martedì 31 gennaio 2012

Luoghi giallognoli - 21 febbraio 2010

Giallognoli perché sono, più o meno, etichettati con la targhetta giallo, poliziesco, noir. Ma il mio gentile spregiativo, indica che, per i miei gusti, non ne raggiungono la piena maturità. E luoghi perché la forte connotazione è quella di posti, città d’ambientazione. Il primo ci trasporta in una a me sconosciuta Edimburgo (ma prima o poi ci si andrà). Il secondo torna in una Torino che un po’ conosco ma che mi si narra meglio di quanto io pensi. Il terzo infine, non ha una città specifica, ma è una classica, sperduta, città della profonda provincia americana. Tra l’altro il primo era tempo che lo volevo comprare, quando l’ho ricevuto in regalo.
Cominciamo con l’autore anglo-zimababwese (anche se rhodesiano sarebbe più corretto).
Alexander McCall Smith “Il club dei filosofi dilettanti” TEA s.p (regalo di Rosanna)
A parte la storia del regalo, sono perplesso verso il buon Alexander. Avevo letto anni fa il suo libro sulla detective del Botswana, e mi aveva lasciato freddo (buona narrativa, forse, ma scarsa drammaticità). Lo stesso dicasi per questo, ambientato in una Edimburgo che prima o poi dovrò vedere. A Chiara piacevano tanto i suoi scritti, ma forse letti in lingua hanno rese diverse. Qui ritorno ad essere piattino, e di bassa tensione. Carine soltanto alcune tirate sull’etica applicata, ma del giallo è meglio lasciar perdere. Isabel Dalhousie, la protagonista, è, infatti, la direttrice della "Rivista di Etica applicata", ed assiste durante un concerto alla Usher Hall di Edimburgo alla morte di un giovane uomo, caduto dalla balconata del teatro. La donna non è convinta delle conclusioni tratte dalla polizia locale e decide d'indagare personalmente, immischiando nella faccenda Jamie, l'ex ragazzo di sua nipote Cat, che nel frattempo ha una storia con Toby, il quale non convince appieno Isabel. Tra una tazza di tè, un vernissage e chiacchierate davanti ad una pinta di birra (in fondo siamo sempre in Scozia) il “mistero” (e ci vorrebbero molte ma molte virgolette) viene dipanato, Toby se ne va con la coda tra le gambe, e tutti si avviano verso nuove avventure. Ma la tensione? Il poliziesco? Nulla di nulla. Rimane una scrittura elegante, ed una sensazione che bisognerebbe andarci (sia in Scozia che in Botswana e in Zimbabwe). A qualcuno farà comunque piacere una storia scozzese, per ora. Io, in fondo, mi dichiaro soddisfatto (è bello ricevere in regalo qualcosa che si voleva avere).
“So che non dovrei parlarti così, perché non bisognerebbe dire agli altri cosa devono fare” (23)
“a volte … trovava stupefacente il fatto di essere stata così attratta da lui. … ‘è il sesso’ [le diceva] una delle amiche di Isabel ‘fa stare insieme la gente più diversa’” (49)
“le persone che amiamo non ci mettono mai in imbarazzo” (51)
“chi è più felice: chi è consapevole e ha dei dubbi o chi è sicuro delle sue certezze e non le mette mai in discussione?” (57)
“Non ricordo quando è diventato normale che i politici mentano. … è iniziato con Nixon … poi la moda è arrivata di qua dell’Atlantico e hanno iniziato anche i nostri. … Adesso è la norma” (68)
“L’educazione consiste nel prestare attenzione agli altri: bisogna trattarli con serietà e correttezza, comprenderne i sentimenti e i bisogni. Gli egoisti tendono a non comportarsi così, e si vede. Sono impazienti con quelli che ritengono contino poco… Chi è educato presta attenzione a tutti” (152-3)
“[ci] sono quei giorni in cui vuoi rannicchiarti su te stessa e far sparire il mondo” (184)
“di solito agli uomini non piace sapere che una donna li trova attraenti… è un’informazione fastidiosa che li mette a disagio. Ecco perché gli uomini scappano dalle donne che li inseguono” (230)
Torniamo invece ora in Italia, ed all’ex professoressa Margherita.
Margherita Oggero “Qualcosa da tenere per sé” Mondadori euro 9 (in realtà, scontato euro 7,20)
Una nuova puntata delle avventure della professoressa Camilla Baudino. Piacevole. Sia per quella Torino che non conosco ma che mi viene rimandata simile da chi la conosce, sia per una storia che tutto sommato è scorrevole (anche se non travolgente). La Baudino si aggira sempre pensando alla sua (non-)storia con il poliziotto Gaetano, e sui motivi della sua insoddisfazione verso il marito ormai “distante”. E un giorno mentre rimugina su questi pensieri, Camilla viene salvata dall'aggressione di un tossico da Liuba, una ragazza che vive in una specie di comunità di semi-anarchici e lavora in un sexy shop. Liuba è preoccupata per la sparizione di Quantunque, ragazzone buono, ma non troppo sveglio che vive con lei nella comune, chiamato così poiché inizia sempre le sue frasi proprio con la parola "quantunque.." senza mai terminarle. Nel frattempo viene ritrovato il cadavere torturato di Flora, prostituta non più nel fiore degli anni, del cui omicidio si occupa Gaetano. Lo sviluppo degli eventi farà si che anche Camilla venga coinvolta nelle indagini, poiché stringerà con Liuba un rapporto di amicizia e vorrà aiutarla a ritrovare Quantunque. Gli accadimenti, anche amorosi, si susseguiranno uno dopo l'altro, ad un ritmo serrato, dando slancio alla narrazione verso un finale tutto sommato scontato ma non deludente. Ci sarà spazio anche per le riflessioni sulle proprie scelte, sulla capacità di dare una svolta alla propria esistenza, e, sul bisogno di spiegarle queste decisioni. Perché non è sempre necessario dire tutto, sia su sé stessi che sugli avvenimenti che ci coinvolgono, c'è sempre "qualcosa" che si vuole (o si può o si deve) "tenere per sé".
“L’inverno, se si ha un tetto sulla testa, è la stagione più bella di Torino. Quella in cui i colori hanno una nettezza nordica e gli spazi delle piazze diventano percepibili nella loro grandezza; quella in cui l’ombra fredda sotto i portici divide il selciato in parti che non comunicano tra loro, appartenenti a spaccati diversi di una scenografia monumentale e fantastica. L’estate invece è una stagione estranea che fa affondare la città in una mollezza orientale … con le strade quasi deserte e le serrande dei negozi abbassate come palpebre su occhi sonnacchiosi, con le alberate dei viali – tigli siliquastri ippocastani aceri platani – stremate dal peso delle foglie immobili nella calura. Il sole che picchia duro fa incassare le teste tra le spalle e nessuno alza lo sguardo…” (9-10)
Finiamo con l’americano che piace tanto a Roberta.
Joe R. Lansdale “Una stagione selvaggia” Einaudi euro 11 (in realtà, scontato 8,80 euro)
Il primo della serie di Hap e Leonard. A tratti divertente, a tratti scontato, comunque un po’ di idee, di atmosfere, e di pallottole dure che vagano per le paludi. Mi piace quando è ironico. Un po’ meno quando fa il verso ai noir francesi degli anni ’70. L’idea di partenza mi è parsa degna: vediamo due personaggi, che ci arrivano da storie diverse, ma che ora, amici, vivono una loro vita sul versante del tirare avanti. Un bianco reduce dalla sbornia degli anni ’70, un po’ “rossiccio”, ed un nero, gay, che ha fatto il Vietnam, e ha un gran cuore. Due amici improbabili, che vengono coinvolti, da una piccola flotta di ex - libertari, nella ricerca di un tesoro nascosto. C’è la bella, ex di Hap. C’è l’ex-leader che ora pensa al suo ombelico. C’è il ciccione che va in analisi. C’è il malandrino, che cattivo più di così non si può. La storia è un po’ un pretesto da un lato per criticare una sbornia di libertà che poi porta solo alla famiglia Bush al potere. Dall’altro per fare un po’ il verso agli hard-boiled anni cinquanta (ed ai loro epigoni francesi). Ma tutto serve (forse) ad introdurre ed ambientare i nostri due eroi. L’ironia di Lansdale è di quelle che a me piacciono (quel buttare lì una battuta, senza starci tanto su a pensare, e poi vederne l’effetto domino). La storia, come detto, non è delle più avvincenti, anzi forse un po’ scontate. Ma una buona lettura complessiva. E serve anche questo per riflettere su quel periodo storico che tante speranze aveva innescato e poi… e poi, come Hap, ci si ritrova con qualcosa in mano, ma meno di quanto ci si aspettava. Il suggerimento è che anche quel poco può essere messo a buon frutto. Si andrà avanti con i due in altri episodi ed altre puntate, che mi si narrano di miglior resa. Vedremo …
“Andai a vedere come stava venendo il suo lavoro di falegnameria… Stava lavorando un po’ alla volta, e come sempre in quel genere di cose, la sua abilità era impressionante. Io non ero capace di mettere un preservativo senza istruzioni, e comunque l’avrei anche potuto infilare al contrario” (22)
“ [ho fatto l’amore con..] … – Non è quello che volevo sentire. – E’ la verità. – A volte è meglio una piccola bugia innocente.” (90)
“Mio padre mi diceva sempre che se hai paura di qualcosa l’unica cosa da fare è affrontarla faccia a faccia. In questo modo ti risparmi un sacco di notti insonni” (116)
Ormai siamo in Quaresima, ed a grandi passi ci si avvia verso la Pasqua. Un altro piccolo passo del vostro tramatore preferito verso la perfezione (ah ah) è stato fatto: da qualche giorno si va anche in palestra ed in piscina, alla ricerca della forma perduta (purtroppo non di formaggio).

lunedì 30 gennaio 2012

San Valentino seriale - 14 febbraio 2010

In questa giornata di scambi di baci (diventati a volte un po’ commerciali) mi aggancio alla serialità dell’avvenimento, per dar fondo a tre commissari di cui ho letto l’ultima fatica. Parliamo dello svedese commissario Wallander, del siciliano commissario Montalbano e della spagnola ispettrice Delicado. Qui riuniti appunto perché ne ho letto (anche se non sempre in ordine) tutto il pubblicato. Sono tre spaccati sociali diversi, pur sempre con lo stesso intento di utilizzare il poliziesco anche (a volte soprattutto) per parlare del sociale. Il livello è sempre di eccellenza, anche se in queste prove forse l’italiano ne esce meglio. Mentre Alicia in questa prova non mi ha convinto molto (forse toccando corde sensibili, ma in modo che non mi coinvolge). Mankell è standard (non al meglio), ma si legge.
Sono tutte letture terminate poco dopo la fine dell’estate, da ricordare ora che fa un po’ (troppo freddo). Cominciando quindi dal più freddo di tutti, dal commissario svedese.
Henning Mankell “L’uomo che sorrideva” Marsilio euro 8,50
E con questo (che poi è il quarto della serie) ho finito di leggere tutti i libri della saga del commissario Wallander. Questo è un romanzo del suo periodo buio, uscito dal terzo dove uccide un uomo, e prima del quinto e della storia d’amore con Beiba. Come atmosfera, poi, si ricollega molto all’Omicidio al Savoy del commissario Beck, dove sempre di intoccabili si parla. Periodo cupo, quindi molto incentrato sul commissario che guarda sé stesso e cerca di capire la sua strada. Non vuole più far parte di quel mondo che uccide, ma la morte di un amico lo coinvolge, lo rimette in gioco. E non si tira indietro. Anche perché quello sa fare. Quello è il suo mestiere. Cercare di scovare gli assassini, e tirar su una squadra di poliziotti, cosa che merita una buona dose di lavoro psicologico, come in tutti i lavori di squadra. Questa forse la cifra che più mi ha preso, di un libro scritto bene, ma, se vogliamo, un po’ da mestierante. Non c’era l’entusiasmo delle prime inchieste, la scoperta del solitario mondo scandinavo. E per il lato sociologico, dopo i primi buoni tentativi, rientra un po’ nel solco preso dalla coppia svedese antesignana del giallo di critica sociale. La novità è questa attenzione agli altri, che merita un gran lavoro (sempre ed in ogni contesto). Qui mi è piaciuto, anche se nella velocità degli accenni. Avendo letto il resto della saga so già cosa lo aspetta, l’amore con la lituana, il doverla lasciare per motivi vari, la crescita della figlia, la morte del padre. E so già che Mankell riprenderà con più lena a scrivere di altre storie ed altri intrecci, più crudi e più avvincenti. Una buona lettura da rientro estivo.
Saliamo molto, di toni e di temperatura, scendendo giù in Sicilia.
Andrea Camilleri “La danza del gabbiano” Sellerio 13 (in realtà, gratis con Feltrinelli +)
Si torna a qualche trama di stampo classico. Un po’ di giallo che non guasta. Qui, infatti, si comincia con la scomparsa del buon Fazio, in fondo una persona che sta a cuore a Salvo forse più della ormai distante Livia. Tanto che se la dimentica (dovevano fare un giro nella Val di Noto, e se non lo avete fatto ve lo consiglio) e si butta a capofitto nella ricerca, nel ritrovamento ed in tutte le conseguenze che la sparizione aveva sollevato. Inchieste di droga, o di contrabbando: navi che vanno e che vengono, trame sempre più fitte e tese all’internazionalizzazione del crimine. Un rompicapo insomma, che mette a dura prova la mente sempre più brillante del commissario. La stanchezza che aveva dimostrato ne L’età del dubbio lascia il posto in queste pagine a una consapevolezza più lucida e matura. Non mancano, ormai siamo alle costanti, le tirate sull’età che avanza, e sul rapporto con le “fimmine” più giovani. Anche se qui un soprassalto di coscienza fa rimanere il buon Salvo sulle sue, senza correre dietro a tutte le gonnelle che girano. Altra costante ormai, le chiacchiere tra sé e sé, con il suo alter-ego che prova a mettere in dubbio le sue certezze, ma che, più che altro, serve a dipanare i misteri. Visto che non si riesce a colloquiare con il lettore, queste chiacchiere servono a discutere l’andamento delle indagini con qualcuno, ed a farle avanzare. Qualche trovata di estemporaneità (non vuole andare a Scicli perché rischia di incontrare l’attore che interpreta Salvo nei film, oppure teme di non avere le parole giuste per raccontare le sue storie al suo biografo, Camilleri) che sono simpatiche. Le solite sparatine contro i guasti della società. Ed un discreto finale con mafiosi e politici che (forse?) faranno la fine che si meritano. Si legge tutto d’un fiato, e non lascia pesantezze addosso (anche se Montalbano si fa di quelle mangiate pantagrueliche che solo a narrarne già si ingrassa). Rimangono i dubbi di fondo (quand’è che lascia Livia? Come fare ad essere un sé stesso con quindici anni di più di quando si è iniziato?) ma è una prova migliore assai delle ultime.
E finiamo con un salto nella sempre amata e gradevole Barcellona.
Alicia Gimenez-Bartlett “Il silenzio dei chiostri” Sellerio euro 15
Un brodo un po’ lungo (manca un po’ di ritmo) ed un aggirarsi tra Conventi e Monasteri (segno dei tempi…). Certo, è bello dopo del tempo, ritrovarsi con una vecchia amica, la dura Petra, e sentirne parlare e discuterne con lei, magari davanti ad una buona birra e a delle tapas. Un po’ fuori dal coro le pagine dei rapporti tra lei ed i figli del suo terzo (ma forse quello buono) marito. Nel senso che sia la piccola che i gemelli sono di grosso spasso, e spero non vengano abbandonati. Ma sono un po’ come della buona panna, su di un gelato che sarebbe buono anche senza. E non mi dite che servono a caratterizzare Petra, o il suo evolversi (alla fine le più di 500 pagine, sono forse un po’ troppe). Come fulmine a ciel sereno giunge tra le braccia di Petra il caso dell’omicidio nel convento delle sorelle del Cuore Immacolato, reso ancor più scabroso dalle modalità in cui sembra avvenuto. Il cadavere di frate Cristóbal dello Spirito Santo ritrovato accanto alla teca che custodiva il Beato Asercio de Montcada, il cui corpo incorrotto è misteriosamente scomparso.  La difficoltà, come detto sopra, è muoversi in Conventi che sembrano sottostare ad altre leggi, di modo e di comportamento (ma divertente ed interessante la prima parte con Suor Gabriela, anche se poi diventa un po’ un cliché). Dopo 350 pagine di faticoso guardarsi l’ombelico (con qualche frecciata neanche troppo nascosta alla cattolicissima Spagna), Alicia e Petra prendono in mano la matassa, e, come Dio vuole, ne escono un 200 pagine di finale un po’ più su di tono. Giudizio quindi altalenante, certo non meno della sufficienza, perché comunque è una scrittrice che amo, e che mi piace anche quando legge l’elenco del telefono. Spero che ci riporti Petra sulla terra, anche se mi dispiacerebbe se si perdesse Marina, la nuova assistente, per strada.
 “il fatto è che non so essere riconoscente quando gli altri si occupano di me” (63)
“il fatto è che l’amore può trasformare il carattere di un uomo, perfino la sua vita, ma si rivela del tutto inefficace contro le miserie quotidiane” (95)
“L’amore è una pianta delicata che richiede continue cure, contrariamente a quanto ci è sempre stato fatto credere. L’amore vero resiste a tutte le tempeste, diciamo noi spagnoli. Può darsi, eppure rischia di seccarsi se nessuno lo annaffia un pochino tutti i giorni” (447)
Tornato al freddo di Roma, dopo il gelo e la neve del Belgio, mi sento un po’ acciaccato (colpa forse anche di uno scivolone bruxellese) e non mi va molto di affrontare questa nuova settimana. Dove ci si inizia a muovere (e vi farò sapere che vuol dire), dove si pensa con gratitudine agli acquari passati e si aspetta la grande festa tonda dell’amico Luciano.
Consiglio una birra belga, segnalatami dagli amici di Gent, si chiama “La Chouffe” bionda con buon sapore e discreto tenore alcolico.

domenica 29 gennaio 2012

Tra il Medio Oriente e noi - 07 febbraio 2010

O forse me? Penso sia questo il più giusto titolo di questa triade eterogenea ma con molto in comune. In comune senz’altro il profumo dei caffè arabo-orientali, e del narghilè acceso e condiviso. Si parte dall’Egitto, dalla mia Cairo amata e dall’autore che mi fece innamorare di questa letteratura. Con il suo solito garbo (e dei cenni che rimandano all’ultimo). Poi si parte per Gerusalemme, sia con la storica italiana che imbastisce una storia tra passato e presente, tra Roma e l’Oriente, sia con l’israeliano Grossman, di cui, al solito, apprezzo gli scritti politici ma non riesco ad entrare nel suo mondo poetico. E qui il cerchio si chiude, perché si parte lì dove finiva Mahfuz, sempre dalla Guerra dei 6 giorni.
Cominciamo quindi con il Premio Nobel.
Nagib Mahfuz “Karnak Café”  Newton Compton euro 9,90 (in realtà, scontato a euro 7,90)
Esile ed agile… bello come sempre nella costruzione della storia e nel volerci, comunque, dire qualcosa. Un punto negativo, ma ne parlo alla fine. All’inizio sembra soltanto un romanzetto sulla vita di uno dei tanti quartieri del Cairo, il caffè, la bella ex-danzatrice del ventre che lo gestisce, i vari avventori. Poi, si approfondisce rigo dopo rigo. Diventa una storia d’amore. Per rivelarsi, al fine, anche e soprattutto una storia sul proprio paese, sulle sue passioni, sulla rivoluzione di Nasser, sui corrotti al potere negli anni ’60 (in Egitto, ed in quali anni qui da noi?), sulla sconfitta, bruciante, inattesa, della Guerra dei 6 giorni, sulla rinascita portata dai primi tempi della guida di Sadat. Solita la tecnica usata, quella di dare, man mano che procede il testo, la parola ad uno dei personaggi. Si scopre così un altro punto di vista, si scopre un retroscena che non ci si aspettava. Lo spavento delle carceri per i giovani figli della rivoluzione degli Anni Cinquanta. La difficoltà di essere donna e di mantenersi “pura” in un mondo maschile corrotto e corruttore. L’instaurarsi di un clima di terrore, quello del “tutti contro tutti”. Certo, Nagib ci dice, da buon vecchio, che ha ancora fiducia, ancora speranza nei giovani. Ma quanto è (sarà) difficile la loro vita. Bella infine la catarsi finale, dove il cattivo analizza la situazione e ne pronuncia un’esegesi migliore di quella che tutti i buoni hanno fin lì mostrato. Mi piace sempre e lo leggo sempre volentieri. Dove il punto negativo? Ovviamente nella casa editrice, che, per risparmiare, ne effettua la traduzione dal libro tradotto in inglese. Più facile trovare traduttori, più semplici i diritti d’autore. Solito motivo per cui, alla fine, ho sempre un moto di frenata se devo acquistare Newton Compton.
“è sempre inutile parlare delle storie d’amore con le persone direttamente interessate” (31)
Passiamo quindi all’italiana, purtroppo scomparsa, e ad un libro che mi ha accompagnato nell’estate israeliana.
Antonella Tavassi La Greca “L’anno prossimo a Gerusalemme” Fausto Lupetti editore s.p. (regalo di Alessandra)
Un dei due libri che ho portato in giro per il medio - oriente. Forse il libro giusto per questo viaggio, anche se denota alti e bassi. Scritto su due registri, il presente, con il viaggio di Miriam e della figlia Veronica (detta Vero!!), alla ricerca di radici e parenti nella contraddittoria Gerusalemme degli ultimi anni, tra speranze di pace ed attentati. Ed il passato, la storia della regina Berenice, l’ultima regina della Giudea, e del suo amore folle e senza futuro per quel Tito che nel 70 d.C. raderà al suolo il tempio di Salmone. La scrittrice Miriam, infatti, invitata da alcuni parenti per una cerimonia di nozze, parte per Gerusalemme insieme alla figlia Veronica. Un viaggio che cambierà la vita a entrambe alla scoperta delle proprie radici; un tuffo nella realtà drammatica della terra santa al tempo del muro eretto da Ariel Sharon per impedire ai palestinesi di raggiungere clandestinamente i territori arabi. Le tensioni e i conflitti odierni di quelle genti e di quella terra sono soprattutto incarnati dai personaggi di Sarah, che si appresta a unirsi in matrimonio con l’ultraortodosso Isaac; e di suo fratello Josif, giovane soldato obiettore. Non ultime le “ziette” nubili, testimoni di un passato ormai sepolto e custodi della memoria del padre che, giovanissimo, si era trasferito nella terra dei suoi avi. A ciò si alterna il libro che Miriam sta scrivendo su Berenice, che diventa l’Io narrante della storia parallela, per raccontare il suo dolore per la sconfitta dei suoi cittadini dopo la drammatica Seconda Distruzione del Tempio ed il suo amore per un uomo, Tito, da cui per ragioni politiche e religiose dovrà separarsi. Certo non tutto è omogeneo, e forse la morte dell’autrice ha privato del tempo della limatura, per rendere più efficaci i drammatici passaggi (soprattutto l’impatto e lo scontro tra la civiltà romana che tutto macinava e questi ebrei che mai piegarono la testa). Tuttavia ben si è adattato ai miei ritmi di viaggio, restituendomi pensieri intorno ad una fumata di narghilè.
Finiamo la triade con il per me difficilmente digeribile David.
David Grossman “A un cerbiatto somiglia il mio amore” Mondadori s.p. (regalo di Alessandra)
Quanto tempo ho impiegato a leggere questa megagalattica palla! Veramente poi ha anche dei bei momenti, ma è faticoso: faticosa la scrittura, faticosa la trama, faticoso il sovra testo. La trama in sé è anche linearmente raccontabile: si inizia in Israele, durante la guerra dei Sei Giorni (cfr. Mahfuz). Avram, Orah e Ilan, sedicenni, sono ricoverati (per qualche ignota malattia) nel reparto di isolamento di un ospedale di Gerusalemme. I tre ragazzi si uniscono in un'amicizia che si trasformerà, molto tempo dopo, nell'amore e nel matrimonio tra Orah e Ilan. Dopo trentasei anni, Orah è una donna separata, madre di due figli, Adam e Ofer. Quest'ultimo, militare di leva, accetta di partecipare a un'incursione in Cisgiordania. Preda di un oscuro presentimento, Orah decide di abbandonare tutto e partire, per non essere presente quando gli ufficiali dell'esercito verranno a darle la notizia della morte del figlio. Ad accompagnare la donna c'è Avram, ricomparso nella sua vita dopo più di un ventennio. Il loro viaggio diventa occasione di riflessione e di rimpianto, ma anche di gioia e tenera rievocazione. Fino a che arriverà il momento di tornare a fare i conti con il presente che, tutt'intorno, preme inesorabile. Questa la trama visibile, perché poi le quasi mille pagine si ingarbugliano di mille rivoli e contorcimenti, a volte funzionali a volte inutilmente astrusi, per cui leggevo e rileggevo le pagine per capire che volesse dire. Questa la fatica della scrittura, che già ricordavo in “Vedi alla voce amore” letto tanti e tanti anni fa, ma tanti che quasi mi ero fortunatamente scordato di come mi facesse fatica. Quindi non sorprende se un dono del Natale 08 sia stato terminato solo un anno dopo… Una scrittura, ad esempio, che non prevede parlato, e quando si parla si riporta come flusso di pensiero, senza segni di scrittura, lasciando a mezzo se è vero dialogo o ricordo dello stesso. Ed alla fine, non ultima, la fatica del sovra testo, visto che il libro esce poco tempo dopo la morte in una scaramuccia usuale in quel di Israele di uno dei figli di Grossman. Ovvio, nessuno negherà mai il dolore di un genitore alla perdita di un figlio. Ed ogni genitore cercherà di elaborarla nei modi a lui usuali, nel silenzio, nel pianto, nell’esternazione, nella scrittura. Comprensibile. Ma qui si aspetta ad ogni rigo, ad ogni pagina che questo orrore salti fuori. E non avviene. Mai. Alla fine tutto sembra essere un lungo pianto ebraico di fronte al Muro di Gerusalemme, con quegli ondeggiamenti rituali che intontiscono che li fa e chi li guarda, fungendo un po’ da mantra un po’ da training autogeno. Ma tutto ciò rimane nella mente sicuramente mia e forse di Grossman. Quello che resta sulla pagina è un inutile tormento di centinaia e centinaia di pagine, dove non riesco ad amare gli attori del dramma, ed aspetto ad ogni piè sospinto che qualcuno me ne spieghi le movenze. Ma non arriva. Io chiudo il libro. Ripenso ai miei viaggi in Israele e rimango con la stessa attonita sensazione: non si riuscirà mai ad uscirne in modo decente. 
“Sei proprio un coglione, giochi con i sentimenti degli altri, ecco quello che fai” (65)
“Sognatore, malato d’amore, di sesso. Si prendeva una cotta per qualunque ragazza gli passasse nelle vicinanze, non importava chi fosse, bastava che fosse femmina e lui come minimo avrebbe fatto di lei Brigitte Bardot.” (68)
“Davvero, chi immaginava che facesse così bene scrivere?” (372)
“ricordati soltanto che a volte una cattiva notizia non è che una buona notizia che è stata fraintesa, e ricordati anche che quella che era una cattiva notizia, può tramutarsi in buona col tempo, forse la migliore” (401)
“Non capisco come si può scegliere il nome a un figlio, prendere una decisione tanto cruciale…” (408)
“non c’è limite alla fantasia dei guai” (539)
“forse è questo che rimpiango: non aver provato amore per una donna. Non averne incontrata una che fosse un’ancora per me, alla quale poter dare tutto me stesso” (570)
“Non mi hai mai detto… che mi ami. Una ragazza ha bisogno di sentirselo dire.. Ma tu sei avaro, al massimo dici ‘amo il tuo corpo’, ‘ mi piace stare con te’, ‘mi piace il tuo sedere’” (584-5)
“Lei gli chiedeva tanto poco, e nemmeno quello riusciva a darle” (586)
Poiché è la prima trama del mese di febbraio, riporto ai miei assidui lettori, l’elenco dei libri letti in novembre.
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Autore
Titolo
Editore
Euro
1
Zygmunt Bauman
Amore liquido
Laterza
7,50
2
Leonardo Sciascia
Atti relativi alla morte di Raymond Roussel
Sellerio
8
3
Erle Stanley Gardner
Perry Mason e l’avversario leale
Repubblica/CSGM
3,90
4
Michel Faber
Il petalo cremisi e il bianco
Einaudi
15
5
Daniel Kehlmann
Io e Kaminski
Voland
14
6
Qiu Xiaolong
Quando il rosso è nero
SuperPocket
5,60
7
Roberto Bolano
Stella distante
Sellerio
8
8
Marco Aime
Diario Dogon
Bollati Boringhieri
9
9
Gianni Celati
Avventure in Africa
Feltrinelli
7,50
10
Paolo Grugni
Let it be
Mondadori
4,20
11
Lorenzo Angeloni
In Darfur
Emergency
s.p.
12
Veit Heinichen
A ciascuno la sua morte
E/O
9,50
13
Andrea Camilleri
Il birraio di Preston
Sellerio
8

Che settimana di transito, amici miei. Un po’ (forse anche qualcosa in più) di dolore nel giorno del ricordo di mio padre, la preparazione della settimana belga (eh, si, torniamo anche in quel di Gent), ed alcuni mattoncini di un possibile futuro (forse un po’ liquidi, ma chissà…). Ne esco devo dire stanco, quasi come un martini cocktail di James Bond.

sabato 28 gennaio 2012

Negativo (ma qualcosa no) - 31 gennaio 2010

Oggi, fedelmente aderendo al titolo della settimana, parliamo di libri che non mi sono piaciuti. Infatti, capita, mica si leggono solo cose sempre belle e piene di note positive. A volte ci sono libri che leggo per qualche motivo, ma che non mi prendono, mi lasciano dubbi. Io continuo a leggerne, pensando che forse, pian pianino, si riesca a trovare il motivo per cui è piaciuto a qualcuno,  o a molti. A volte ci si riesce. A volte, no. Certo il peso dei due autori odierni è ben diverso. L’italiano ha scritto alcune cose (ma è un autore teatrale, e le sue scritture di teatro sono di sicuro interesse) ma è comunque un autore di caratura normale. In questa prova mi sembra si sia cimentato con qualcosa superiore alle sue forze, anche se poi finì anche finalista allo Strega. L’americano, invece, è un fenomeno mondiale, osannato, esaltato, preso ad esempio come nuovo paradigma di scritture. Ma a me non è piaciuto, non mi convince, credo che abbia solo utilizzato (certo con capacità) alcuni stili narrativi, con alcune ideuzze, ma che, alla resa dei conti, mi ha annoiato. E se un libro mi annoia, ne parlo male, anche se lo finisco, anche se ad altri piace. Sono sempre così (in realtà non è vero, ma un po’ di auto-incensamento fa bene), dico sempre quello che penso. Poi ne discutiamo.
E cominciamo con il teatrante napoletano.
Ruggero Cappuccio “La notte dei due silenzi” Sellerio euro 10 (in realtà, scontato euro 8)
Avete presente una mega-palla galattica? Beh, questo la fa sembrare un racconto di fate. Ho impiegato 10 giorni trascinandomelo per ogni dove, e non si riusciva ad andare avanti che di poche pagine. E quelle trascorse facevano rimpiangere il fatto di non averlo cestinato… ma che vuole dimostrare l’autore? Quale trama ci racconta? L’amore tra due giovani, la sua impossibilità in un Regno delle Due Sicilie intorno al 1860 o giù di lì (forse già si affacciano i fremiti garibaldini? Forse è un voler narrare un privato che va a rotoli in un mondo che si sta perdendo?). Ma chi sono questo principe Alessandro Altomare che passeggia perdendosi per le spiagge amalfitane e questa Chiara della Serena (nome omen) bella, altera, morta (forse) di vaiolo oppure fuggita? Più di 200 pagine per descrivere, narrare, adombrare fatti, indurre ipotesi. Ma con uno stile contorto che poi alla fine nulla dice, nulla spiega. Non perché si debba spiegare tutto, tutto può rimanere mistero, ma la bravura di un autore è quella di indurre il lettore a pensare delle soluzioni, delle ipotesi, ad auto-svelarsi delle trame. Qui non c’è possibilità, tutto è talmente “impossibile” che non si capisce quale sia il possibile reale. Tanto per citare (anche a livello fisico) come si costruisce una clessidra con due giare di vetro per il vino riempite di sabbia fine? Una clessidra che deve scandire il tempo per circa tre mesi. E quanta sabbia ci vuole, visto che non verrà mai girata? Ma qui già si va nell’intellegibile. Certo doveva insospettirmi uno che a pagina 22 già dice “Il paese oscurava tutti i suoi pubblici lumi, e il catafalco dove era disteso l’Altissimo appariva sulla sommità del duomo, illuminata solo dallo sfiaccolio lattiginoso e svogliato dei portatori. Una falange di musicanti, vestiti di nero, infiatava trombe cupe e malsane, martellate dall’eco torbida di una grancassa.” E via scrivendo, cercando con perversione l’agglutinarsi di aggettivi improbabili per nome comuni, volendo creare effetti mirabili, ma che rimandano solo la fatica del leggere. Per poi arrivare dopo 200 pagine a dire “un impercettibile nutrimento di crema lunare allattava i viali di una bava d’argento senza provenienza”. Sta forse parlando dell’amore tra due lumache? No, descrive il paesaggio di Ravello dopo il passaggio del Re. Insomma, vogliamo finire di riempire scaffali di libri inutili? O se questo è di qualche utilità, qualcuno me la spiega?
“i grandi amori sono quelli che non elemosinano la comprensione. I grandi amori sono solo quelli che sanno ammettere il silenzio” (218)
E veniamo invece al dolente (per me) americano, di cui ho ricevuto libri, senza per ora comprarne di mio, ed ancora non so se lo farò.
Chuck Palahniuk “Fight Club” Mondadori s.p. (regalo di Nicoletta)
Nonostante la bella post-fazione della Pivano, non mi è piaciuto. Ho fatto fatica. E trovo più simpatica e coinvolgente la schizofrenia del Gorilla di Sandrone a questo pamphlettone americano. A questo punto poi mi incuriosisce il film. La storia viaggia a metà tra le fantasie del protagonista (un impiegato sfiduciato tormentato dall’insonnia) e lo squallore della realtà americana, tutta fatta di finzioni. Qualcuno (lui? Tyler?) decide allora di inventarsi il segretissimo Fight Club il cui unico fine è quello di far sfogare e dare un riscatto a una miriade di violenti paria moderni, sulle cui spalle la società si poggia a peso morto. Così tra sogno e realtà si va avanti fino alla (prevedibile) catarsi finale. Ma dov’è che il romanzo prende la gente? La scrittura? Le situazioni? L’idea fantastica così come la Pivano ce la spiega nelle sue ultime pagine? A valle di centinaia di libri di fantascienza letti in gioventù e di altrettanti bei libri di utopie, di ucronie, ed altri luoghi fantastici, a me non lascia molto. Vuole graffiare? Vuole parlare male di questo mondo cattivo che tutto aliena? Non lo so. Non è nelle mie corde. Non sono in sintonia. Spero di leggere altro e di capire di più di questo scrittore che, a ora, mi pare solo sopravalutato. Ripeto, ora mi incuriosisce il film, per capire che tipo di messaggio ne viene fuori. Ricordando i trailer, mi sembra che si sia capito il peggio di quello che voleva dire l’autore. Ma tant’è, si studierà meglio in seguito.
Chuck Palahniuk “Survivor” Mondadori euro 8,80 (libro in affido da Chiara)
Forse un po’ meglio (a tratti) del primo ma mi sembra che Chuck sia una grossa bolla di sapone. Qualche invenzione interessante, ma un po’ di prosopopea per dire che so tutto io. E qualche scopiazzatura (si sente a volte l’Irving del Mondo di Garp). Questa volta la storia (almeno il plot centrale) è più comprensibile dell’altro. C’è un tal Tender Branson, ultimo membro sopravvissuto di una setta, che narra la storia della sua vita alla scatola nera di un aereo che sta precipitando al largo dell'Australia. Interessante l’idea di numerare le pagine al contrario, così sappiamo di avvicinarci alla fine quando stiamo arrivando alla pagina 1. Così come interessanti le escursioni nell’economia domestica durante la sua vita di maggiordomo. Ma poi appunto prende il tono delirante (anche se molto americano) delle sette e della loro vita (e tuttavia salverei il personaggio, per me divertentissimo, di Fertility). E via discorrendo in un crescendo di improbabilità o di voluto ammiccamento (io come sono bravo che colpisco qui e là e faccio male all’America). Però è sempre troppo di testa. E quando l’invenzione è lì per sé stessa, rimane col fiato corto e nulla più. In questo, come nell’altro, sembra che abbia avuto una buona idea per i primi 10 minuti, e poi, invece di finirla lì, è voluto andare avanti fino a farne un librone di più di 200 pagine, smarrendo la lucidità. Alla fine dei conti, forse se ne leggerà ancora per studio, ma non per entusiasmo.
“l’unica cosa che ho imparato è che tutto quello che ami morirà. La volta che incontri qualcuno di speciale, puoi farci affidamento il giorno che è già morto e sepolto” (277)
“se ti preoccupi sempre del peggio, è quello che finirai per avere” (48)
Ma il titolo prometteva anche qualcosa di positivo, ed eccolo in coda. Finalmente ho avuto pubblicate alcune mie righe. Devo dire che vedere un libro stampato è stato ben diverso da vedere righe ballonzolanti su mail e computer. Mi ha dato una grossa emozione personale. Dovrei ringraziare molte persone, ma qui elenco solo Luciano che da decenni sostiene che io sia migliore di quanto penso di me stesso. Tuttavia non posso tralasciare un grazie a Luciana che è poi l’artefice del tutto. Non vi aspettate cose mirabolanti, in realtà è solo uscito il libro che annualmente raccoglie le scritture dal carcere cui io do il mio apporto come consulente musicale. Ed in questa raccolta c’è un mio breve scritto su questa mia attività di “musicologo dietro le sbarre”. Il libro si chiama “L’umano e il suo rovescio”, a cura di Luciana Scarcia ed edito dalle edizioni Sinnos. Non so ancora come fare ad averlo, ma mi informerò se qualcuno è interessato. Io ho scritto un pezzo sulla mia esperienza dal titolo “Magia delle canzonette”. Ce ne vuole molta di magia in questa vita, e sono sicuro che questa ne porterà altre.

venerdì 27 gennaio 2012

Dei toni leggeri - 24 gennaio 2010

Dopo due giorni di “buen ritiro” non ho la forza di affrontare grandi argomenti o grandi scritture. Allora ne approfitto per riprendere alcuni gialli classici, dell’ottima collana di Repubblica (ottima anche se con alti e bassi, come tutte le ultime cose pubblicate da loro). Ritorno ciò ai Classici Mondadori, quei Gialli che hanno impresso un marchio in Italia a tutto il genere, e che dal dopoguerra in poi hanno riempito le pagine di buone riuscite, soprattutto allora sotto la guida del buon Tedeschi (cui non a caso si intitola un premio ai giallisti italiani, di cui parlerò nel futuro). Qui abbiamo tre esempi, uno discreto, uno buono (d’altra parte Philo Vance mi è sempre piaciuto), ed uno un po’ datato, ma dignitoso per l’epoca della scrittura.
Mignon Good Eberhart “Breve ritorno” Repubblica/CSGM (Collezione Storica Gialli Mondadori) euro 3,90
Un esempio di una buona scrittura del giallo. Ben costruito, piena di possibilità, anche se da buona scrittrice di gialli di stampo classico, la soluzione la fa intuire ben prima della fine del libro. Il plot è di quelli che ormai diventeranno classici: un cattivone che angustia la famiglia (moglie, sorella e cognata), muore in un incidente aereo. Tutti si risistemano, si fanno una nuova vita. Poi il cattivone ritorna (non era mica morto…). Ognuno vede il suo pezzo di cielo andare in frantumi. Fortunatamente il cattivone muore nel giro di una notte (e questa volta realmente, c’è un bel cadavere). Allora si intrecciano i giochi di sospetti, di paure che sia stata proprio quella persona che però non merita di essere accusata. Di coperture, che si rivelano più disastrose di confessioni a cielo aperto. Tutti hanno dei motivi per uccidere. Tutti hanno la possibilità. Il buon dottore anima della vicenda ed innamorato della bella signorina, pur nei tormenti di pensarla colpevole, non potrà far altro che portare avanti il gioco di analisi e svelamento. E tutto si svelerà facendo andare i tasselli giusti negli incavi corretti. Quando si sa ben scrivere si può maneggiare una materia scivolosa e buttar giù duecento pagine senza che il lettore decida di andare a farsi una passeggiata altrove. In alcuni punti, per il mio gusto, la scrittura rischia di essere didascalica ed un po’ di maniera (stereotipi vari, tra cui la belloccia che non si ricorda mai i nomi di nessuno e chiama tutti “Tesoro!”). Ma va bene così.
S.S. Van Dine “La strana morte del signor Benson” Repubblica/CSGM euro 3,90
Un classico, ma ben scritto. La prima delle avventure investigative di Philo Vance, il dandy che aiuta il commissario a risolvere intricati casi polizieschi. Con quell’aria sorniona che sembra sempre prendere un po’ in giro anche il lettore. Philo ha già capito tutto dalle prime mosse, ma con atteggiamento socratico da un lato cerca di aiutare il lettore nello sviluppo del ragionamento che lo ha portato alla soluzione del mistero. Dall’altro, cerca comunque di trovare delle prove. Come in questo caso, uccisione di un agente di cambio nella sua casa, in un momento che sembra di relax (sta leggendo un libro, è in giacca da camera). Philo irrompe con la sua logica (che forse ora sembra di routine ma che all’epoca della scrittura, intorno agli anni ’30, era rivoluzionaria) e ci dice subito l’altezza dell’assassino (o assassina): basandosi sul foro di entrata, sulla possibile distanza, e quant’altro. Interessato ai risvolti psicologici del crimine, Vance convince il Procuratore Markham ad investigare sugli amici di Benson, sui suoi affari lavorativi e sentimentali, finché farà saltare l’alibi di qualcuno che alla fine dovrà confessare. Stranamente basata su un fatto realmente avvenuto e mai risolto: l’uccisione del giocatore professionista di bridge Joseph Elwell, colpito a morte in una stanza chiusa dall’interno e senza che indossasse il parrucchino. Van Dine ci fa capire subito che altrettanto di interesse saranno le altre sue prove, anche se, purtroppo una decina d’anni solo dopo questo primo romanzo, la morte fermerà la sua penna. Ma io ho tutti i suoi scritti.
Piers Marlowe “Il doppio tredici” Repubblica/CSGM euro 3,90
Veramente datato. Reperto ma niente di più (ed alcuni passaggi, al solito, saltati). La storia ha 60 anni e li dimostra tutti: filo conduttore il contrabbando di diamanti dal Sud Africa. Tanti cattivelli, ma il più losco Gomez non facciamo in tempo a trovarlo che sta già più di là che di qua, ed il più “banderuola”, Owen, scorrazza per mezzo libro, cambiando bandiera ogni 10 pagine, per poi scoprire che forse lavorava solo per sé, e si lascia una bella di strisciata di morti a tale proposito. Qualche buono, il capitano della nave, invischiato suo malgrado nelle fosche trame, e sua figlia, la bella del reame, che non potrà che finire tra le braccia del protagonista. Poi c’è il superbuono, gestore di una banca di affari, che assume tanti loschi senza rendersene conto, ma che darà una mano ai nostri perché se la possano cavare. Ed infine il così così, né buono buono, ma neanche cattivo cattivo. Un avventuriero, si diceva ai tempi, un po’ ai margini della legalità, ma che (pur rubando, picchiando ed uccidendo) rimane coerente al suo disegno interno: fare di tutto per guadagnare molto a poco prezzo, ma senza tradire mai nessuno. Ecco direi, integro è la parola giusta. Il nostro (che aveva avuto screzi in africa con Gomez) viene da questi arruolato per introdurre diamanti in Inghilterra (in modo da potersi vendicare per poi ucciderlo), coinvolgendo la bella della barca. Ma il nostro passa un po’ di peripezie pre-hard boiled ed alla fine sgomina i cattivi, impalma la bella, e viene assunto del buon legale. Ma perché è così fortunato? Lo spiega e lo riporta nel titolo. Perché è nato il giorno 26 che (appunto) è due volte tredici, quindi doppiamente fortunato. Ecco, solo per questo mi ero già predisposto benignamente nei suoi confronti. Poi, alla fine, devo riconoscere che è una lettura minore, da collocare tra i passatempi delle code estive.
“Quando un uomo è curioso e vuole rendersi conto del perché di una cosa, non ha più tregua. Deve per forza trovare una risposta. Tu appartieni a quella specie di uomini che si cacciano nei guai per questo motivo. Ti butti dentro a capofitto” (34-35)
Eccoci allora con molta leggerezza ai saluti settimanali, ai tanti appuntamenti. Uno per me fondamentale i prossimi giorni in banca, di cui per ora lascio aleggiare il mistero. E poi si deve trovare il tempo per gli amici e perché non anche per qualche cena post-vacanze? Vediamo. 

giovedì 26 gennaio 2012

Alcune perplessità - 17 gennaio 2010

Poiché al solito la vita e i libri si mescolano in un guazzabuglio di spunti e sensazioni, ecco che oggi andiamo a parlare di tre libri eterogenei, due del Nord ed uno del Sud del lontano continente americano. A tutti mi ero accostato con speranze che non sempre sono tornate al punto giusto. Il colombiano l’ho addirittura avuto in regalo nel Natale 08, ha viaggiato con me in Mauritania, ma sono riuscito a leggerlo solo prima di partire per Israele. Della Oates avevo letto un bel racconto e speravo che la dimensione romanzo le desse più respiro. Ma non è così. Il Giappone sempre mi affascina, soprattutto nel cibo, ma ne vorrei di autentico e non di artificiale.
Andiamo allora con ordine, iniziando dal colombiano Efraim.
Efraim Medina Reyes “C’era una volta l’amore ma ho dovuto ammazzarlo” Feltrinelli s.p. (regalo di Alessandra)
All’inizio mi ha lasciato un po’ freddo. Poi è migliorato. Non un capolavoro. Ma bella la musica. Non tutta sulle mie corde, ma come non lasciarsi trasportare dai sottotitoli che scandiscono il viaggio avanti ed indietro del tempo con una musica che appunto ne sottolinea l’andare? Passiamo quindi nello scorrere delle pagine attraverso le note dei Sex Pistols, dei Pearl Jam, degli Alice in Chains, dei Nirvana, di Alan Price, dei Grateful Dead, di Charlie Christian fino ai Ramones. Andando avanti indietro anche nella Colombia non lucidata alla Garcia Marquez, ma cupa ed invivibile, tra Cartagena e Bogotà. Ed anche le storie si intrecciano. Il protagonista in prima persona rivista da un lato le storie di poco lieto fine dei Sex Pistols e di Kurt Cobain, intrecciandole con i suoi tentativi di scrivere sceneggiature per improbabili film, e con la sua storia personale. Dove l’assunto principale è quello del titolo. Dovendo uscir fuori da un amore che ti devasta la vita, lo devi uccidere dentro di te, per poter andare avanti. Se rimane lì, anche in un piccolo cantuccio, ci sarà sempre qualcosa di storto nel tuo procedere. E così Rep il protagonista non riesce a combinare nulla di positivo, benché aiutato da una madre comprensiva anche se non presente (io un figlio così l’avrei intanto preso a scapaccioni la seconda volta che si ripresenta ubriaco come una cucuzza). Quindi, non è tutto risolto, non fila tutto liscio, le parole usate a volte sono un po’ troppo grevi, la donna non sempre viene compresa nella sua natura, ed è sempre tratteggiata dal maschio che ne vede prima la sessualità (sua) e poi il resto. Ma questo è uno spaccato di vita. Va bene così. In fondo anche la vita non è sempre ben risolta…
“quando l’amore si spegne è più freddo della morte. Il problema è che le due parti in causa non si spengono contemporaneamente e quando sei la parte ancora accesa preferiresti essere morto” (29)
“A una certa ragazza piaceva la campagna, le piacevano le mucche, le piaceva l’erba bagnata. A me queste cose danno il voltastomaco” (30)
“Sei mai stato allo zoo? Io sì e ho imparato molto. Ho visto un macaco che si sbatteva la femmina e la femmina che gemeva di piacere… Perché non dovrei farlo bene io? … Stiamo parlando di donne, ti assicuro che una mosca è più complicata” (57)
“la musica è un’arte scomparsa alla fine dell’Ottocento… la pittura è finita poco dopo e… la poesia … sarà possibile solo quando l’uomo sarà sparito dalla faccia della terra” (59)
“Se ti ostini a cercare qualcosa corri il rischio di trovarla. Non sai mai cosa ti manca finché non fa molto male” (84)
“L’ho vista solo pochi minuti ma credo di amarla. Non ho mai amato una donna prima, mi interessavano solo sessualmente. Anche lei mi eccita ma c’è qualcosa, una strana sensazione nei nervi e l’impressione che morirei soffocato se non dovessi rivederla” (87)
“Quando sono innamorato di una donna cerco di vederla il meno possibile…. Vorrei… dare il meglio di me… Il problema è che non so cosa sia il meglio di me, non sono sicuro che ci sia un meglio in me” (116)
“Se c’è una cosa che riesce a scioccarmi è questa mania di cambiare i titoli originali di libri e film con altri che fanno schifo” (146)
“secondo me amare una persona è forse più facile che capirla ma molto più pericoloso perché l’amore fa sempre male. Si può cercare di capire qualcuno ma non si può cercare di amarlo. L’amore nasce involontario. L’amore può aumentare o diminuire fino a sfumare del tutto ma non si può imporre. A volte ci piacerebbe amare una certa persona, possiamo addirittura dire che quella persona ha tutte le qualità perché ci innamoriamo di lei ma questo non accade. Con uno sforzo più o meno grande ci si abitua a chiunque, ma abituarsi non è amare” (148)
“lei aveva più di quanto potessi sognare e credo che quello fosse il problema: per amare qualcuno quel qualcuno deve aver quanto basta. Un po’ di meno è insufficiente. Un po’ di più rovina tutto” (149)
“L’amore è bello finché dura ma a volte dura troppo…. Per fortuna quando le cose vanno male arriva qualcuno e le peggiora” (170)
Passiamo ora all’unica scrittrice del gruppo.
Joyce Carol Oates “La madre che mi manca” Mondadori euro 9,40 (in realtà, scontato 7,52 euro)
Sono rimasto molto perplesso da questo romanzo. Certo non avevo letto se non un racconto della Oates, e forse mi aspettavo una prosa svelta, brillante e accattivante come quella della Munro. Ma il percorso di agnizione e cognizione dell’io narrante, questa Nikki figlia ribelle e single, che ha un carico enorme di frustrazioni e recriminazioni verso la madre ingombrantemente ingenua, non mi ha coinvolto. La madre muore uccisa da un malvivente e Nikki comincia a percorrere questo lungo tunnel, ora vuoto, fatto di cassetti mai aperti, armadi pieni di oggetti e di odori, lettere ricevute e cartoline non spedite. Le fa da contro-altare la sorella saggia, equilibrata, sposata con due figli, che invece dalla morte della madre trova la forza di ribellarsi e di riprendersi (almeno una parte del-) la sua vita, decidendo di lasciare il marito e la figlia più grande per ricominciare ad insegnare in un’altra città portandosi appresso il figlio piccolo. Nikki è una delle tante cattive ragazze che circolano per i suoi romanzi (tra l’altro ha una storia con un uomo sposato e irresponsabile). C’è anche, alla fine, un’idea di redenzione, che forse ci fa dire che sarà possibile per le due sorelle una vita “nuova”. Rimane grossa, così come nel racconto letto lo scorso anno, la capacità di auto-analisi, il mettere a nudo senza pietà. Ma il tutto risulta depauperato dalla verve che ci risulta a lei usuale. Forse troppe pagine, forse troppa scrittura (è il suo settantesimo libro). Non so, spero di leggere altro e di modificare la mia opinione.
“se mai sapesse di te… di me? In che senso? Che ci vediamo. E tu sei sposato” (130)
“mi mancava la pazienza, e la pazienza è sintomo di maturità” (295)
“se non mi scrivo anche le più piccole cose me le dimentico. Così scrivo tutto e non dimentico niente” (303)
Finiamo quindi con questo Giappone filmico, ma hollywoodiano.
Arthur Golden “Memorie di una Geisha” TEA euro 10 (in realtà, scontato euro 8)
Artificioso, come un bel fil americano degli anni ’30. Cioè, non c’entra molto né con il Giappone né con le Geishe. Partendo da questi dati, un libro discretamente ben scritto, con una trama, appunto, da film anni ’30: bimba strappata alla famiglia, avviata a fare la geisha, entra in conflitto con la Geisha ben voluta dalla casa di Geishe dove vive, viene aiutata da un’altra Geisha, vince la battaglia, diventa una geisha ricercata e moderatamente ben voluta, forse trova l’amore, e finisce la sua vita a gestire una casa del tè a New York. La storia è ovviamente ben scritta, sicuramente si è anche basata su informazioni (di prima o seconda mano) sul mondo delle Geishe che un po’ ne adombrano il modo di vivere, soprattutto nel periodo precedente l’ultima guerra, là dove il Giappone era ancora avvolto nei suoi misteri imperiali. Ma si buttano là alcune ombre che lasciano il dubbio: realtà o effettacci? La Geisha è un’artista raffinata o una prostituta di alto profilo? La verginità veniva veramente venduta al miglior offerente? E via di questo passo. Certo, la vicenda giudiziaria che ha coinvolto Golden con una Geisha che lo ha accusato di aver falsato le sue memorie, non ha certo favorito a rendere il libro una sorta di “vita vissuta” piuttosto che un parto della fantasia. Io propendo per la seconda versione, e mi domando come sarebbe un libro di Geishe scritto da giapponesi (uomini o donne). Ed è una domanda difficile perché quello è un mondo con una tipologia di testa che non riesco ad incontrare (ne incontro solo la pancia, nel senso che torno sempre con piacere a gustare sushi e sashimi). Mi ricordo le decine (al massimo) di film giapponesi “puri” che ho visto e che (Kurosawa a parte) non è che mi abbiamo poi coinvolto gran che.
“A volte credo che le cose che ricordo siano più reali di quelle che vedo” (562)
“si era staccato da me … con la stessa naturalezza con cui le foglie cadono dagli alberi. … Anche ora che lui non c’è più, l’ho ancora con me, nella ricchezza dei miei ricordi” (563)
Ora sono qui, bloccato da questa sciatalgia che mi ferma nel corpo e nella mente. Se le avete saltate, rileggete le frasi citate, e ricordo a Rosa di ripassare la lezione n.18. Attendiamo quindi di “uscire al fin a riveder le stelle”.

mercoledì 25 gennaio 2012

Buon 2010 - 10 gennaio 2010

Non c’è modo migliore per iniziare l’anno nuovo che ripercorrere il viaggio di Capodanno attraverso qualche lettura. Certo, così anticipo un po’ i tempi, sconvolgo l’ordine maniacale delle mie attività. Ma la vita è fatta di questo: quando meno te lo aspetti, qualcosa cambia. Quindi largo ai libri sul Mali ed al viaggio a loro dedicato. Un viaggio difficile, perché mi ero fatto una serie di film su quello che si poteva fare e vedere, e sono tutti diversi. Non entro nelle dinamiche del viaggio poco interessanti per chi non c’era, ma nello specifico sì. Pur avendo letto quanto sotto riporto, pensavo comunque ad un paese simile alla Mauritania e mi sono trovato in un paese più vicino al Senegal. Pensavo ad abitanti mussulmani, invece sono veramente africani. Certo qui mi hanno sorpreso i colori, la vivacità (anche nella povertà), la comunicatività, anche se nella diversità. Ed a chiosa delle sensazioni, riporto una frase della nostra guida Andrè (soprannominato Balthazar) quando ci ha accolto: “Qui sarete a casa vostra, ma ricordate che siete anche a casa nostra”. Ed allora passo agli scritti, sottolineando che li ho redatti prima della partenza (ora li ho solo limati).
Gianni Celati “Avventure in Africa” Feltrinelli euro 7,50
Non so se questo sarà il mio Mali, ma, visto che come dice Sanu non tutti i Mali vengono per nuocere, questo nelle prime cento pagine mi ha incuriosito. Purtroppo della Mauritania fa solo un cenno, ed il Senegal è un po’ lontano nella mia mente per ricordarne la vividezza (il viaggio senegalese data ormai 15 anni, e tutto quello che ricordo, almeno come punto forte, sono le grandi spiagge con l’acqua fredda, quella che ho ritrovato l’anno scorso in Mauritania, la stazione ferroviaria con la gente in attesa di prendere da lì a tre giorni il treno per Timbuctu, ed i tentativi involontariamente comici, ma di rara bellezza espressiva, di Giansimone di parlare francese). Rimangono, dicevo, le cento pagine sul Mali, che descrivono il giro intrapreso dallo scrittore italiano per tessere la sceneggiatura di un improbabile e poi mai realizzato documentario sulle zone toccate dal fiume Niger. Un diario quotidiano che sicuramente dà il senso del viaggio da lui intrapreso, con le sue sensazioni, le sue sconfitte quotidiane con un mondo diverso, che non si adatta a te, soprattutto se tu non ti adatti a lui. Certo, la sua capacità di scrittura fa risaltare bene tutte quelle situazioni che in casi analoghi ho provato andando in giro per il mondo. Qui poi amplificate e/o mitigate, vedremo poi, dal fatto di essere un paese misto. Ma lì non c’è il deserto? Ma lì non c’è la savana? Ma lì non c’è il fiume? Ricordano i polverosi arrivi in sperdute città marocchine, ai limiti di mercati improbabili dove tutti si affannano a comperare qualcosa che ricordi loro il viaggio. Una chiave, una borsa, un monile, o poco altro. Ed io che mi fermo al caffè sulla piazza turbinante e mi metto a sorbire un the con troppo zucchero fumando una sigaretta con troppo catrame. Mi rendo conto che più che parlare del libro, poi, sto parlando di me (e non di altro come mi ripete Paolo Conte). In fondo lo faccio sempre, solo che qui, ora, non uso alibi. Il libro l’ho letto d’un fiato, e l'ho prestato a chi avrebbe viaggiato con me, con noi. Quindi lo cito a memoria, non l’ho sotto mano come altre volte. Poi, più che altro, ne faremo un confronto con quello che ci ispirerà quando anche noi saremo stati in Mali….
Marco Aime “Diario Dogon” Bollati Boringhieri euro 9
Un antropologo serio che non si tira indietro. Un antropologo contro per una passeggiata sulla falaise di Bandiagara. Vedremo se i Dogon saranno così, smitizzati dal suo occhio lucido e cinico, o saranno ancora come nel Dio d’acqua di Griaule, che negli anni Trenta ne ha costruito il mondo fantastico-fabuloso (non è un errore, volevo farvi venire in mente non solo le favole ma anche l’affabulazione, che sembra essere una prerogativa dogoniana, del tipo ‘come ci piace parlare’). Qui, in questo libro primo per me nello specifico sui posti che si andranno a vedere mi colpisce, pur nella constatazione del passaggio decennale tra lo scritto e la mia fruizione del testo, la sintonia che ho con Aime sulla difficoltà di andare viaggiando. Cioè, tutti sanno quanto mi piaccia andare in giro, a vedere e riempirmi gli occhi e la mente di cose. Ma quanto poi si vede realmente, in queste toccate e fughe che forse non fanno altro che alimentare miti consumistici lasciando nessuna traccia nella propria crescita interiore. Posso dire che poi solo dopo qualche volta che torno e torno, riesco a superare certi muri, certe difficoltà. La prima volta è uno spalancare gli occhi e farsi assorbire dalle immagini, suoni, luci e colori. Solo dopo, altre volte, il tutto si stempera con la quieta accettazione del luogo e delle sue particolarità, nel bene e nel male, come l’ultima volta a Gerusalemme. Ma torniamo ai Dogon, a quello che si vedrà, al trekking sulla falaise. Come dice Seneca, lasceremo noi stessi nelle nostre case, e viaggeremo con gli occhi aperti. Senza miti precostituiti. In fondo, ho quasi dispiacere di aver letto dei maliani, delle loro storie, ma anche delle quotidiane meschinerie. Chissà…
“Chi sceglie di recarsi in Mali (e non sono molti) difficilmente è un viaggiatore alle prime armi e quasi sempre è un individuo che nel viaggio cerca non solo momenti di svago, ma anche un’occasione di approfondimento e conoscenza” (19-20)
“Il turista che viene a visitare i Dogon  non è un turista “mcdonaldizzato” che cerca e spera di trovare in ogni sua meta condizioni il più possibile simili a quelle di casa sua. Al contrario, è uno che cerca emozioni nuove e stupore” (39-40)
“Al momento della partenza abbiate cura di non portare in viaggio voi stessi. Molti uomini, dice Seneca, non ritornano migliori di quando sono partiti, avendo portato se stessi nel viaggio (R. Lassels ‘The Voyage in Italy’)”
Marco Aime “Timbuctu” Bollati Boringhieri euro 10
Da leggere e meditare. Mi piace anche qui il modo di scrivere di marco Aime, che dice e racconta, ma senza troppo salire in cattedra. Dà l’impressione di avere le sue idee, ma di poterne discutere con chi ne ha diverse. Qui siamo in un mondo, un’atmosfera diversa. Non siamo più tra i “favolosi” Dogon, ma nella mitica, irraggiungibile, meta della memoria, Timbuctu. Una delle più belle immagini che mi ha regalato questo libro, è la visione di Timbuctu come separazione tra due mondi: inizio del deserto per chi viene dal Sud, dal fiume, dai sub-tropici, e fine del deserto e della sete per chi viene dal Nord. Questo poi rimane, la Timbuctu che da qualcosa a chi la guarda, ma sempre partendo dal sé. Ha l’ambizione di essere città, laddove tutto è villaggio. Ha l’ambizione di aver scritto la storia, ma è una storia che a noi arriva poco (e male). Sia perché è spesso una storia orale, sia perché è (ovviamente) diversa da quella che abbiamo studiato a scuola. Noi si parlava di Dante e Machiavelli, qui del grande Haji che fece il viaggio alla Mecca iniziando quel mito di ricchezza ed opulenza che avrebbe reso immortale la città. Questa mi sembra in fine la cifra del libro, e forse del viaggio, ora prima di partire. Si va in un posto diverso, ma non mi aspetto l’esotico. Mi aspetto che i maliani vestano jeans e Ray-Ban. E allora perché ci vai? Per la sempre presente spinta ad andare altrove, andare ovunque, vedere cose diverse. Oppure vedere cose uguali, ma capire che lì, per arrivarci, hanno fatto un percorso diverso dal mio. Ed arrivare a rispettare. Questo mi ha forse di più insegnato il viaggio: rispetto degli altri, ed umiltà. Avrò pure visitato più di 60 paesi diversi, ma il prossimo è sempre una scoperta, che sono certo mi insegnerà ancora qualcosa.
“Si va a Timbuctu perché è lontana, la si crede isolata e si trova una fila di bianchi che attende di collegarsi a casa [ad un internet point]” (12)
“Bruce Chatwin sostiene che esistono due Timbuctu; una reale e una mentale. La prima è quella città sfiancata dal caldo e siccità che molti trovano insignificante, se non addirittura brutta. La seconda vive in uno dei tanti miti di cui si nutre la nostra immaginazione: laggiù, sperduta ai margini del mondo, simbolo del chissà dove” (33)
“Roger Caillè non è stato il primo bianco a raggiungere Timbuctu, è stato solo il primo a raccontarla a noi, ma le mete diventano tali se si costruisce un immaginario che le rende uniche e indispensabili.” (49)
“La visita che le guide propongono ai turisti è un itinerario a punti: in mezzo il nulla. … Le passeggiate tra un paragrafo e l’altro della guida rappresentano quasi una metafora del moderno modo di viaggiare. Gli aerei ci trasportano in poche ore da un continente all’altro… In mezzo niente…. Viene a mancare quella fondamentale dimensione del viaggio che è il transitare” (75)
“Il turista è un visitatore frettoloso che preferisce i monumenti agli esseri umani, scriveva Tzvetan Todorov. A Timbuctu i monumenti non scarseggiano affatto, ma non sono come ce li aspettiamo.” (85)
“Timbuctu evoca lontananza, mondi sperduti, luoghi quasi irraggiungibili, al limite del mondo. … [e poi] ci si trova di fronte a una città di terra, dove anche gli edifici più antichi … in fondo assomigliano a quelli costruiti qualche anno fa. … [qui non c’è] niente che ci faccia capire che di qui è passata la storia” (86)
“nella lista del patrimonio dell’umanità [dell’Unesco] Timbuctu è iscritta dal 1998. Nasce così la Timbuctu dei turisti, quelli che poi rimangono delusi, ma che possono raccontare di esserci stati, perché questo luogo ha talmente colonizzato la mente di noi occidentali, da avere ancora la forza di far nascere suggestioni da post- o pseudo esploratori” (177)
“Dice Calvino… di una città non godi le … meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda” (179)
Allora che dire a consuntivo? Di Celati condivido quel senso di oppressione che arriva dall’essere circondato di gente (e di bambini) che chiede, chiede e chiede. Sui Dogon lascio il giudizio in sospeso, troppo breve il loro contatto (e con una guida locale, assolutamente, intrinsecamente inadeguata). Mentre condivido e sottoscrivo quasi ogni parola su Timbuctu, aggiungendo che il dato che a me riviene (soprattutto dopo il solitario giro pomeridiano) è quello di una città che non concede nulla all’occidente ed al turista. Noi Maliani di qui, siamo così. E se ti vuoi rapportare a noi, quasi non facciamo uno sforzo per venirti incontro. Non saremo noi a darti un posto alla nostra tavola spontaneamente. Tu devi cominciare a sederti, e poi si vedrà. Spero, che tutto ciò possa aprire una discussione sia tra chi c’è stato con me sia tra chi c’è andato per sé, sia tra chi ci vorrebbe andare.
Poiché è la prima trama del mese di gennaio, come sanno i miei assidui lettori, vi riporto infine l’elenco dei libri letti in ottobre.
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Autore
Titolo
Editore
Euro
1
Paola Mastrocola
Che animale sei?
Guanda
10,00
2
Andrea Camilleri
La danza del gabbiano
Sellerio
13,00
3
Ruggero Cappuccio
La notte dei due silenzi
Sellerio
10,00
4
Piers Marlowe
Il doppio tredici
Repubblica/CSGM
3,90
5
Alicia Gimenez-Bartlett
Il silenzio dei chiostri
Sellerio
15,00
6
Chuck Palahniuk
Survivor
Mondadori
8,80
7
Stieg Larsson
La regina dei castelli di carta
Marsilio
21,50
8
Romano De Marco
Ferro e fuoco
Mondadori
3,90
9
Osip Mandel’stam
Viaggio in Armenia
Adelphi
10,00
10
Joe R. Lansdale
Una stagione selvaggia
Einaudi
11,00
11
Ray Bradbury
Fahrenheit 451
Mondadori
s.p.
12
Henning Mankell
Prima del gelo
Mondadori
8,80
Ma tu sei contento di esserci andato? Alla fine, sommando pro e contro, si, molto, perché anche se quasi nulla è andato come pensavo andasse, ora ci penso sopra e credo di capire qualcosa in più.
Ma non del Mali, di me.