domenica 24 giugno 2018

Si può fare di più - 24 giugno 2018


Settimana … italiana, ma sul versante nero. E come dice il titolo, si può fare di più. C’è la pattuglia Mondadori, dove solo Annamaria Fassio rimane a buoni ed accettabili livelli. Luceri continua a non piacermi, mentre Lanzotti ha una buona trama, ma non sempre alla stessa altezza. Tra loro, l’italiano che parla solo di Francia, con la pattuglia degli “italiani” di Pandiani, che dopo le prime prove non torna più agli stessi livelli.
Enrico Luceri “L’ora più buia della notte” Mondadori euro 5,90
[A: 12/12/2017 – I: 01/02/2018 – T: 08/02/2018] - & e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 173; anno 2017]
Questo è il quarto libro dell’esimio Luceri che, inavvertitamente o meno, entra nella mia biblioteca e nelle mie letture. Ed a parte il primo (“Il mio volto è uno specchio”) letto una decina di anni fa con un normale gradimento, gli altri due (“Buio come una cantina chiusa” e “Le colpe dei figli”) non fanno che ribadire il giudizio che colpisce anche quest’ultimo: perché continuo a leggerne? Credo che la mia componente masochista sia insaziabile. In fondo speravo che Luceri riprendesse le fila dall’ultimo letto e mettesse in campo il bel poliziotto Angela Garzya. Invece nulla di tutto ciò, ci spostiamo dal Sud al Nord, o forse al centro visto il risvolto che prende la storia. L’unica nota positiva (ben magra consolazione) è l’ispettrice di polizia, che alla fine mette un po’ d’ordine alla storia, che si chiama Ivana …Zani. E quando c’è “Zani” di mezzo, non si può che aumentare il giudizio (ecco perché quel mezzo punto in più). Per il resto una storia veramente risibile, scontata, ed anche neanche tanto ben scritta e gestita come altre volte le scritture di Luceri. L’ambientazione quasi teatrale prevede per lunghi tratti la descrizione delle avventure di casa Roselli, archeologo di grido, ora avanti con gli anni e dedito più alla divulgazione che alla ricerca. Con lui sono la giovane moglie Roberta, spesso lasciata sola durante le campagne di scavi, ma ora vicina e presenta al personaggio principale. Vicino ai due Vanni, architetto scalcinato e forse in guai economici, che da un lato conta molto sui lavori di casa Roselli per rimettersi in sesto, dall’altro ha avuto un “piccola storia” con Roberta, che lei vuole dimenticare ma lui Vanni non riesce. Infine c’è Irene, giovane collaboratrice di Roselli, che Luceri dipinge a tratti quasi innamorata a tratti quasi capace di odi profondi verso tutta casa Roselli. Sullo sfondo la vecchia tata di Roberta, ora governante della casa, ed il di lei figlio, coetaneo di Roberta, ora sbandato e drogato. Per tutta una gran parte del libro assistiamo allo svolgersi dei rapporti interni alla casa. Roselli, invecchiato e dedito, per rimanere in forma, a medicine varie. Roberta nel rapporto complicato sia con Vanni che con la tata. Irene, che invece il rapporto complicato ce l’ha con Roberta (che invece sembra ignorarla). Nonché la tata che sembra vedere qualcosa di losco ma non si decide a parlare. Così, ecco che si verificano una serie di piccoli incidenti, potenzialmente mortali per Roselli, ma che, per fortuna, per sbadataggine o altro, riesce sempre ad evitare. Luceri tenta di far montare la tensione, ma non riesce a far altro che allungare un brodo già di per sé insipido. La svolta si ha quando uno di questi tentativi coinvolge drammaticamente la tata che rimane, lei sì, uccisa. Ecco allora che finalmente entra in scena la polizia, con il poco utile commissario Di Crescenzo e la simpatica poliziotta Zani. I due interrogano, e cominciano ad elucubrare vari tentativi di spiegazione. Riescono anche a far nascere una specie di filone parallelo, che Roselli, una ventina di anni prima, aveva provocato un incidente automobilistico, dove perirono la moglie e la figlia di un pover’uomo, che giurò di vendicarsi su di lui. Nonché i genitori di una ragazzina, che poi viene data in adozione. La polizia fa luce sulla vicenda, che potrebbe portare alla vendetta da parte dell’uomo o della ragazza (che per età e misteriosità potrebbe essere proprio Irene). L’uccisione del figlio della tata, porta Luceri a dover stringere verso il finale. Che si annuncia annunciato, scontato, e già ipotizzabile dalle prime righe della premessa, se letta attentamente. Non c’era certo bisogno di menarla lunga per più di 150 pagine, che mi hanno stancamente accompagnato per la Patagonia argentina, e che avrei volentieri lasciato laggiù, se fossi stato meno amante della carta. Laggiù ho lasciato altro, mentre questo libro, discretamente inutile, l’ho riportato per segnalarne l’inutile lettura. Sperando che Mondadori si dedichi ad altri e più promettenti autori italiani (e ce ne sono).
Paolo Lanzotti “La voce delle ombre” Mondadori euro 5,90
[A: 11/11/2016 – I: 13/02/2018 – T: 15/02/2018] - &&& -- 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 246; anno 2016]
Non un giallo eccezionale, né una scrittura fantasmagorica, tuttavia un onesto prodotto, ben confezionato e sicuramente degno del premio ottenuto. Lanzotti, infatti, dopo anni dediti alla fantascienza, si cimenta nel giallo storico, vincendo nel 2016 il Premio Tedeschi, dedicato a gialli inediti. Da buon veneziano, ricostruisce con fedeltà e dignità i primi giorni dell’agosto 1849, in quel di Venezia, durante gli ultimi giorni della Repubblica di San Marco e del tentativo di affrancamento dall’Impero Asburgico operato da Daniele Manin. Inoltre è ben bilanciata questa parte storica, in cui velocemente agiscono, oltre a Manin che invece ha un ruolo centrale, i ben noti Niccolò Tommaseo e Guglielmo Pepe, ma anche i meno noti (almeno fuori delle mura venete), Giuseppe Sirtori (grande difensore repubblicano della milizia veneta, poi generale garibaldino), Francesco Baldisserotto (ex-tenente di vascello austriacante, poi capo della difesa militare di Venezia con Sirtori e Ulloa), Girolamo Ulloa (vedi nota precedente), Jacopo Monico (patriarca di Venezia), Graziani, Gian Francesco Avesani (negoziatore della resa del 22 agosto) e Teresa Perissinotti (patriota e moglie di Manin). Ma il quadro storico è lo sfondo, benché presente, dell’azione, che coinvolge in prima battuta proprio Manin. Un patriota repubblicano, Alvise Scarpa, oppositore di Manin, viene trovato ucciso. Manin, per non essere coinvolto nelle eventuali beghe, si affida ad un maturo ex-poliziotto asburgico, Teodoro Valier, ora, durante la Repubblica, senza arte né ruolo, affinché risolva il caso, affiancandogli il suo aiutante principale, Simone Poli. Da qui in poi è Valier che diventa il fulcro della vicenda e delle indagini. Scarpa è in genere in compagnia di tre suoi sodali, Visentin, Costanzi e Bellomo. Tutti e quattro presenti nella casa abbandonata teatro dell’omicidio. Con una lentezza degna del migliore Maigret, Valier analizza il luogo dell’omicidio, escludendo subito che qualcuno, oltre i quattro sunnominati, possa essere entrato nella notte per commettere il delitto. Nonché, avallato dal medico patologo, fa risalire la morte alla notte stessa. Durante l’indagine vengono fuori un bel po’ di marachelle, che, al lettore meno attento, farebbe dirottare altrove il pensiero. Scarpa, benché sposato con Lucetta, la tradisce ad ogni piè sospinto, utilizzando la casa di cui sopra come garçonnière. Inoltre, i quattro “patrioti” hanno anche alle spalle qualche furto non poco lineare, motivo per cui sono anche sotto l’attenzione delle guardie repubblicane. Dei tre, inoltre, Bellomo sembra il più pavido, con qualche oscura voglia di rivincita verso il più famoso Scarpa. Altrettanto per Visentin, cui Scarpa, in una rissa, ha procurato una brutta cicatrice in faccia. E che dire di Costanzi che invece sembra avercela con Scarpa, ma non sono subito chiari i motivi. Dicevo che Valier ha un andamento “alla Maigret”, anche perché, nonostante la situazione precaria di Venezia, quello che tenta, e con successo, di fare, è interrogare abilmente i tre superstiti e la vedova, con domande che sembrano slegate, ma che alla fine, per lui più che per noi, riescono a dipanare il mistero. In questo aiutato, anche se all’inizio poco volentieri, proprio da Simone Poli, che alla fine dovrà ricredersi su Valier e sul passato di questi, nonostante tutto integerrimo. Capiamo subito che nessun, oltre i cosiddetti amici, può essere entrato nella casa (controllate il guano sulle finestre), e capiamo, ma non subito, che ognuno ha detto qualcosa di poco chiaro, che potrebbe portare sulle tracce dell’uno o dell’altro. Valier, che prima di noi ha già capito tutto, ci mostra (anche se non apertamente) la soluzione, per cui, tuttavia, non ha prove. Allora tenta il solito colpo da maestro (forse un po’ troppo sfruttato). Provoca i tre, cercando di fare uscire allo scoperto il colpevole ed inducendolo a cercare di far fuori proprio Valier. La fine sarà positiva per la soluzione del caso, per l’incolumità di Valier, nonché per il buon nome di Manin, che dalla vicenda esce giustamente senza macchia. Peccato che dodici giorni dopo dovrà guidare la capitolazione della Repubblica ormai allo stremo, e ritirarsi in esilio a Parigi. In fondo un gradevole romanzo, con spunti storici che ho apprezzato, ed una soluzione poliziesca non banale (abbiamo tutti gli indizi, e potremmo risolvere il caso, ma io avevo puntato sull’uomo sbagliato). Un giusto premio quindi meritato dalla buona scrittura di Lanzotti.
Enrico Pandiani “Pessime scuse per un massacro” Rizzoli euro 16 (in realtà, scontato a 7,20 euro)
[A: 15/12/2016 – I: 01/03/2018 – T: 03/03/2018] - && +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 379; anno 2011]
Veramente deboluccio, nella trama, nello svolgimento, nelle conclusioni. Ci si aspetta più mordente dall’inventore della saga de “Les Italiens”. Pandiani, con le sue prime avventure della brigata composta da oriundi italiani (con l’aggiunta magari di qualche corso), aveva creato una epopea di poliziotti che ben conoscono la malavita parigina, che la combattono a tutto spiano. Indagando, sparando e molto amando (quando ad uno gli piacciono i gerundi…). Anche se un po’ sfortunato con le donne (gli ne muore una a episodio) abbiamo seguito con piacere le vicende in soggettiva del commissario Mordenti. Nonché del suo aiuto Serandoni. In questo nuovo episodio, invece, non solo la trama esce dalla “ville Lumière”, ma si connota (velatamente) anche come scontro verso le sfere politiche, senza purtroppo (o con molti pochi) pathos amatori e/o sessuali. La testa della brigata si sposta infatti a 60 km. da Parigi, nella cittadina di Barbizon, dove, con una mitragliatrice, viene trucidato un sentore in pensione. Indagine delicata, con pochi appigli. E con discreti attriti con i poliziotti locali, anche se tra questi si stacca (unico momento del “vecchio” Pandiani) il bel capitano di origine vietnamita Mai Linh, che Mordenti cercherà di abbordare per tutto il libro (e di certo non vi dico se ci riesce o meno). Con una facilità degna di miglior inchiesta, si capisce ben presto che ci deve essere un appiglio con il passato. Dopo il senatore si scopre un nuovo morto, anch’esso sulla via dell’ottantina. Tutti uccisi con armi d’epoca. Tutti con una statuina di Babar vicino ed una foto di occhi femminili. Per chi non fosse addentro alle storie di fumetti, Babar è un elefantino in veste d’uomo, creato dal francese Jean de Brunhoff nel 1931. I nostri, tra armi datate e storie locali, aiutati da foto ed altri collegamenti che escono durante il racconto, devono per forza immergersi nella vita locale. Soprattutto in quella durante la guerra. Il senatore, infatti, era un agente segreto di collegamento tra le truppe francesi di stanza in Inghilterra e la resistenza locale. I morti che si scoprono durante il percorso, dopo ricerche che vi risparmiano, si scopre non siano francesi, ma ex-aviatori americani dati per dispersi in un’azione bellica, ma al contrario salvi, rigenerati a nuova vita, e con discreti patrimoni da sfruttare. Patrimoni che si fa presto a collegare a due filoni: gli ebrei deportati in guerra ed i nazisti espatriati di nascosto dopo la guerra stessa. Mordenti trova quindi i collegamenti con la famiglia Dreyfuss (certo Pandiani, se volevi un collegamento razziale, mi sembra un nome un po’ facile da tirar fuori), sterminata e deportata. Che aveva affidato i suoi averi al notaio Peyroux, anche lui trucidato, e dove trova la morte la splendida ventenne Madeleine Peyroux (inciso, anche qui, fantasia da vendere, utilizzare il nome di una cantante di jazz franco-americana, per non dire di altri domi evocativi, come una comparsa che si chiama Bernard Rieux, come il protagonista de “La peste” di Camus). Per tirar fuori l’altra parte della storia, Mordenti ed i suoi devono anche entrare in contatto, cercare, a volte stanare anche i “maquis”, nome con il quale si indicavano gli appartenenti alla resistenza organizzata francese. Qui si imbattono in un oste che ricorda molto, in una coppia della resistenza molto alternativa (nonostante appunto sia sulla settantina), in una dama che era anche la migliore amica di Madeleine. Con i loro racconti, Mordenti ricostruisce l’altra parte della storia. I partigiani francesi che battevano la campagna, una colonna di locali, che utilizzava i soprannomi dei fumetti per celare le vere identità. Colonna cui faceva parte un soprannominato Babar. Una possibile storia d’amore di qualche “maquisard” o simpatizzante con la bella Madeleine. Mordenti si domanda solo perché ci siano voluti sessanta anni ad un ventenne (o una ventenne) d’allora per ricostruire tutte le fila. Una volta trovato questo filo, tutto diventa facile. Si scoprono tutte le figure ed i loro comportamenti. Certo, e qui interverrà la politica, il senatore è uomo ben in vista quindi non se ne può macchiare l’onore con la sua vera storia di assassino e delatore, per cui alla fine le morti saranno coperte da ondate di altra terra. Ma noi sapremo per filo e per segno come si svolsero i fatti durante la guerra. E come si perpetrò la vendetta. Un massacro, come dal titolo. Una pessima scusa? Boh, mi sembra un titolo un po’ poco aderente. Nel complesso allora, poca suspense, poche sparatorie (una soltanto significativa a Parigi, ma messa lì come per giustificare il fatto che Pandiani ci aveva abituato ad un morto ogni due o tre pagine), poco afflato amoroso (qualche rivolo, con qualche storia laterale, anche ben dosata e dolente, ma sempre marginale). Sarà stanco il nostro autore? Trova pochi nuovi stimoli per queste avventure? Insomma, “les italiens” sono sempre simpatici, il libro meno, la storia di conseguenza. Se vogliamo anche un po’ banale, riletta a posteriori. Speriamo sempre in meglio, nel futuro, che l’ottimismo è la nostra natura profonda.
“Essere fedeli è un lavoro come un altro, ti ci devi applicare.” (33)
Annamaria Fassio “La morte e l’oblio” Mondadori euro 5,90
[A: 06/12/2016 – I: 06/03/2018 – T: 08/03/2018] - &&& 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 214; anno 2016]
Era da tempo che aspettavo il ritorno sulla scena di Annamaria Fassio e delle sue storie genovesi. Direte voi, certo potevi leggere prima un libro acquistato un anno e più fa, ma, ripeto, un giorno scoprirete i miei algoritmi di lettura, ed allora se ne riparlerà. Per ora mi sono abbastanza gustato il ritorno sulle scene del Commissario Capo Erica Franzoni e del Vice Questore Antonio Maffina. Un giorno, se ne avrò tempo e voglia, dovrò ricostruire tutti i vari passaggi delle loro storie, che a volte la buona Fassio mi sorprende andando avanti ed indietro nel tempo, e buttando là avvenimenti che si pensa noi si debba sapere, ma non sempre è così. Anche in questo nuovo episodio, io mi aspettavo una “consecutio sermonum” (che come ogni buon latinista sa, indica una concordanza, temporale, degli eventi) più stringata. Invece, qualche buco affiora qua e là. Sarà forse perché buona parte della trama è basata, o incentrata, intorno ad avvenimenti legati all’Alzheimer, in modo vero o fittizio. Malattia che ha colpito da tempo (e lo sappiamo) il padre dell’agente Ida; malattie cui molti personaggi girano intorno per cercarne un rallentamento; malattia che sappiamo ora colpisce anche Aurora. Ora, vi siete di certo domandati, com’è che salta fuori questa Aurora? Io non ricordo di averne sentito parlare, ma qui scopro essere stata moglie di Maffina, prima che questi divorziasse, si mettesse con Annalisa Benvenuti, lasciasse anche questa seconda per mettersi, forse definitivamente, con la più giovane Erica (non dite che avete sentito altrove un eco di queste storie che non vi rivolgo più la parola). Con la solita capacità di mescolare un po’ tutto, e con l’abilità di non perdersi nelle trame, la nostra imbastisce quindi una storia che vede da un lato ricercatori che provano a sintetizzare molecole anti-malattia, e clan mafiosi (in questo caso la ‘ndrangheta) che cercano di entrare nel gioco per i loro affari. Non è semplicissimo, almeno per un po’, star dietro a tutte le pietre che mette in campo la scrittrice: un omicidio di mafia avvenuto anni prima, una fabbrica di medicinali in Spagna che salta per aria, Mimmo, un “omo de panza” che da Milano tira (o dovrebbe tirare) le fila del business per conto dei calabresi, un omicidio all’apparenza fuori contesto al centro di Milano. La brava scrittrice incarta il tutto anche con cartine personali: Aurora che prima di morire vuol rivedere Maffina, il vice-questore che va in Spagna e, oltre ad assistere gli ultimi tempi della ex, si imbatte nella fabbrica di cui sopra. Dove avevano lavorato sia Adele (la ragazza uccisa a Milano) sia Omar, biologo calabrese che gira laboratori di ricerca in tutta Europa. Abbiamo anche avvisaglie che il rapporto tra Erica e Antonio abbia dei sussulti. Scontentezza di Erica, un po’ di remi in barca di Maffina. Certo ricordiamo che Erica aveva pensato all’agente Rigon, che qui si defila e si fidanza altrove. Un primo grosso bandolo della matassa lo scopriamo quando viene alla luce che il 90% dei personaggi implicati viene da Melito, dove regna incontrastata Filomena Scopesi, parente di Saro, inutile marito di Rosaria, sorella di Adele. E da Milito vengono anche Mimmo e Omar. Un caso? Non sembra possibile. Il clan Scopesi cerca di entrare nel business dell’Alzheimer, mettono in difficoltà i laboratori che producono farmaci alternativi. Peccato che Saro sbaglia la mira, uccidendo in Spagna tre persone. Peccato che Filomena voglia far piazza pulita non del cugino ma degli altri che in Spagna e altrove sembrano aver sbagliato. Come anche di Mimmo che, arrestato, pare voglia aprire il sacco, ma che muore prima di poterlo fare. La Fassio cerca anche di imbrogliare un po’ le carte, mettendo in mezzo anche gli strani personaggi che girano intorno alla clinica di Milano, imbrogli cui noi guardiamo ma non caschiamo. La trasferta di Erica a Melito, sulle tracce dello scomparso Omar, darà fuoco alle polveri, scatenando l’anello debole della cosca in una vendetta personale, utile a far piazza pulita dei cattivi, ma poco utile a fermare i giochi. Che vedranno altre puntate? Non lo sappiamo, per ora ci basta aver seguito il mondo della Fassio, con tutti i suoi personaggi, piccoli ma ben delineati, grandi che comunque, anche marginalmente, continuano ad esserci nelle sue storie. Peccato che Maffina sia un po’ defilato, anche se utile. Peccato che Erica continui a farsi troppe pippe mentali sul passare del tempo e sul rapporto con gli altri (e non è un caso che ci siano qua e là i suoi colloqui con lo psicologo). Comunque, anche se con pochi inserti musicali, un buon libro, costruito con un discreto ritmo, anche utilizzando mezzi diversi (narrazione, posta elettronica, verbali, deposizioni ed altro materiale eterogeneo). La quasi ottantenne signora del giallo genovese continua a deluderci poco, e noi continuiamo a leggerne.
Che dire di altro? Domani arriva la cucina, e speriamo non ci siano altre sorprese campagnole. Continua l’organizzazione del viaggio scozzese, con pochi scossoni (ma forse troppi partecipanti). 

domenica 17 giugno 2018

La prima dell'arte - 17 giugno 2018


Perché questa settimana comincia l’analisi dei volumi della serie “Corriere della Sera – L’arte come romanzo”, che, come già dalle prime righe viene evidenziato nasce da una curiosità e da una spinta cuginesca. Devo dire che questa prima cinquina non è che si elevi tanto nel mio panorama personale, vuoi che poco entra nel merito dell’arte, vuoi che le cose migliori forse escono da libri in cui l’arte entra come episodio per raccontare (anche) altro. Vedremo proseguendo nel futuro alla lettura degli altri 25 volumi.
Melania G. Mazzucco “La lunga attesa dell’angelo” Corriere della Sera Arte 8 euro 7,90
[A: 11/10/2016 – I: 26/12/2017 – T: 06/01/2018] - &&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 411; anno 2008]
Finalmente dopo tanto tergiversare e girovagare intorno, diamo mano a questa ennesima collana cui mi sono interessato principalmente sulla spinta parentale del libro di mio cugino Alessandro su Bernini e Borromini. Ovvio che due geniali architetti non siano pittori, come la maggior parte dei protagonisti di questa collana, ma è l’universo artistico dell’espressione che mi ha coinvolto ed interessato. Da sempre, la pittura colpisce le mie corde, anche se il mio cuore rimane legato e mai disciolto ai miei amati impressionisti. Ma di questo avevo già parlato narrando del bel libro su di loro di Sue Roe. In modo casuale, come ovviamente sa chi mi conosce, il primo libro della serie che prendo in mano non è il primo uscito, ma è uno che avrei voluto comunque leggere. Per l’autrice, Melania Mazzucco che mi era piaciuta in “Un giorno perfetto”, ma che in altre prove non mi aveva convinto. Sapevo che aveva dedicato tempo e spazio a Tintoretto, e quindi mi sono attentamente immerso nella Venezia di fine Seicento. Devo dire che non mi è piaciuto, non mi ha convinto. Non so, avevo letto anche il suo “Vita”, ed è forse questo il problema. Il modo di immedesimarsi nelle persone, quando ne tratta biografie non riesce ad entrare nelle mie corde. Ed è quindi con estrema fatica che ho cercato di entrare nel “personaggio” Tintoretto, di cui l’autrice ci narra in prima persona le ultime due settimane di vita. Perché lui, Jacopo o Jacomo Robusti detto il Tintoretto in quanto non grande di corporatura nonché figlio di Giovan Battista Robusti di professione tintore, è ammalato e consumato dalla febbre. Allora, parla, ricorda, cerca di ricostruire brandelli della sua vita, tra un presente di cui sente il volgere alla fine ed un ricco, potente passato. Un passato che lo ha visto lottare in prima persona con tutte le sue armi, dall’astuzia alla maestria pittorica, per emergere. Lui che, appunto, non veniva da una famiglia di tradizioni, né una famiglia nobile, ma solo da una borghesia nobilitata, con limitati accessi alle magnificenze del tempo, ai saloni illustri, alle commesse favolose (quello del maestro dell’epoca, il grande Tiziano). Indipendente e bohemien ante-litteram ha una lunga storia d’amore dalla tedesca Cornelia, da cui ha una figlia, Marietta. Nel mentre, per consolidare la sua precaria posizione sociale, sposa a 31 anni Faustina Episcopi che per più di 40 anni sarà la sua sposa fedele, la madre dei suoi 7 legittimi figli, custode delle sue preoccupazioni domestiche. C’è qualche incertezza sulle date, ma dalla mia ricostruzione esterna, più che dalle parole della Mazzucco, sembra certo che Marietta nasce con il pittore già sposato, intorno al 1556, mentre il primo figlio con Faustina, Domenico, nasce nel 1560. Poi vengono Giovanni detto Zuane, ribelle sin dalla giovinezza, che fugge di casa per morire ventenne probabilmente in Grecia (o giù di lì). Marco che dirazza dalla pittura familiare per fare l’attore. E le quattro femmine, Perina, Ottavia, Altura e Laura, probabilmente tutte destinate alla vita di convento di clausura in quel di Sant’Anna. Sebbene ci siano capitoli sui figli maggiori, più che sulle future suore, dalle quali emerge sia l’incapacità di rapportarsi con altri da parte del pittore, sia la delega, completa a parte qualche eccezione, a Faustina della vita di casa Robusti. Eccezione sarà Domenico, che voleva fare il poeta, ma che, il padre essendo solo, decide di diventare aiuto e braccio, quando il grande poteva poco dipingere se non nelle grandi linee. Domenico che rimarrà nella storia delle tele solo per il primo ritratto fatto a Galileo Galilei. Ma soprattutto Marietta, sia perché è l’unica dotata di vero talento pittorico (non a caso verrà spesso indicata come “la Tintoretta”), sia perché per tutto il libro esce in controluce questo rapporto quasi incestuoso che si istaura tra loro. Perché è l’unica che Jacopo segue e da cui si fa seguire, perché l’unica che ne capisce la tecnica pittorica e l’adotta, perché è lei stessa, in controluce, che fa capire di avere il padre come unico vero faro e amore nella vita. Ma tutta questa parte, e quindi gran parte del libro, è veramente faticosa. Non capisco, non ho capito, quanto sia veritiero e quanto sia romanzesco il rapporto tra i due. Quanto Melania cerca di esprimere o tira fuori perché è quello che vuol farci sentire. Fatto sta che l’ho trovato un rapporto faticoso e faticosamente gestito. Quando poi Marietta muore a 34 anni, il Tintoretto non aspetta altro che la propria morta, che avviene solo 4 anni più tardi, il 31 maggio 1594 per ricongiungersi con la figlia amata nella cappella familiare della Madonna dell’Orto. Purtroppo, per il mio gusto, poco vien fuori delle tecniche pittoriche, del lino che usava come tela, delle cuciture dei quadri. Ma soprattutto della grande innovazione dello sfondo. Mentre all’epoca si usava la preparazione del supporto pittorico con uno strato di gesso e colla, quindi chiaro, Tintoretto capovolge l’uso, stendendo sulla tale il resto di tavolozze precedenti, con uno sfondo scuro, da cui più facilmente (e più velocemente) poteva far emergere sia il chiaro sia lo scuro. Come si vede nella magistrale “Ultima cena”, visibile nella Basilica di San Giorgio Maggiore a Venezia. Una scura taverna, con la tavola in diagonale, illuminata da una lampada profana al soffitto e dalle figure di Gesù e degli Apostoli. Che Tintoretto voleva non rappresentare il tradimento di Giuda, ma la nascita dell’eucaristia. E poco rimane di quell’altra mirabile opera del “Miracolo di San Marco”, ora nelle Gallerie dell’Accademia, sempre a Venezia, con quel San Marco che piomba dall’alto sulla scena, in volo a testa in giù. Questo e tanto altro si poteva dire del Tintoretto pittore, che non viene detto. Certo molto si dice del Tintoretto uomo, marito, padre, amante, ed altro ancora. Ma con troppe parole, ed ugualmente con troppi silenzi. Con un colloquio anche con Il Signore, cui Jacopo affida le sue sorti. Con il risultato, soggettivamente per me, con non riesco a penetrare nell’uomo, che trovo fuori dal suo tempo, né nel pittore, di cui capsico l’ardire e l’ardore ma non il pensiero. Infine, anche se forse è corretto dal punto di vista filologico, la scrittrice lo fa chiamare sempre Jacomo mentre per me, nel mio immaginario pittorico, essendo Jacopo mi sembra di leggere di una persona diversa. Non è un caso, infine, che abbia impiegato tempo e fatica nella lettura. E che abbia avuto bisogno di leggere e di guardare i suoi quadri (almeno in riproduzione) per riappacificarmi con lui. Anche se non con la pur brava, ma non a me congeniale, autrice.
“Per un uomo, a volte, un bagliore nella pupilla della persona amata può valere più di tutto.” (19)
“Quando uno ha un sogno, deve fare qualunque cosa per realizzarlo.” (77)
“L’amicizia … è qualcosa che per mettere radici ha bisogno di tempo … i vecchi non hanno amici.” (106)
“Bisogna essere diventati vecchi per capire quanto è breve la vita.” (140)
“Tutto ciò che ci succede quando siamo giovani si imprime con tanta forza nell’animo … passati i quarant’anni le impressioni si incidono con meno forza dentro di noi, che le assaporiamo con un piacere più acuto proprio per questo, ma dopo i sessanta niente si incide più.” (309)
Margrit De Moor “Il pittore e la ragazza” Corriere della Sera Arte 13 euro 7,90
[A: 11/10/2016 – I: xx/01/2018 – T: 11/01/2018] - &--
[tit. or.: De schilder en het meisje; ling. or.: olandese; pagine: 297; anno 2010]
Seconda lettura dei libri della collana “L’arte come un romanzo” e seconda delusione, forse anche maggiore della prima. L’autrice, olandese, è una nota esperta della materia (nonché casualmente anche pianista). Ha scritto molto, ottenuto premi. Ma … ma a me non è piaciuto praticamente nulla di questo romanzo. L’ho trovato molto pretenzioso, che vuole dire tanto, argomentando con poco. Che spara al cerchio (la vita di Elsje di cui dirò poi) per colpire la botte (il pittore), ma manca di tanto il bersaglio. Perché noi, ignari lettori, dovremmo spere tutto del pittore, dagli accenni che se ne fanno. E perché dovremmo sapere tutto di lui? Che la prima moglie muore giovane lasciandogli un figlio. Che vive “more uxorio” con la domestica. Che ha una bancarotta rovinosa, che lo costringere a vendere quasi tutta la sua collezione e raccolta di quadri, compreso un Tiziano. Che Van Gogh ritiene abbia dipinto il più bel quadro mai uscito da mani umane. Che un suo quadro venne quasi distrutto da un vandalo nel 1985, al museo Hermitage di Leningrado. Io, che non sono uno storico dell’arte, ma solo un amante del bello, in tutte le sue forme, ma che in pittura ho approfondito solo i miei amati impressionisti, pur andando a vedere negli anni tutte le mostre che si sono presentate alle mie scarse capacità. Io, dicevo, non sapevo, non avevo capito chi fosse. Ed ho voluto rimanere nell’ignoranza sino all’ultima pagina, sperando che Margrit ne facesse il nome. Ebbene, non lo ha fatto. Solo andando a cercare chi fosse l’autore della “Sposa ebrea” detta anche “Rebecca e Isacco” sono venuto a sapere che parliamo di Rembrandt Harmenszoon van Rijn, meglio noto semplicemente come Rembrandt. Dicevo Margrit tace, e noi seguiamo, a sbalzi ed accenni, la vita di questo pittore olandese del Seicento, nell’anno di grazia 1664 (questo lo scopriremo poi a posteriori) che si aggira per Amsterdam, che pensa ai suoi quadri, che pensa alla luce da dare alle immagini (con alcune pagine dotte sì ma veramente pallose sugli effetti luminosi nei quadri). Accenni che permettono, a chi magari conosce già la sua storia, di seguirla, di collocarla nel tempo, e che invece, nella parola scritta, si lasciano leggere senza trasporto. È una giornata speciale comunque per Amsterdam, perché, per la prima volta dopo 26 anni, una donna viene giustiziata nella pubblica piazza, il Dam. Avendo riscontri storici, possiamo datare il tutto proprio il 3 maggio 1664. Rembrandt non vuole né gradisce vedere la condanna a morte, e si aggira altrove. Solo dopo le parole del figlio Titus, che ne fa un ritratto appassionato degli ultimi istanti, viene colto da curiosità. Anche perché sappiamo essere curioso, come tutti i pittori, dei morti e delle loro terminazioni muscolari e nervose. Rembrandt va a vedere il corpo dopo l’esecuzione e lo ritrae in due disegni ora conservati al MoMA di New York. Tutto il resto dello scritto della settantacinquenne scrittrice è dedicato alla storia di Elsje. Diciottenne, probabilmente proveniente dalla Norvegia, affronta un lungo viaggio per mare e per terra al fine di raggiungere l’amata sorella fuggita tempo prima in Olanda. Sebbene come sappiamo le lingue scandinave e l’olandese abbiano affinità, ha comunque difficoltà a farsi capire. Affronta pericoli durante il viaggio (questa probabilmente è la parte di fantasia dello scritto, ed anch’essa poco coinvolgente), ma arrivata in città, oltre a cercare un misero alloggio, non ha modo di trovare, in un luogo così esteso, una persona arrivatavi mesi e mesi prima. Finisce ben presto i soldi, e la locandiera che le aveva affittato la stanza vuole essere pagata. Siccome il luogo è, come spesso accadeva, anche un lupanare, chiede in cambio pagamenti in natura, che Elsje, giovane e innocente, non capisce o non vuole. Il diverbio degenera, ed Elsje afferra il primo oggetto che ha sotto mano, un’ascia, e colpisce a morte la locandiera. Arrestata, il giudizio è reso difficile proprio dalle difficoltà linguistiche. Elsje non capisce le domande, i giudici non capiscono le risposte. Viene chiamato un oste che prova a far da interprete, ma si guarda bene dal riportare le parole fedelmente. Così che, circondata da ignoranza e ostilità in quanto straniera, viene giudicata, condannata e la sentenza eseguita tramite garrota (terribile!). come detto Rembrandt poi dipinge due schizzi. Tutto finito? No, perché l’autrice sembra ci voglia suggerire che gli stessi tratti (ma dai disegni che ho visto non si capisce come né perché), Rembrandt prese le fattezze di quel capolavoro che è appunto “La sposa ebrea”. Insomma, un libro che non ci parla dell’arte, che ci parla della sfortunata storia di una straniera condannata non dico ingiustamente, ma certo oltre l’entità della sua volontà (si tratta, ricostruito, di un delitto preterintenzionale). Tra l’altro con una scrittura che non si segue agilmente. Ma, ed è qui il punto per me peggiore, mi aspettavo qualcosa di più sul pittore, e sul contorno. Certo, non si ha sempre davanti “L’orecchino di perla”, ma poteva concederci qualche brandello informativo in più.
Iain Pears “La pista Caravaggio” Corriere della Sera Arte 4 euro 7,90
[A: 11/10/2016 – I: 15/03/2018 – T: 17/03/2018] - &&&--
[tit. or.: Death and Restoration; ling. or.: inglese; pagine: 284; anno 1996]
Terza lettura della collana “Arte come romanzo” che continua a fare passi avanti e passi indietro con grande velocità. Qui abbiamo due grossi passi indietro, che sono tuttavia più pertinenti ai curatori della collana e agli editori italiani che al libro in sé. Per gli editori andrei ad una gigantesca tirata d’orecchie sul lato del titolo. In inglese stavamo su “Morte e Restauro”, decisamente pertinenti al testo, dove c’è un morto e molta della trama si aggira, si avvale, contorna problematiche del restauro delle opere d’arte. Ora cosa c’entri Caravaggio è un mistero! Certo, nel monastero teatro di gran parte dell’azione c’è un Caravaggio in restauro, ma il buon Merisi non entra minimamente nella trama. Non è mai al centro dell’azione, e verrà nominato tre volte in quasi trecento pagine. Allora il titolo? Solo perché l’autore, lo storico d’arte inglese Iain Pears ha scritto diverse avventure di tinta gialla ambientate nel mondo dell’arte, che, a partire dalla prima e per le due successive, avevano il nome di un artista nel titolo (“Il caso Raffaello”, “Il comitato Tiziano”, “Il busto di Bernini”), non mi sembra il caso di inserire dei nomi casuali per adescare lettori poco attenti. Per i curatori, che, sbandierando la collana come legata a vicende artistiche, a pittori, ed altro inteso come “arte”, forse non si erano resi conto che qui, il centro, il fulcro, il motore della vicenda, è prettamente giallo. Certo di un giallo affine alle vicende artistiche, ma che qui hanno poco sviluppo. Anche se ce l’hanno ad un certo punto, risalendo di qualche punto di gradimento. Inoltre questo è il sesto libro di Pears ambientato in questo mondo, e che ha come uno delle punte di diamante il fittizio storico inglese Jonathan Argyll. Forse se avessero riproposto il primo libro, si sarebbe meglio capito l’intreccio, l’andamento, e magari il contorno degli avvenimenti. Che queste avventure, oltre al Jonathan di cui sopra, hanno altri due punti di forza, motori di una altrettanto fittizia “Squadra Investigativa Artistica”: il generale Taddeo Bottardi (il capo) e l’ispettore Flavia Di Stefano (il braccio). Perché qui, questi tre attori principali ormai hanno mutato il loro ruolo originario, si sono evoluti, tanto che il generale non è praticamente presente, essendo dalle prime pagine avviato a prendere il comando di una fantomatica squadra investigativa intereuropea, con ovvia sede a Bruxelles. Mentre, dopo vari su e giù nei precedenti episodi, ora Flavia e Jonathan vivono more uxorio, continuando, tuttavia, le loro azioni investigative. Quest’ultima parte ci introduce allora ad alcuni dei passi avanti della collana. Un romanzo discreto, non sempre avvincentissimo, ma con alcuni buoni spunti. Il primo, personalissimo, è che la maggior parte della vicenda ruota intorno ad un fittizio monastero, quello dell’Ordine di San Giovanni il Pietista, collocato però in un punto denso di chiese ed altri luoghi sacri, come l’Aventino in Roma. E che vide scorrere per anni la mia infanzia, e che tuttora fa rivivere momenti natalizi intensi. Come dimenticare Santa Sabina, Sant’Anselmo, Sant’Alessio, e qui mi fermo per non cadere nella malinconia dei ricordi. Tornando allo scritto, la vicenda si impernia sul furto o tentato tale di una icona nel monastero di cui sopra. La vicenda vede aggirarsi tal Mary, un tempo grande ladra d’arte (in episodi precedenti), costretta tramite ricatto a rubare l’icona, per conto di un giovane greco figlio di primo letto di un miliardario a suo tempo amante di Mary. Il tutto complicato dalle vicende dell’ordine monastico, in declino economico per ruberie priorali, e di cui, nel corso del romanzo, conosciamo diversi prelati, ognuno con alcune specificità interessanti. Ma di cui non entro nel merito. Fatto sta che il miliardario aveva anche incaricato un mercante d’arte di acquistare “onestamente” l’icona. Ma il figlio cattivo, come tutti i cattivi, sbanda, si inserisce con le cattiverie ricattatorie, uccide il mercante, per poi, alla fine, fare anche lui una fine poco degna. Senza che mai il Caravaggio venga nelle vicinanze dell’azione, alla fine, Mary torna salva in patria, Flavia, ufficialmente, risolve il caso, consentendo a Jonathan di rimettere l’icona al posto che le spetta. Nelle more, c’è anche la vicenda della costruzione di un’icona falsa da parte di un restauratore americano, ed altre piccole appendici, in realtà poco significative. Che quello che resta è la parte “storia dell’arte e storia”, che vede artefice e risolutore il buon Argyll. Questa poi è l’idea fanta-storica di Pears alla base del romanzo stesso. Perché l’icona che si tenta di trafugare sarebbe niente meno che la “Madonna Odigitria”, colei che conduce, mostrando la direzione, un ritratto iconico di Maria con in braccio Gesù Bambino, che si diceva dipinto da San Luca. Tale icona era realmente presente a Costantinopoli il 29 maggio 1453, giorno in cui i Turchi, comandati da Maometto II invadano la città e, secondo le fonti ufficiali, uccidono l’Imperatore Romano d’Oriente Costantino XI Paleologo, distruggono l’icona, ed entrano in Santa Sofia, trasformandola in Moschea. La fanta-idea di Pears è che l’Imperatore sia fuggito con l’icona, si sia rifugiato in Roma, cercando l’aiuto papale per una nuova crociata contro i Turchi. Costantino XI avrebbe cercato l’aiuto di papa Callisto III (sul soglio pontificio dal 1455 al 1458) senza riuscire ad ottenerlo, la vicenda decadendo poi con il papa seguente, Pio II, al secolo Enea Silvio Piccolomini, grande diplomatico sì, ma fautore delle arti e architetto della bellissima città di Pienza. Ecco, questo l’altro punto a favore dell’autore che mi ha stimolato a riprendere in mano la storia della caduta di Bisanzio e del papato in quei turbolenti anni decorsi cinquecento anni prima della mia nascita. Tuttavia, anche se questo fa salire un po’ il gradimento, come opera poliziesca e artistica non regge molto, è sicuramente di tono minore. Anche Pears ha scritto altro e sicuramente di meglio (consiglio, per chi non lo avesse letto, il suo “Le Quattro verità”).
Susan Vreeland “La ragazza in blu” Corriere della Sera Arte 1 euro 7,90
[A: 11/10/2016 – I: 20/03/2018 – T: 24/03/2018] - && e ½ 
[tit. or.: Girl in Hyacinth Blue; ling. or.: inglese; pagine: 199; anno 1999]
Tre anni dopo “La passione di Artemisia” che mi era discretamente piaciuto, prendo in mano un altro libro della scrittrice di libri d’arte Susan Vreeland, che era anche il primo dei libri usciti in questa collana di “arte e romanzi” che, per ora, non ha rispecchiato le attese che avevo avuto nel leggerne le premesse. Nel frattempo, purtroppo, l’autrice ci ha lasciato, anche solo settantenne. fatto allora un doveroso omaggio a chi non c'è più, vengo al libro che, pur con punte di interesse, nel complesso non mi ha convinto in pieno. Intanto perché, come si evince dalle note finali, alcuni capitoli erano stati pubblicati come racconti autonomi in varie riviste, forse, credo, anteriormente al libro stesso. Per poi essere intrecciati in un’unica storia, complessa, dove, in realtà, seguiamo otto storie, tutte in qualche modo, legate al dipinto del titolo. Dove, al solito, non capisco perché sia sparito dal titolo l’accenno al “giacinto”, che dava una caratterizzazione al blu del titolo. Perché è il colore più diffuso del giacinto olandese (e parlando di un dipinto olandese ci sta) e perché il giacinto è legato alla primavera e quindi alla rinascita, dove molti elementi delle otto storie portano proprio a questa speranza. L’altro elemento che poco mi convince è l’andamento a ritroso delle storie, che partono da un quasi presente per risalire sino al momento della pittura del quadro stesso. Il dipinto in realtà non esiste, perché non sembra, a quanto ho potuto trovare nelle liste delle opere, anche perdute di Johannes van der Meer, meglio noto con il nome di Jan Vermeer. È comunque un dipinto che avrebbe potuto dipingere, per il motivo rappresentato e per i colori usati. Il dipinto infatti dovrebbe riprodurre una ragazza che cuce in una stanza, simile a molte delle idee pittoriche dell’artista (da “La lattaia” alla “Giovane donna con brocca d’acqua”, da “La merlettaia” fino alla “Ragazza con turbante” meglio nota come “La Ragazza con l’orecchino di perla”), cioè ritratto di una donna in una stanza, con in genere la luce che proviene da sinistra (probabilmente una finestra), vestita con gli abiti di tutti i giorni, da cui il blu giacinto della nostra cucitrice, con la descrizione, mirabile questa da parte della Vreeland, delle pennellate per rendere le pieghe degli abiti, i capelli, la cuffietta, e gli altri particolari che fanno un Vermeer. Come detto, allora, si parte dal presente, dove assistiamo ai tormenti di un figlio di un gerarca nazista riparato in America dopo la guerra, avendo nel poco bagaglio, un quadro. La cucitrice in blu giacinto. Tormenti che il figlio, capita la provenienza del quadro, si domanda cosa ne deve fare, sospeso tra la bellezza del dipinto e la vergogna del modo in cui il padre se lo è procurato. Modalità che scopriamo nel secondo racconto, dove ci spostiamo ad Amsterdam, nella casa di una famiglia ebrea, che possiede il quadro, ed assistiamo ai momenti precedenti alla loro deportazione verso i campi di concentramento ed al furto del quadro da parte del nazista di cui al primo capitolo. Poi ci sono due capitoli di passaggio, che io avrei invertito perché mi sembrano temporalmente non susseguenti. Dove nel secondo ci si narra di un amore, di un tradimento, e di una fuga per la quale i soldi vengono trovati vendendo il quadro ad un mercante. Nel primo il quadro (ma questo è forse l’episodio meno legato al quadro stesso, quasi appunto un racconto inserito per onore di spazio) verrà donato dal padre alla figlia come regalo di nozze, non senza che il padre stesso ci narri come abbia avuto una storia legata al quadro stesso, e che mette in pericolo il suo matrimonio. Il quinto ed il sesto capitolo sono molto legati, che si svolgono entrambi durante la famosa “Inondazione di Natale del 1717”, che causò in Olanda 14000 vittime. Seguiamo la storia di uno studioso che si innamora di una ragazza in odore di stregoneria, fanno l’amore e lei partorisce, nascostamente, due gemelli: un bambino sano ed una bambina deforme. La donna uccide la bambina e per questo verrà impiccata. Lo studioso prende il bambino, un quadro (anzi il quadro della nostra storia) e li porta in una fattoria isolata dove (seconda storia) una famiglia, colpita dall’inondazione, li trova. Il bimbo sarà adottato, il quadro, dopo molte peripezie venduto ad un mercante di Amsterdam per una somma che consentirà una svolta alla famiglia stessa. Finalmente, nelle ultime due storie, troviamo Vermeer, i suoi problemi, la sua povertà (relativa, ma solo perché viveva al di sopra dei propri mezzi e doveva dipingere per far fronte ai debiti). Con questo dipinto realizzato intorno al 1670, una cinquantina di anni prima delle storie precedenti. Ma entriamo poco nella storia del pittore (ci saranno altri romanzi, credo, che ce ne consentiranno meglio la visione), ma ne vediamo solo alcuni sprazzi, e l’idea di dipingerà la figlia Magdalena mentre cuce. Figlia che nell’ultimo capitolo ci racconta i suoi sogni, l’amore per il padre, la sua voglia di dipingere e l’impossibilità, per una ragazza del Seicento, di farlo. Alla fine, quindi, a parte il capitolo sette, unico legato alla pittura, gli altri sono solo pretesti che utilizzano il quadro per mostrare stati d’animo, storie, nonché domande, come quella iniziale se gli assassini possano e come essere colpiti dalla bellezza. Che poi si può tradurre in una più generale domanda: come un’opera d’arte può influenzare la vita di ognuno di noi? Bella domanda, che qualcuno più bravo di me potrebbe sviluppare. Per ora salutiamo Susan ed i suoi scritti.
Robert M. Edsel con Bret Witter “Monuments Man – Eroi alleati, ladri nazisti e la più grande caccia al tesoro della Storia” Corriere della Sera Arte 17 euro 7,90
[A: 09/11/2016 – I: 18/03/2018 – T: 27/03/2018] - &&&-- 
[tit. or.: The Monuments Men; ling. or.: inglese; pagine: 444; anno 2009]
Ecco un nuovo capitolo dell’arte come romanzo, che, in effetti, risponde meglio allo spirito della collana. Anche se parla poco di uno specifico quadro o di uno specifico artista, ma, come si capisce dal titolo, è concentrato su di una interessante e degna operazione. E sulle sue conseguenze. È un libro di difficile costruzione, soprattutto perché vuole, giustamente, concedere poco alla spettacolarità, e vuole concentrarsi sulle operazioni, sulla vita e sulle, per fortuna poche, morti di un gruppo di uomini che dedicò anni del loro tempo di guerra alla ricerca e al ritrovamento dei capolavori artistici razziati dai nazisti durante il terribile periodo del Terzo Reich. E nominatamente, durante i tempi della Seconda Guerra Mondiale. Purtroppo Edsel non è uno scrittore accattivante, ed anche con l’aiuto di Bret Witter, uno storyteller coautore di molti best-seller, il libro non risulta di facile lettura. Gli autori, giustamente, concentrano la loro scrittura in un piccolo gruppo di personaggi, che troppo sarebbe dispersivo entrare nella storia dei circa 350 elementi del gruppo indicato come “Monuments Men”. Questa fu una task force creata da Roosevelt nel 1943 con il preciso scopo di preservare, ma soprattutto di ritrovare ciò che i nazisti avevano rubato in giro per l’Europa. Il gruppo nasce sotto la spinta di conservatori museali americani, particolarmente a valle della battaglia di Montecassino e della distruzione della locale abbazia. Noi, appunto, seguiamo le vicissitudini di otto elementi del gruppo, più una donna, che rivestirà un ruolo fondamentale. E di due dei capolavori maggiori trafugati: la “Madonna di Bruges” di Michelangelo e “L’Agnello mistico” di Van Eyck. Li ho visti entrambi ora, nelle loro collocazioni. E la pala d’altare è sinceramente uno dei punti più alti di pittura che ho ammirato. Quindi non entro nella facile diatriba tra bellezza e furti, tra scellerati che amano il bello ed altro. Sono discussioni che altrove hanno più rilevanza. Qui trono allo scritto, ed a seguire i nostri eroi. Eccoli, in ordine alfabetico. Il capitano Robert Balfour, inglese, che si unisce al gruppo nell’aprile del 1944, per seguire la pianificazione dell’intervento a seguito del previsto sbarco in Normandia. Seguendo le truppe, arriverà a Bruges pochi giorni dopo la sparizione della Madonna di Michelangelo. Dopo varie peripezie, nel marzo del ’45 ritroverà pezzi artistici a Kleve in Germania. Il 10 marzo, Balfour viene ucciso a Kleve da una raffica di proiettili mentre lui e altri uomini stavano tentando di mettere in salvo i pezzi di una pala d'altare medievale. Il caporale Ettlinger era uno dei più giovani del gruppo, utilizzato soprattutto perché, essendo nato in Germania prima di emigrare in America, parlava correntemente tedesco. Lavorò a stretto contatto con Rorimer, soprattutto nei ritrovamenti delle collezioni trafugate da Göring e ritrovate nel castello di Neuschwanstein. È uno dei pochi ancora in vita. Il capitano Walker Hancock, invece, era americano ed era un rinomato scultore. Arruolatosi dopo Pearl Harbour, e conosciuto il gruppo, chiese di entrarvi, cosa che fece tra i primi. E dopo l’invasione, viene immediatamente inviato a Parigi per coordinare le attività dalla capitale. Viene ricordato per i ritrovamenti delle reliquie di Carlomagno trafugate dalla cattedrale di Aquisgrana. Il capitano Walter J. Huchthausen, anche lui americano, nasce architetto ma anche lui nel 1942 si arruola. Ferito seriamente durante i bombardamenti di Londra, durante la convalescenza si unisce al gruppo, e, nel novembre del ’44, assegnato nella vallata della Loira. Anche lui ad Aquisgrana, quindi spostato in Olanda alla ricerca di siti nascosti. Nell’aprile del ’45 in cerca di una pala d’altare scomparsa, si avventura di notte con un compagno in territorio nemico, dove cade sotto il fuoco di una compagnia tedesca. Uno degli esempi più interessanti è quello del soldato semplice Lincoln Kirstein, che nei 35 anni prima dell’entrata in guerra fu poeta, compositore, ma soprattutto patrono delle arti e fondatore con George Balanchine della “School of American Ballet”. Non volle far carriera nell’esercito, ma dall’aprile del ’44 anche lui entra nel gruppo, lavorando come attendente di Posey, e partecipando ai ritrovamenti nella miniera di sale di Altaussee. Il maggiore Robert Posey e il capitano James Rorimer furono i due maggiori “ritrovatori” del gruppo. Uno come uomo militare, anche se laureato in architettura, l’altro come direttore di museo, poi entrato nelle forze armate. A loro si devono i due grandi ritrovamenti, di Neuschwanstein e di Altaussee. George Stout, infine, fu l’anima del gruppo, anche perché fu lui ad instillare nella mente della burocrazia americana la necessità del gruppo. Anche perché nasce come conservatore di monumenti. Era il più anziano, e, sebbene non entra in nessuna azione specifica, a lui si devono tutte le conservazioni dei quadri e dei monumenti ritrovati. Grazie alla sua esperienza, riuscì a riportare al loro posto, e quasi integri, una buona parte dei ritrovamenti. L’eroina misconosciuta, che questo libro cerca di portare alla luce, fu poi la francese Rose Valland. Lavoratrice volontaria ai musei francesi, viene assegnata nel ’40 al “Jeu de Pomme”. E da lì, carpendo notizie ai tedeschi invasori, ricostruisce buona parte della mappa dei tesori trafugati. Nel suo lungo braccio di ferro con il capitano Rorimer, alla fine si convince ad una collaborazione estesa, permettendo soprattutto il ritrovamento della miniera di sale di Altaussee in Austria, l’enorme magazzino delle opere d'arte rubate dai nazisti. Solo nel campo della pittura, ad Altaussee sono stati trovati oltre 6.500 dipinti. Tra le opere principali trovate ci sono opere appartenenti al Belgio, come la “Madonna di Bruges” di Michelangelo, rubata dalla Chiesa di Nostra Signora di Bruges, “L'agnello mistico” di Gand, di Jan van Eyck, “L'Astronomo e l'arte della pittura” di Vermeer. Purtroppo, nonostante tutti gli sforzi, molti sono tuttora i quadri che mancano all’appello, che si ritiene in parte bruciati, in parte nascosti in qualche caveau in giro per il mondo. Tra i più noti, con una lacrima agli occhi perché di certo non li vedremo più, posso ricordare “Ritratto di uomo” di Botticelli, “Ritratto di una giovane donna” di Caravaggio, “Auvers sul fiume Oise” di Cézanne, “Manet che dipinge nel suo giardino” di Manet, “Ritratto di un giovane” di Raffaello, “Vincent sulla strada per Tarascona” di Van Gogh. Mi accorgo di aver parlato del tema ma non del libro, che, ripeto, può essere letto, che è un bel documento storico anche senza appassionare. Solo un’ultima immagine terribile rimando: la descrizione del rogo dell’arte degenerata, dove i nazisti bruciano quadri di Klee, Picasso, e già mi sento male. E ripenso ai Buddha afghani distrutti dai talebani. Come diceva Schiller: “Contro la stupidità neanche gli dei possono nulla”.
Terza trama, dove, per essere felici, possiamo dedicarci a qualche bel romanzo duro americano, ma soprattutto alle loro trasposizioni cinematografiche.
Come ben sapete, questa seconda metà di giugno è dedicata al completamento di due lavori: uno di cui faccio solo la direzione (il completamento della casa di campagna) ed uno che mi vede impegnato (e molto) nella ricerca di alloggi e spazi nella brumosa terra scozzese. Sperando nel solito sostegno di voi tutti, vi abbraccio .

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

GIUGNO 2018
Ben venga giugno, come diceva il poeta. Poiché siamo troppo in tranquillità, ecco qualche altro stimolo adrenalinico

IL BICCHIERE DELLA STAFFA CON DUE MAESTRI DELL'HARD-BOILED

Libri citati

Dashiell Hammett           “Il falcone maltese”
Raymond Chandler         “Il grande sonno”
James M. Cain                “La morte paga doppio”
Patricia Highsmith          “Sconosciuti in treno”
Per depurare la mente dai pensieri, ritrovare un po' di sana iniziativa e darsi una scossa, in alternativa ai tradizionali farmaci può essere altrettanto efficace un buon bicchiere. Maestri indiscussi dell’hard-boiled, Dashiell Hammett e Raymond Chandler sono da considerarsi due superalcolici di ottima qualità, ideali per proseguire la cura per veri duri iniziata con James M. Cain. Questo genere letterario può provocare dipendenza come l’alcol ma, se bevuto responsabilmente, ovvero centellinando le pagine, garantisce un'ebbrezza unica nel suo genere. Come non tutti abbiamo la stessa capacità di reggere l’alcol, non tutti i lettori hanno lo stomaco abbastanza forte per tollerare la miscela dell’hard-boiled che si distingue innanzi tutto per una rappresentazione molto realistica del crimine. Rispetto al giallo tradizionale in cui l’assassinio porta un elemento di disordine che la risoluzione del caso rimette a posto, qui si presuppone la presenza del male come parte integrante e incancellabile di una società corrotta. Oltre a un linguaggio duro e ad ambientazioni metropolitane la novità maggiore è rappresentata dalla figura del detective: uomo più di “pancia” e di pugni che di testa, d’azione più che di pensiero, affronta il pericolo a mani nude e non risolve mai i casi con la sola deduzione logica. Siamo in America e non in Inghilterra, il gioco si fa duro e gli investigatori diventano uomini dai modi spicci che bluffano, fanno a cazzotti, prendono calci, si muovono nei bassifondi, frequentano bar malfamati, bevono, fumano e amano senza mai innamorarsi veramente.
Suggerisco di iniziare sorseggiando “Il falcone maltese”, capolavoro di Dashiell Hammett con protagonista il mitico Sam Spade. La trama è intricatissima, ma tanto l’obiettivo della cura scuotersi dall’apatia e darsi una svegliata, quindi state attenti affidatevi al fiuto di questo cinico e solitario detective priva tutto d’un pezzo alle prese con un complicato caso da risolvei e una conturbante, intrigante e pericolosamente sexy dark lady. Voi non dovete preoccuparvi di niente, Sam pensa a tutto (sia all’intrigo che al vostro divertimento). La cura è efficace sole se affiancata dalla visione de “Il mistero del falco”, l’adattamento cinematografico realizzato da John Houston nel 1941. Anzi, è uno dei rari casi in cui si consiglia di invertire la somministrazione anteponendo la terapia cinematografica. Humphrey Bogart è Sam Spade, a suo agio nei panni del detective come se si trattasse del suo pigiama preferito, e leggere il romanzo pensando a lui ne aumenta i benefici terapeutici. Bogart ha prestato il suo imperturbabile volto da duro di classe (che è altra cosa dal rozzo macho) anche a Philip Marlowe, il protagonista di una serie di romanzi di Raymond Chandler. Anche lui è il prototipo nuovo detective: onesto, ma a modo suo, impudente, freddo e cinico, è rude ma elegante come solo gli uomini “in bianco e nero” sanno essere, violento quando serve ma senza scomporsi più di tanto. Fuma e beve parecchio, vizi che non lo rendono una ciminiera puzzolente ma solo sexy. Distaccato e stropicciato dalla vita sembra perfino insensibile al fascino femminile, che nel linguaggio del noir vuol dire che non disdegna le bellissime e disonestissime donne che gli cadono ai piedi, ma sa benissimo che non può fidarsi di loro. Solitario e misterioso, Philip Marlowe è più complesso dei casi che deve risolvere, spesso così ingarbugliati che si consiglia di assumere la medicina tutta d'un fiato. Sarebbe preferibile cominciare con il primo romanzo la serie, “Il grande sonno”, per poi continuare con gli altri. Tra gli effetti collaterali può manifestarsi la comparsa di una specie d’invidia per la pacata sicurezza e la padronanza verbale di Marlowe: anche quando ricorre alle mani lo fa senza perdere la calma, quando viene tradito non si dispera e ha sempre la battuta pronta. Per prolungare l’ebbrezza della lettura si consiglia vivamente l’adattamento cinematografico del romanzo, “Il grande sonno”, realizzato da Howard Hawks nel 1946 con la conturbante Lauren Bacali al fianco di Humphrey Bogart (una coppia da brivido). Grazie al suo stile diretto e ai dialoghi brillanti e serrati, Chandler ha spesso collaborato con il cinema partecipando come sceneggiatore a capolavori quali “La fiamma del peccato” di Billy Wilder (tratto dal romanzo di James M. Cain “La morte paga doppio”) e “Delitto per delitto” (“L’altro uomo”) di Alfred Hitchcock (tratto dal primo romanzo di Patricia Highsmith “Sconosciuti in treno”). Dal momento che è la tensione che cerchiamo, questi film sono da considerarsi un ottimo coadiuvante della cura. Non ve ne pentirete.
Avvertenza: in caso di sovradosaggio da Sam Spade, Philip Marlowe e Humphrey Bogart, il rischio è di diventare così spavaldi da indossare l’impermeabile con il bavero alzato e il cappello a falda. Tenete presente che solo Humphrey Bogart può farlo senza sembrare ridicolo. Tra gli effetti collaterali più comuni, causati soprattutto dalla visione dei film, c’è anche il desiderio di fumare una sigaretta, sempre alla maniera di Humphrey. Anche chi non fuma può essere sfiorato dalla tentazione, ma fumare alla Bogart nuoce gravemente alla salute (e non vi renderà mai uguali a lui).
Se la cura risultasse troppo dura e la dose di tensione eccessivamente massiccia, provate a rilassarvi come Philip Marlowe che, per addormentarsi, ricorre a un bel bicchiere di whisky. Ma se non riuscite a prendere sonno vuol dire che avete superato l’apatia e quindi siete guariti. Brindiamo! Con il bicchiere della staffa, ovviamente.

Commenti

Ho letto e visto il film del falcone e degli sconosciuti in treno (stupendo Alfred) veramente tanti anni fa (credo a metà degli anni ’80). Mentre mi manca l’esimio libro di Cain. Quindi parlerò solo del grande sonno.
Raymond Chandler “Il grande sonno” Repubblica Giallo euro 5,90
[pubblicato il 3 agosto 2011]
La nascita di un mito. Chandler ha cinquanta anni ed è al suo primo romanzo. Certo, sono cinque – sei anni che scrive racconti. E la sua vita non è stata “pipe e pantofole” sino ad allora. Americano emigrato in Inghilterra, dove studia e si accosta ai classici, partecipa alla prima guerra mondiale combattendo in Francia, e poi mille altri mestieri di ritorno in America. Da qui, in poi, il successo. Hollywood, fama, denaro, e alcool molto alcool, sino alla morte settantenne per polmonite alla fine degli Anni Cinquanta. Ma è qui, in questo romanzo, che getta le basi non solo della sua fortuna, ma di tutta una letteratura che allora sembrò solo di genere (hard boiled veniva chiamata, per la crudezza delle rappresentazioni della vita quotidiana, le morti, la vita al limite e spesso al di là della legge), ma che riletta attentamente è stata anche giustamente accostata al modernismo. Quel filone di rinnovamento del romanzo mondiale che nei primi 40 anni del secolo scorso aveva come alfieri Pirandello, Kafka, Hemingway, la Woolf e tanti altri. Accostata, che Chandler non è “solo” modernista. Mette in scena quello che vede (e che sente) nei bar e nei bassifondi di Los Angeles, ma anche nelle ville dorate della California con gli stanchi ricchi che non sanno come spendere il loro non sudato denaro. E segue il tutto con gli occhi di un investigatore privato. Non tanto uno che cerca di guadagnarsi la vita inseguendo divorzi e piccole frodi. Ma qualcuno che vive la vita quotidiana della città, ne conosce gli alti e i bassi. E soprattutto, mette in campo questo Philip Marlowe che ci sorprende ad ogni piè sospinto per la presenza di una sua etica. Non diciamo una dirittura morale, che sarebbe impropria, ma un’etica sì, basata sul rispetto del cliente, sulla convinzione che, pur esistendo un lato in ombra in ognuno, non si possa andare oltre un certo limite. Ed imbastisce una storia, forse datata in alcune parti, ma certo molto meno confusa, leggendola, di quello che se ne dice senza conoscerla. O conoscendo solo i suoi risvolti cinematografici. Certo, Marlowe è molto Bogart, con l’impermeabile beige e la sigaretta in bocca, e la non curanza con cui guarda una donna senza vestiti ma che non tocca (etica, etica, ed altro). Ma, per me, è anche stemperato da una punta di Elliot Gould, piuttosto che intristito nella vecchiaia di Robert Mitchum. E molta della confusione viene proprio dal film, che, sì, è quello confuso, perché nel film vengono fusi due romanzi di Chandler, e se ne affida la sceneggiatura a quel mostro di bravura letteraria che era William Faulkner. E viene messa più in positivo di quanto sia nel libro la figura di Vivian, che è stupendamente interpretata da Lauren Bacall, al tempo del film ancora moglie di Humphrey. Con l’invenzione del finale pirotecnico della morte del cattivo Eddie Mars. Tutto questo non c’è nel libro. Che parte dalla ricerca della soluzione di un ricatto ai danni del padre di Vivian da parte di Marlowe, prosegue con la ricerca dello scomparso marito di Vivian stessa, e con la soluzione di questi due misteri. Certo, compare Eddie Mars, che comunque è il re dei cattivi di Los Angeles, e compare la lotta senza quartiere tra lui e Marlowe. Ma qui, nel libro, non si va oltre la soluzione dei misteri proposti. Lasciando ad altri libri cosa succederà, forse, dopo. Nel libro non possiamo far altro che seguire Marlowe che, passo dopo passo, svela le magagne che si presentano, fa un po’ il buon samaritano con la bionda che si sta perdendo ma forse no, beve a tutto spiano. E seguiamo l’uso sapiente del dialogo, questo puro elemento di novità che Chandler maneggia benissimo, un po’ sulla falsariga di come scriveva il giovane Hemingway (che aveva 10 anni meno di lui). E l’uso asciutto delle descrizioni, un po’ paradossali ma efficaci (come quella che cito sotto), inseguendo le citazioni trasversali che l’intellettuale Chandler mette qua e là, anche se pochi se ne accorsero al tempo. Come, quando, mirabilmente, per spiegare il comportamento poco ortodosso della sorellina Carmen, risponde, mozartianamente, “Così fan tutte”.
“Un uomo grasso, di mezza età, con un paio di occhi color cielo che si ingegnavano a far passare una mancanza d’espressione per un’aria amichevole.” (107)

Finalino

Premetto che non sono un amante del whisky cui preferisco sempre un rhum o una grappa. Ma sono da sempre “innamorato” di Humphrey (come si chiama il mio amico di pezza che mi regalò la mia amica Rosa). Ed anche se l’hard-boiled americano non sempre mi convince, John Houston e Howard Hawks sono imperdibili. Così come il grande Alfred, anche se lì c’è zero hard.

domenica 10 giugno 2018

How to ... - 10 giugno 2018


Una settimana, sulla spinta di Oz, dedicata a “Come fare a…”. Come fare a scrivere un brutto saggio su di un buon argomento, come fare a ridere anche dell’invivibile situazione romana (e italiana), come fare a viaggiare e continuare a viaggiare sempre con piacere. Ed ovviamente, come fare a curare un fanatico delle sue turpi idee. Sempre, con allegria ed un sorriso. Che niente disarma di più. E nell’allegato, abbiamo anche un come fare a liberarsi con un pianto. Che settimana, ragazzi!
Roald Hoffmann “Chimica e poesia” Castelvecchi s.p. (Natalino di Rosanna)
[A: 25/12/2017 – I: 25/12/2017 – T: 25/12/2017] - &
[tit. or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 40; anno 2017]
Non stupitevi se il titolo è originale in italiano, mentre il testo è tradotto dall’inglese. Si tratta di una breve conferenza tenuta dal chimico e premio Nobel Roald Hoffmann nel 2013, a Cagliari nell’ambito del festival “Leggendo Metropolitano” dedicato al tema “Legami”. Ma mentre non posso che parlare bene del festival, che tra l’altro ha prodotto un bellissimo pamphlet di Andrea Bajani in ricordo dell’amico Tabucchi, dedicato ai legami amicali, non riesco a parlare bene di queste scarne quaranta inutili pagine. Certo, l’autore è senza dubbio un personaggio interessante. Nato in una cittadina allora polacca (ora in Ucraina) 80 anni fa, viene rinchiuso in un ghetto, da dove fugge con la madre nel ’39, poi, dopo aver vagato fuggendo “di gente in gente”, nel ’49 la famiglia Hoffmann riesce ad emigrare in America. Dove studia alla Columbia University, si laurea in chimica, e nel 1981 ottiene il Premio Nobel per la spiegazione teorico-pratica di alcune regole di reazione chimica dette “regole di Woodward-Hoffmann”. Da sempre dedito anche alla poesia ed alla divulgazione, dal 2007 si ritira dall’insegnamento e dalla ricerca dedicandosi solo alle attività collaterali. Di certo non poteva che essere un esploratore di nuovi mondi, in chimica, in poesia, o in altro una persona che viene battezzata Roald in onore del grande norvegese Amundsen. Questo breve testo si inserisce proprio in questa falsariga, ricerca ed altre attività, riprendendo, accanto alla chimica, quella che per Roald è la seconda attività: il poetare. Tuttavia non riesce a dare nessun elemento decisivo, coinvolgente, se non per alcune affermazioni, che certo possiamo condividere, ma che sarebbero ugualmente condivise se fossimo in un bar, con in mano un martini, ed intorno un’apericena. Roald ci dice che la chimica è la scienza dei legami e della loro scoperta. Roald afferma, ed io gli credo anche senza prove, che le strutture composite dell’emoglobina hanno la bellezza di un cattedrale gotica (ed io penso piuttosto alla “Sagrada familia” di Gaudì a Barcellona). Certo la mia scarsa vena nei confronti di questo libretto è di certo anche dovuta al fatto che la chimica è stata sempre una materia ostica nel mio percorso scolastico (anche se di molto superiore al disegno in cui sono stato sempre l’ultimo in tutti i campi). Non solo, anche la poesia, lo ammetto, se non nei facili versi che ritornano sempre alle mie labbra con Foscolo, Leopardi e Carducci, per il resto è un territorio oscuro, un “hic sunt leones” che difficilmente vado ad esplorare. Credo senza discutere che sia interessante la congiunzione tra scienza e poesia operata in alcune Epistole di Alexander Pope del Settecento. Credo altresì che la descrizione della simmetria chimica nella struttura del TiNiSi (supposto che qualcuno sappia cosa sia) riportata a pagina 15 sia per me altrettanto misteriosa che per voi (ed io ho sicuramente una formazione più scientifica di altri). Il percorso che Roald vorrebbe farci seguire in queste poche pagine potrebbe quindi riassumersi: nei secoli d’oro delle scoperte e della poesia (vedi Pope) era possibile usare un linguaggio comune e comprensibile per descriverle entrambi. Durante l’Ottocento, l’avvento della Rivoluzione Industriale nel campo economico e del Romanticismo nel campo letterario, ha allontanato queste due anime. Che però guadagnerebbero se potessero ricongiungersi. Ora, se posso essere d’accordo con lui che spesso e volentieri il linguaggio scientifico è solo per iniziati (ma poi abbiamo i Friedman o i Rovelli che riescono a capovolgerlo e farcelo capire), ed una sua maggiore umanizzazione sarebbe utile a tutti, non credo molto nel viceversa. Vero che la poesia lavora per ellissi, per metafore che bisogna decrittare. Ma la descrizione di un fulmine o di uno tsunami come ce li presenta nella parte finale del libretto non riescono ad aprire nessuna breccia in questa direzione almeno per me. Come risalta meglio le mie corde qualcosa come “sotto il maestrale urla e biancheggia il mar”, rispetto alla citazione di Roald “you are a wave / which will not be (Fourier) / analyzed.” [tu sei un’onda / impossibile da (con le serie di Fourier) / analizzare], dalla poesia “Tsunami” di Roald Hoffmann. Illeggibile. Intrasmettibile. Certo, e finisco, l’atto creativo prescinde dalla materia utilizzate. Si è creativi in chimica, in poesia, in letteratura. Anche nella mia adorata matematica, quando rivedo un 2017 come numero primo e no come anno disgraziato. Ma queste quaranta paginette non mi danno gusto di convincermi o di approfondire la materia. Le trovo inutili, con dispiacere per il chimico che tanto forse vi ha speso. Ma più che legami chimici (“enlaces quìmicos” come direbbero i miei amici spagnoli) parlerei di “¡Átame!”, come direbbe il grande Pedro Almodovar. Sperando che ne cogliate il doppio senso…
Amos Oz “How to Cure a Fanatic” Vintage s.p. (regalo di Alessandra)
[A: 09/12/2017 – I: 04/01/2018 – T: 05/01/2018] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 102; anno 2004-2012]
Inizio subito col dire che Oz, quando ne leggo, parte almeno da tre libri se non di più, visto che da anni trovo ottima la sua scrittura e lui degno di un Nobel. Se lo danno ad Ishiguro, Oz ne può avere a decine. Secondo elemento che caratterizza questa libro e questa lettura, è il fatto che, nel nostro Natale gerosolimitano, Alessandra, sempre prodiga di buoni regali, me ne ha voluto fare dono, a suggellare una visita in Terrasanta che ben si lega al tema del libro. Il terzo elemento di interesse e curiosità e vicinanza tra libro e realtà, è dove lo abbiamo trovato e preso. Nella libreria dello Yad Vashem, l'Ente nazionale per la Memoria della Shoah di Israele, durante una toccante visita al Museo stesso (e prima di una bislacca intrusione in una manifestazione – scontro tra polizia e palestinesi, in seguito alle sciagurate parole di Trump). Già tutto questo ne fa un libro eponimo, che è bene completare con alcune notazioni in margine. Il nucleo originario sono due discorsi tenuti in Germania nel 2002, in inglese, uno titolato come il libro, l’altro dal titolo “Between Right and Right”. A ciò si è aggiunta una breve intervista riportata per sommi capi e questioni, concessa da Oz nel 2012, e che aggiorna, in alcuni punti anche se non nel “corpo” essenziale, le prese di posizione del libro. Infine, dopo averlo acquistato, la sera siamo andati in centro di Gerusalemme nuova, per cenare allo Tmol Shilshom Cafè, dove, il retro del menu è costituito da una foto di … Oz. Bene, venendo ora alle parole dello scrittore, quali sono i punti fondamentali che nei discorsi in Europa ha voluto sottolineare? Sottolineo in Europa, perché il taglio degli interventi è in parte rivolto a noi europei ed al nostro stare a guardare cosa avviene nella sua terra natale. Il primo elemento è riconoscere, come ognuno dovrebbe anche se non è né facile né semplice, che ci troviamo di fronte allo scontro tra due diritti. I diritti degli ebrei alla loro terra promessa, alla terra della diaspora, alla terra vista da Mosè dal Monte Nebo. I diritti dei palestinesi alla loro terra natale, quella dove sono nati, quella che per duemila anni è stata vissuta come patria. Oz interpreta quindi il conflitto che si svolge sul suo suolo come appunto tra due diritti entrambi validi. Non sarà mai possibile fare un passo in avanti verso la risoluzione del conflitto se entrambe le parti in causa non riconosceranno l’esistenza di questi diritti. Che sono sì contrapposti, ma che, accettati, potrebbero portare ad un compromesso. E come ben sappiamo, un compromesso è una soluzione che, scontentando tutti contendenti, cerca di trovare una mediazione accettabile. Altrettanto correttamente, Oz battezza il conflitto come “israelo-palestinese” e non “ebreo-arabo”. Non è, se non nelle intenzioni degli opposti estremismi, un conflitto religioso, ma è un conflitto “immobiliare”. Come dice ad un certo punto, un conflitto che fa nascere buoni vicini quando vengono definite buone recinzioni. Ma proprio l’accenno agli estremismi, dà il via al secondo intervento, in cui Amos cerca di delineare il carattere dei fanatici. Rimando, come lui rimanda, al suo bellissimo libro per adolescenti “Una pantera in cantina” (da me discusso il 13 dicembre 2015), per una visione del fenomeno del fanatismo con gli occhi semplici dei ragazzi. Ma quello a cui Oz, e noi con lui, vogliamo arrivare è (come dice il titolo) una cura per tale fanatismo. Anche qui, due e complementari azioni sono fondanti per non cadere, nessuno di noi, nel fanatismo: il senso dell’umorismo e la letteratura. I fanatici non hanno, proprio per la loro natura assolutista, il senso dell’umorismo e del ridicolo. Se guardiamo all’oggi, una persona che può dire senza ridere “Io non sono un idiota, sono un genio” (discorso epifanico di Trump), è sicuramente un fanatico. Uno che è assolutisticamente convinto che è nel giusto, che le sue idee sono quelle corrette (ma questo potrebbe essere anche un buon punto) e che tuttavia vuole costringerti ad accettarle, a farle tue. Il fanatico, senza sorridere, può dire: io ti ucciderò per salvarti dalle tue idee che non sono le mie, perché solo le mie sono corrette. Tutto il contrario del mio atteggiamento volterriano, io lotterò fino alla morte per farti esprimere le tue idee, anche se non le condivido. Il punto finale di questi discorsi, tuttavia, è quel rispetto degli accordi di Ginevra del 2003, quelli dei “due stati” che, seppur all’epoca giusti e condivisibili, ora li vedo, per molti motivi, datati. Perché sono passati troppi anni senza fare un passo avanti, perché il conflitto si è impadronito di tutte le pietre di quelle terre, e per altri motivi, forse non consoni ad una così lieve analisi. Questa ritengo sia l’unica pecca del breve scritto, pecca che lo colloca nel tempo, lasciando ben vedere i 15 anni trascorsi. Io che amo quelle terre, che, dopo Roma e Parigi, ho visitato Gerusalemme maggiormente che ogni altra città al mondo, posso dire che ora, se fossimo tutti realisti, se fossimo tutti “meno fanatici”, dovremmo lavorare per uno stato con due popoli che convivono. E con una città, Gerusalemme, vista come uno stato extra-territoriale da ognuno. Una città religiosa per tutti, e dove tutti possano andare per la religione, per la storia, per le radici di tutta l’umanità. Sono passati 25 anni dal mio primo viaggio in Terrasanta, ma se domani tu mi dici: andiamoci! Io faccio il trolley e vengo.
Jean-Yves Ferri & Didier Conrad “Asterix e la Corsa d’Italia” Panini euro 12,90
[A: 03/04/2018 – I: 08/04/2018 – T: 08/04/2018] - &&& -
[tit. or.: Asterix et la Transitalique; ling. or.: francese; pagine: 48; anno 2017]
Trentasettesimo episodio della saga di Asterix e terzo senza più i “padri fondatori”. Rispetto ai due precedenti, pur con qualche sicuro episodio di discreta ironia, perde un po’ di mordente. Soprattutto la storia in sé non è sostenuta benissimo da una trama valida. Una corsa a tappe per l’Italia (su cui torniamo più avanti), cattivi che vogliono vincere barando, intervento di Giulio Cesare quasi fosse un Mattarella nostrano, e solita buona riuscita dei nostri. Non molto di più, nella trama. Dicevo corsa a tappe, ma più che altro una specie di mini-mille miglia rivisitata. Non è infatti un “Giro d’Italia”, come il famoso quinto album “Asterix e il giro di Gallia” avrebbero fatto sperare, perché la corsa dura solo cinque tappe. Ripeto Millemiglia, con partenza da Monza invece che da Brescia (dove poi si tronava dopo essere scesi fino a Roma), per poi scendere lo stivale attraverso Parma, Siena, Tivoli ed arrivo finale a Napoli. In francese poi, non si parla giustamente di “tour” ma di “transitalique”. Il punto di partenza rilevante è poi l’accusa palese allo stato delle strade italiane, in seguito anche alla vicenda Raggi – buche di Roma, che ha presa anche nell’immaginario d’Oltralpe. Il resto sono piccole gag che comunicano comunque il benvolere degli intellettuali francesi se non per l’Italia attuale, per quanto l’Italia e gli italiani hanno fatti. Il libro, infatti, è costellato di citazioni e rimandi che al solito fa piacere cogliere. Vediamo due giornalisti che commentano la gara con i tratti di Roberto Benigni e Bud Spencer (pagine 15 e 22). Da pagina 22 a 24 l’anfitrione che accoglie i corridori e fa il canto del gallo per la partenza al mattino ha i tratti di Luciano Pavarotti. Non essendoci macchine fotografiche, qualcuno fa disegni volanti dei corridori, ed appare così a pagina 26 Leonardo da Vinci. Nella folla a pagina 28, con un cesto pieno d’uva appare Monica Bellucci. Nella stessa pagina, da una finestra della campagna toscana, sorride ad Asterix Monna Lisa. Poi, a pagina 41, una cameriera di un albergo-spa di Tivoli riprende il fisico di Sophia Loren. Infine, per chiudere il conto con le citazioni politiche, Crésus Lupus, magnate che sponsorizza la corsa, non è altro che Silvio Berlusconi, che a pagina 44 fa un’offerta ad Obelix “che non può rifiutare” (nemesi di un avvertimento mafioso?). Inoltre, citazione di Monza per la partenza in onore del bellissimo autodromo, una scena ilare in Piazza del Campo che rimanda alla nascita del Palio di Siena. Infine, un lancio di un menhir da parte di Obelix tappa il Vesuvio impedendo con più di cento anni di anticipo una possibile catastrofica eruzione. Ovvio poi che non solo di italiani si prende in giro. Ricordando i più palesi, abbiamo le principesse Kush, regno africano al sud dell’Egitto, con i tratti delle sorelle Williams. Mentre l’auriga campione romano, che non è cattivo ma solo traviato, viene nominato come Testus Sterone, ed ha la faccia di Alain Prost. Qui abbiamo un buon intervento di Vania Vitali e Andrea Toscani, i traduttori, dove, quando Alain Prost, ripensando alla perdita della villa di Capri, in francese canta “Pour moi, Capri c’est fini!” celebre canzone di Hervé Vilard, in italiano viene riprodotta invece “Luna caprese” celebre hit nostrana di Peppino di Capri. Rimanendo ai traduttori, infine notiamo la trasformazione del venditore di carri da corsa da Pocatalitix nel solo Catalitix. Le due principesse Kush, poi, che in originale suonano Toutunafer e Niphéniafer, per renderne le fattezze vengono ribattezzate Tutakosh e Tutanpeth. Altri accenni di ironia plurinazionale: il bretone (inglese) chiamato Ecotax, i concorrenti lusitano (portoghesi) Micafés e Pescelés. Difficile rendere il povero concorrente belga Nonantesix miseramente tradotto con Vanbrusselix (il calembour francese si basa sul fatto che in Belgio per dire “novanta” non usano la locuzione “quatre-vingt-dix” ma “nonante”). I sarmati che quando parlano hanno alcune lettere scritte allo specchio (E, F, N, R) per ricordare l’alfabeto cirillico. Per ultimi abbiamo anche i cimbri (danesi) Zerøgluten et Betåkårøten, con le scritte piene delle strane lettere nordiche (le “Ø” e le “Å”, per esempio). Qui purtroppo si perde un po’ l’ironia nella traduzione, che i cimbri sono schiavi del maneggione che organizza la corsa, Lactus Bifidus. Ed i nostri autori non perdono tempo ad imbastire una serie di gag sull’assonanza tra “cimbres” e “timbres” (francobolli), come “facciamo parte della sua collezione” o in cambio del tradimento Bifidus “aveva promesso di affrancarci”. Infine, una battuta di Giulio Cesare che per spronare il cattivone all’azione gli intima “Bifidus sois actif”, con evidente allusione allo yogurt. Ripromettendomi sempre di entrare anche più a fondo nell’ironia di Asterix, termino con la costatazione che comunque a me questo fumetto piace, solletica i miei pochi neuroni. Tanto che difficilmente, anche nelle prove non maiuscole come questa, riesce a scendere sotto la sufficienza. Anche se non credo che riuscirò mai a riprendere la vetta del terzo album, quando il buon Marcello Marchesi, traducendo il fumetto, vedendo i goti battersi contro i goti, fa esclamare ai nostri “Che goturia!”.
Federico Pace “Controvento – Storie e viaggi che cambiano la vita” Einaudi euro 14
[A: 05/10/2017 – I: 14/04/2018 – T: 16/04/2018] - &&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 167; anno 2017]
Uno dei libri nati dall’urgenza di aggiornare le letture sull’onda di buone uscite recenti. Libro ben venduto nel ramo saggistica e che concordo nel ritenere di interessante lettura. Che nelle scarne 167 pagine ripropone 27 bozzetti di personalità famose colte in momenti di viaggio, che siano lungi viaggi in nave o brevi passeggiate in montagna. Ognuno con un momento fondante che lo lega a quell’istante, a quella storia. Trovando in quel momento, in quell’istante un motivo per l’affermazione, a volte soltanto e fortemente personale, del proprio sé. Per mettersi controvento e navigare, anche se faticosamente, nell’ampio mare della cultura a tutto tondo. Sono 27 mini-ritratti, che hanno un pregio ed un difetto: sono corti e riferiti, a parte uno o due, a persone note, o ben note, che seguiamo in uno scampolo di vita, breve e intenso. Sono al 95% preceduti da un paragrafo più o meno lungo che svaria liricamente, cercando di dare, nella volontà dell’autore, il senso del tipo di cambiamento che quel viaggio, quel momento ha portato alla persona in oggetto. Purtroppo questo paragrafo è lirico ma rompe i ritmi della lettura. Meglio sarebbe un attacco secco, si va al punto, si parla del nostro, si dice anche che viaggio sta facendo, perché, cosa porta. Prendere subito per le corna Oscar Niemeyer ed il suo viaggio in macchina verso dove costruirà Brasilia. Ma perché non ricordare che il nostro architetto morirà a ben 105 anni? Vedere Milena Jesenská che torna a Praga, dopo l’intensa storia con Kafka, per scoprire un nuovo amore; ma poi morirà nel ’44 in un campo di concentramento. E poi l’amicizia tra Bioy Casares e Borges. I viaggi per mare di Gauguin e quelli per terra di Van Gogh. La lunga trasferta in macchina dal Maine alla California di Joni Mitchell, e quella più breve, ma che porterà ad un concerto irripetibile, di Keith Jarrett dalla Svizzera a Colonia. E la lunga ricerca in macchina di Brodskij sulle tracce di Auden. Le passeggiate a piedi di Erik Satie verso il centro di Parigi (ma che dire della sua stanza piena di ombrelli mai aperti?). L’autobus verso il centro ed il mestiere di “coiffeur” di Richard Luchini, che lì diventerà Fabrice. Il trano Transiberiano di David Bowie e quello transandino di Garcia Márquez. La nave di Einstein che solca l’Oceano e lascia l’Europa e la barbarie naziste ed il mar Mediterraneo di Charles-Edouard Jeanneret detto Le Corbusier, che trova ispirazioni tra le onde, e che morirà di infarto mentre vi nuota a 78 anni. E poi la nave di Frenando Pessoa quando torna verso la sua Lisbona dall’esilio paterno in quel di Sudafrica. O l’analogo viaggio, ma in aereo, del medico scrittore Antonio Lobo Antunes, sempre verso Lisbona, ma dall’Angola. I diversi ritorni: Anna Maria Ortese, o Naipul in India, Marc Chagall in Bielorussia o Frida Kahlo in Messico per la morte della madre. Per non dimenticare il bellissimo approccio di Cortazar nella studiosa Mendoza. Studio per studio, mentre non mi muove molto la gita in montagna di Beckett con il padre (e ritengo più significativo il suo viaggio mentale, quando in una lezione universitaria tenne una dotta conferenza su di un autore da lui inventato). La tristezza di Elizabeth Bishop per il suicidio della sua amante Maria Carlota de Macedo Soares, per cui lascerà per non tornarci più il Brasile. E quella di Jacqueline Du Pré, che si è felice dell’avventura musicale con il marito Daniel Barenboim, ma si accorge anche di essere afflitto da sclerosi multipla, che le impedisce presto di continuare a suonare l’amato violoncello. Tralascio perché sono parti che non mi hanno coinvolto, María Zambrano, J. M. Coetzee e Salman Rushdie, per finire con Dmitrij Šostakovič, la musica nella splendida Leningrado, la parabola di alti e bassi che costeggiò tutta la sua vita, dai tronfi trionfi dell’apologia dello spirito russo, alle rivolte musicali, ai lavori su testi di Evgenij Evtušenko. Dove ho notato l’unica imprecisione (o almeno, l’unico che ho visto essere imprecisione) laddove Pace indica la dedica a Stalin della dodicesima sinfonia, che invece a me risulta essere dedicata a Lenin. Un sbaglio non da poco. Spero che questo viaggio tra i nomi vi abbia convinto non tanto a leggere il libro, che comunque è interessante, ma a leggere delle persone citate, delle loro opere, delle loro vite. Ed anche, ovvio per me, della loro musica: Joni Mitchell e Keith Jarrett, su tutti e tutto. Per me.
“Non c’è mai cosa che accada … nel modo in cui ce la siamo prefigurata.” (37)
“Nessuno sa mai come reagirà a ciò che sta per accadere … Ciascuno, in fondo, è davvero quel che è solo quando viene costretto a misurarsi … con un avvenimento che lo può travolgere.” (97)
“I viaggi aprono varchi su ciò che stiamo diventando.” (147)
Seconda trama, dedicata al bisogno di un bel pianto per uscire da cattive situazioni, per scordarsi delle brutte cose, per andare avanti, per stare con gli amici e gli amori. Com’è difficile piangere, invero.
Continua il giugno di lavori, ma si è anche conclusa, almeno numericamente, la vicenda scozzese. Abbiamo in giugno 15 persone che verranno con me in una volta tra Edimburgo ed Inverness. Staremo a vedere.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

GIUGNO 2018
Sarà l’aria che gira, ma dopo due mesi “in positivo”, eccoci a parlare di bisogno di piangere. Un bisogno vitale, a volte, per uscire da situazioni senza sbocco. E spesso non è così facile come si crede.

PIANTO, BISOGNO DI UN BEL

A volte dobbiamo solo sfogare tutto il dolore, che si tratti di un cuore spezzato, di un cimelio di famiglia che si rompe o di ormoni fuori controllo. Prendete questi romanzi, con un pacco di fazzoletti e un brandy.
I DIECI MIGLIORI ROMANZI CHE VI FARANNO PIANGERE
Carlo Cassola                 “La ragazza di Bube”
Gabriel García Márquez    “L’amore ai tempi del colera”
Alberto Moravia              “La ciociara”
David Nicholls                “Un giorno”
Juan Carlos Onetti          “Gli addii”
Pier Paolo Pasolini           “Ragazzi di vita”
Boris Pasternak              “Il dottor Zivago”
Edmond Rostand            “Cyrano de Bergerac”
Antonio Skàrmeta           “Il postino di Neruda”
William Styron               “La scelta di Sophie”

Bugiardino

A parte Pasolini, tra letture e cinema, nove libri che ho attraversato nella mia vita. Ricordo Claudia Cardinale ne “La ragazza di Bube”, Sophia Loren ne “La ciociara”, Julie Christie ne “Il dottor Zivago” o Meryl Streep ne “La scelta di Sophie”. Ricordo molto nebulosamente di aver letto, una quarantina d’anni fa, il libro di Onetti. Ricordo, e posso citarne a memoria, il duello nella sala Borgogna tra il signor di Bergerac e “un buffone”. Gli altri, oltre al ricordo, sono presenti nelle mie trame.
Gabriel Garcia Marquez “L’amore ai tempi del colera” Mondadori euro 9,50  
[tramato il 18 giugno 2017]
Mi ero accostato con un po’ di timore ad un ulteriore libro di Gabo, dopo che le ultime letture mi avevano sinceramente deluso. Non che volessi tornare all’epifania interna che mi sconvolse con “Cento anni”, ma mi sarebbe bastato tornare al piacere di una bella lettura come quella del giovanile “Racconto di un naufrago”, dopo aver passato le pene a sopportare la candida Erendira o il tramonto del patriarca. Timore che era un po’ mitigato dalla spinta verso la lettura che mi stavano dando sia le libropeute di “Curarsi con i libri”, che lo consiglia ai settantenni o per farsi un bel pianto, sia l’allegra Giulia Fiore che lo consiglia come antidoto a “Il grande Gatsby”. Buoni consigli, ed altrettanto buona lettura. Qui, il quasi sessantenne Gabo riprende il bandolo dei suoi giri infiniti, dei suoi mille personaggi, che poi a ben vedere si riducono a due o tre, e ci trascina in meno di quattrocento pagine alla ricerca di uno sbocco ad una vicenda che, bene o male, durerà una sessantina di anni. Lo fa con la sua vecchia maestria, cominciando da un punto A, spostandosi a B, poi a C e D, ed intessendo tutto un intreccio di situazioni e di svolgimenti, che mi hanno tenuto incollato alla pagina più di quanto mi aspettassi. All’inizio ero un po’ dubbioso, seguendo le pagine sulla morte dello strano Jeremiah de Saint-Amour, starno personaggio, piombato all’improvviso nella cittadina teatro della vicenda, ricucitosi uno spazio di vita come fotografo e di relazioni come giocatore di scacchi. Personaggio che decide di non dover invecchiare ed a sessanta anni si uccide. Morte che coinvolge e sconvolge il suo compagno di scacchi, il dottor Juvenal Urbino. Di cui vediamo i turbamenti per la morte, che cominciamo a seguire con le sue manie di vita, con le sue esuberanze sociali, conosciamo di sfuggita la moglie Fermina Daza. Veniamo ben presto coinvolti nella vita del dottore, nel ricordo dei suoi viaggi giovanili a Parigi, delle sue dotte lezioni di medicina, delle sue letture. Venendo all’improvviso coinvolti nella sua morte, lo stesso giorno dell’amico, per una caduta accidentale e ben ridicola. Prende allora il centro della scena la moglie Fermina, che sembrava sino ad allora vissuta nell’ombra del marito importante, ma che esegue i giusti passi per il funerale, per il ricordo, per il rapporto con il figlio Urbino Daza, anche lui dottore, e con la figlia Ofelia. E nel momento culminante di questo inizio pirotecnico abbiamo lo squarcio che farà girare tutto il romanzo. L’anziano a sua volta Florentino (sia lui che Fermina sono poco oltre i 70), che alla fine del funerale dichiara il suo imperituro amore a Fermina. Un amore che dura quasi nascosto da 53 anni, 7 mesi ed 11 giorni. Dichiarazione che permette all’autore una capriola appunto di più di cinquanta anni all’indietro, dove ritroviamo la giovane Fermina, assediata dalle lettere e dalle poesie di Florentino. Siamo nella fine dell’Ottocento, non facili sono i rapporti tra maschi e femmine. Inoltre Fermina è figlia di un oscuro malversatore, che finirà i suoi giorni tornando scornato in Spagna, mentre Florentino è figlio naturale di uno dei maggiorenti locali. Ma non riconosciuto, quindi di poco peso sociale. Inoltre Florentino ha un suo aspetto triste, è aiuto-telegrafista, miope. Ha solo la parola dalla sua, novello Cyrano di sé stesso. Seguiamo allora Fermina che decide di lasciarlo per sposare senza amarlo il ricco Juvenal, con cui costruirà un rapporto bene o male felice nel corso degli anni, con picchi di bellezza e di amore e con abissi non proprio di dolore, ma di crisi. Che verranno superate, avendo sempre ormai la nostra buona Fermina seppellito il ricordo del giovane amore con Florentino. Che invece non si rassegna, che decide, lì sui venti anni che quella sarà sempre e per sempre la sua donna. E che comincerà la sua scalata sociale, aiutato dalle sue capacità e dal padre naturale che gli offre la possibilità di sfruttarle. Vediamo Florentino perdere la verginità del corpo su di un battello fluviale. Ma anche salire, gradino dopo gradino, proprio le fortune dei battelli, di cui alla fine diventerà il capo e padrone indiscusso. Avrà anche la capacità di soddisfare i suoi ardori, andando a letto con 622 donne come puntigliosamente registra nei suoi diari. Il funambolismo di Gabo ci fa quindi saltare di donna in donna, seguendone brevemente il fugace rapporto con Florentino, ma dipingendole a tutto tondo. Anche l’ottima Leona, l’unica con cui non andrà a letto, ma che sarà il motore segreto della sua ascesa. Dopo questa lunga cavalcata, allora ritroviamo i nostri due eroi, anziani ma non vecchi. Dove vediamo Florentino riprendere il leggero corteggiamento, delicato e pieno di un tatto sempre presente nelle sue manifestazioni, anche quando sembra non essere capace di mantenersi centrato. Vediamo Fermina leggere le sue lettere, capire i percorsi suoi e del suo amor di gioventù. Gabo ci infioretta tutta una bella parte su queste basi, mettendoci dentro anche i corpi di questi due settantenni, il loro scivolare verso la inevitabile morte, che fortunatamente non vedremo. Fino però ad imbarcarsi su una delle navi della flotta di Florentino, quasi a ripercorrere una fuga giovanile di Fermina verso parenti che le facessero passare i dolori e quel momento d’amore di Florentino. Cosa succederà sulla nave, dovrete leggerlo, perché è il momento chiave del libro. E non ve lo anticipo. Tutto il libro è corso via su questi binari, l’ho letto legato alla pagina nei pochi momenti liberi di queste giornate ad altro dedicate. E vi confesso che avrei anche dato maggior punteggi, se non ci fossero alcuni passi che mi hanno lasciato un po’ di dubbi. Uno su tutti, il famoso diario di Jeremiah, di cui tanto si parla nelle prime pagine, che mi aveva solleticato, ma di cui poi se ne perde traccia. Con dispiacere. Un libro sulla vecchiaia e sull’amore e sul fatto che comunque possano convivere. A dispetto di tutti.
“Era ancora troppo giovane per sapere che la memoria del cuore elimina i brutti ricordi e magnifica quelli belli, e che grazie a tale artificio riusciamo a tollerare il passato.” (116)
“Un uomo sa quando comincia a invecchiare perché comincia ad assomigliare a suo padre.” (183)
“Con lei … aveva imparato quello che aveva già provato più volte senza saperlo: che si può essere innamorati di diverse persone al contempo … senza tradirne nessuna.” (293)
“È incredibile come si possa essere tanto felici per così tanti anni, in mezzo a tante baruffe, a tante seccature …  senza sapere in realtà se è amore o se non lo è.” (356)
David Nicholls “One day” Hodder euro 11,90
[tramato il 1 novembre 2011]
Nei giorni scandinavi, pur avendo portato una buona riserva, a causa comunque delle limitazioni di peso, ad un certo punto i libri sono finiti. Certo, mi sarebbe piaciuto leggere qualche autore locale, ma nessuna delle tre lingue scandinave è alla mia portata. E mi sembra tuttora un controsenso leggere un autore scandinavo tradotto in inglese. Allora ho optato per un libro che (secondo i giornali locali) è in testa a tutte le classifiche di vendita dei paesi freddi. Perché lì l’inglese lo usano, e fanno anche la Top Ten dei libri in lingua originale. La mia scelta è quindi caduta su questo giorno di David Nicholls. Non conoscevo l’autore inglese, che ho scoperto quarantacinquenne ex-attore e sceneggiatore (studiò in gioventù con Colin Firth). Ed ho scoperto anche (tornando in Italia) che questo suo libro era uscito (tradotto per Neri Pozza) ed era anche piaciuto a qualche mio amico. Buon segno? Probabilmente sì, anche perché l’idea di base, forse già sfruttata altrove, è ben resa da Nicholls. Seguiamo le vicende dei nostri due protagonisti, Dexter ed Emma, in un unico giorno dell’anno, per venti anni dal 1988 al 2007. Sempre e soltanto il 15 luglio. Ci vuole un po’ di tecnica, e questa Nicholls ce l’ha, per farci entrare nel giorno dell’anno seguente, e riassumere (per sommi capi, ma mai in modo pedante) cosa sia successo nell’anno passato. A partire da quel primo venerdì, in cui c’è l’incontro d’amore e di sesso fra i due giovani quasi ventenni. Poi li seguiamo, quasi come alter ego sdoppiati dello stesso Nicholls, nel corso degli anni. Che Dexter entra in televisione, ne viene buttato fuori (come Nicholls dopo la cancellazione dei suoi programmi nel 2002). Che Emma tenta di scrivere per il teatro e recitare, poi comincia a scrivere libri (come David sempre nel 2002). E seguiamo il loro intrecciarsi, perdersi e ritrovarsi. Le vicende dei loro amori, matrimoni e nascite (metto tutto al plurale, così non si sa se parlo di uno di loro o di tutti e due, lasciamo un po’ di suspense). Sempre due facce di una medaglia, con l’aspetto forte, determinato ma fragile, e l’aspetto sbruffone ma insicuro. Un po’ perdenti entrambi, ma anche vincenti nel trovare, nel corso degli anni e nella difficoltà di crescere, una loro strada. Ci si domanda se convergerà, ma questo non ve lo posso svelare. Quello che posso dire sono alcune annotazioni lungo il corso del libro: l’inglese discretamente difficile, pieno non tanto di slang (che sarebbe possibile trovare con qualche buon traduttore) ma di neologismi derivanti dalla vita quotidiana in rapporto con i mezzi di comunicazione; la fotografia (o forse il video) di una generazione inglese che passa dagli anni duri della Teacher al boom laburista per ritrovarsi di nuovo in difficoltà nel nuovo millennio; il carattere di Dexter, che non mi piace, non perché sia molto (troppo) auto-indulgente (chi è che non lo è un po’ con sé stesso?), ma perché sembra sempre trascinato dagli eventi, senza mai prendere una decisione forte, senza mai avere uno straccio di fermezza. Certo è dolce, e fa ridire molto, ma a volte mi sono domandato, perché tutte quelle donne si innamoravano di lui? O facevano sesso con lui? Solo per la sua aura di fama televisiva? E certo ancora, mi è molto più piaciuto quando mette su il suo locale di caffè ed altri alimenti. E la figura di Emma, decisa, determinata, ma che non fa mai un passo per cercare di toccare la sua felicità con mano. Aspetta, aspetta, aspetta. Forse perché lo scrittore è maschio e non sa che anche le donne possono attivarsi alla ricerca della loro anima gemella. Ultima annotazione, la parte finale l’ho trovata un po’ moscia e forse troppo “mocciana”. Avrebbe fatto bene, il nostro buon David, a leggersi qualche pagina di Daria Bignardi su amore e felicità, e forse avrebbe raddrizzato le ultime 80 pagine che mi sono sembrate la parte più debole. Tuttavia, un libro interessante, che consiglio di cercare nell’edizione italiana e di leggere.
“She was discovering once again that reading and writing were not the same – you couldn’t just soak it up then squeeze it out again.” [Stava scoprendo ancora una volta che lettura e scrittura non sono la stessa cosa – non si poteva semplicemente assorbirla e poi spremerla fuori.] (183)
Antonio Skármeta “Il postino di Neruda” Einaudi euro 9,50
[tramato il 7 settembre 2014]
Un altro bello anche se non eccellentissimo romanzo. Di quelli che una volta farebbero piangere lacrime a fiumi. Per la storia in sé. E per il suo contesto, cioè quel bello e dolentissimo film che segnò l’ultima apparizione di Troisi, morto poche ore dopo la fine delle riprese. Sono 20 anni che Massimo c’ha lasciato, ma il suo ricordo è sempre lì, o qui nella memoria. Ma il contesto è anche il Cile dell’85, dodici anni dopo il colpo di stato militare. Ed allora, dimentichiamoci il film (anche se quella prima apparizione della Cucinotta…), e veniamo al veloce romanzo breve. Sicuramente torneremo sulla sciagurata traduzione del titolo alla fine di questa trama. La storia in realtà è breve come il romanzo. C’è Mario, ragazzo di 17 anni, sognatore, senza arte né parte. Siamo nel 1969, e siamo ad Isla Negra (che non è un’isola ma una località ad un centinaio di chilometri da Santiago), dove per decenni ha eletto la sua residenza Pablo Neruda (che in realtà non si chiamava né Pablo né Neruda, ma Ricardo Neftalì Reyes Basoalto). Mario ha solo una bicicletta, e per questo viene assunto come postino. Con un unico cliente, appunto il poeta, dato che nessuno riceve lettere ad Isla. Il rapporto tra i due si fa prima di sguardi, poi di timide avances di Mario, affascinato dalla poesia. Il sessantacinquenne poeta non è molto incline alla confidenza, ma viene poi preso dall’innocenza di Mario, dal suo entusiasmo. E diventano grandiose le discussioni tra i due sulle metafore e sul loro uso in poesia. Parallelamente al rapporto di conoscenza, se non di amicizia, tra i due, si sviluppano due momenti importanti per Isla Negra, uno interno ed uno esterno. Dall’esterno, si avvicinano le elezioni del settembre del 1970, quelle che portarono al Governo Allende, con la grande spaccatura del popolo cileno, anche sotto la spinta delle manovre nordamericane. Dall’interno, Mario conosce la giovane Beatriz e se ne innamora perdutamente. Tanto che chiede al poeta di aiutarlo a conquistare il cuore della donna. Neruda non lo fa direttamente, ma rinfocola la via di Mario alla metafora, e con le parole, le azioni, e vincendo la resistenza della futura suocera, finalmente i diciottenni convolano a giuste nozze. Intanto Neruda è nominato ambasciatore in Francia e lascia Isla Negra. Dove la vita procede, anche con la nascita del piccolo Pablo Neftalì. Mario aiuta l’osteria, ma nel 1971 è chiamato da Neruda ad una missione personale. Pieno di nostalgia, il poeta vuole sentire i suoni di Isla Negra, e Mario gira con un registratore per la zona, cogliendo le campane, la risacca del mare, i gabbiani che si alzano in volo, ed il pianto del piccolo Pablito. È uno dei momenti più belli la descrizione dei suoni del nastro. E poi Mario riunisce tutta Isla Negra, di destra e di sinistra, persino il fascista Labbé, per vedere alla televisione il conferimento del Premio Nobel a Neruda. Ma se la storia di Mario e Beatriz prosegue con passione (e tanta) non altrimenti avviene nel Cile, che passo dopo passo si avvicina al baratro. Nell’agosto del ’73 Neruda torna a Isla Negra malato. Mario cerca di confortarlo, ma anche la moglie del poeta, Matilde, è preda ad oscuri presentimenti. Poi, il settembre nero, il golpe di Pinochet pagato dalla CIA, la morte di Allende, l’occupazione militare di Isla Negra. Ed il poeta viene prelevato, portato nella capitale, dove, 12 giorni dopo il golpe muore. Amato da tutto il paese, i generali negano i funerali. Solo Mario, nella cittadina, ne fa l’orazione, internamente, ricordando il passaggio della poesia di Rimbaud citata da Neruda al Nobel (“armati di ardente pazienza entreremo nelle città splendide”), verso che il poeta riprende nella sua bellissima poesia “Lentamente muore”. Il giorno dopo Labbé arresta Mario, che “desaparece”. Rimango quindi sul testo (scordando definitivamente il film), sottolineando la dolenza estrema che Skármeta infonde nelle delicate descrizioni della vita di Mario. Della sua presa di coscienza, e della sua scomparsa a soli 21 anni, insieme alla migliore gioventù cilena (quella dei Victor Jara, delle Violeta Parra, dei Miguel Littin, e di tanti altri). Un libro triste, ma con la speranza che “Solamente l’ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicità”. Perché “Arente pazienza” è il titolo originale del libro, che ci viene propinato con il titolo del film, dove gli intenti pubblicitari sono talmente ovvi che neanche ne parlo.

Conclusioni

Si, si fanno bei pianti in questo decalogo. Ma non sono pianti migliori. Sono pianti anche di rabbia. Sono pianti di ribellione. Pianti, in realtà, di cui avremo bisogno per uscire e combattere. Non per tornare a guardare il nostro povero ombelico.