domenica 24 novembre 2013

Biostorie (o quasi) - 24 novembre 2014

Non stiamo parlando di scritture OGM o similari. Siamo solo sul versante di scritti che parlano di sé in qualche persona (prima o terza) o che fanno scoprire il primo moto di scrittura (quindi ancora biografico) dello scrittore. C’è la solita vita vissuta in posto d’Italia, che sempre mi affascina, nell’ottima collana di Laterza. C’è tennis e vita nella scrittura interposta di Agassi. C’è il primo libro di un interessante Francesco recami. E c’è l’interposta biografia di Gobetti. Prima di cominciare sottolineo inoltre che metà delle trame viene dal mio ormai già lontano compleanno.
Simone Lenzi “Sul Lungomai di Livorno” Laterza s.p. (regalo collettivo di Almaviva)
[A: 07/05/2013– I: 17/06/2013 – T: 18/06/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 100; anno 2013]
Ed eccoci ancora qui con un nuovo libretto dell’esimia collana ControMano di Laterza, di cui ho già abbondantemente parlato, ed ovviamente bene. Una collana ben riuscita, con qualche alto e basso come accade un po’ ovunque, ma con uno standard medio di qualità più che accettabile. Qui, con l’esimio Simone Lenzi siamo in quel di Livorno, dopo aver visitato non molti libri fa la Versilia di “Morte dei marmi” (ed in attesa della Firenze di Santoni che non mi decido di acquistare). Risalta anche in queste pagine la tipica arguzia toscana, l’occhio attento al mondo, un po’ di derisione prima per se che per gli altri. Inoltre siamo dalle parti di Virzì (magari del primo, quello di “Ovosodo”) e non è un caso che Lenzi ne abbia sceneggiato un film da un suo romanzo (da “La Generazione” infatti, è stato tratto “Tutti i santi giorni”). Devo dire soltanto che mi aspettavo un piccolo guizzo in più, un elemento come quelli che ogni tanto tira fuori dal cilindro il buon Francesco Piccolo (non a caso anche lui sceneggiatore), per questo alla fine il giudizio generale è di un buon livello standard, senza salire verso i gradini dell’eccellenza. Ma fatte le debite premesse, ci viene restituito un po’ (o anche di più) della città di Livorno e delle sue contraddizioni. Di aver preso il posto di Pisa quando quella marina si insabbiò, ma di essere sempre stata “il porto di Firenze”, e non (come Pisa, invece) un grande impero a sé stante. Vero che Ferdinando I ne fece un ottimo granducato, ma la sua statua con i quattro mori incatenati è e sarà un simbolo contraddittorio della città. Come le tre piccole tappe che Simone ci porta a seguire per la città: Piazza della Vittoria con il recinto dei cani e le vite che la attraversano, i miasmi che salgono dalle viscere della città e dalla sua archeologia industriale (o simile), dove non ci perderemo mai la descrizione della fabbrica abbandonata della Coca-Cola, e poi il Lungomare. Anzi, per riprendere il titolo, e la citazione fantastica di Panella e de “Le cose che pensano” di Battisti (un dolce tedio a sdraio … costeggiai i lungomai). Mi sarebbe piaciuto anche un passaggio più approfondito nell’unico quartiere che conosco bene di Livorno, quello della Venezia, con i suoi canali, con le barchette, con i locali, e con quel carnevale che non scimmiotta la sorella maggiore, ma cerca soltanto di sfruttarne la notorietà in minore. Così scivoliamo, nella calura del fronte del porto, tra le storie dei padroni dei cani che si vedono la sera nel recinto di Piazza della Vittoria (che in realtà si chiamava Piazza Magenta, e con questo nome è conosciuta dai locali, un po’ come Piazza Esedra a Roma), la storia del Monumento di Ferdinando I (e del rapporto con il figlio Cosimo II), la bellissima statua de “Il Pescatore” di Ardenza, posto sul Lungomai a guardare l’Isola di Gorgona (e come ognuno che guarda Gorgona, rimane impietrito; stupenda l’immagine di mettere una sciarpa alla statua d’inverno per il freddo), ed anche quella delle terme, della loro nascita e della loro decadenza. Ma anche le storie di persone, dei livornesi d’altrove, come quella del cuoco trovato in un ristorante a New York, o dei livornesi d’acquisto, come il professore di liceo che cerca di attaccare discorso con i pescatori (e si sente rispondere col ritornello di una canzone popolare “Nel porto di Livorno nun c’è pesci / cosa m’importa bimba se mi lasci”), o di quelli doc, come il calciatore Carlo Lucarelli e la sua complessa parabola. Ed altre ancora, passeggiando tra la varia umanità della cittadina. Certo avrei gradito qualche accenno in più sul romantico mazziniano Francesco Domenico Guerrazzi o il librettista Giovanni Targioni Tozzetti (autore di una poesia celebrativa della sua città natale, dove si celebrano “le bimbe belle, i Quattro Mori e il mare”). Ma anche su altri neanche citati (perché ci dimentichiamo di Amedeo Modigliani? Forse è troppo ingombrante?). Ma Lenzi in ogni caso mi ha restituito il sentimento di una città, e delle sue parti meno pubbliche e più private, e forse per questo a me più care (per non dimenticare il mangiar di pesce). Chissà che non si legga altro di lui. Intanto ho piacevolmente passato qualche ora di metropolitana viaggiando ancora verso i labronici.
“Come Atteone … o G., …, che faceva lunghissime prediche alla sua barboncina Trilly.” (17)
“Di solito, al mattino, non ho memoria di quel che ho sognato la notte. Le rare volte che mi capita resto stupito.” (41)
Andre Agassi “Open. La mia storia” Einaudi s.p. (regalo di ConAllegria)
[A: 07/05/2013– I: 13/06/2013 – T: 19/06/2013]
[tit. or.: Open. An autobiography; ling. or.: inglese; pagine: 496; anno 2009]
Cominciai a sentir parlare di questo libro il 13 novembre del 2011, quando, nella pagina domenicale di Repubblica, Alessandro Baricco cominciò il suo anno di recensioni (quello poi uscito in libro, anch’esso dolce regalo, con il titolo “Una certa idea del mondo”, e che è quella che vi sto proponendo in tutti questi anni, con le mie trame; forse non una certa, ma di certo una mia idea del mondo). E lo cominciò proprio con questo libro, che divenne presto un best-seller, ed ora, due anni dopo, mi è stato regalato dal mitico Roberto (quello allegro, ah ah) in cambio di tre bottiglie di birra perdutesi nelle Poste. E, a lettura effettuata, mi trovo (abbastanza) in accordo sia con il piacere di chi me l’ha donata, sia con le parole di Baricco. Anche se non completamente, che io invece non riesco a scordarmi che il libro l’ha scritto J. R. Moehringer, premio Pulitzer del 2000 con i suoi reportage pubblicati sul Los Angeles Times su di un’isolata comunità dell’Alabama; certo (e Andre lo dice nei ringraziamenti finali), loro si sono messi a parlare davanti ad un registratore. Ed è lì che Agassi ha tirato fuori la sua storia. Ma dalle parole al libro c’è voluto il filtro potente del “ghostwriter”, che ne ha ripulito le frasi, asciugato i sensi, allentato e ristretto nei punti giusti, donandoci una confezione preziosa. Una confezione in cui sentiamo “parlare” Agassi e raccontarci la sua vita, mentre leggiamo quello che ne scrive il padrone della penna. Quindi, fatti gli auguri al redattore, veniamo al libro “in sé”. Che ovviamente è appassionante, per uno sportivo “laterale” come me, sia sul lato sportivo (anche se non indulge in troppi tecnicismi) sia sul lato umano, sulla vicenda che porta il piccolo Andre dal cortile del Nevada ai grandi cortili del tennis ed alle grandi praterie della vita. Un ribelle, si diceva quando era nel pieno dell’attività. Uno che perdeva più punti mandando a quel paese gli arbitri delle partite che direttamente dall’avversario. Scopriamo così che, proprio da quelle costrizioni infantili, dove a 7 anni il padre lo costringe a colpire per ora le palle da tennis sputate da una macchina, arriva ciò che non ha mai espresso: l’odio per il tennis. E poi per il padre, e le ribellioni, verso la famiglia ed il mondo. Ma tutte queste ribellioni (che seguiamo con arguzia sulla carta) lo porteranno poi a confessare, verso la fine della carriera, che in fondo, il tennis, è l’unica cosa che sa fare per guadagnarsi la vita. Intanto lo vediamo crescere, portando avanti le rivincite del padre (un profugo iraniano, eliminato come pugile al primo turno delle Olimpiadi di Londra e di Helsinki). Poi passare all’accademia tennistica (quasi lager) del famigerato Nick Bollettieri. E cominciare a vincere, perché di tennis è bravo. Ma anche fare “lo strano”: capelli da moicano, mechati, hot paints jeans, orecchino. Ed anche a contornarsi a poco a poco di persone sempre più simili a lui: il fratello, l’amico Perry, l’allenatore Brad (Gilbert, per chi non lo conoscesse un tennista di valore), il preparatore atletico Gil. Per ognuno c’è una storia, c’è un momento della vita di Andre che viene fuori (il piacere di mangiare McD, la scivolata verso qualche anfetamina, poi passata, i grandi sperperi di denaro, poi rientrati). Persone piene di sensi (generalmente buoni) e di sensibilità. Seguiamo anche la sua grande storia d’amore con Brooke Shields, che probabilmente ancora risente degli strascichi ribelli giovanili. E poi la ricerca, la conquista e la vita piacevole quando confessa a se stesso di amare Stefanie Graff. Che corteggia, che sposa, con cui fa due figli. E con la quale mette su una serie di iniziative benefiche per dedicarsi “agli altri”. Ecco, qui, con Baricco, mi trovo d’accordo sul fatto che sia un po’ troppo “melenso” il finale buonista (il ribelle che si sposa, mette famiglia e scopre l’altruismo). Certo, è così, ed è questo che vediamo in Agassi (anche fuori dal libro). Ma possibile che tutto il resto si appiani miracolosamente? Che faccia la pace con il padre? Che non pensi di mandare a quel paese un giorno sì e l’altro pure Pete Sampras o Boris Becker? O almeno i giornalisti che continuano a rompere. Ma nel complesso, è una bella storia, proprio per far vedere una storia di chi cerca se stesso, lo trova, e trova la sua vita. Prima o poi.
“A pochi di noi è concessa la grazia di conoscere se stessi, e finché non ci riusciamo, la cosa migliore che possiamo fare è essere coerenti.” (260)
Francesco Recami “L’errore di Platini” Sellerio euro 12
[A: 21/06/2013– I: 26/06/2013 – T: 28/06/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 111; anno 2006]
Era molto tempo che cercavo in libreria questo primo testo di Recami, di cui ricordo di aver letto e tramato un irrisolto correttore di bozze (suo secondo testo) ed un più gradevole lettore di Maigret. Mi aveva sempre incuriosito il titolo, volendone scoprire identità nascoste senza cercare soluzioni internettiane. Ora, dopo aver pubblicato altri titoli mi dicono di maggior fortuna (se ne leggerà?), la Sellerio rimette in circolazione questo primo testo. Che devo dire è un buon primo libro, per un buon scrittore di atmosfere claustrofobiche, come a me sembra Recami. Una buona scrittura, uno spunto interessante, una pennellata sull’Italia minore degli anni Ottanta. Devo dire che, personalmente, mi ha fatto più volte innervosire, saltare sulla sedia, e cercare di leggerne in fretta le parti meno scorrevoli, quasi a volerne ritrovare un filo dopo avvenimenti che mi sfastidiavano. Intanto, ho subito scoperto che l’errore di Platini è proprio quello, un errore, uno sbaglio fatto dall’impareggiabile mezzala juventina, che condanna ad una sconfitta casalinga la Vecchia Signora. Ma è solo il pretesto, che quell’errore consente ad un mediocre rappresentante di commercio di fare un medio tredici al totocalcio. Medio, perché parliamo “soltanto” di 500 milioni, una vincita buona, ma che non può stravolgere la vita. Può però cambiarla, come la cambia ai due protagonisti, Gianni (il rappresentante) e la moglie Sabrina. Una coppia trista e male assortita, colpita tra l’altro dal grande dolore di avere una figlia di due anni cerebrolesa (mancanza di ossigeno al parto), che curano con dolore ma che non potrà mai guarire. La vincita consente a Recami di descriverci questa provincia italiana (siamo a Viareggio), con le sue piccolezze, le sue meschinità. Gianni e Sabrina non hanno una grande personalità, sono succubi di quello che succede loro intorno, non sono “belli”, non hanno belle idee sul futuro. Sono l’esempio principe di quella classe di mezzo che di lì a poco verrà sedotta dalla sirena berlusconiana (e non è un caso che i due frequentino la festa dell’Avanti). Che fare allora con i soldi? Trovare una sistemazione ospedaliera definitiva per la piccola Marina? Comprare una villa fuori città? Uscire dal mondo dei rappresentanti scalcinati? Investire in borsa? Tante le possibilità che i due esplorano, prima insieme, poi, presi dal vortice dei litigi e delle impossibilità, con Gianni che decide di prendere in mano la situazione. E che fa il nostro? Ovvio, si compra una macchina, una Mercedes 230E, tanto per spazzolare via già un decimo della somma. Ma (come i più smaccati stereotipi ci facevano sapere) l’importante è non divulgare la notizia, che i pescecani sono pronti a spolparti tutto. Continuare la vita di sempre. Gianni e Sabrina tentano, ma più nella testa che nella realtà, tanti nuovi inizi, senza riuscire ad imboccarne alcuno. E rimanendo sempre bloccati dall’accudire alla piccola. Delineandosi loro, si precisano anche le piccole meschinità quotidiane, la mancanza di amore, il rifugiarsi in piaceri più mentali che solitari. Ci si aspetta una qualche catarsi, prima o poi, che li metta di fronte a loro stessi, che nelle difficoltà riescano a tirar fuori un carattere. Recami è abile nel condurre il gioco su questo filo, facendoci intravedere baratri possibili (o che almeno immaginiamo noi lettori “molto” intelligenti) ma senza che i nostri ci caschino. Qualcosa ci sarà (e non vi dico cosa), ma i nostri continueranno ignavi a percorrere le vie della vita. Sabrina rifugiandosi sempre più in improbabili fantasie di successo. Gianni aprendo con una discreta fetta della vincita, un negozio di scarpe in centro (che immaginiamo non avrà vita facile, ma questo avverrà dopo la fine del romanzo). E prenderanno anche una casa nuova, anche se non una villa (che i soldi si assottigliano velocemente). Un libro triste, con echi premonitori che non svelo ulteriormente, con una dolenza dei personaggi (che è quella che mi faceva innervosire). Alla fine, una prima prova che rivelava uno scrittore capace alla penna, pronto per le successive prove. E con quello sguardo sulla vita di tutti i giorni non coperto da mascherine colorate. Ci mostra com’è l’Italia media. E ne dobbiamo tenere conto, senza far finta che sia altra. Un solo appunto per una probabile inesattezza: è da un libro che viene tratto il soggetto de “Il postino suona sempre due volte”, non viceversa (come sembra a pag. 97).
“Non avevano l’ideologia del successo, erano cresciuti in un’epoca intermedia in cui si parlava meno di soldi e di carriera … La storia non li aveva forniti di grinta personale a scopi di lucro. Tuttavia, quelli sì, possedevano tutti gli strumenti pisco-sociologici per riconoscere gli esatti termini di un insuccesso.” (52)
Paolo Di Paolo “Mandami tanta vita” Feltrinelli euro 13 (in realtà, scontato a 11,05 euro)
[A: 15/04/2013– I: 19/08/2013 – T: 21/08/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 158; anno 2013]
Tanto mi era piaciuto il primo libro di Di Paolo, tanto questo mi ha lasciato perplesso. Sarà che nel primo sentivo veramente “la vita”, quella vissuta dal protagonista. Mentre in questo, che la vita la reclama sin dal titolo, tutto mi sembra “artefatto”. Infatti, il progetto del libro si instaura sul binario di ricostruire l’ultimo periodo della vita di Piero Gobetti, quando questi, perseguitato dai fascisti e da loro spesso malmenato, si rifugia a Parigi, lasciando in Italia l’amata moglie Ada. A Parigi, però, la salute di Gobetti non migliora. Ed in seguito ad una brutta bronchite, presto degenerata, nel febbraio del 1926 muore all’ospedale di Neuilly. Di Paolo non ci narra direttamente opere e pensieri di Gobetti, ma, da buon narratore che comunque è, ne affronta le tematiche in modo trasversale, utilizzando un personaggio fittizio, tal Moraldo. Coetaneo di Gobetti, e come lui di Torino, Moraldo ne rimane colpito dall’eloquenza e dal carisma. Vorrebbe avvicinarlo, proporgli una sua collaborazione, anche se l’unica cosa che sa fare è il caricaturista. Saputo della partenza per Parigi, anche Moraldo vi si reca. Qui, Di Paolo ha un bel “coup de theatre”, che gli serve a movimentare la vicenda e chiarire la personalità di Moraldo. Sul treno per Parigi, Moraldo scambia la sua valigia con quella di una fotografa, Carlotta. Queste sono le pagine migliori, quelle dei dubbi, e poi della ricerca di Moraldo. Incontro fatale, quello con Carlotta (non per conseguenze fisiche, fortunatamente). La fotografa, infatti, è uno spirito libero (un po’ in anticipo sui tempi nel ’26), che pur concedendosi a Moraldo, non ne segue i panegirici sentimentali, preferendo, sensatamente, continuare la sua vita che la porterà oltre e altrove. Scopriamo così la vera essenza di Moraldo. Che non sa decidere, che non sa prendere iniziative. Pavido o non convinto di sé? Questo magari lo lasciamo al lettore. Fatto sta, che il nostro perde tutte le occasioni per fare qualcosa di positivo. Continua a riempirsi la testa delle idee gobettiane. Ed almeno in questi accenni, qualcosa esce fuori, soprattutto del Gobetti uomo. Tanto che credo Di Paolo abbia letto con cura e dedizione quello splendido carteggio tra Pietro e Ada (le famose “Nella tua breve esistenza. Lettere 1918-1926”; dato che ricordo per i meno adusi alle date che Gobetti quando muore ha solo 25 anni!). E ne abbia riportato l’essenza nei momenti in cui si cala nel “personaggio Gobetti”. Purtroppo non esce invece la forza del pensiero di Gobetti in termini politici. Ci prova, Di Paolo, tenta di usare frasi e pensieri, di ricordare il sodalizio con Montale, di cui Gobetti pubblicò per primo “Ossi di seppia” (con quel verso stupendo “Volarono anni corti come giorni”). Ma non mi arriva quel pensiero. Quello che ne fece un punto di forza del liberalismo degli Anni Venti. Come tacere il suo discendere da Salvemini e Luigi Einaudi. Come tacere la sua amicizia con Gramsci, pur su diversi scenari politici. O la ferocia degli attacchi al fascismo, intensificati a valle dell’uccisione di Matteotti. Noi restiamo dalle parti di Moraldo, che vede ma non prende posizione. Tanto che quando finalmente riuscirà ad incontrare Gobetti al Bois de Boulogne il mese prima della morte di questi, non sarà in grado di fare passi significativi verso una sua emancipazione politica. Tentennamenti che avverte anche Carlotta, che, partente per altri lidi, lo lascerà nella sua eterna indecisione. Così che, finiti soldi e speranze, Moraldo farà tristemente ritorno verso Torino, apprendendo da un giornale letto alla stazione di ritorno della morte di Pietro. Chiediamoci noi, cosa farà Moraldo, ora, dal 1926 in poi. Chissà che, prima o poi, uscirà dalle ombre di se stesso. Qui non ce lo dice Di Paolo, che su questa morte che spegne molta di quella vita che manca, chiude il suo libro. Che, non posso che ribadire, mostra capacità e maturità nello scrivere. Ma che per me indulge troppo in cercare di dire in modo altro, forse non suo, quanto nel primo libro aveva detto in modo diretto. E quello, personalmente, è il tono che preferisco.
“Quando smetti di essere un bambino, non te ne accorgi.” (38)
“Tu hai troppe parole, hai parole per tutto.” (136)
Una settimana senza parlare (anche) di viaggi? Non sia mai. Ed allora ringrazio il mitico gruppo portoghese con il quale ho passato una rilassante anche se umida giornata a Bologna (ed un grazie all’ottimo anfitrione Giorgio). Parlando molto di libri (nella bellissima libreria coop di Eataly) ma ancor più di viaggi da fare per il prossimo anno. Tante città e tanti posti ci hanno condito i tortelli bolognesi. Nella certezza che qualcosa si farà

domenica 17 novembre 2013

Saggi di giungo - 17 novembre 2013

In base ad alchimie misteriose, lo scorso mese di giugno mi è capitato di leggere in fila quattro diversi saggi. Sarà che a valle del mio compleanno in molti hanno pensato: visto che legge romanzi, regaliamogli saggi. Io accetto, leggo e commento. Perché son saggi di sicuro interesse ma di resa alterna. Letti, e qui riportati, in un ordine cronologico, che, casualmente, ne ripercorre un ordine di gradimento. Dal primo che riporto, cercando di dare un senso concreto alle mie pesanti critiche verso il libro (l’unica cosa carina, oltre alle prime righe, è l’immagine del titolo). Per poi salire all’olandese ed alle sue cronache dal mondo dei minareti. Passaggio obbligato Enzo Bianchi, molto  presente e capace sempre di porre domande e problemi. Per poi finire, quasi ad inaugurare quattro mesi di intensi viaggi, con il bel saggio sulla poetica della geografia. Con il quale, ora, come detto, si chiude una stagione, in attesa di aprirne una nuova.
Elémire Zolla “Verità segrete esposte in evidenza” Marsilio s.p. (regalo di Maria)
[A: 07/05/2013– I: 23/05/2013 – T: 03/06/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 180; anno 1990]
Comincio subito con ringraziare Zolla per l’unica cosa veramente positiva che ho tratto da questo primo e probabilmente unico suo libro che leggerò. La descrizione di quei luoghi “magici”, o comunque pieni di fascino, che conosco e vorrei rivedere come Pienza, o che non conosco ancora e che vorrei visitare come Lucignano in Valdichiana, Valsanzibio degli Euganei o la Pieve di Corsignano. Dopo di che, sgomberiamo il campo da alcuni luoghi comuni che mi portavo appresso senza sapere né aver letto nulla di Zolla. Pensavo fosse francese, ed invece è italiano e nato a Torino. Pensavo fosse una mente oscura della destra, e, sebbene non abbia nessuna prova, la direzione della Rusconi con Augusto Del Noce porterebbe in quella direzione. Pensavo fosse criptico ed esoterico: confermo. È criptico, esoterico, anche se innegabilmente colto, e capace di collegamenti inattesi e spiazzanti tra luoghi e culture diverse. Fatte queste premesse, devo dire a fine della lettura che il libro non mi è piaciuto. E proprio per quell’aria di sapere molto, e di farlo calare dall’alto. Certo non entro nel merito dei problemi che solleva lungo le quasi duecento pagine, dove si collegano orienti e occidenti, saltando dal buddismo all’islam, ed innescando lunghe peripezie filologiche sull’origine dei nomi. E quindi sul loro travasarsi, di cultura in cultura, portandosi appresso significati e modi di essere. Soprattutto non posso entrare in tutta quell’aria di alchimia negromantica, dove dal comportamento e dalle lucide follie di esseri disparati (e a volte disperati), discendono riflessioni che, seppur dotte, non penetrano la corazza della mia basica ignoranza. Socratica, se vogliamo, ma sempre ignoranza. Quindi non vi tedierò sugli arcani del potere, sull’esoterismo e la fede, sull’illuminismo e le avanguardie da rigettare in toto. Mi fermo soltanto su alcuni punti che forse mi hanno colpito, o forse su cui il suo eloquio ha fatto scattare lampadine inattese. Il primo, e più palese (e ne vedremo subito il senso), è proprio il nocciolo del libro. Uno sfoggio di cultura porta l’autore dall’analisi del sincretismo iniziale, alla conclusione che le verità più segrete sono talvolta quelle messe più in evidenza. Dovendo quindi fare uno sforzo di discernimento, noi umani limitati, per coglierle e comprenderle. Con molta semplicità, l’aveva già dimostrato quel piccolo capolavoro di scrittura datato più di cento anni fa, partorito dalla penna eclettica di Edgar Allan Poe. “La lettera rubata” ci fa capire che il luogo migliore per nascondere ciò che non vogliamo far vedere, è proprio davanti a tutti. Appunto, una lettera tra le lettere. Quindi rendere palese l’evidenza. Sta sempre nell’occhio di chi guarda (e cerca) cogliere questa verità. Che diventa segreta soltanto per chi ne ha paura. Il secondo ed ultimo punto, nasce proprio dallo spunto iniziale sul sincretismo, e su quella valenza, a volte negativa che sembra darne Zolla. Ma forse confondendolo, inconsciamente, con l’eclettismo. A meno nel senso primitivo del termine. Perché era l’eclettico che, come ne deriva dal termine greco, sceglie. E cosa sceglie? Sceglie qualcosa, tra le più disparate sorgenti, al fine di armonizzarle in un unico diverso. Prende quello che ritiene, giudica buono da buddismo, islamismo, ebraismo, cristianesimo, e via citando, e passando da religioni e fedi, a schemi filosofici, illuministi, romantici, marxiani ed altro. Ognuno può avere dei connotati buoni, positivi. Uniamoli, ecletticamente, traendo il meglio da tutto. Ma è quello che hanno cercato i sikh da un lato ed i baha’i dall’altro. Senza riuscirci. Cadendo, come dice Zolla, nel sincretismo degenere. Perché anche qui, se risaliamo all’etimologia, come in altre parti fa lo stesso Zolla, risaliamo al greco ed al significato di “coalizione cretese” (appunto sincretismo) dove opposte fazioni gettavano alle ortiche le loro differenze per coalizzarsi contro un nemico comune. Mi sembra quasi di vedere il governissimo di Letta… Un ultimo punto negativo, non del testo ma del contesto, viene dal panegirico finale di Grazia Marchianò, che sembra soltanto teso a tessere lodi della bravura e delle idee di Zolla, cosa pur lodevole, se non sapessimo che la Marchianò di Zolla è stata l’ultima moglie. Per finire cito qualche brano qua e là preso del libro, non solo quelli in cui mi rispecchio, ma soprattutto quelli che mi hanno fatto innervosire (e ne commenterò il perché).
“Un motto di Bodhidharma era: - Non fondatevi sui testi!; purché si rammenti che questa esclamazione è nient’altro che un testo.” (24)
“L’immaginare e l’imitare semanticamente si sovrappongono (in cinese xiang vale per entrambi) … risalendo alla radice indo-europea ‘mei’ … da cui scaturisce il sanscrito maya (l’apparenza).” (69) [è come con i numeri, dove con un po’ di pazienza riesco a dimostrare che tutto deriva da un numero e tutto porta ad un altro]
“I sapienti sognavano per il popolo intero e allestivano come spettacoli i loro sogni; da quest’atto di carità originò il teatro.” (80)
“La contemplazione d’una persona, d’un paesaggio, si esprime cogliendone … la forma formante di quelle forme formate; sentendola all’interno di una forma formata, si accede alla sua radice nel mondo delle essenze formatrici.” (102) [non credo che avrei potuto dire meglio… e se parlassimo di forme di formaggio?]
“Il significato è … lo stesso che esprimono i canti delle sciamane coreane, sulle cui labbra udii … parafrasi di Empedocle.” (134) [è così oltre francese, inglese, spagnolo, russo e tedesco, il nostro conosce il coreano, altrimenti come avrebbe fatto ad interpretarne il canto, mi domando io che non decifro neanche i canti in italiano…]
Cees Nooteboom “Il suono del suo nome” Ponte alle Grazie s.p. (regalo di Silvia)
[A: 07/05/2013– I: 03/06/2013 – T: 08/06/2013]
[tit. or.: Het geluid van Zijn naam; ling. or.: nederlandese; pagine: 238; anno 2012]
Avevo incontrato il nome di questo ottantenne autore olandese sfogliando qua e là il catalogo di Iperborea, ma non avevo fino ad ora avuto occasione di leggerne. Scopro così, e con piacere, un autore poliedrico, certamente interessato alle cose del mondo, come testimonia buona parte della sua produzione legata ai viaggi. Dato che oltre che romanziere, saggista e poeta, il suo nome (quello di Cees, cioè) è legato a racconti e resoconti dei suoi giri intorno al mondo. Questa, intanto, collegata alla produzione itinerante, è purtroppo una “compilation”, come direbbero i cultori della musica. Purtroppo, anche se l’olandese volante cerca, in una comunque interessante postfazione di dare un senso unitario al libro. Certo, un senso lo può dare il sottotitolo italiano (“Viaggi nel mondo islamico”), anche se le note di Nooteboom toccano si Marocco e Tunisia, ma anche Cordova e Benares. Forse meglio restare sul titolo, che, in effetti, un elemento unificante può essere il suono del nome di Allah, che risuona in Africa come in Asia come in Europa. Purtroppo, anche, perché i “pezzi” dei viaggi sono (generalmente) discretamente datati, visto che originano con un viaggio nell’Iran pre-Khomeini (intorno al 1975) e nel Maghreb dei primi anni ’60. Poi ci saranno il Mali, l’India, di nuovo il Marocco, e la Spagna. Da un lato, quindi, c’è come una sensazione di “archeologica viaggiatrice”, quando ripercorrendo Marocco e Tunisia dal ’60 al ’65, rivedo quanto scoprii trenta e più anni dopo. E quanto spero di rivedere molto presto. L’arrivo a Casablanca e l’architettura francese, ma poi le città imperiali, la piazza grande di Marrakech, l’Hotel Mamunia (dove dieci anni fa non mi fecero entrare perché … in calzoni corti!). La penna sagace, con quella lievità che solo i poeti sanno dare al narrato, mi porta poi verso le due punte estreme del Marocco: M’Hamid nel pieno deserto e giù, verso Sud, verso Tan Tan e oltre. Rivedo la mia auto solcare le piste pre-desertiche, e poi saltare il deserto e ritrovarsi sul fiume Niger, tra Bamako e Timbuctù. Ahi che dolore pensare di aver visto quel mondo, e che ora qualcosa viene distrutta da barbari iconoclasti. Ahi che piacere pensare di vedere Tangeri, e forse un domani Keirouan. Ma ritrovarsi anche a pensare alla cacciata degli Arabi dalla Spagna, a Granata e all’Alhambra, a Cordova, ed altro ancora. E ricordare l’umanità di quegli arabi che salvarono per noi la cultura antica (senza le loro traduzioni avremmo perso del tutto Platone ed Aristotele…) ma che nessun flusso intellettuale attuale riesce a farci ricollegare. E mentre penso agli arabi di Spagna visti dagli arabi, ricordo quel libro di Maalouf che mi illuminò sulle crociate viste dalla parte del feroce Saladino. E certo ancora, ricordo le mosche di Delhi, il contrasto con il Forte Rosso, lo sfarzo dei Moghul. Ma Cees, come feci io, poi si rinvoltola in Benares, nei ghat, nelle pire, nel Gange e nelle sue tristi morti (chissà se l’autore è mai andato a Pashupatinath… lì si che avrebbe apprezzato contrasti di vita e morte). Il senso di tutto ciò è quello che si predica in molti da anni: culture diverse, mondi diversi, ognuno con la sua specificità, dove si dovrebbe imparare il rispetto reciproco e la comprensione (sincretistica) del meglio delle diverse culture. Nooteboom ha il suo occhio attento, e capisce, subito (ricordo che il suo viaggio in Marocco lo fa a 27 anni e le sue note sono da condividere a 50 anni dalla scrittura) il mondo in onore di quel nome. Ad un certo punto dice che questa architettura è disumana: lo condividiamo, nel pieno senso del termine. Non contiene umani (l’islam è iconoclasta) ed ha bellezze che trascendono l’umano (vogliamo parlare del Taj Mahal? dell’Alhambra?). C’è un passo interessante nella post-fazione (che chissà perché in italiano viene indicata come capitolo a sé), in cui un convertito spiega a Cees i motivi della sua adesione all’islam. Con una semplicità, una leggerezza, ma anche una profondità di sicuro interesse. Chiudo questo interessante libro (che avrebbe meritato miglior considerazione se avesse tenuto conto di scritti anche più recenti), con quello che da anni ci rigiriamo nella testa. Quanto pesa sull’islam la mancanza di un Rinascimento? Quanto pesa sull’Occidente il falso mito che la nostra sia l’unica modalità degna di essere vissuta. Abbiamo sempre pensato, noi che nei Paesi Arabi ci abbiamo lavorato con serietà, che bisognava esportare consapevolezze ed installare nuovi modi di lavoro laggiù; non esportare modi di vita e trasportare gli altri quassù (parlo in termini geografici, ovviamente, non morali). Un buon libro, con la speranza che le nostre visioni (mie, di Cees, e di molti altri) possono un dì vedere “il fil di fumo”.
“Sulla felicità si riflette meno che sull’infelicità.” (12)
“Non c’è altro. Sabbia che dopo un certo numero di chilometri cambia nome e [da Marocco n.m.] si chiama Mauritania. … e il vento [dietro di noi n.m.] lo vediamo cancellare i nostri passi insignificanti. Non siamo mai stati qui.” (81)
“Ora che sono a casa mia e ascolto la musica dogon e guardo le fotografie … provo una felicità … mista a nostalgia, perché so che non ci tornerò mai più. E se anche dovessi tornarci sarebbe ancora uguale?” (154)
“Viziato nella sua solitudine … il bianco visita l’Africa e non vede nulla.” (158)
“Non riesco a immaginare di girare la Spagna o il Perù senza essere in grado di parlare con la gente, di leggere il giornale. Ma … soltanto in Africa … ho percepito il brivido dell’estraneità.” (160)
“Ricordo la lezione esemplare che mi fu impartita durante quel breve viaggio: ricordati, ovunque tu vada ti troverai sempre seduto al posto di qualcun altro.” (189)
“[Occidentali e musulmani] siamo diventati … un conflitto che non si concluderà nel corso della nostra vita. Se c’è un inizio di soluzione, può essere soltanto nell’eliminazione dell’incredibile ignoranza degli uni nei confronti degli altri.” (233) [e come per incanto ripenso all’epopea di Sundjata Keitè primo imperatore del Mali…]
Enzo Bianchi “Fede e fiducia” Einaudi s.p. (regalo collettivo di Almaviva)
[A: 07/05/2013– I: 14/06/2013 – T: 15/06/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 89; anno 2013]
È sempre con estremo piacere che leggo ogni tanto le parole del priore di Bose. Preferisco a volte quando si dilunga in ricordi o in momenti di esegesi della vita quotidiana, rispetto ad altre dove si addentra in interpretazioni, che non sempre rientrano nell’essere facilmente decodificabili. Questo veloce libretto, frutto del massiccio regalo collettivo ricevuto alla festosa festa, come si può arguire dalle sopraindicate indicazioni, rientra più nella seconda categoria che nella prima. Per questo, anche la sua analisi, il suo riporto di trama sta impiegando più tempo ad essere maturato. Sono quasi dieci giorni ormai che ne ho terminate le scarne pagine, ma non sento ancora che sia maturato completamente il pensiero intorno allo scritto. Intanto e sopratutto quando e perché parla di momenti di fede, e di interpretazioni della figura del Cristo che non sono facili, a prescindere. Credo quindi sinceramente che non riuscirò a restituirvene sensi e modi (inoltre e talmente corto che forse una mia trama rischierebbe di essere addirittura più lunga, quindi tanto vale che leggiate l’originale). Eppur tuttavia ci sono due punti che voglio evidenziare, e sulla quale operare con intelligenza. Uno per constatarlo e lasciarlo lì come elemento di riflessione. L’altro, invece, per condividerlo e forse per trarne qualche insegnamento. Il primo riguarda l’affermazione di padre Bianchi che credere è un atto di volontà. Non si entra nel merito di verità, di illuminazioni, né tanto meno (ed in questo sono sicuramente in sintonia con Bianchi) sulla secolarità della Chiesa e sulle sue attività. Ci si riferisce soltanto (anche se il termine è troppo riduttivo) al passaggio logico: dalla constatazione di uno stato, di una necessità, alla volontà di crederci. Il secondo invece è quello più connaturato al tema centrale del libro, ed anche all’idea alla base della quale è nata la mia lettura. È il tratto distintivo, come concordo pienamente con Bianchi, dell’essere umano. Quello che unisce credenti e non-credenti in una “ecclesia” (intesa come comunità) di essere vivi. Non si entra qui nello specifico della fede o di una fede. Si afferma invece che si può avere o non avere fede, ma non si può non avere fiducia. Questa, in effetti, è una delle grandi carenze del mondo attuale. Dopo anni, decenni di decadimento, di soprusi, di “mors tua, vita mea”, di comportamenti pubblici e privati sfrontatamente fuori da ogni regola, è caduta verticalmente la fiducia. La fiducia nell’altro, nelle istituzioni, nell’etica. Qui, ripeto, mi trovo ad aderire in pieno. E ad affermare che in realtà è proprio la fiducia che personalmente mi consente di andare avanti, sempre. La fiducia che sia possibile un’etica condivisa di valori non oppressivi. La fiducia che gli altri siano fondamentalmente buoni e solo circostanze della vita (ovviamente tante e degne di pagine e pagine di analisi) che portino a comportamenti non-etici (il dizionario propone immorale come contrario di etico, ma la definizione non mi convince). La fiducia che alla fine sia sempre la giustizia che trionfi, che la medicina risani, che l’amore sia ripagato. E quindi si ritorna sempre lì, all’amore, quello “che move il cielo e l’altre stelle”, quello che, personalmente ed individualmente, muove da sempre il mio io interiore. Come nella più classica delle trame, quindi, si comincia a parlare di un libro e si finisce a parlare di se. Ma essendo un argomento troppo vasto per costringerlo in così poche righe, penso che qui mi fermerò. Lasciando a tutti (voi e me) il compito di proseguirne.
“Il cristiano crede con l’intelligenza.” (11)
“La fiducia in se stessi dipende in gran parte dal poter credere agli altri.” (13)
“Le frontiere talora passano non tra chi ha fede in Dio e chi non ce l’ha, ma … tra chi pensa di possedere la verità e chi si sente sempre pellegrino verso di essa.” (24)
“Occorre credere che l’amore sia l’unica realtà umana capace di vincere la morte: Omnia, vincit amor, scriveva già Virgilio.” (34)
“Gesù mostrava … un Dio diverso, … Colui che vuole la libertà, che perdona e non castiga … E questa sua condotta gli ha meritato la morte: i capi dei giudei lo hanno voluto morto perché era in opposizione con il Dio da loro professato, e i romani lo hanno crocefisso perché poteva essere insidioso per il potere totalitario dell’imperatore.” (58)
“Dopo aver incontrato un’altra persona non ci chiederemmo tanto che cosa le abbiamo insegnato … ma piuttosto: le persone, dopo avermi incontrato, hanno più fiducia … nella vita e negli altri?” (86)
“Noi passiamo dalla morte alla vita quando amiamo gli altri [dalla Prima lettera di Giovanni apostolo].” (89)
Michel Onfray “Filosofia del viaggio. Poetica della geografia” Ponte alle Grazie euro 12,50
[A: 15/04/2013– I: 28/06/2013 – T: 30/06/2013]
[tit. or.: Théorie du voyage: poétique de la géographie; ling. or.: francese; pagine: 114; anno 2007]
Un libro agile, veloce, essenziale, ma quanto denso, per uno come me che si dedica sempre di più al viaggio. Il filosofo francese dedica qui il suo potere di sintesi e di sistemazione, ad una disamina dell’essenza del viaggio. La sua filosofia, appunto. Dissezionandone le varie tappe, su cui torneremo, per arrivare a quella che lui chiama appunto poetica della geografia. Ed intendiamo, proprio la geografia, cioè la scrittura della terra, la costruzione di quell’immagine (mentale) della terra su cui viviamo. Quasi a ripercorrere nel proprio intimo quell’esperienza lì cartografica e non geografica, descritta da Borges, dove per fare una descrizione accurata dei luoghi i geografi non trovarono di meglio che fare una riproduzione dei luoghi stessi 1:1, cioè che ricoprissero sé stessi, senza riduzioni né sintesi. Poetica, si diceva, perché si dispiega al fine il viaggio ed il viaggiatore come un narrare, come un presentare, come un elemento che non fa più parte del sé, ma diventa un’istanza con un’enfasi quasi fosse una delle fondamentali idee platoniche (e qui ritorna il filosofo): il Viaggio. Per arrivare a comprenderlo, il Viaggio, bisogna da un lato astrarsi dalle macchinerie del progresso (televisioni, cinema, ora internet ci danno idee dei luoghi altri, quasi a dire che il viaggio non è più utile, non serve). Ma il Viaggio è, e sono d’accordo con Onfray, composto da diversi parti: il prima, il durante e il dopo. E da una coda, cui personalmente do molto più peso del resto. Nel prima si sceglie dove viaggiare. E, come vedete nelle citazioni, ci sono infiniti modi di farlo: a caso, seguendo sogni di diversa natura (i versi di un poeta, i colori di un quadro, un libro), cedendo ai sogni dell’altrove di altri. Nel finale del prima, poi, si cerca di avere più informazioni possibili per pianificare, programmare, godere il durante. Un’attività individuale, che termina quando si gira la chiave per chiudere la porta di casa. Da lì inizia il durante. Dove non si deve cercare di avere conferme di quello che si suppone si debba vedere. Ma bisogna aprire tutti e cinque i sensi. Ed incamerare tutto il possibile. Suoni, odori, colori, sensazioni, parole, chiacchiere, sguardi. Il Viaggio deve riuscire a sviluppare ed avviluppare tutto ciò. Forse (o meglio, senza dubbio) utilizzando tutti i supporti possibili per tenerne una propria traccia. Da giovane usavo solo il cervello. Ma le sensazioni entravano tanto in profondità, che ci sono momenti che ancora ricordo. Una per tutte, l’arancio comperato al mercatino davanti alla gare de Lyon, durante il primo ritorno dal mio primo viaggio solitario a Parigi. Lo sento ancora in mano, ne sento i primi spicchi attraversando la Savoia, e gli ultimi tra Piemonte e Toscana. Mi rimanda tutte le sensazioni del Viaggio. La scoperta degli impressionisti, delle strade, dei cimiteri, dell’amore. Poi c’è il dopo. Dove si deve cercare di sfrondare il superfluo, per tenersi le basi, i fondamenti del viaggio. Sarà una frase, una spremuta d’arancio, una foto. Su queste basi il viaggiatore ricostruisce l’identità comunicabile del viaggio e completa pezzi della propria identità. Quest’ultima è una filosofia privata, e non ci torno. L’altra è la componente di condivisione del Viaggio con l’altro da sé. Un Viaggio, anche se non comunicato, deve essere comunicabile. Cioè deve portarci a capirlo, ed a capire come noi stessi siamo modificati dopo il viaggio stesso. Infine la coda, la bellissima coda. Dove una volta assolti tutti i compiti precedenti, si può iniziare a pensare non ad un nuovo viaggio (questo è ovvio, noi nomadi siamo certi che ripartiremo), ma a “progettare un seguito”. Questa frase con cui il filosofo francese battezza le ultime pagine, è stato uno dei momenti forti della mia lettura di questo libro che nella sua velocità e semplice complicatezza suggerisco caldamente di cercare di leggere. Perché io continuo sempre a progettare seguiti…
“Il viaggio comincia in una biblioteca, o in una libreria.” (23)
“[Durante il viaggio, a quale ora dobbiamo far riferimento:] l’ora del luogo di partenza o del luogo d’arrivo? … o il ritmo … imposto dai vassoi per i pasti durante i voli a lunga percorrenza?” (36)
“Poco importa il supporto utilizzato perché la memoria produca ricordi … crei punti di riferimento con cui organizzare più tardi l’insieme del viaggio.” (50)
“Uno dei rischi del viaggio consiste nel partire per verificare da sé quanto il paese visitato corrisponda precisamente all’idea che ce ne siamo fatti.” (55)
“Ogni viaggio è iniziatico … prima, durante e dopo si scoprono delle verità essenziali che strutturano la [nostra] identità.” (74)
“Non si dà viaggio senza ricongiungimento [a casa], che conferisce senso anche allo spostamento.” (85)
“Dopo averli raccontati due, tre o quattro volte, i dettagli, le peripezie e gli aneddoti [del viaggio] si concatenano, si deducono, si richiamano, assicurano la coerenza all’insieme.” (101)
“È sufficiente sapersi nomadi una sola volta per avere la certezza che si ripartirà, che l’ultimo viaggio non sarà affatto l’ultimo.” (111)
“Progettare un seguito presuppone più l’innovazione che la ripetizione. Le occasioni per ripartire possono essere casuali: aprire un atlante, chiudere gli occhi, puntare un paese, decidersi per una regione imprevista, … acconsentire ai sogni d’infanzia, cedere al desiderio dell’altrove di una persona cara.” (113)
E terminando la trama parlando del viaggio, non posso che precisare quanto avevo accennato nel corso della trama dell’olandese. Ora che sono tornato a Marrakech e che mi ci sono trovato nuovamente bene. Or che finalmente ho visto Tangeri. Ora che, come direbbe Onfray, ci si riposa avendo fiducia nel pensare ad un nuovo viaggio. Ora vi saluto

domenica 10 novembre 2013

Oh NUMA! - 10 novembre 2013

Non che abbia qualcosa da rimproverare a non noti dei latini (e mi scuso dell’ortografia nel caso). Ma è che questa settimana, di ritorno a casa e alla scrittura, do finalmente fondo ad un lotto di letture dedicate al mio maestro di avventure. Siamo quindi dalle parti di Clive Cussler e della sua National Underwater and Marine Agency (appunto NUMA). Ed abbiamo quattro diversi esempi della grande fabbrica di best seller americana. Un classico del filone principale di Cussler (dedicato alle avventure di Dirk Pitt), un semi-classico dedicato alle avventure di Kurt Austin e della seconda squadra della NUMA, uno del filone ormai consunto delle avventure del capitano Cabrillo ed uno di una nuova serie (non a caso firmata dal solo Cussler) dedicata al detective dei primi anni del Novecento, Isaac Bell. Avventurone, abbastanza leggibili e godibili. Rimaste un po’ tra le righe (non a caso, il primo dei quattro libri l’ho terminato … un anno fa).
Clive Cussler & Dirk Cussler “Morsa di ghiaccio” TEA euro 8,90 (in realtà, scontato 0,89 euro con Feltrinelli +)
[A: 09/08/2011 – I: 31/10/2012 – T: 02/11/2012]
[tit. or.: Artic drift; ling. or.: inglese; pagine: 498; anno 2008]
Solita avventurona della premiata ditta Cussler & Co., dove, dati gli autori (padre e figlio) non possiamo che tornare al filone principale delle storie di Cussler. Quelle che ruotano intorno a Dirk Pitt ed alla sua squadra. Anche l’impianto del romanzo sfrutta il canovaccio formale che Cussler ha impostato per le vicende della serie “Dirk Pitt”. Prologo nel passato (presente o lontano ma comunque passato) che instilla una domanda, un problema nella mente del lettore. Vicenda nel presente incentrata su: cattivo che (consciamente o inconsciamente) conosce o sfrutta qualcosa legato al prologo; buoni che ne vengono coinvolti, rischiando la pelle; il gruppo del NUMA che interviene, ha qualche battuta d’arresto, ma poi trova la strada per sconfiggere il cattivo. Il tutto condito con: intervento “alla Hitchcock” di Cussler (qui ad esempio nelle vesti di un camperista che aiuta Dirk ad uscire da una situazione difficile), qualche intrallazzo amoroso (qui di Summer, la figlia di Pitt, visto che ormai il grande Dirk è sposato con la bella Loren, e pur non disdegnando l’azione, non sempre è il solo al centro della vicenda), nonché qualche elemento di ironia (in genere delegato alla spalla di Dirk, il gioviale Al Gordino). La storia antica, tra l’altro, prende lo spunto da un avvenimento reale, la ricerca del “Passaggio a Nord-Ovest” tra Atlantico e Pacifico, effettuato da Sir John Franklin, esploratore inglese che vi perse la vita intrappolato tra i ghiacci insieme ai 120 membri delle sue due navi. Su questo spunto, Cussler (lo indico sempre come riferimento anche se da una decina di anni queste avventure le scrive in coppia con il figlio, di cui l’eroe Pitt ha preso il nome) inserisce l’elemento “fiction”: le navi trasportavano misteriosamente del rutenio, che interagendo con altri metalli provocherebbe degenerazioni cerebrali. La storia moderna intreccia due vicende. Quella di un magnate ambientalista di facciata, che cerca di smerciare prodotti dello scarto industriale in depositi sotterranei, creando a lungo andare guasti inenarrabili. Ma ha bisogno di appoggi politici, per cui corrompe politici e dove non arriva utilizza un pericoloso sicario. E quella di una tecnica di laboratorio, che accidentalmente scopre un composto a base proprio di rutenio, che fa il lavoro di assorbimento delle scorie di cui sopra, ma senza inquinamento. E l’intreccio è presto servito: il cattivo deve accaparrarsi del rutenio per far chiudere la ricerca e continuare le sue losche trame. La dottoressa chiede aiuto a Dirk Pitt per cercare il Rutenio, che pare sia segnalato proprio nelle zone del Canada artico, lì dove il cattivo installa i suoi “falsi” depositi. Per caso i figli di Pitt sono nella zona a far ricerche marine (sono tutti stipendiati dalla NUMA appunto) e vengono a contatto con morti misteriose. Nella zona convergono anche il sicario da una parte e Dirk Pitt con la sua spalla Gordino, per cercare il minerale. Non ne troveranno ma (elemento di fiction) troveranno le navi di Sir Franklin (che alla fine avrà un grande funerale in Inghilterra a 160 anni dalla morte). E ci sarà battaglia epica, che il magnate, muovendo le sue pedine, è quasi riuscito a mettere un contro l’altro Canada e Stati Uniti (tanto da rischiare una guerra tra i due paesi). Ovviamente Dirk riuscirà a sbarazzarsi dei cattivi, a proteggere i figli, e ad avviare la riconversione industriale sulla scia delle indicazioni della dottoressa di cui sopra. Non farà la solita piazza pulita, ma sarà aiutato da un nuovo galletto del pollaio che intanto ronza intorno alla figlia. Insomma, bella scrittura, bella avventura, anche se meno scoppiettante di altre. Poi, quando si sanno certi meccanismi, si è più attenti al loro apparire (o non apparire). Ma questo è anche il mio piacere intellettuale. D’altra parte Cussler continua da diversi romanzi a battersi per un mondo meno inquinato, e questo non può che andare a suo merito. Certo, ultimamente ha questa fissa mettendo dalla parte dei cattivi “agglomerati di uomini”, che adombrano le tipologie “settarie” molto presenti in America, e di cui noi abbiamo sentore solo nei casi più eclatanti (tipo Scientology). Ma va bene così (o almeno, abbastanza bene).
Clive Cussler & Jack Du Brul “Corsair” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 18/10/2012 – I: 14/03/2013 – T: 03/04/2013]
[tit. or.: Corsair; ling. or.: inglese; pagine: 477; anno 2009]
Visto che qui la premiata ditta Cussler & Co, è formata con l’avventuroso Du Brul, torniamo al versante un po’ stantio, ed anche poco avvincente, per me almeno, delle avventure del capitano Juan Cabrillo. Quelle etichettate come “serie Oregon”, dal nome della barca pluriaccessoriata che dà anche il nome al gruppo privato di supporto in avventure ai limiti del lecito. Non siamo dalla parte ufficiale dei governativi del NUMA. Anzi ci avviciniamo sempre più in quella zona che potrebbe essere parte “non ufficiale” della CIA, come ci viene in mente entrando nella psicologia di un americano “puro” come deve essere il pur buon Cussler. Sembra inoltre sempre più flebile l’apporto del vecchio Clive, che sia la storia in sé sia le parti dedicate all’azione sono viepiù marcate Jack. Sicuramente, infatti, ci sono troppe pagine in cui si spara, si salta, si va all’arrembaggio, ed altre squisite tecniche d’azione, lasciando la storia ed il suo impianto ad un poco evidenziato margine di interesse. Si capisce che non mi è piaciuto tanto? E vediamo anche perché. Come ben sappiamo gli ingredienti del successo dei libroni di Cussler sono il collegamento a fatti del passato, più o meno misteriosi, che si collegano ad avvenimenti attuali, la presenza di un nocciolo duro di persone “devote” al bene, qualche atteggiamento buonista verso l’ambiente e/o in generale qualche comportamento etico, una presenza femminile che oltre ad allegrare l’atmosfera a volte prelude a storielle; in più, nelle storie della Oregon, un po’ d’azione. Ora qui abbiamo il primo elemento, una battaglia navale nel golfo della Sirti durante la a me poco nota “Guerra berbera” che vede opporsi i corsari arabi e la marina americana dal 1801 al 1805. Cussler la infarcisce con la sparizione finale della nave araba di tale Al-Jama, corsaro e filosofo. Ma il suo innesto sulla storia attuale è accennato, e, sebbene risolto nel finale, non se ne spiegano le motivazioni per cui una nave possa ritrovarsi ben al di dentro del territorio libico. Ci sono i buoni, o almeno quello che dovrebbe essere buono, il capitano Cabrillo e la sua ciurma. Come sempre sono impegnati in un’azione che non va bene, e contro dei signori della guerra somali. E già questo sa troppo di CIA. Dopo di che gli uomini della Oregon sono dirottati su Tripoli dove: 1. è stata rapita una funzionaria americana di rango prima dell’apertura di una conferenza di pace e 2. sono stati rapiti archeologi che cercavano la nave di cui sopra. Qui c’è la famosa donna che servirebbe ad innestare i meccanismi “relax”, ma non scattano (a volte sembra che ci siano quasi dei salti nelle storie; ma che qualcuno le taglia?). Finalmente manca del tutto un comportamento ambientalista o etico. Perché invece tutto si incentra nella lotta tra arabi cattivi (non tutti gli arabi sono cattivi, ma tutti i cattivi sono arabi) e i buoni americani. Con il beneplacito della CIA. Cabrillo, grazie alle sue mirabolanti armi di difesa, nonché all’arto artificiale pieno di “utensili” necessari quando si trova in difficoltà, prima sventa da solo i piani dei barbari. Poi ingaggia furiose battaglie, riuscendo a salvare l’archeologa carina (ma, ripeto, non ci sarà storia), e poi anche il sottosegretario americano, poco prima che venga decapitata in mondo-visione. Troppo! Troppe pagine di sparatorie. Troppo schierato in modo filo-americano, senza nessun sussulto di ripensamento. Certo, la scrittura è la solita della ditta Cussler, scorrevole, documentata, senza sbavature. Ma il tentativo di far scrivere al corsaro del 1800 delle pagine dedicate alla convivenza pacifica tra islamici e non, risulta di un patetico perbenismo americano, che mi pare giusto passarle sotto silenzio. Non ha molto successo questa svolta patriottica della serie, dato che, dopo di questo, altre 3 storie sono uscite negli Stati Uniti, ed in Italia non riescono a trovare mercato. Sono d’accordo. Speriamo si torni presto al filone “storico”, quello di Dirk Pitt e della NUMA.
Clive Cussler & Paul Kemprecos “Medusa” TEA euro 8,90 (in realtà, scontato a 6,68 euro)
[A: 21/01/2012 – I: 13/10/2013 – T: 16/10/2013]
[tit. or.: Medusa; ling. or.: inglese; pagine: 457; anno 2009]
Dopo mesi che l’avventuroso maestro di avventure sfuggiva al complesso algoritmo di lettura da me inventato, eccoci che ritorna uno dei suoi filoni romanzati più classici. Quello iniziato da 14 anni insieme al giornalista Paul Kemprecos, e dedicato a personaggi “da contraltare” rispetto al classico Dirk Pitt e compagnia, qui arrivati all’ottava puntata. Fortunatamente, però, siamo sempre nel solco della NUMA, l’agenzia para-governativa che si occupa di problematiche e disastri collegati al mare. In questo filone, ricordo, che il buon Clive decide di buttare allo sbaraglio due cloni di Pitt e Gordino: qui, gli eroi sono Kurt Austin e Joe Zavala. Anche perché, nel frattempo, il fondatore della NUMA è diventato vicepresidente degli USA e Dirk Pitt ha preso il suo posto come capo dell’agenzia. Nel solco della tradizione, comunque, l’impianto è di tipo classico. Antefatto nel passato che da alcune chiavi di lettura di un problema che sorge nel presente. Qui il passato non è poi tanto lontano, visto che si colloca su di una baleniera intorno alla metà del 1800. Baleniera che incappa in problemi sanitari che solo una strana popolazione polinesiana, con l’aiuto di qualche animale marino, riesce a debellare. Trasferitasi nel presente, anche qui l’azione ricalca schemi noti. C’è il problema: un’epidemia di tipo SARS, ma più virulenta, che si scatena in una remota zona della Cina. Medici che ne cercano soluzioni, creando (fatto piuttosto raro) anche una rete transnazionale di studi. Con a capo un’equipe guidata dal dottor Kane, un americano di belle intuizioni e con a bordo del gruppo la dottoressa cinese Lee specializzata in controlli della diffusione delle epidemie. Scopriamo ben presto che l’equipe sta giungendo a risultati interessanti studiando le meduse (da cui il titolo, ovvio). E scopriamo anche che i cattivi sono proprio cinesi, a capo di una delle tante triadi mafiose, che avevano isolato il potente virus per creare pressioni e scompiglio al governo cinese. Ma che si erano visti sfuggire di mano la diffusione del virus. I cattivi poi sono tre gemelli, che, vista la mala parata, decidono la cosa migliore sia impossessarsi del vaccino messo quasi a punto da Kane. Qui cominciano le storie avventurose. Un sottomarino rubato dai cinesi, sequestra la base sottomarina di Kane. Austin e Zavala cominciano a cercarla, aiutati dai coniugi Trout (altra costante della serie) che nel mentre trovano tracce della spedizione di cui all’inizio e salvano la cinesina da morte sicura. Zavala, seguendo un’intuizione, trova dove si è nascosto il sottomarino. Mentre Austin e Lee trovano tracce della medicina polinesiana di cui sopra. Che guarda caso è sempre derivata dalle meduse. Ovviamente, ben presto si avvicina la classica battaglia finale. I gemelli vengono eliminati uno dopo l’altro. Kurt e Joe avranno modo di far valere le loro doti di conoscenza dell’ambiente marino e delle migliori tecnologie per affrontarlo sbaragliando alla grande i nemici (con l’aiuto determinante di un doppio-giochista). I Trout daranno sfoggio sia delle loro intuizioni meteo – biologiche, ma anche della loro atleticità e della conoscenza del grande St. Julian, il più grande (anche fisicamente) bibliofilo marino. Altrettanto scontatamente, ci sarà il flirt tra la dottoressa Lee e l’aitante Austin. Insomma, tutto nei binari scontati e ben oliati delle produzioni della ditta Cussler & Co. Forse anche troppo scontati, se è vero che dalla prossima puntata, il ruolo di Kemprecos verrà preso da Graham Brown. E vedremo se forze nuove porteranno nuove aperture. Perché, bisogna pur dirlo, sebbene sia una lettura onesta e rilassante, direi compiutamente estiva (e magari, visto l’argomento, marina, con di fronte qualche bell’onda azzurra mediterranea), sta ormai tirando la corda. Si vede che l’ottimo Cussler continua a sfornare idee nuove ed interessanti (questa della biologia marina è anche stimolante). Ma i suoi “uomini di penna” si lasciano cullare troppo dall’onda dei successi precedenti. Mettiamoci alla finestra (o all’oblò) per vedere cosa succederà.
Clive Cussler “Il cacciatore” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 6,75 euro)
[A: 15/07/2012 – I: xx/10/2013 – T: 21/10/2013]
[tit. or.: The Chase; ling. or.: inglese; pagine: 365; anno 2007]
Ed ecco che finalmente esce anche in Italia, con qualche anno di ritardo, una nuova serie del maestro Cussler. Una serie atipica, un po’ diversa dalla classica avventura (almeno in questa prima uscita). Intanto, Cussler la firma da solo, assumendosene l’onere, nel caso che non riscontri il favore del pubblico. Ma pronto (e sarà così) a prenderne gli onori, visto che comunque riesce ad incontrare un filone non indifferente di pubblico. Tanto che proseguirà, ed ovviamente dalla seconda puntata sarà affiancato da un giovane scrittore che svilupperà le sue brillanti idee. Ribadisco atipica, che, dal punto di vista della costruzione formale, sembrerebbe anche tipologicamente isolata: cioè costruita in modo che, se non di successo, può fermarsi così. Come se fosse chiusa. Rispetto ai classici di avventura di Cussler, ribalta i meccanismi temporali: antefatto negli anni cinquanta del secolo scorso, e vicenda che si sviluppa nei primi anni del Novecento. Inoltre, niente astrusità tecnologiche avanzate, ma “ricordi d’epoca”. Si parla di treni con le loro belle locomotive a carbone, delle prime Harley-Davidson, delle prime automobili (la Locomobile della Vanderblit Cup o la Ford Modello K). Niente mare e niente navi. In fondo, niente avventura, nel senso classico del “modello Cussler”. Seguiamo, infatti, le indagini di Isaac Bell (che diventerà l’eroe della serie) un agente di un’agenzia di investigazioni, la Van Dorn Company (modellata come la Pinkerton, tanto che il motto di questa “Non dormiamo mai” diventa per il nostro Clive “Non molliamo mai”). In questo primo episodio, Bell deve scoprire chi sia un rapinatore ben organizzato che non lascia tracce sul suo cammino, uccidendo tutti quelli che incontra, tanto che viene soprannominato “il Macellaio”. L’astuto Isaac scopre però piccoli ed a volte irrilevanti indizi che lo portano sulle tracce di un ricco banchiere, Jacob Cromwell. È infatti lui l’efferato malfattore, che inizia a rubare per fondare una banca con i proventi delle rapine (siamo ai primi del Novecento e molta economia nasce su basi poco chiare). Ma che verrà preso dal gusto del brivido, organizzando rapine sempre più audaci, anche quando non ne avrebbe bisogno. Aiutato dalla bella e corrotta sorella Margaret. Bell, oltre ad essere un capace agente, è anche “di buona famiglia”. Genitori banchieri, studi universitari, eleganza e bei modi. È anche bello, ma non diventa un “rubacuori” alla Dirk Pitt, tanto che già in questo primo episodio si innamora e sposa la bella Marion. Ma il fulcro della storia, una volta scoperto il chi ed il come, è l’inseguimento. Quello del titolo, inopinatamente tradotto “il Cacciatore” che induce noi lettori a percorrere false strade. L’inseguimento del treno che porta il Macellaio a San Diego utilizzando una Locomobile (e si ritrova la passione per le autovetture che ha anche Pitt), macchina da corsa modificata. Ma da questo Cromwell riuscirà a sfuggire. Ed avremo quindi l’inseguimento finale, lungo cinquanta pagine, tra due locomotive Baldwin del 1904. Mirabili le descrizioni di questi mostri d’acciaio a vapore, che riuscivano a toccare le cento miglia orarie in rettilineo. Pur non citando meccanismi e modalità di lotte e disvelamenti, l’eroe Bell non potrà che uscire vittorioso dalla battaglia contro il male. Anche se questa è la parte, per me, meno forte del romanzo. Che si inserisce con la sua storia, nella Storia. Infatti, un punto nodale della vicenda si svolge a San Francisco nel 1906, durante il famoso terremoto (quello del bellissimo film del 1936 con Clark Gable e Jeanette MacDonald). E tra personaggi inventati, il nostro inserisce veri protagonisti, come Jack London che di quel terremoto scrisse belle pagine giornalistiche. Questo tentativo di mescola è senza dubbio uno degli elementi più interessanti del romanzo. Vedremo nei successivi episodi come si svilupperà il tutto. Sperando di avere qualche altro bell’elemento di relax dalla penna della premiata ditta Cussler.
Come ogni inizio mese, diamo anche conto dei libri “divorati” ad agosto, anche nel caldo marocchino. Con un bellissimo Barnes (non a caso super premiato) in testa a tutti. Gli altri dodici un po’ altalenanti, tra il decente ed il migliorabile, ma senza libri proprio da scartare.

#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Julian Barnes
Il senso di una fine
Einaudi
10
5
2
Delphine de Vigan
No et Moi
Livre de Poche
6,80
3
3
Vikram Chandra
Giochi sacri
Mondadori
s.p.
3
4
Maurizio de Giovanni
Il metodo del coccodrillo
Mondadori
10
3
5
Maurizio de Giovanni
I bastardi di Pizzofalcone
Einaudi
s.p.
3
6
Marco Malvaldi
Scacco alla torre
Felici Editore
10
3
7
Elvira Seminara
La penultima fine del mondo
Nottetempo
11
2
8
Brendan O’Carroll
Agnes Browne mamma
Beat
9
3
9
Paolo Di Paolo
Mandami tanta vita
Feltrinelli
13
2
10
Yrsa Sigurdardóttir
My Soul to Take
Hodder
12,75
2
11
Michael Connelly
La ragazza di polvere
Piemme
11
3
12
Jamie Ford
Il gusto proibito dello zenzero
Garzanti
9,90
2
13
Elizabeth Peters
Il flagello di Horus
TEA
8,90
3

Direi infine che con quest’ultimo giro tra Dubai e Tokyo abbiamo messo un punto fermo ai viaggi del 2013. Anche qui un anno intenso, ed ora abbiamo davanti due mesi per sistemare un po’ tutte le cose lasciate in sospeso, ed aspettare nuovi e ben desiderati eventi. Ribadendo che il Giappone è stata una positiva e piacevole scoperta, vi saluto