarlo. Devo senza dubbio dire, che soprattutto l’ultima parte del viaggio mi ha riconciliato con il libro, perché è lì, tra Orissa e Calcutta (uso i nomi del libro e non gli attuali) che si svolge una gran parte dell’azione. Che è vero si colloca nel 1950 (circa) ma che ha risvolti ancora attuali (mentre in alcuni aspetti sembra di una modernità che l’India attuale non pare avere). Siamo verso il confine tra India e East Bengala (ora Bangladesh) con gli ovvi attriti tra indù e mussulmani, dopo la grande separazione del 1948. Siamo nel Bengala, che è sempre stato abbastanza all’avanguardia nelle riforme del paese (governato a lungo dal partito comunista), ed in un’epoca in cui si cerca di limitare lo strapotere dei latifondisti. Ma siamo ancora nell’epoca dei matrimoni combinati (e qualcuno mi dice che non è che sia cambiato molto anche in questi ultimi 50 anni). E stranamente, una serie di usi e costumi sembrano invece essere più liberali allora che ora. Quasi che delle ragazze possano andare in giro da sole, o che, non dico abbiano rapporti fuori dal matrimonio, ma quasi quasi… È certamente un  libro pieno di cose, di avvenimenti, di storie. E tuttavia non mi ha soddisfatto in pieno. Ci sono lunghe pause “politiche” con discorsi sul latifondo, e con alcuni interventi addirittura di Nehru. Ci sono momenti in cui sembra aprirsi lo spazio per nuove idee e nuove prospettive. Ma sempre più ci sono momenti in cui tutto si chiude, per ritornare “nel solco della tradizione”, dove si accettano le regole solo per trasgredirle. E chi invece accetta le regole per sovvertirle sarà sempre destinato ad un ruolo secondario. O a perdere. Tutta la storiellona di 1500 pagine ruota, come indica il titolo, nella ricerca di un ragazzo appropriato (questo il più corretto significato di “suitable” secondo me) da far sposare all’eroina del romanzo, Lata Mehra. Iniziando dal matrimonio combinato della sorella Savita con il dolce Pran, per terminare, appunto, mesi ed anni dopo, con quello di Lata. Al primo matrimonio Rupa Mehra (vedova, 45 anni) è molto contenta di aver trovato  un giovane di casta Karthi (la seconda dopo i bramini) per sua figlia Savita. Inoltre Pran è di buona famiglia (il padre è il ministro delle finanze dello stato inventato del Purva Pradesh). Per questo Rupa inizia a tramare per trovare un buon partito anche per la figlia Lata, 19 anni. Anche il consuocero Mahesh Kapoor decide di ricordare nella stessa occasione a suo figlio Maan che è lui il prossimo che si devi sistemare. Entrambi i giovani, però, sono contrari e contrariati, tanto che immaginavo una loro convergenza, cosa che invece non accade. Sistemati quindi i due figli (l’altro maschio, Arun, ha sposato la chic Meenakshi, una signorina di buona famiglia di Calcutta, anche se è una Bengali, cioè di una casta diversa), Rupa può dedicarsi ai suoi progetti. Intanto assistiamo alle schermaglie discorsive tra Lata e la sua amica Malati, sia sui rapporti interpersonali, sia domandandosi come si possa amare qualcuno visto solo una volta prima delle nozze, ed in compagnia dei genitori. In questo frangente, Lata incontra in libreria un giovane che, anche se non immediatamente, sarà fondamentale nel corso del romanzo. La narrazione si sposta ore a Calcutta, per conoscere meglio l’antipatico Arun, la sua avversione e prepotenza per lo sfaticato e timido fratello, Varun. Si ritorna a Brahmpur per seguire la festività religiosa di Holi, durante la quale nella casa di Mahesh Kapoor, viene organizzato un concerto e viene invitata a cantare la bellissima Saeeda Bai, una cortigiana musulmana di 35 anni con una voce fantastica. Maan perde la testa per Saeeda, fa di tutto per attirarne l’attenzione, e ben presto entra nelle grazie (e non solo) della bella cortigiana, facendole visita regolarmente, non come cliente, ma come corteggiatore. La notizia della tresca di Maan con Saeeda certo non fa piacere al padre, uomo politico la cui credibilità rischia di essere messa in dubbio dalla condotta del figlio, e tanto meno a Pran, che è un lettore di inglese all'università di Brahmpur e spera di ottenere un posto da assistente. Tuttavia Maan è innamorato di Saeeda al punto di decidere di imparare a scrivere in Urdu, la lingua dei musulmani-indiani, per poterle scrivere lettere di amore. Il padre di Maan esasperato dal figlio, lo caccia di casa e Maan ne approfitta per andare con Rashid, il suo insegnate di Urdu fornito da Saeeda Bai, nella zona rurale dello stato. Nel frattempo Lata incontra nuovamente, per caso il giovane della libreria finendo per accettare un suo invito ad una romantica passeggiata sul fiume, dove scopre una cosa tremenda: il giovane si chiama Kabir Durrani ed è, quindi, musulmano e di certo un matrimonio misto nell'India del 1951, poco dopo la sanguinosa partizione del Pakistan è fuori discussione. Rupa Mehra grazie ai pettegolezzi riesce a scoprire che la figlia si è incontrata con un giovane a sua insaputa e quando viene a sapere che è Musulmano impazzisce di dolore e trascina Lata a Calcutta, lontano da Brahmpur e dal quel bel giovane. A Calcutta Lata frequenta spesso la famiglia di sua cognata Meenakshi, i Cattereji, e diventa amica di Amit, il figlio maggiore, poeta e scrittore, ma sua madre nel frattempo trama per avere un ragazzo adatto a Lata (i Cattereji come detto non sono Karthi, ma Bengali e il matrimonio di Arun fu una gran vergogna per lei). Ben presto va a trovare la sua amica Kalpana che le fa il nome di Haresh Khanna, un giovane Karthi, che ha studiato in Inghilterra e si occupa di produzione di scarpe, che andava a scuola con lei. Rupa decide di prendere contatti con Haresh e ben presto convoca Lata a conoscere questo candidato alla sua mano. Lata si trova ben presto con tre ammiratori: Kabir, Amit e Haresh e deve decidere quale sposare. Questo il nocciolo su cui si dipana e si annoda il resto delle più di mille pagine. Con parti politiche, importanti anche se abbastanza lente. Con la dolente parte religiosa, indotta dalla recente separazione nel continente sub-indiano tra stato indù (India) e stato mussulmano (Pakistan). Ci sono inoltre miriadi di altri personaggi, che ogni tanto entrano, agiscono, poi per un po’ spariscono, fino a riapparire in altra veste. Come ad esempio Haresh, ci erano stati presentati ben prima dell'incontro con gli altri protagonisti, a metà del libro, divagando lungamente sulle sue abitudini, i suoi amici eccetera, creando non poca confusione al lettore, del tipo "e chi è questo, adesso?". Oppure, seguendo le vicende di Maan incontriamo Saeeda Bai, seguendo Saeeda Bai seguiamo il suo suonatore Isaq che se ne va in giro per la città, litiga con un musicista e ci mostra i suoi problemi personali. Quale funzione ha Isaq al fine della storia? Nessuna, è solo un ornamento, interagisce a stento con altri protagonisti, eppure ha vari paragrafi dedicati a lui. Insomma, partendo dalla ricerca del ragazzo appropriato il romanzo racconta la vita politica, le scappatelle dei fratelli, i tradimenti delle mogli, le feste religiose che scandiscono il passare degli anni, le apprensioni di una madre e la voglia di libertà di una figlia, gli incontri poetici e letterari, la nascita di una nipotina da viziare, le lettere scritte con amore, la passione furibonda, gli esami all’università e gli incontri mondani. Alla fine Lata, tra il ragazzo dalle scarpe bicolori, il romantico poeta o il compagno di università musulmano farà la sua scelta, chiudendo il romanzo. Ma lasciandoci un po’ di delusione, che, come in una fiction che ci appassiona si vorrebbe continuare a seguire le vicende di tutti. Grazie comunque per lo sforzo che avete fatto nel seguire una trama che non può che adeguarsi alla lunghezza del romanzo. E che consiglierei di leggere nelle lunghe serate prima di addormentarsi, magari guardando ogni tano gli alberi genealogici ad inizio libro, che con tutti quei nomi si rischiano confusioni a non finire.

Conclusioni

Concordo sulla scelta di in(di)gestione familiare. Un perfetto manuale su quello che non si deve fare. E fortunatamente, come il diamox, con tanti effetti collaterali: descrizione del mondo indiano dal di dentro con una (possibile) migliore comprensione dei meccanismi atavici che governano i rapporti sociali di quel paese. Insomma una medicina a lento rilascio, dovendo affrontare le ben oltre mille pagine del libro, ma di sicuro effetto. Se volete qualcosa di rapido, invece, consiglierei di puntare su “Come ho perso la guerra” di Filippo Bologna.

domenica 6 settembre 2015

Geel or mavro? - 06 settembre 2015

Piccolo scioglilingua che gli appassionati lettori avranno già risolto. Torniamo, dopo una parentesi di letteratura cosiddetta “alta”, ai miei amori polizieschi. Dove abbiamo il ritorno di alcune figure lasciate anni o mesi or sono in altre letture. Il fiammingo Aspe (geel) con due nuove episodi della saga del commissario Van In, che stenta comunque (nonostante delle buone recensioni in giro per il mondo) a trovare un suo pubblico italiano. Ed il greco Markaris (mavro) con un altro titolo della discendente saga del commissario sempre meno “gialla” e sempre più legata alla crisi economica greca. Chiude la trama un romanzo di media portata, scritto da una cinese emigrata in America, un po’ debole sul lato “coinvolgimento”.
Pieter Aspe “Le maschere della notte” Fazi Editore euro 6,90 (in realtà, scontato a 5,87 euro)
[A: 03/07/2014 – I: 04/03/2015 – T: 05/03/2015] - &&&
[tit. or.: De kinderen van Chronos; ling. or.: nederlandese; pagine: 299; anno 1997]
Dopo circa tre anni sono riuscito a trovare un nuovo libro in italiano di Pieter Aspe, il cosiddetto “Simenon fiammingo”, anche se non sono poi così d’accordo su questa definizione. Comunque, come scrissi anni fa, benché osannato in patria, ed abbastanza letto anche nei paesi francofoni il nostro scrittore non ha avuto tanta fortuna e risonanza in Italia. Sei mesi fa sono usciti (o meglio ristampati) tre nuovi volumi della serie del commissario Van In, ed eccoci qua a commentare il primo dei tre. Che fortunatamente è anche il terzo della serie, e viene immediatamente dopo il “Caos a Bruges” che commentai a suo tempo. E come allora, cominciamo a disquisire sul titolo, che, come al solito, ha un suo senso in originale e non ne capisco il senso in italiano. Maschere? Notte? Assolutamente e completamente un titolo insulso, che (forse) fa riferimento a pagina 294 (cioè a 5 pagine dalla fine) dove uno dei personaggi indossa una maschera ed è notte. Ma ciò è molto ridicolo. Quando invece, i figli di Crono hanno un loro senso mitologicamente corretto. Ricordo che, nella teogonia di Esiodo, Crono, avvertito da una profezia nefasta, decide di uccidere i propri figli per evitare di essere spodestato. Si salva solo l’ultimo, tal Zeus, e non c’è bisogno di andare avanti. Qui, Aspe si ferma un po’ prima, che Crono non uccide “fisicamente” i propri figli, ma in un certo senso li porta alla morte, vuoi fisica vuoi morale. La costruzione della storia riconcilia un po’ con il primo Aspe e con la traduzione di Valentina Freschi. Da un lato, al solito, c’è la vicenda poliziesca. Viene ritrovato uno scheletro in una villa una volta appartenuta ad una onlus che non promette nulla di buono. E subito si scatena un fuoco di fila intorno alla villa stessa ed alla onlus. Da parte del deus ex-machina della onlus, Vandaele, ricchissimo, pedofilo ormai in pensione, ma anche organizzatore di divertimenti per i suoi amici. Per l’avvocato Provoost, per il ministro Brys e per l’ex-belloccio Aerts. In mezzo c’è la vita del commissariato di Bruges, dove Van In non fa carriera (per i suoi modi un po’ fuori regola), dove si accompagna con il suo alter-ego, Versavel, brigadiere gay che era ben riuscito nel secondo episodio, mentre qui si mette un po’ in ombra, molto sommerso dai suoi problemi personali (è stato appena lasciato dal suo convivente pluriennale Frank e questo non lo mette certo di buon umore; tuttavia permane una presenza poco incisiva per tutto il romanzo, riscattandosi forse solo nel finale). E nel commissariato ci sono la giovane agente Corinne e l’ispettore (ben corrotto) Baert, nonché il trait-d‘union con il terzo filone, e cioè il sostituto procuratore Hannelore. Che introduce il filone privato, essendo infatti incinta di Van In, e permettendoci di gustare alcune scene private (la dieta di lui, che limita sigarette e birra Duvel, le voglie di lei per le patatine fritte con la maionese, l’aspettativa che il figlio nascerà nel prossimo libro). Ma come detto, la vicenda parte dallo scheletro, dal tentativo di capire il coinvolgimento di Vandaele e dal mistero di una porta telecomandata per una casa nel bosco. Il detonatore della vicenda sarà la fuga di Aerts con soldi e la crisi della di lui moglie, che prima cerca di ricattare Vandaele ed i suoi, poi si lascia convincere da Hannelore a fare delle ammissioni, ed a permettere di ricostruire gran parte della storia. Vandaele, prima di ereditare dal padre, faceva il maestro in una scuola dove aveva come allievi (e come oggetti sessuali) Provoost, Brys, Aerts e i gemelli Damert (che i primi tre crudelmente seviziavano). Cresciuti, mentre i primi due si avviano alle loro carriere pubbliche, Aerts mette su un pub (con donnine) e gestisce la casa nel bosco (con le stesse e con altre che gravitano, senza soldi, intorno alla finta onlus di beneficenza). Peccato che un gemello torni da trans nel bordello di Aerts, e venga ucciso (o così pare) dai due “ricchi”  e sepolto da Aerts nel giardino della casa. Peccato che il corrotto ispettore Baert sia l’altro gemello, che, scoperto l’omicidio, uccide Provoost. Poi c’è Corinna che si infiltra nella onlus, viene scoperta, si sta per organizzare uno sniff movie (e se non sapete cos’è vuol dire che non avete letto abbastanza polizieschi). Peccato che Aerts confessi molto a Van In, che irrompe con i suoi, uccide il ministro e fa piazza pulita di molti depravati altolocati. Peccato che Vandaele muoia di cancro e non possa confermare tutte quanto accadde. Per fortuna che c’è ancora un mistero che lascio scoprire a chi avrà voglia di leggere il libro. Che, scritto poco dopo la vicenda del mostro di Marcinelle, prefigura scandali e perversioni della vita pubblica belga che usciranno poi nel successivo decennio. Buona quindi la scrittura di Aspe e le sue anticipazioni. Meno la collocazione spaziale, che questa volta c’è poca Bruges nello scritto. Peccato, ma in ogni caso rimane leggibile.
Petros Markaris “Resa dei conti” Bompiani euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 02/04/2014– I: 06/03/2015 – T: 08/03/2015] - && e ½ 
[tit. or.: Ψωμί, Παιδεία, Ελευθερία; ling. or.: greco; pagine: 300; anno 2012]
Capisco che il titolo greco non significhi molto per i non greci, ma “Pane, Istruzione, Libertà” ha un senso, legato alla storia (del romanzo e della Grecia), mentre la resa dei conti cerca di incamminare il lettore verso una delle possibili soluzioni del falso mistero, che porti il lettore su di una falsa pista, per poi arrivare al finale “illuminante”. Per chi non ne avesse conoscenza, quello sopra riportato è il grido di Radio Politecnico, che veniva inviato da parte degli studenti asserragliati nelle Università di Atene durante la rivolta del 1973 contro il regime militare dei colonnelli, e che diede avvio alla fase finale di quel regime, ed al ripristino della democrazia l’anno seguente. Questo per la storia. Per il romanzo, è legato ad un messaggio che parte dai cellulari delle vittime del romanzo, quelle che secondo il traduttore italiano appunto arrivano alla resa dei conti, appena i copri vengono trovati dal nostro commissario. E come tre sono le grida del messaggio, così tre saranno i morti. Non vi dico i nomi che con la pronuncia e la grafia greca faccio a botte. Ma sono il primo un costruttore arricchitosi durante la costruzione delle strutture per le Olimpiadi del 2004, il secondo un professore di Giurisprudenza, di chiara fama politica e di scarso profilo professionale, il terzo un sindacalista, teso a sistemare gli “amici” in posti di tranquillità. In cosa erano legato i tre, tra loro e con lo slogan di cui sopra? Avevano tutti e tre partecipato all’occupazione del Politecnico, e, alla caduta dei colonnelli, approfittato di questa aura di “martiri della Nuova Resistenza”, fatto carriera, ognuno nel proprio campo. Il costruttore ottenendo appalti quasi senza gareggiare. Il professore ottenendo il dottorato e la cattedra presentando lavori copiati. Il sindacalista ottenendo appalti lucrosi da parte della Comunità Europea. Tutto a scapito, ovviamente, dell’onestà. Nonché delle famiglie. Fedifraghi, con mogli che o tacciano o, se si ribellano, decidono di andarsene. E figli, che rifiutano di segire le orme dei padri. Tanto che il figlio del primo si fa arrestare per futili motivi poco prima dell’uccisione del padre. La figlia del secondo si trova stranamente in Spagna durante l’assassinio. Il figlio del terzo, poi, è stabilmente in campagna, dove vive coltivando e vendendo prodotti bio. Il nostro commissario Charitos brancola per 250 pagine nel buio, distratto da altro su cui torno. Solo alla fine trova un bandolo, scoprendo l’esistenza di un quarto membro della Resistenza, tal Iannis (è sempre bello avere omonimi) che, al contrario degli altri tre, non scese a compromessi, non accettò né ricambiò favori, insomma “un puro”. E che però ora, dopo 40 anni comincia a tentennare. Trovando aiuto in… Basta così per la trama principale, che regge per 2/3 ma che trovo scarsamente convincente nel finale (pur se rimane aperto qualche spiraglio, come se il nostro volesse lasciarsi aperto uno aggancio per una successiva ripresa della trama e dei suoi personaggi). Se fosse solo questo il libro, il romanzo avrebbe una sua dignità ed un suo interesse. Quello che Markaris mette in più è il contorno greco. Dove, purtroppo, tentando di dare un ritratto della Grecia attuale, fa un’operazione “a tesi” che mi lascia un pochino perplesso. Intanto immagina un ritorno alla dracma, con una descrizione delle conseguenze che, grazie al mio amico Renato, non mi convince per il suo semplicismo. Inoltre, se da una parte dipinge con correttezza e partecipazione le miserie della Grecia attuale (povertà, disillusione, scontri tra poveri, poteri forti che bellamente si tirano fuori avendo guadagnato tanto che ormai possono andare altrove) lo fa appunto in modo quasi posticcio. Partecipiamo emotivamente alle lotte di Caterina, di Zisis, di Monia per aiutare i disadattati. Comprendiamo Kyriakos ed i suoi slanci verso i detenuti. E tutta la descrizione degli adattamenti che tutti cercano di fare per sopravvivere (blocco degli stipendi, disoccupazione, ricerca, dei più illuminati, di uno stile di vita di più basso profilo). Ma tutta questa parte è un libro a sé, che, giustapposto all’altro libro, ne fa alla fine un insieme che non sta insieme (scusate il bisticcio di parole). Markaris non è riuscito a trovare la chiave di volta per utilizzare il racconto giallo al fine di descrivere un momento di realtà, con tutte le sue sfaccettature. E scrive due romanzi, cercando i modi di farne combaciare i pezzi, come in un puzzle mal riuscito. Alla fine risulta un libro pesante, dove, le seppur giuste critiche allo stato attuale greco ed al modo di esservi arrivati (ed alla difficile prospettiva di trovare una via d’uscita) non si legano alla trama giornaliera dei personaggi, alle morti, alla ricerca dei colpevoli, e così via. Due ultime critiche prima di salutare il nostro amico greco e dargli appuntamento al prossimo romanzo. Ancora una volta, molti capitoli sono infarciti di indicazioni stradali su come muoversi tra le varie zone di Atene che ormai hanno saturato la pazienza anche di chi è “addicted” a Google Maps. Inoltre, come non notare un parallelismo troppo smaccato con la vicenda narrata nel suo libro di dieci anni prima “Si è suicidato il Che?”. Si attendono spiegazioni e chiarimenti.
“Politecnita, s.m., colui che conosce o lavora in molte arti.” [ho compulsato a lungo Devoto-Oli ed altri dizionari, senza trovarvi questo nome, che esiste sicuramente in greco, ma che in italiano sembrerebbe doversi tradurre con un anonimo “tuttofare”] (183)
“La gente crede che l’università sia il tempio della scienza … [invece, anche lì] prevalgono le alleanze dubbie, le compravendite e gli interessi di parte.” (218)
Pieter Aspe “La quarta forma di Satana” Fazi Editore euro 6,90 (in realtà, scontato a 5,87 euro)
[A: 03/07/2014 – I: 15/03/2015 – T: 17/03/2015] - &&&
[tit. or.: De vierde gestalte; ling. or.: nederlandese; pagine: 300; anno 1998]
Come vedete dalle date, acquistato con il precedente tramato approfittando di un’offerta dell’editore. E come per il precedente, con un piccolo “vizio” nel titolo, che in originale parla solo di “Quarta forma”, tralasciando quel Satana, che ovviamente c’entra, essendo una storia di sette sataniche e morti correlate. Ma che, andando a zonzo su siti dedicati ad Aspe, credo derivi dal titolo che viene dato ai libri nella traduzione francese. Anche se, nel risvolto, si dice che Valentina Freschi lo ha tradotto dal nederlandese, e noi ci crediamo, essendo la traduttrice specializzata appunto in nederlandese e tedesco. Ma torniamo al libro ed alle vicende del commissario Van In & co. Che, come ormai sappiamo e ribadiamo dal libro precedente, procede su due binari: pubblico e privato, con qualche cross, che qui poi si rivela importante, come vedremo. Nel privato, continua la gestazione di Hannelore, il sostituto procuratore compagna del commissario, che porta avanti la sua gravidanza, con tutti gli sbalzi d’umore che questa comporta. E con i risvolti verso il nostro Pieter (ovviamente il commissario, non l’autore), che un po’ smette di fumare, e poi riprende. Che limita il bere, ma non si può trattenere davanti da una Duvel grondante di schiuma (e sappiamo bene quanto bevano i belgi). fortunatamente, tuttavia, sul lato ispettore Versavel va meglio, che il suo compagno Frank, dopo un piccolo allontanamento nel libro precedente, torna a casa, ristabilendo il tranquillo ménage della coppia. E veniamo ai morti. Cominciamo con la giovane Trui, trovata morta in un rigagnolo di Bruges, apparentemente per suicidio. La polizia indaga, e comincia a trovare dei collegamenti. Prima con il giovane Jonathan, che ignaro della morte l’andava cercando. Giovane sbandato e tossico, che, in astinenza e messo alle strette, parla di Jasper, il compagno di Trui, e poi di una setta da cui cercavano di liberarsi. Ed ecco entrare in scena il satanismo, con qualche scena cruenta, ma soprattutto vediamo profilarsi l’ombra del deus ex-machina della setta, tal Venex, che sembra avere tutti in pugno (Jonathan, Jasper, Richard, Fryderyk) per la facilità con cui si procura e fornisce loro droga a gogo. L’indagine è poi complicata dalla presenza di una cosiddetta giornalista, Saartje, messa sulle code di Van In dal suo capo, e soprattutto di gradevole aspetto, tanto che il nostro sembra cedere al suo terzo demone (ovviamente, bacco, tabacco e venere). Mentre Jonathan si defila dalla scena (apparentemente, ma in realtà in crisi di astinenza ritorna da Venex che lo utilizza per incasinare la scena), Jasper, preso da turbe psichiche, si getta dal quarto piano dell’ospedale. Ancora una morte poco convincente, dicono i nostri. Anche perché l’ospedale ha come psichiatra il dottor Coleyn, padre di Richard, ma soprattutto, amante anni prima della sorella di Trui, poi suicidatasi dopo aver dato alla luce un  bambino. Affidato ad un orfanotrofio, sulle tracce del quale, si scopre: che anche Trui lavorava alla struttura, dove conosce Jonathan, che gli presenta Jasper che era seguace di Venex, ma che l’amore di Trui porta fuori la setta. Non ci sorprende che Jonathan sia quindi il nipote di Trui, che Richard, dedito alle droghe si allontani dal padre. Venex, nel suo sogno di riscatto dalla società, vuole anche soldi, soldi, soldi. Convince allora Fryderyk a fare una strage uccidendo il padre notaio ed incassando una lauta eredità. Questa era la notizia che Trui aveva inviato alla Pubblica Sicurezza belga, che aveva messo sulle piste la di sopra Saartje, non giornalista ma poliziotta anche lei. Il colpo di scena finale, è la cosa meno riuscita del libro, tanto è casuale e poco elaborata. Jonathan, in quasi overdose, viene salvato e ricoverato in ospedale. Venex, per paura che sveli tutto, va per ucciderlo. Nello stesso momento, Hannelore ha le doglie e viene ricoverato nello stesso ospedale. Il nostro commissario quindi si trova di fronte il colpevole di tutto, che tenta un misero sequestro, fallimentare. Uscendone morto, dopo aver svelato tutti i retroscena, che io invece non vi dico. Nel convulso finale, Hannelore riesce anche a partorire, e, facendo una sorpresa al commissario, nascono due gemelli, cui vengono messi i nomi di Simon e Sarah. Poca Bruges, in questa storia. Ed anche un finale troppo veloce, in cui Aspe svela tutte le carte a sorpresa, fornendo il colpevole senza che noi poveri lettori abbiamo la possibilità di avere qualche labile indizio per cercare di fare  a nostra volta i commissari in poltrona. Quindi una lettura media, più di stima che di contenuto. Un po’ di vita dei cittadini del piatto paese, come cantava Brel, ma non molto altro. Vedremo se e cosa ci riserva il futuro.
Diane Wei Liang “La casa dello spirito dorato” Repubblica MondoNoir 9 euro 7,90
[A: 01/09/2014– I: 30/04/2015 – T: 01/05/2015] - &&&-- 
[tit. or.: The House of Golden Spirit; ling. or.: inglese; pagine: 318; anno 2011]
Una buona prova per la serie Noir di Repubblica che gira intorno al mondo. Una prova che ci porta a Pechino e che dovrebbe fare da contraltare alle storie cinesi di Qiu Xialong. Non perché opposte, anzi proprio perché similari negli autori, entrambi profughi negli Stati Uniti dopo le vicende di Piazza Tienanmen. Le metto in paragone ideale nella mente, che trovo Qiu molto “cinese” tanto da essere a volte illeggibile, e Diane molto “americana” tanto da rendere a volte non credibile la storia. O forse troppo credibile, visto che questo suo terzo volume dedicato a Wang Mei, donna e investigatrice, è stato censurato in Cina. Nei primi due libri (di cui ho traccia nel Web, ma non ho letto) seguiamo la parabola di Mei: poliziotto presso il Ministero della Pubblica Sicurezza, molestata da un funzionario intoccabile, lascia il posto ed a 31 anni (età in cui una ragazza viene considerata troppo anziana per sposarsi) apre un’agenzia di investigazioni. Che però si chiama di consulenza, che l’attività investigativa non è legale in Cina. Mei è considerata fredda, poco sociale, anche se ha una sorella stella della nascente televisione privata (e molto ricca, gira in Mercedes). Mentre lei guida una poco appariscente Mitsubishi. Ha un segretario, Gupin, che viene dalla provincia. Ed un presunto fidanzato che sta studiando in America e di cui si attende il ritorno. Deve ancora venire a patti con una drammatica scoperta fatta di recente: sua madre, infatti, per salvare la vita delle figlie, aveva denunciato le attività "controrivoluzionarie" del padre, morto poi in un campo di Rieducazione durante la Rivoluzione Culturale quando Mei aveva quattordici anni. In questa confusa situazione personale, Mei viene contattata da Wudan, avvocato, per conto della potente famiglia Song, a capo da generazioni della ditta farmaceutica “La casa dello spirito dorato”, produttrice di una famosissima pillola in grado di curare anche un cuore spezzato. Mei deve indagare sul misterioso e corrotto Mister Li, ex socio sospetto dei Song, ma proprio mentre sta per iniziare a muoversi, la sua agenzia viene chiusa senza un motivo particolare dal rigido funzionario Tanyi Fu. In questo intreccio di pubblico e privato, si consuma il dramma di una Cina post-olimpica, che sta avanzando a passi da gigante verso il capitalismo di Stato. Ma dove le imprese e le iniziative private la fanno da padrone. Wei Liang ha buon gioco nel lanciare strali verso la corruzione imperante. Verso i processi senza difesa per gli imputati. Verso la burocrazia corrotta. Verso la televisione corrompente. Insomma verso tutte le introduzioni occidentali nel corso della vita orientale che ne hanno distorto una pretesa retta via. E ben lo sappiamo noi che abbiamo visto l’evoluzione di Pechino per tutti gli anni Novanta! E lancia anche la sua giovane Mei nel dibattito sulla Rivoluzione Culturale di Mao, sui processi sommari dell’epoca, sulle delazioni. In questo con un parallelo con le ultime opere di Qiu. Ma rimane anche il giallo. Quello in cui vengono uccise prostitute. Quello in cui sembra finire in un cerchio magico la povera Mei, quasi che sia lei stessa ad aiutare gli assassini. Mentre lei, finalmente, trova alleato nel suo vecchio (in senso temporale) capo, l’ispettore Zong. Insieme verranno a capo dell’intricata vicenda delle pillole della felicità. Con ulteriori dolori e ripensamenti da parte di Mei. Che prima si innamora di Wudan, poi ne rimane delusa quando… (questo non lo dico). E tormentandosi del suo amore verso il lontano Yaping, quando questi torna a Pechino e la chiede in sposa, lei decide di dirgli di … (e neanche questo lo dico). Ritengo che il libro potesse essere più spigliato. Ma sicuramente una parte della farraginosità deriva dal fatto di essere il terzo volume, e che l’autrice suppone noi si conosca i primi due. Quindi a volte mancano riferimenti. A volte trovo semplicistico e riduttivo il mode di descrive l Pechino di oggi. Ma forse sono io che mi sbaglio, visto che, come  detto, il libro è bandito dalla Cina. Insomma lettura più di testa che di cuore. Interessante ma non soddisfacente.
Prima trama del mese, e quindi un piccolo elenco dei tredici libri del mese di giugno, senza nessuna grossa segnalazione positiva, e con la prova di bassa resa di una delle ultime letture del Noir italiano del Sole 24 ore.

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Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Kerry Greenwood
Morte di un marito
Repubblica  MondoNoir
7,90
3
2
William Faulkner
Mentre morivo
Adelphi
10
3
3
Agatha Christie
La morte nel villaggio
Corriere della Sera
6,90
3
4
Agatha Christie
Miss Marple e i tredici problemi
Corriere della Sera
6,90
2
5
Agatha Christie
Se morisse mio marito
Corriere della Sera
6,90
3
6
Agatha Christie
Perché non l’hanno chiesto a Evans?
Mondadori
4,90
3
7
Ken Kesey
Qualcuno volò sul nido del cuculo
BUR
9,90
3
8
Massimo Donati
Diario di spezie
Sole 24 ore  Noir
6,90
1
9
Gianni Biondillo
Nelle mani di Dio
Guanda
5,50
3
10
John Buchan
The thirty-nine steps
Oxford
s.p.
2
11
Maurice Leblanc
Arsène Lupin, ladro gentiluomo
Corriere – Gialli
6,90
2
12
Amos Oz
La vita fa rima con la morte
Feltrinelli
6,50
3
13
Amos Oz
Tra amici
Feltrinelli
8
3

Non solo viaggi cancellati, ma anche viaggi che prendono altre strade, con, al momento, poche prospettive avventurose. Vorrà dire che dovrò dedicarmi di più al riordino di tutto quanto è ancora in mezzo alle scatole. Speriamo in un aiuto giapponese.