domenica 24 febbraio 2013

Bosch e altro - 24 febbraio 2013


Mi dispiace per chi si aspetta, da questo roboante titolo, una qualche dissertazione artistica sui quadri del grande pittore fiammingo. Certo parliamo di Hieronymus Bosch, ma nel senso utilizzato dal grande scrittore americano Michael Connelly, che di questo nome eponimo, fa il protagonista di una lunga serie di thriller. Questa sarà quindi una puntata tutta dedicata allo scrittore ex-giornalista di nera a Los Angeles, con alcune puntate della serie di Harry Bosch, ed un romanzo e mezzo con altri protagonisti. Tutti, comunque, ad un buon livello di intreccio e di gradibilità di thriller e di romanzi.
Michael Connelly “Musica dura” Piemme euro 11 (in realtà, scontato 8,80 euro)
[A: 19/01/2012 – I: 22/11/2012 – T: 26/11/2012]
[tit. or.: Trunk Music; ling. or.: inglese; pagine: 441; anno 1997]
Un altro ottimo capitolo della storia di Hieronymus “Harry” Bosch. Ben costruito, ben scritto. Con un’indubbia capacità di Connelly non solo di mettere insieme delle storie interessanti, ma anche di calarle, in qualche modo, nella realtà americana. Attraverso un diverso intento, raggiunge alcuni risultati (di fotografia della realtà, piuttosto che del sociale) simili alle storie che lo precedono di vent’anni di Sjöwall e Wahlöö. Ho detto, fatte le debite proporzioni. Ma Connelly riesce comunque a farci vedere alcuni guasti del sistema americano. E riesce a dipingere con sufficiente realismo città, squarci di città e momenti di vita. Certo, non conosco Las Vegas, ma da quello che ho sentito, nelle parti che colà si svolgono, ne dà l’immagine giusta: una città “inventata”, nata dal sogno di qualche bandito che cercava di fare soldi, e, con molta cautela, alla ricerca di una ripulitura dai malviventi e dai malaffari. Anche se rimane città del gioco, dell’alcool, della prostituzione (alta e bassa), nonché esimia capitale del cattivo gusto. La vicenda parte dal ritrovamento di un morto nel bagagliaio di una Rolls, nella mitica Mulholland Drive (omaggio a David Lynch). Bosch, reintegrato finalmente nei ranghi, se ne occupa con la sua nuova squadra: Edgar e Kiz, uomo e donna di colore, agli ordini del tenente Grace Billets. Il morto è italo-americano, quindi Bosch pensa che ci possa essere dietro la Mafia. Ma è una pista che svanisce presto. Comincia allora a ricostruire la vita di Tony Aliso, e dei suoi frequenti viaggi a Las Vegas. Perché gli piace il gioco, si dice. In trasferta, Bosch scopre: a) che è vero, Tony gioca; b) che si dedica a conquiste femminili, di cui l’ultima pare molto seria da mettere in pericolo il suo matrimonio; c) che ricicla denaro sporco di diversi banditastri, tra cui uno dei potenti di Las Vegas, tal Giuseppe Marconi detto Joey Marks; d) che a Las Vegas vivacchia la sua prima fiamma del primo libro della serie, dopo aver scontato una lieve condanna. Mettendo mattone su mattone, mette alla luce una trama che pare incastrare tale Lucky, uno dei bracci destri di Joey. Sembra tutto chiaro quando torna a Los Angeles: Joey ha scoperto che Tony si vuole smarcare e lo ha fatto eliminare da Lucky. Peccato che Lucky sia invece un poliziotto infiltrato, ed il castello si rivolta su Bosch, indagato come corrotto incastratore di un infiltrato che doveva incastrare il cattivo. Anche perché si è rimesso con Eleanor, ed un poliziotto non può frequentare ex-criminali. Esautorato da tutto, l’unica persona che crede in lui è il tenente Grace, che gli fa usare la squadra per un ultimo giro di valzer sulla vicenda. Bosch allora tira fuori la massima che le soluzioni sono sempre nei dettagli. E ripercorre tuta la vicenda, da quando un poliziotto antipatico assai scopre il cadavere. Mettendo tutto in discussione, trova un filo logico per ricostruire la vicenda. I suoi aiutanti trovano le prove a corredo. Ci si avvia per il primo finale. Ma tutti i sospettati o sospettabili si dileguano per convergere su Las Vegas, dove pare Tony avesse qualche denaro ben nascosto. Grande movimento poliziottesco con appostamenti, sparatorie, morti qua e là, per arrivare alla chiarificazione finale, tutta a vantaggio di Bosch. Che trova il modo di scagionarsi da tutto e di fare in modo di poter frequentare, sfruttando cavilli procedurali, anche la bella Eleanor. Non manca anca un sotto finale che aggiunge qualche ciliegina, ad una torta già di per sé gustosa. Questa la storia. Ma sono anche i dettagli che la fanno lievitare come una torta ben fatta (magari una caprese …). La descrizione della corruzione della polizia, dove ci sono mele buone e mele marce. Quella della vita nei grandi alberghi di Las Vegas, e nelle bettole di secondo o terzo ordine. La pittura di questa umanità varia, ben americana, che beve, gioca, e poco altro. Peccato che Bosch abbia lasciato da parte da qualche tempo l’amata musica. Quello un po’ ci manca. Per il resto, bene così.
“Si era sempre mosso, nella vita, fidando nella convinzione che la verità trionfasse, ma questa volta capiva chiaramente quanto poco la verità avrebbe pesato sul risultato finale.” (279)
Michael Connelly “Il ragno” Piemme euro 11,50
[A: 15/07/2012 – I: 26/11/2012 – T: 02/12/2012]
[tit. or.: Angel Flights; ling. or.: inglese; pagine: 425; anno 1999]
Una prova caleidoscopica che conferma il talento di Connelly e la sua abilità (forse sta diventando una mania) di ribaltare le situazioni una volta che sembrano avviarsi verso delle conclusioni possibili. Anche in questa quinta prova delle avventure di Harry Bosch, ci si aspetta un paio di finti finali prima di arrivare alla conclusione vera e propria. Non è un Connelly al top, come nel precedente “Musica dura”, che univa sociale e personale. Qui c’è molto sociale, mentre il personale scivola via, lasciandoci un po’ amareggiati e/o perplessi. Ci eravamo appena abituati all’idea della presenza della bella Eleanor, per la quale Harry aveva rischiato di mettere in difficoltà se stesso e la sua carriera, che qui la nostra si eclissa, palesando un disagio che non sembrava prevedibile. D’altra parte, difficile è portare avanti le storie di un detective con famiglia a carico. Quindi si pone l’amore “serio” in un angolo. E ci si concentra su di un’altra vicenda tutta sociale. Scritta, o almeno pensata, nell’alveo delle grandi turbe americane tra polizia e opinione pubblica. C’è stato Rodney King (il pestaggio immotivato di un nero da parte della polizia) e c’è stato O. J. Simpson (omicida salvato da cavilli giuridici). Qui si comincia con un avvocato, nero, che viene ucciso alla vigilia di un grande processo che aveva intentato alle forze di polizia, ree di aver “malmenato” un possibile omicida di una bimba di 10 anni. L’avvocato campa su queste storie, chiamando in causa poliziotti che non sempre si comportano secondo i regolamenti. Chiede in genere rimborsi “cauti”, e generalmente vince le cause. Ma il pubblico non sa che, in questo caso, l’onorario dell’avvocato vincente viene pagato dal perdente. Quindi, i suoi assistiti hanno rimborsi di poche centinaia di dollari, e lui chiede alla polizia stipendi da migliaia di dollari. Per questo non è ben visto, anzi è molto odiato, dai poliziotti. Per questo la polizia non sembra dannarsi particolarmente nella ricerca dei colpevoli. E qui entra in scena Bosch e la sua squadra. Che invece sono come paladini senza macchia e paura. Mettono in discussione tutto, soprattutto l’apparato burocratico che cerca di frenarne l’azione. Togliendo potere alla squadra. Mettendogli tutti i legacci possibili. Insomma, il solito Bosch contro tutti. Ovviamente si trova ben presto un capro espiatorio della vicenda. Perché l’avvocato viene ucciso sulla funicolare denominata “Angel Flight” (il volo dell’angelo) mentre si preparava al processo intentato per conto di tal Harris accusato dell’omicidio della piccola Sid, e per questo malmenato da poliziotti brutali. Ma poi assolto. Ed il capro espiatorio è uno dei poliziotti malmenanti, un tempo sodale di Harry. Che non crede a questa possibilità, e continua a scavare, in questo aiutato da lettere anonime che sembrano indirizzare verso una diversa pista. Che Harry, aiutato dai suoi due assistenti di colore, trova. Trova le prove che scagionano l’Harris di cui sopra. E la pista che porta ad una rete di pedofilia che aveva nella sua tela la piccola Sid. Ma qui si vola troppo in alto. Si toccano interessi di potenti della città, che con bustarelle e consigli, mettono tutto a tacere. Aiutati soprattutto dal suicidio dell’amico di Harry. Suicidio che mette in difficoltà il nostro che aveva spinto per far uscire Frankie dagli arresti, visto che aveva le prove della vera rete che portava all’uccisione di Sid. Ma non dell’avvocato. Sono già due scenari completi che si sono sovrapposti. E con l’aiuto di qualche poliziotto meno corrotto, si arriva anche al terzo e definitivo. Che mostra il vero colpevole come realmente un poliziotto, ma non vi dico chi, come e perché. C’è molto sociale dei contrasti razziali tra neri e poliziotti bianchi. C’è molto della pedofilia che sembra ben più diffuso, almeno in America, di quanto si possa pensare. Manca quel lato personale che mi aveva interessato. Anche se torna un bel giro di sassofono, per le strade di una Los Angeles sotto la pioggia. Complessivamente una buona prova. Meno che per gli editor italiani che cambiano il titolo originale che faceva riferimento alla funicolare della morte, con quella del “ragno” che tesse la tela per irretire bambine nei suoi torbidi disegni. Al solito, sono poco convinto di queste iniziative. Speriamo meglio nel futuro.
Michael Connelly “Vuoto di luna” Piemme euro 11 (in realtà, scontato a 5,72 euro con Feltrinelli +)
[A: 01/12/2012 – I: 07/12/2012 – T: 09/12/2012]
[tit. or.: Void of moon; ling. or.: inglese; pagine: 396; anno 2000]
Dopo tanto Bosch e tanti libri con protagonisti poliziotti, ecco che al nono libro, Connelly si smarca un po’, e ci imbastisce una storia con alcuni intenti un po’ più noir, ma che tuttavia convince meno. È un capitolo isolato, che si presenta al volgere del secolo, come se l’autore avesse voluto prendersi una pausa di scrittura dalle paure e fobie dei poliziotti di Los Angeles. Anche se qualche rimando c’è pur sempre. L’azione principale, intanto, si svolge a Las Vegas, che rimane capitale di vizi e corruzione. Ed anche se non ci sono protagonisti che tornano, si fanno collegamenti con la presenza (ora eliminata) di alcuni duri e malavitosi presenti in quel “Musica dura” sempre di teatro nel Nevada. Qui, il personaggio principale è un topo d’albergo. Anzi una topolina: Cassidy detta Cassie Black. Fa i suoi grandi colpi insieme all’amante Max nei grandi alberghi del deserto, quelli che ospitano tanti tavoli da gioco. L’ultimo colpo però va male. Qualcuno al Cleopatra li ha traditi. Max per non farsi arrestare si getta dal 20° piano e muore. Cassie viene condannata a lunga detenzione, che nella legislazione americana se una rapina finisce col morto, il co-reo (anche se stava solo a fare il palo) è accusato di omicidio. Bah! Comunque Cassie esce per buona condotta, ma l’unico suo scopo è quello di riprendersi la figlia, di cui era incinta durante l’ultima rapina. Dopo averla finalmente trovata, per bisogno di soldi accetta un ultimo ingaggio. Peccato che sia proprio al Cleopatra. Peccato che si debba fare durante il cambio di luna, quel vuoto di luna del titolo (“Il vuoto di luna si verifica quando la luna finisce il suo ultimo aspetto importante, in un determinato segno, prima di entrare nel prossimo segno. Nel periodo di Vuoto di Luna è meglio evitare di compiere fatti a scelte importanti, dedicare questo tempo al riordino dei propri pensieri, al relax, o al compimento di affari di poca importanza fino a transizione avvenuta.”, così dicono gli astrologi e così non fanno i nostri protagonisti). Peccato che la persona da derubare abbia più soldi del previsto, in quanto è un corriere della mafia di Miami che cerca di entrare nel gioco d’azzardo di Las Vegas. Peccato che Cassie finisca così nei guai grossi. Peccato che il derubato venga ucciso (da chi?). Peccato che come “investigatore” i cattivi di Las Vegas chiamino Jack Karch, colui che fu l’artefice della morte di Max sei anni prima. Tutto questo accumulo di eventi nefasti si addensa nella prima metà del libro. Poi assistiamo alle bravate del perfido Jack che ammazza gente a destra e sinistra. E alle improvvide fortune di Cassie che riesce sempre (o quasi) a svicolare. Certo che le nubi su di lei si addensano. Perché per fare il colpo ha violato la libertà vigilata. Perché molte persone che le sono intorno muoiono come mosche, certo per mano di Jack. Ma la polizia non lo sa e comincia anche lei a ricercare Cassie. Lei abilmente sfugge a quasi tutto. Ma Jack scopre anche la figlia di lei, e la rapisce. Ci si avvia così all’ultimo quarto di luna, sempre ritornando al Cleopatra. Uno scambio bambina – soldi, e una presumibile carneficina. Qui ci vuole qualche bel trucco da scrivano come è Connelly (tra l’altro Jack è anche un prestigiatore e lo scrittore ha modo di farci gustare anche dei bei trucchi da palcoscenico, che rivelano la natura del personaggio, e che neanche questo vi svelo) e ci riesce ad imbastirlo, con il filo conduttore interno di Cassie che per tutta l’ultima parte del libro si interroga se sia meglio, nel caso si salvasse, fuggire con la figlia che non sa di essere adottata, o restituirla alla famiglia adottiva. Vi lascio un po’ di margine alla curiosità, che la scrittura è piacevole. Anche se non affonda troppo nel personale, come nelle storie di Harry Bosch. Ci sono anche bei momenti tecnologici di descrizione degli ultimi ritrovati della tecnica delle rapine. Forse alcuni un po’ lunghi, ma istruttivi di come si possa usare la tecnologia per fare tutto. Bene e male. Comunque, alla fine un Connelly minore, da inizio di nuovo secolo, in attesa di un ritorno a trame ed atmosfere più consone alla sua penna.
Michael Connelly “Il buio oltre la notte” Piemme euro 11 (in realtà, scontato a 8,25 euro)
[A: 01/09/2012 – I: 05/01/2013 – T: 09/01/2013]
[tit. or.: A Darkness More Than Night; ling. or.: inglese; pagine: 393; anno 2001]
Le trame di Connelly si infittiscono, facendo confluire diversi personaggi di precedenti romanzi, quasi si fosse ad un “procedural thriller” alla Ed McBain. Purtroppo, questo infittimento è andato a scapito della fluidità, almeno nella prima parte dello scritto. Là dove vediamo confluire Terry McCaleb ed Harry Bosch sulla scena, ognuno occupato con un qualche mistero da risolvere, ma che (però ci vorrà metà romanzo per arrivarci) confluiranno in un unico problema la cui soluzione seppur semplice come filo logico, è complicata, e di molto, dal complesso evolversi delle vicende. Terry era comparso tre anni prima in “Debito di sangue”, mentre per Harry siamo al “settimo sigillo”. I testi sacri riportano anche che si deve inserire anche Jack McEvoy, il giornalista comparso ne “Il poeta”, ma che qui ha una piccola parte (come tempo di presenza, non come possibile “peso” sulla vicenda). Harry lo conosciamo bene, ormai, è un paladino della giustizia, sempre dentro la legge, ma sempre con un occhio (o un piede) sul bordo, che non sempre i malvagi pagano per le loro colpe (ne abbiamo visto nei passati episodi). Qui è alle prese con un ricco magnate dell’industria cine-porno, accusato di un omicidio. Bosch è il principale teste dell’accusa nel processo in corso, e seguiamo appunto il dibattimento, con tutte le magagne che i film americani ci hanno insegnato sull’andamento dei processi americani (e che ci hanno fatto capire meglio gli andamenti di processi tipo quello di O. J. Simpson). Questa è la vicenda di sfondo, su cui Connelly torna, di tanto in tanto, mentre seguiamo il filone principale del romanzo. Filone dedicato invece a Terry McCaleb, un ex-profiler costretto alla pensione dopo un intervento cardiaco. Ma è uno dalla capacità molto spiccate, tanto che (informalmente) gli viene richiesto di analizzare l’uccisione di un malavitoso di mezza tacca, trovato in una strana posizione mortuaria. Terry comincia la sua indagine “cartacea”, e si accorge che la scena del delitto sembra riprodurre un particolare di un quadro (ovviamente impiega pagine su pagine prima di arrivare a questa importante tappa). E di chi è il quadro? Guarda caso del grande pittore cinquecentesco fiammingo (immaginifico e terribile) Jeron von Aken, che però è meglio conosciuto con lo pseudonimo Hieronymus Bosch (!!). E poiché il morto era uscito senza condanne da un’accusa del nostro poliziotto Harry (accusa fondata ma senza prove), il nostro malato comincia a fare tutta una serie di collegamenti tra il Bosch attuale ed il pittore. Arrivando a trovare idee di possibili coinvolgimenti dell’agente come angelo sterminatore. Questa è la parte più ostica, che noi (malgrado tutto) vogliamo bene ad Harry, e ci sentiamo a disagio nel suo possibile scivolamento verso la giustizia fai da te. Ma sia Terry che Harry sono dei campioni dell’analisi e dei collegamenti. Soprattutto quando l’indagine viene tolta a McCaleb dall’FBI (che non vede l’ora di incastrare il nostro poliziotto di punta, diverse volte già sull’orlo del baratro). A valle di un chiarimento tra i due, Harry si dedica anima e corpo al processo, dove una sua incriminazione farebbe saltare tutto il castello di prove messo in atto. E Terry ripercorre tutta la trafila dei documenti, analizza, scruta, collega, ipotizza. E trova una chiave di lettura, altrettanto valida, che spiega anch’essa tutti gli accadimenti. E che, soprattutto, vede ilo nostro Harry non più angelo vendicatore, ma diavolo punito (o punibile). È una corsa contra il tempo e contro i potenti ed i potentati. Quale sarà il bandolo finale? Riuscirà Terry a provare l’innocenza di Bosch e salvare il processo? Oppure Bosch è realmente compromesso nella trama oscura (che tutte le morti sono riprese da particolari del “Trittico delle Delizie” del grande pittore)? Si legge, meglio la seconda parte della prima, dove la necessità di mettere tutto su binari traballanti fa traballare anche il romanzo. Ci sono anche tanti sotto testi che tralascio (la vicenda famigliare di Terry, il divorzio di Harry, e via discorrendo), e soprattutto ci sono le immagini di Los Angeles, di Catalina, del molo, delle isolette. Insomma di tutto un po’. Un’indagine interessante, anche se l’idea di partenza era un po’ scontata. Discreto, via, non molto di più.
Qualcosa si muove alfine, anche se non sappiamo se si raggiungerà la Thailandia. Intanto il vostro modesto tramatore si accontenterebbe di ripercorrere il filo di Battiata memoria, ricordando come sia difficile invecchiare senza diventare adulti.

domenica 17 febbraio 2013

Au revoir - 17 febbraio 2013


Arrivederci Francia, con questa tornata che esaurisce (per ora) il lotto di libri francesi comperati durante le trasferte (ormai lontane) presso la Comunità Europea. Con alcuni miei punti “cari”, uno scritto di Schmitt ed uno di Fermine (anche se non all’altezza di altri). Un libro sull’Eritrea martoriata dalla carestia, ed un nuovo (per l’Italia) detective. Non grandi altezze, ma comodi altopiani.
Maxence Fermine « Amazone » Le livre de poche euro 6,15 (in realtà, scontato con FNAC BXL a 5,85 euro)
[A: 22/06/2011 – I: 23/09/2012 – T: 27/09/2012]
[titolo: originale; lingua: francese; pagine: 220; anno 2004]
Premesso che ho sempre un debito forse incolmabile con l’autore per quelle prime letture della trilogia dell’amore (Apicoltore, Neve e Violino Nero) che mi hanno spinto ad imbarcarmi in questa vicenda di trame, i nuovi capitoli della sua avventura letteraria non sempre mi convincono allo stesso modo. Né mi coinvolgono allo stesso modo. Come ricordavo nell’ultimo “Billard Blues” (aggravato tra l’altro da essere una raccolta di racconti). Qui torniamo al romanzo. Ed al romanzo in cui l’amore è una componente portante di tutta la trama. Peccato che ormai la scrittura di Fermine si sia completamente “bariccata”. Purtroppo non nel senso dell’invecchiamento in fusti di rovere (le cataratte da 25 litri). Ma nel senso che ricalca il modulo espressivo dell’esimio torinese. Sospensione della frase. Introduzione di nuovi personaggi come se ci si conoscesse da sempre. Per poi fermarsi, quasi fare un flash-back per dare un tutto tondo al personaggio appena entrato. Gusto dell’ellissi. E della falsa anticipazione. Ti dico che di questo ne parlerò dopo, intanto lo annuncio, ne dico qualche parola, in pratica ti invoglio, come una piccola operazione di marketing letterario. Ed infine, dedizione al luogo altro. Non so, città inglesi o americane per Baricco, o giungle esotiche per Fermine. E qui spezzo invece una lancia in favore dei nostri autori. Infatti, a volte si sentono critiche nei suoi confronti un po’ salgariane: perché parli di Amazzonia, caro Maxence, senza esserci stato a lungo; forse è meglio che ne parli chi la conosce bene. Ma si tratta di un’Amazzonia della mente, di un luogo altro. Certo, se vogliamo possiamo localizzarlo, laggiù, tra Brasile, Colombia e Venezuela, vicino ad un’esistente Manaus e lontana da Belem di favola (e non a caso, che Belem in portoghese sta per Betlemme, e forse Maxence l’ha scelto apposta). Come di una favola tratta l’intera storia imperniata sull’improbabile ma possibile esistenza di Amazone Steinway, un pianista nero che suona un pianoforte bianco lungo le acque rosse del Rio Negro. Le brevi pagine di Fermine cominciano proprio con l’arrivo dell’improbabile pianista nella cittadina brasiliana di Esmeralda. Proseguendo poi, con quelle tappe “à la Baricco”, presentandoci il barista svizzero José Cerveza, il colonnello Aurelio Rodriguez, l’indiano Yamonomami Manes. Per poi farci tutta la storia di Amazone, del suo grande sogno d’amore per la meticcia, nonché lettrice di tarocchi, Camila Alves. Dell’amore, dell’arrivo del piano bianco, e di tutti i rivoli di storie e storiette che si dipartono. Seguendo quel filo delle sette tappe verso la felicità (forse) che ad un certo punto arrivano al negro tra capo e collo. Il nessun luogo da raggiungere, l’attesa dello smeraldo, la foresta amazzonica, la follia ed il sogno. Costellando le scarne pagine di tutti questi mini-racconti, che alla fine compongono un mini-romanzo, mini in senso minimale non piccolo che sempre 200 pagine sono. Che come tutti i romanzi del nostro ruota intorno alle domande fondamentali dell’esistenza: quale è il senso della vita, quale è il senso e la forma dell’amore, ed altri massimi sistemi. Fermine gioca sempre sull’assolutismo, non esistono mezze misure. Aureliano l’apicoltore quando ama, ama e quando raccoglie il miele, quello fa. Così Amazone, quando suona il piano. Che ha appreso a strimpellare da solo, la cui musica nota dopo nota, giorno dopo giorno, gli entra talmente nel sangue che lui “è” la sua musica. E tutti lo amano perché amano la sua musica. Ed il tocco del suo pianoforte bianco sarà per sempre nell’Amazzonia brasiliana. Niente grigi nei personaggi al centro. Grigi sono i co-protagonisti (a volte), oppure sfumati. Comunque alla fine non risulta del livello della trilogia. Anche perché ritorna troppo sulle modalità poetiche delle descrizioni. Ed alla fine risulta poco innovativo. Certo, l’amore totale di Amazone per Camila ci coinvolge perché sempre bello è questo tipo di amore. Ma ci si aspettava qualcosa in più.
“Quand j’ai un rêve en tête, je fais tout pour le réaliser.” [Quando ho un sogno nella testa, faccio di tutto per realizzarlo.] (112)
Guillaume Prévost « La valse des gueules cassées » 10/18 euro 8,65 (in realtà, scontato con FNAC BXL a 8,35 euro)
[A: 22/06/2011 – I: 03/10/2012 – T: 10/10/2012]
[titolo: originale; lingua: francese; pagine: 278; anno 2010]
Dopo più di un anno di letargo, sono approdato a questo libro preso in quel di Bruxelles per festeggiare il compimento di un grande progetto europeo, ora purtroppo sepolto da burocrati ed affini. Diamo intanto due connotazioni. Le edizioni “10/18” sono un editore di economici francese, che ha un intero settore dedicato alle storie di detective, ed è un bel catalogo (non entriamo qui nel dibattito sull’editoria nazionale, che ci porterebbe lontano). Prévost, invece, è un autore non molto noto in Italia, se non per una serie di tre volumi usciti per la Sellerio or già è molto tempo, in cui usava la tecnica di mescolare fatti storici, o para-storici, con storie poliziesche. Così assistiamo ad un’inchiesta nel 1855 di Jules Verne, ad una nel 1514 di Leonardo da Vinci, fino ad una del 6 d.C., dove indovinate un po’ chi è uno dei protagonisti della storia che si svolge in Palestina… Queste tracce mi avevano incuriosito, così, avuto in mano un suo nuovo libro, ho avuto una gradita sorpresa. Non siamo più sul versante meta-poliziesco, ma poliziesco tout-court. Anzi si annuncia come il primo volume di una saga che ha per protagonista un neo-ispettore di polizia, dal curioso nome di François-Claudius Simon. L’interessante ambientazione è quella di una Parigi appena uscita dalla Prima Guerra mondiale. Siamo, infatti, nel 1919. Questo dà modo al nostro autore di imbastire una storia che ha tutti i connotati del poliziesco classico, ma che contiene anche piccoli accenni, pennellate di colore. E pennellate delicate, ma ben fatte. Non siamo nelle sbracature alla Corrado Augias che tenta di fare lo storico usando il poliziesco (ricordo ai miei distratti lettori la trilogia dedicata ai primi del Novecento ad un poliziotto fratello dello Sperelli di dannunziana memoria, dove più che i misteri si aveva a cuore l’ambiente). Qui il contesto è usato per quello che è, e non ci si può esimere quindi, en passant, né di citare il grande avvenimento di cronaca di quegli anni, l’arresto ed il processo del famigerato Henri Landru, né il grande avvenimento di storia, visto che nei giorni del romanzo i grandi della terra si riunivano a Versailles per decidere le sorti europee degli anni a venire. Ma questi sono lo sfondo del quadro dove si muove il nostro François. Anche lui reduce dalla guerra, e dolorosamente (ferito alla testa, con qualche nebbia di battaglia che ogni tanto compare). Con una storia alle spalle che andiamo scoprendo a poco a poco (abbandonato dalla madre, adottato dai preti, poi soldato, ora ispettore). Appena inserito nella “Brigata Anticrimine” appena sorta al Quai des Orfevers (di maigrettiana memoria), viene preso sotto le ali dell’ispettore capo, e coinvolto nelle morti misteriose di alcuni personaggi, ritrovati con la faccia massacrata a colpi di bastone di ferro, quasi a volerli rendere irriconoscibili. Il tutto legato ad una (falsa) rapina di un trafficante in diamanti. Nell’inchiesta aiutato anche da un suo coetaneo anche lui reduce, cui entra in amicizia strana, per poi scoprirne le simpatie socialiste e, soprattutto, una sorella più giovane e ben indipendente. Cui non tarderà di innamorarsi, riuscendo quindi ad inserire anche qualche lato umano alla vicenda generale. Vicenda che si complica, perché tutti gli indizi portano nell’ambiente dei reduci di guerra, magari dei mutilati. O comunque laddove la guerra ha un suo ruolo ben importante. Insomma, un bell’affresco, non a livelli di categorie superiore (come il primo Montalbano), ma sicuramente ben scritto. E ben svolto, tanto che la soluzione del caso, cui François arriverà ostacolato da tutti, lascia leggermente sorpresi. Una bella trovata per cucire i casi ed arrivare al colpevole. Tant’è che le ultime cento pagine le ho bevute avidamente, non riuscendo a staccarmene. È uscito da poco anche in italiano (con il titolo “Il Valzer degli sfregiati”), sebbene non per un noto editore, ma per i tipi di “Leone editore” in Milano, presso cui è uscito anche il secondo episodio, sempre giocato sull’onda della musica (dopo questo valzer ha scritto il “Ballo dello squartatore”). Aspettando il terzo (la “Quadriglia dei maledetti”).
Eric-Emanuel Schmitt « Concerto à la mémoire d’un ange » Livre de poche s.p. (regalo di A)
[A: 15/08/2012 – I: 09/11/2012 – T: 10/11/2012]
[titolo: originale; lingua: francese; pagine: 216; anno 2010]
La cosa migliore, senza dubbio, sono le ultime pagine del « Diario » di Schmitt, in cui racconta il modo in cui è nato questo libro, la genesi di alcuni passi, le sue riflessioni. Il libro in sé, pur interessante e con alcuni spunti che tratterò, ha il primo grande pregio di essermi stato donato inaspettatamente in una libreria di Lisbona dal sapore francese (per gli amanti della precisione, la Fnac del Chiado). Il secondo, è quello di avermi insegnato (e vedete che non si smette mai di imparare) la differenza tra una raccolta di racconti, ove si collazionano testi dell’autore, solo perché sono scritti dalla stessa penna, da un libro di racconti, dove gli stessi hanno una genesi ed un’unità di intenti trasversale. Come questo (così come ci spiega il Diario), nato intorno all’idea di un cambiamento, di una modificazione del proprio agire, di fronte ad un qualche atto esterno. E questo esplorano i quattro pezzi di bravura del testo. Il primo (“L’avvelenatrice”) ruota intorno alla strana figura dell’anziana Marta, accusata di aver avvelenato i suoi tre mariti per ereditarne le fortune, ma uscita innocente dal processo. Non entro nelle descrizioni collaterali (anch’esse piene di spunti, come l’utilizzo mediatico dell’orrore, e via discorrendo). Ma la nostra Marta entra in crisi quando incontra il nuovo prete del paese, a cui in confessione ammette gli assassinii. Da qui la lotta verbale tra il prete che vuole ripulirne la coscienza facendola confessare pubblicamene, e Marta che rimane sulle sue posizioni, ritenendo la vicenda solamente una questione privata. Ovviamente non vi dirò (né qui né negli altri) quale sarà lo scioglimento della vicenda. Il secondo (“Il ritorno”) è invece incentrata sul lungo processo interiore che si fa il marinaio Greg, un “tosto” canadese sempre in giro per i mari del mondo, meccanico su grandi navi. Lavoro che gli consente di mantenere la sua famiglia (moglie e quattro figlie), residente a Vancouver (questo solo perché, come ci confessa Schmitt alla fine, il racconto l’ha scritto in Canada durante una tournée promozionale). Durante il ritorno a casa, arriva un messaggio a Greg: “Vostra figlia è morta!”. Poi le comunicazioni cessano per il cattivo tempo, ed allora seguiamo il susseguirsi dei giorni in attesa dell’arrivo, in cui Greg passa in rassegna le sue figlie, il modo con cui le tratta quando sta a casa, il voler bene all’una piuttosto che all’altra. L’augurarsi, o il temere, che sia morta quella piuttosto che questa. Il ritrovarsi ben presto come davanti ad uno specchio, ed interrogarsi non solo sulle figlie ma su tutta la propria vita. Un crescendo angoscioso, che seguiamo con lo stesso spirito smarrito di Greg. Che dilemma! Il terzo è quello che dà il titolo al libro, perché il nocciolo è quello che fece scaturire in Schmitt l’idea. Abbiamo due giovani musicisti, sui vent’anni, uno, Chris, pianista ed arrivista, l’altro, Axel, violinista ed etereo, quasi incurante del mondo, capace di suonare in modo divino il concerto del titolo (che tra l’altro non è un pezzo facile, composto da Alban Berg poco prima della sua morte, quasi fosse un suo requiem personale). Per una serie di circostanze, che non stiamo qui a narrare, Chris vede Axel in pericolo di vita, mentre sta annegando. Ma per vincere il suo premio, ne fugge, incurante di cosa possa accadere. Passano venti anni, e ritroviamo Axel che, non morto ma paralizzato, diventa uno squalo del commercio, e finalmente ritrova Chris, che, colpito dalla propria cattiveria, ha deciso di dedicarsi agli altri, diventando aiuto in una scuola per ragazzi difficili e fisioterapista per anziani. Da lì nasce il confronto, appunto di due vite cui un avvenimento ha sconvolto l’esistenza, invertendone il corso. Ma, direi, non cambiando i loro caratteri. Che Chris mette la stessa tenacia nell’aiutare gli altri come prima la usava per primeggiare. Sarà un confronto duro, che non potrà che mettere in luce tutti gli aspetti di questa conflittualità del cambiamento. L’ultimo infine (“Un amore all’Eliseo”) rischiava di essere una parodia di Carlà e Sarkò, ma fortunatamente Schmitt riesce ad usare altre armi. C’è il Presidente francese con una bella moglie. Ma lui la tradisce. Lei non lo ama più e conosce non pochi altarini che lo possono mettere in difficoltà. Assistiamo alla loro lotta senza esclusione di colpi, ma anche senza che ne trapeli nulla all’esterno. E poi l’elemento di rottura. Catherine si ammala di tumore. Il Presidente briga per un secondo mandato e lei si ricovera in clinica per terapie forse inutili. E lì scrive un libro misterioso. Cosa conterrà? Lo smascheramento del fedifrago? Elementi di un riscatto morale? Chi ne verrà cambiato? In tutti i racconti, poi, compare, ad un certo punto, la figura di Santa Rita. Vuoi un santino, vuoi un testo, vuoi una statuetta. E trasversalmente apprendiamo anche la figura di questa santa delle cause impossibili (consona ai testi, ma che a me rimanda anche ad uno studio di avvocati a lei dedicato che incontrai in Bolivia lo scorso anno). Certo, in Schmitt è sempre presente quel rapporto con il divino, che affascina la mente ed intriga il pensiero. Lui non nega, anzi afferma con forza, la sua cristianità. Ed affronta a piè sospinto l’impasse tra determinismo celeste e volontà umana. Ma non disdegna (forse non qui, ma in quasi tutte le sue opere) di utilizzare lo stesso metro di indagine verso le altre religioni (ricordo il bellissimo “Ciclo dell’invisibile”, con l’analisi progressiva di passaggi sull’islam, sull’ebraismo, sul cattolicesimo, sullo zen, sulla meditazione). Ma anche se non eccellentissimo, anche questo l’ho trovato un testo da leggere. E su cui tornare per meditare appunto sulla domanda relativa ai cambiamenti. Ed anche su quella di fermarsi, nella nostra caotica vita, ogni tanto a pensare che poi, questa, è la vita che stiamo vivendo. Non un'altra.
« Quand devenons-nous celui que nos devons être? » [Quando diventiamo colui che dobbiamo essere ?] (124)
« Il en est des destins comme des livres sacrés : c’est la lecture qui leur donne un sens. Le livre clos reste muet ; il ne parlera que lorsqu’il sera ouvert ; et la langue qu’il emploiera sera celle de celui qui s’y penche … Les faits sont comme les phrases du livre, ils n’ont pas des sens par eux-mêmes, seulement le sens qu’on leur prête. » [Il destino è come per i libri sacri: la lettura dà loro un senso. Il libro chiuso rimane in silenzio, parlerà solo quando sarà aperto, e il linguaggio che utilizzerà sarà quello di chi vi si dedica ... I fatti sono come le frasi nel libro, non hanno senso da sé stesse, ma solo il significato che viene loro attribuito.] (190)
« Je suis sensible à une chose dont j’entends peu parler : la juste taille d’un livre … Chaque histoire a une densité propre qui exige un format d’écriture adapté. » [Sono sensibile a qualcosa di cui sento poco parlare: la giusta dimensione di un libro ... Ogni storia ha un peso specifico che richiede un formato adatto di scrittura.] (210)
« À vingt ans, nous sommes le produit de notre éducation mais à quarante ans … le résultat de nos choix. » [A venti anni, siamo il prodotto della nostra educazione, ma a quaranta ... il risultato delle nostre scelte.] (212)
Jean-Christophe Rufin « Asmara et les causes perdues » Folio euro 7,10
[A: 02/02/2012 – I: 11/02/2013 – T: 15/02/2013]
[titolo: originale; lingua: francese; pagine: 299; anno 2001]
Mi aspettavo, dato l’autore ed il possibile contesto, un libro diverso. Non che quello che ho trovato in queste pagine non sia interessante, ma non mi ha coinvolto, commosso, motivato, come altro che ho letto di questo strano personaggio, dottore, scrittore, vagabondo e ambasciatore, e comunque da sempre impegnato in società ed azioni umanitarie (dal servizio civile come ginecologo in Tunisia, ad attivista in Eritrea alla fine dei ‘70, a presidente di Medici Senza Frontiere, poi fondatore di Action contre la faim negli anni ’80 e ’90, nonché redattore di svariati dossier sulla carestia nel mondo, l’anti-semitismo, ed altre piaghe). In effetti, speravo di trovare ancora le gesta del farmacista del negus, come nei due primi romanzi che ho letto. D’altronde anche questo si muove negli altopiani etiopici ed eritrei, laddove si spera che ci condurrà prima o poi il nostro spirito vagabondo, ma l’autore intende inviarci un messaggio, e, come spesso nei romanzi a tesi, in alcuni punti risulta un po’ forzato. O meglio, meno scorrevole: si deve arrivare ad un assunto, e si forza un po’. Certo Rufin è maestro nel saper utilizzare la scrittura (non a caso nel 2008 entra nell’Académie Française) e di sicuro conosce sia l’Eritrea che le organizzazioni umanitarie. Imbastisce così una storia che si dovrebbe reggere su un doppio binario: il romanzo in prima persona, a mo’ di diario che ci narra Hilarion Grigorian, armeno d’Eritrea, e le vicende di una non meglio identificata organizzazione umanitaria (del tipo Emergency, per intenderci). Siamo nel 1985 ed Hilarion, nato con il secolo, sta senza particolari sussulti avviandosi alla fine della sua vita. Una vita intensa, dove ha visto morire due figli, una moglie, ha visto le sue terre invase dagli italiani negli anni trenta (italiani che vi rimarranno “insabbiati”, termine locale che indica gli invasori che decidono di rimanere sul posto), ed ha passato la vita ad esercitare il mestiere di trafficante d’armi, commerciando un po’ con tutti, dittatori e rivoluzionari, destre e sinistre. In questo crepuscolo di vita, ha uno sprazzo di vitalità in seguito all’arrivo di Grégoire, un logista di un’ONG, che viene ad impiantare un ospedale negli altopiani eritrei dell’interno. Hilarion fa in modo di coinvolgerlo al fine, come dice ad un certo punto, di “studiarne i comportamenti come un entomologo”. Lo circonda di attenzioni, gli fornisce supporto, poi consiglio. Lo blandisce e lo spia. Lo aiuta ma cerca anche di guidarne la giovane irruenza ponendo ostacoli al suo cammino. Hilarion sa (ma non lo dice) perché l’ONG è ben accetta in questo anno di grande carestia. I dittatori etiopi, dalla lontana Addis Abeba, hanno sfruttato lo sfruttabile, ed hanno poca credibilità. La terra del Sud non da più frutti ed è sovrappopolata. La terra del Nord è semideserta e potrebbe essere sfruttata. Allora imbastiscono un grande gioco di deportazione tra le diverse zone, con la scusa della carestia. E per coprirsi con foglie di fico cercano di coinvolgere appunto le ONG, che, adoperandosi per alleviare la fame, acconsentono di fatto, alle deportazioni. Hilarion sa tutto questo, ma non ne parla. Come sa che Grégoire ha un legame con una bella etiope. O che la dottoressa in capo se la intende con un ras locale. O l’infermiere ha più amici tra i ribelli che tra le forze governative. Non fa nulla. E guarda i soldati ufficiali rapire la bella Esther e tutte le donne degli occidentali, perché tutte le ONG sarebbero intenzionate a denunziare i complotti della capitale. Mette allora in contatto Grégoire con il capo dell’esercito, e i due arrivano ad un compromesso: l’ONG resta in cambio della liberazione di Esther. Da qui la storia si fa un po’ moscia, che Rufin mette in mezzo intrighi e morti (d’altra parte li ha di certo vissuti sul campo nei suoi decenni sui vari fronti umanitari). L’esercito occupa l’ospedale. I ribelli lo liberano, ma tengono Grégoire in ostaggio. Fin a che tutto si risolve con la partenza di tutti gli stranieri, e con il nostro Hilarion di nuovo solo ed in attesa di raggiungere moglie e figli. Il lato romanzo è abbastanza ben articolato, anche se non coinvolge moltissimo. Il lato ONG è sviluppato meno bene, pur tuttavia ponendo delle domande cruciali, che credo Rufin abbia affrontato per molti anni: fino a dove c’è compromissione tra ONG e stati ospitanti? Se le azioni delle ONG tendono a coprire misfatti governativi, fino a quando è possibile mantenersi neutrali? Emergency aveva trovato una via d’azione in tutto ciò, impiantando ospedali e curando i malati, da qualsiasi parte provengano. Ma anche lì, e le cronache ce lo dimostrano, non sempre è stato facile mantenere questo equilibrio. Fatto sta che, con il senno di poi, sappiamo che quello narrato è poi l’inizio della guerra d’indipendenza eritrea, che si concluderà con la divisione dall’Etiopia più di dieci anni dopo. Resta questo romanzo-tesi di Rufin, che preferisco quando separa i due piani, con i romanzi puri, come l’Abissino, o con i saggi dedicati ai problemi della fame nel mondo. Leggibile, ma, come detto all’inizio, mi aspettavo qualcosa di meglio. E con un ultimo punto di critica: a pag. 42 l’autore sostiene che gli italiani insabbiati mangiano a pranzo un formaggio chiamato caccia-cavallo, quando ben sappiamo che il vero nome è cacio-cavallo!!!
“Nous, marchand d’armes, ne cherchons pas à influencer le cours des événements. Nous n’avons jamais eu ni protégé, ni idéal, ni ambition propre. Nous sommes au cœur de l’Histoire, sans la faire. Comme les humanitaires.” [Noi, trafficanti di armi, non cerchiamo di influenzare il corso degli eventi. Non abbiamo mai avuto né protetti, né ideali, né ambizione. Siamo nel cuore della Storia, senza farla. Come le organizzazioni umanitarie.] (114)
“Grégoire m’a cité un proverbe éthiopien … Si tu es habile de tes mains, tu seras esclave ; si tu es habile de la langue, tu seras roi.” [Gregorio mi ha citato un proverbio etiope ... Se sei bravo con le mani, sarai schiavo, se sei bravo con la lingua, sarai re.] (126)
Essendo ancora (e felicemente) in trasferta, mi scuso se qualche indirizzo qua e là salta. Come detto ho cercato di sincronizzare tutto, ma la fretta è stata cattiva consigliera. Ma i lavori procedono alla grande, e si avranno presto novità. Speriamo anche altrove.

domenica 10 febbraio 2013

Donne di carnevale - 10 febbraio 2013


Ma non “da carnevale”. Che non c’è niente da ridere in questo quartetto femminile che viene alla ribalta. Son libri veloci, direi agili, si leggono bene, in fretta ma non con fretta. E di diversa uscita. Due ritorni: sempre un buon livello l’inventrice delle minne, anche se qui lascia qualche punto per la vaghezza di alcuni spunti di racconto, meno efficace del primo il racconto lungo di Benedetta Cibrario. Una scoperta, la Veladiano, ed una promessa di miglioramento, la Seminara.
Giuseppina Torregrossa “Panza e prisenza” Mondadori euro 10
[A: 16/09/2012 – I: 30/10/2012 – T: 01/11/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 189; anno: 2012]
Un libro che mi suscita echi passati, e che regge lettura ed interesse per la prima metà. Poi decade, lasciando alla fine un sapore un po’ di incompiutezza. In ogni caso, nel complesso l’ho trovato dignitoso e leggibile. Con un glossario siculo - italiano finale di cui sarà contenta mia madre che da anni mi chiede un vocabolario di siciliano per poter leggere al meglio il suo amato Montalbano. Cominciamo allora con gli echi passati, che mi ha ricordato, nel suo impianto, un mio vecchio tentativo letterario, un piccolo racconto, contrappuntato, in alcuni punti salienti, non solo da indicazione di piatti, ma anche delle loro ricette. Così come fa la nostra Giuseppina, che la sua decina di piatti in contraltare alla vicenda, ce li narra e ce li spiega (bellissimo quello della pasta con “i sardi a mare”, cioè una pasta con il sugo fatta per i pesci, i sardi, ma che essendo poveri non li abbiamo comperati e sono rimasti in mare). Vicenda che, questa volta, non gira intorno alle minne, come i precedenti romanzi, ma che comunque si àncora e si svolge nella Palermo a lei cara. E diciamo anche a noi, che, a parte il cibo, ci permette di scorrazzare sui Quattro Canti, sulla sfilata di santa Rosalia, sui babbaluci (le lumache), su Ballarò, nella Kalsa, dentro i giardini e sul lungomare (e mentre giriamo, io intanto mi fermo alla bellissima chiesa gotico – catalana di Santa Maria della Catena). E parlando dell’oggi e della Sicilia, non si può che toccare silenzi e malaffare. Lo seguiamo, questo oggi, attraverso la vicenda intrecciata di tre poliziotti: il questore Gaetano Lobianco, l’ispettore Rosario D’Alessandro detto Sasà e il commissario (anzi la commissaria) Maria Teresa Pajno detta Marò. C’è un morto eccellente, un avvocato di quelli palermitani di peso. Che difende mafiosi e mafiosetti, ma che maschera altre attività facendo anche l’avvocato d’ufficio per non abbienti. Insomma, un uomo d’eccellenza. Che viene ucciso a bastonate all’uscita del Palazzo di Giustizia. C’è un latitante che si nasconde (soffiatina mafiosa) in un paese dei dintorni di Palermo. E ci sono loro tre, un’amicizia di ferro, suggellatasi sul campo durante un periodo in cui erano destinati alla caccia dei banditi in Aspromonte. Con Marò che vuole bene ad entrambi, ognuno per un suo lato caratteriale (la forza virile dell’uno e la carnalità dell’altro, e poi discettiamo quale sia il lato migliore), e non sa decidersi con chi intavolare un rapporto, rimanendo quindi insoddisfacentemente sola, seppur ben amicata. Lobianco è l’unico che fa carriera, e cerca di proteggere i suoi due amici, affidando a Marò il caso dell’avvocato ed a Sasà quello del latitante. Entrambi fanno un percorso ortogonale alle indagini ufficiali, scontrandosi con le roccaforti del potere. Entrambi trovano la soluzione ai due misteri, ma non potranno (non vorranno? non riusciranno a?) portare a compimento quanto trovato e dedotto. Entrambi si troveranno inoltre ad affrontare altri macigni, che non sono solo quelli pubblici, ma spesso (ohi quant’è vero) quelli privati. Tra una pasta ed una festa di Santa Rosalia, ribadendo che tra amici, quando si è invitati, si può portare, come da titolo, “panza e prisenza” (espressione dialettale per designare chi, invitato, si presenta a mani vuote), la vicenda srotola fino alla sua fine dolce-amara. Ripeto, la prima parte era decisamente accattivante. E così rimaneva la presenza delle ricette. La seconda scade di tono e di tensione. Porta i nodi a sciogliersi, ma non i capelli a non essere aggrovigliati (immagine confusa per ribadire il ritrovamento della soluzione ma non il perseguimento della sua giusta causa). E questo fa cadere un poco il giudizio complessivo. Anche se gli scritti della palermitana trapiantata a Roma continuano ad essere una gradita scoperta dell’ultimo periodo.
“La salute … l’unico bene che non possiamo comprare.” (99)
Mariapia Veladiano “La vita accanto”  Einaudi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 10/11/2012 – I: 14/11/2012 – T: 18/11/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 163; anno: 2011]
Questo libro l’avevo un po’ messo in una parte della testa, avendolo regalato ma non avendolo preventivamente letto (ed in genere ciò è contrario al mio modo di fare). Trovandolo in offerta, mi sono quindi deciso ad affrontarlo. Ora, devo dire che il giudizio complessivo, pur con alcuni punti “oscuri”, è senz’altro positivo. Per la storia, per il modo di narrarla, per la presa che fa sul lettore. Intanto, segna l’esordio narrativo della scrittrice vicentina, che si aggiudica subito il Premio Calvino con quest’opera. Buon segno, sia il premio, che in genere ha una sua assegnazione non troppo viziata da “gruppi di potere”, sia per il fatto che (ora che scrivo al termine della lettura) l’autrice è e narra di Vicenza, città che non conosco e spero conoscere meglio a breve (ed a valle della mostra alla Basilica Palladiana). I personaggi si aggirano tra case, strade, monumenti e chiese, ma soprattutto lungo il fiume Retrone ed all’ombra del monte Berico. Anche se poi di personaggi ne abbiamo pochi, che tutto ruota intorno all’io narrante, dove seguiamo la storia di Rebecca. Nasce da una famiglia abbiente, ma che ha un grosso problema, sul quale si avviluppano le vicende. È brutta. Ora, si dirà che non solo molti bambini non nascono particolarmente “belli”, ma la sua bruttezza (che ci viene narrata come insormontabile) ne condiziona le vicende. La madre si rifiuta di vederla, di starle accanto. Anzi si chiude in sé, in un mondo tutto suo. Scatenando complessi tali nella povera Rebecca, che non supererà mai. La povera avrà sempre la sensazione di una sua colpa. Ma forse le colpe sono altre. E la madre, verso i dieci anni della nostra, si getta nel Retrone. Brutta che il padre non vuole farla uscire. Lo farà solo costretto per mandarla a scuola. Dove suscita l’orrore dei compagni di classe (ahi la cattiveria dei bimbi). A parte nella grassa Lucilla, con la quale costituirà un sodalizio di mutuo soccorso. Rebecca silente e Lucilla logorroica. Fino a perderla, la buona Lucilla, quando, per cause strane ci scappa un morto, e l’amica sparisce per farsi viva solo anni ed anni dopo, alla chiusura della vicenda. Brutta per la zia Erminia, gemella del padre, che sembra prodigarsi in suo favore, ma con quella carità pelosa, che fa più male che bene. Ed anche la zia ha ed avrà le sue colpe, anche se questa parte viene come lasciata in ombra dalla scrittrice. C’è qualcosa, ma non se ne saprà mai abbastanza. L’unico punto a favore della zia, è lo scoprire l’abilità musicale della piccola Rebecca. Che suona il piano come raramente fanno i suoi coetanei. Che dovrebbe andare al conservatorio, ma ci andrà in ritardo (tanto è brutta, e la vita non la vive ma le scorre accanto). Fortuna che c’è la buona tata Maddalena, l’unica che la protegge da tutti questi cattivi. Anche se a volte, la troppa protezione lascia poco spazio allo sviluppo in proprio del sé “autentico”. E fortuna che c’è la signora De Lellis, madre concertista del suo maestro al conservatorio. Signora che sa più di quello che sembra. Che conosce molto di Vicenza e dei suoi personaggi. Nelle cui grazie entrerà Rebecca, facendosi largo a poco a poco. A furia di suonate e di silenzi. Ed in questo lungo percorso, sempre ai margini della vita, Rebecca riuscirà, bene o male, a ricostruire le sue storie. La storia della madre, che riuscirà a recuperare nel suo ricordo, anche se ormai non c’è più. La storia del padre e della zia, da cui si allontanerà, un giorno definitivamente. La storia di Lucilla, che le tornerà vicino per non lasciarsi amicalmente più. E che le farà dono del futuro, trovando un  modo di coniugare la sua arte con il suo aspetto. Non vi dirò come, un po’ di suspense, e di invogliamento alla lettura, ci vuole. Alla fine, forse, avrei fatto un po’ più di chiarezza, ma va anche bene così (in fondo la scrittrice è lei, non io). La scrittura rende. E la bruttezza diventa archetipo del disadattamento alla vita, dell’assumere molti (troppi) mali su di sé, del percorso interno che ci deve portare a superare i nostri handicap (reali o presunti). Insomma, una buona seppur dolente lettura.
Benedetta Cibrario “Lo scurnuso” Feltrinelli euro 13 (in realtà, scontato a 9,75 euro)
[A: 10/11/2012 – I: 23/11/2012 – T: 25/11/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 188; anno: 2011]
Una prova onesta. La scrittura è quella che si conosce della scrittrice: scorrevole, abbastanza piena di rimandi, con un approccio di empatia verso la vicenda di cui si va narrando. È uno stile che mi risuona, che mi rende piacevole leggere lo scritto. In questo romanzo, che poi sembra più un racconto lungo, od un intreccio di varie situazioni, Benedetta Cibrario offre un (neanche tanto velato) omaggio alle sue radici, alla sua nonna napoletana ed alle storie che si venivano raccontando in gioventù. È quindi uno scritto che sa molto di Napoli, ma lo si affronta con quel carattere un po’ onni-descrittivo che ho gradito nel precedente “Rossovermiglio”. Si parla di un fatto, e poi gli si agganciano spiegazioni e conseguenze. Quello che manca è una continuità di descrittività. Come se si raccontassero alcuni episodi (racconti collegati direbbe Schmitt), ma si lasciano delle zone non chiarite, dei passaggi volutamente celati. Il mondo di cui si narra, almeno per la maggior parte delle pagine, è quello legato ai “pupari”. Un’istituzione, nel Napoletano, come ben ci si accorge facendo delle passeggiate ancora oggi per San Gregorio Armeno. Quegli scultori o quelle botteghe artigiane che confezionavano e confezionano le figure del Presepe. Da quelle classiche (animali, pastori, re magi, oltre al nucleo centrale) a quelle di contorno e scenografiche (il venditore, la campagnola, la signora, e chi più ne ha più ne metta). Seguiamo nella prima fase il decadimento di un puparo classico, Tommaso, che vede infiacchirsi giorno dopo giorno le proprie mani, per troppi anni a contatto con argilla bagnata. E con l’avanzare dell’età. Un artigiano senza troppe pretese, che, per pagamenti insolventi, si vede offrire un ragazzino di bottega, Sebastiano detto Portualle (cioè arancio inteso come albero sicco e lungo in dialetto). Che dimostra un vivo talento nel disegno, che Tommaso non riesce a mantenere per la sua povertà, che vende ad una famosa bottega, dove Sebastiano impara l’arte, si innamora, cresce. Ed alla morte di Tommaso, realizza una cosiddetta “accademia”: cioè un gruppo che va sempre tenuto insieme. Dove c’è lui giovanetto, la bella Maria, e Tommaso dolente sul letto di morte. Un Tommaso che si vergogna della sua miseria, che, come si dice in dialetto, “si fa scuorno”, tanto che il pezzo verrà chiamato “lo scurnuso”. Saltiamo 150 anni, e nella Napoli pre-bellica troviamo un diverso puparo, un riparatore di statuine, cui il mestiere non dà da vivere (per cui fa l’impiegato) e che nel tempo libero si dedica ai presepi. E soprattutto a quello del duca di Albaneta, che tra i suoi pezzi forti ha proprio lo scurnuso. Qui si innesta una diversa vicenda: quella di Giovanni e Annina, popolani e riparatori di statuine; quella del duca, della sua passione per i Presepi (tanto da farne un momento epico nei dintorni del Natale), quello del figlio sposatosi con un’ebrea, e quindi con l’avanzare dei problemi legati al fascismo ed alla guerra; quello del cardinale Belmonte, diventato prete per fuggire dall’oppressa Calabria, e che proprio nei Presepi trova la sua realizzazione. Fino a che il duca, per salvare il figlio è costretto a vendere tutto (presepe e Giovanni) al buon cardinale. Facciamo un salto di altri 50 anni, per ritrovare, unico salvatosi dai bombardamenti su Napoli, lo scurnuso nelle mani di una giovane italo-americana in quel di Sorrento. Niente altro. Solo dei piccoli tocchi d’acquarello. Quello che è mancato, a me, è un filo, una spiega che non facesse cadere nell’oblio Portualle, il duca, o Giovanni. Che invece ad un certo punto scompaiono, vanno in dissolvenza, se fossimo in un film. Rimane un senso piacevole di compagnia, soprattutto pensando allo scurnuso che fa da tramite in tutti questi balzi temporali. Ma avrei preferito qualche parola in più, mentre così rimane sospeso, incompiuto. Soprattutto l’ultima parte, quella “moderna” che non si risolve, e non dona elementi di comprensione. Quindi, ripeto quello che ho detto all’inizio: una prova onesta, ben sviluppata, ma alla fine claudicante. Piacevolmente rileggo solo i punti dove ci si aggira per Napoli, tra Montecalvario e Toledo, i bassi ed il lungomare. Un giorno si riuscirà a parlare ancora di Napoli, dei suoi splendori borbonici e delle sue miserie presenti.
“Una voce interiore le dice che le uniche cose che perdiamo realmente sono quelle che noi stessi consideriamo perdute.” (170)
Elvira Seminara “I racconti del parrucchiere” Gaffi editore euro 7,50 (in realtà, scontato 6 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 12/01/2013 – T: 17/01/2013]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 104; anno: 2009]
Un libro di racconti che occupa poco spazio, con punti a favore, fortunatamente, ma anche qualche elemento non direi negativo, ma di poca resa, questo sì. Intanto cominciamo con ringraziare la strana e poco diffusa rivista “Satisfiction”, che alla settima uscita mi segnalò questo libretto. Ne presi atto, anche perché faceva parte di una sezione della rivista che mi aveva incuriosito: “Soddisfatti o rimborsati”. Recensioni: se la critica di Satisfiction ti convince a comprare il libro, ma dopo averlo letto ritieni che l’entusiasmo di Satisfiction ha deluso le tue aspettative, invia una mail che spieghi perché il libro che Satisfiction ti ha segnalato non era veramente “imperdibile e assolutamente da leggere”: Satisfiction ti rimborserà il prezzo di copertina. Con questa premessa, come non leggere? E devo dire che, anche se non imperdibile, sicuramente il libro è da leggere. Secondo punto positivo, le poche note in contro-copertina dell’editore, che rinuncia al copyright, lanciando un “copyleft”, ovviamente per usi non commerciali. Onore ad Alberto Gaffi, quindi, per la coerenza (se poi volete una nota sul copyleft ve ne parlerò un’altra volta che ne diventai esperto durante il GARSS ed anche di questo se ne riparlerà). Infine la giovane autrice di questi racconti coerenti. Anche se sapete che i racconti non sono il mio massimo di lettura, devo riconoscere che a volte c’è del sugo nel leggerne. Soprattutto se, come mi insegna l’amato Schmitt, e come ben fa la scrittrice, sono racconti “coerenti”, legati da un filo comune. Che qui si snoda attraverso le note dei parrucchieri per signora. Tutti e tredici i racconti ne sono toccati. Perché (come nel primo che dà un bel tono alla raccolta) la protagonista fa la sciampista. O perché la signora va dal parrucchiere per tradire il marito. O per farsi i capelli, da gay di mezza età, per andare al funerale del suo amore morto di AIDS. O per cambiare faccia, da immigrata ucraina, per fuggire da una vita da colf verso un’improbabile vite da escort a Parigi. O la signora anziana che si addormenta sotto il casco e fugge con la mente verso amori in realtà mai vissuti. Inutile citarli tutti, mi sembrerebbe un catalogo poco utile, per chi voglia prendere questo libretto e sfogliarlo con calma, senza fretta. Magari tenendola al bagno, vicino ai supplementi dei giornali. Leggendolo come ho fatto io in metropolitana, appoggiato ad una parete per arrivare dall’altra parte di Roma. Come si diceva tutte storie che passano per bigodini e phon, con personaggi per lo più senza nome (a parte Milly la sciampista), ma di cui ricordiamo un particolare, una mancanza di taglio, un colore intenso, un asciugamano sui capelli bagnati. Quello che manca, a volte, è l’intensità. O la drammaticità. Non che non siano intensi o drammatici, ma lo sono a volte in maniera ellittica, con quel vezzo di dire e non dire che assumono spesso giovani autori in cerca di “aura misteriosa sulle parole del nostro cuore” (citazione altra ed altera). Ed anche quella tonalità straniante dove l’attacco del racconto sembra portare verso orizzonti ironici e scanzonati, per poi non farcela e farci piombare verso la dura realtà del quotidiano. Niente ironie, niente sorrisi. Non sembra questo il momento storico per farne. Anzi, la realtà è dura. E tutti ne sembrano dolorosamente consapevoli. Questo l’ultimo punto che non condivido. Questa in fondo mancanza di speranza, caduta delle illusioni, vicoli ciechi che ci avvolgono. Certo, è molto così, cara Elvira, ma anche no. Anche qualcosa di mezzo pieno c’è nel decidere che per consolarci del tradimento coltiveremo basilico in balcone. Magari non sarà risolutivo, ma gli spaghetti al sugo avranno un altro sapore.
Un altro piccolo viaggio italiano (a parte i racconti ultimi) che mi ha fatto (ri-)toccare Palermo, Vicenza e Napoli. E che consiglio a tutti: abbiate tempo per vedere anche la piccola Italia, prima che anch’essa scompaia sotto le prossime colate di cemento. Sperando che nere profezie non si avverino. Ed intanto proseguono lavori e trasferte, con soddisfazione (mia) per entrambi.

domenica 3 febbraio 2013

Trame in trasferta - 03 febbraio 2013


Come i più attenti dei miei lettori sanno, questo febbraio è improntato sulla trasferta. La mia, per i motivi casalinghi noti, che speriamo sia lunga il giusto. La mancata, che non si parte (ancora) per nessun dove. E questa di scrittura, dove si torna al Nord, in quel di Svezia, con il solito, ottimo Mankell, una prova onesta di Nesser, ed una speranza per questa Larsson che sembrava promettere assai, ma che per ora non mantiene molto.
Henning Mankell “L’uomo inquieto” Marsilio euro 14 (in realtà, scontato 10,50 euro)
[A: 06/11/2011 – I: 26/10/2012 – T: 31/10/2012]
[titolo: Den Orolige Mannen; lingua: svedese; pagine: 557; anno: 2009]
Veramente un bel libro, complesso, forse a volte troppo lento. Ma credo che Mankell sia riuscito in un’operazione multipla di notevole valore e interesse. C’è la trama poliziesca, incentrata sulla scomparsa, a distanza di poco tempo, dei coniugi van Enke. C’è la trama politica, che detta scomparsa si inquadra e si mescola con la vita politica di almeno 30 anni della vita svedese. C’è un accenno di sociale, che scende dal politico e ci porta squarci della vita vissuta dai diversi starti della società svedese. C’è la trama personale, del commissario Wallander che, come tutti, invecchia, si pone domande su di sé e sulla sua vita, intrecciandosi ancora di più, tra personale e politico, dal momento che gli scomparsi non sono altro che i genitori del futuro sposo della figlia del commissario. E Mankell, dopo aver ben appreso e digerito i modi espressivi lanciati su queste tematiche dalla coppia Sjöwall & Wahlöö, di cui tanto ho parlato, li fa suoi, costruendo un rimarchevole romanzo. Ripeto, certo, a volte è lento nella carburazione. Ma è come se volesse darci il senso e la misura del pensiero del nostro amico commissario, che ormai ha raggiunto i 60 anni (ne vogliamo parlare? E vogliamo sottolineare quanto di personale lo scrittore ci ha inserito, visto che mentre scrive il libro, anche lui doppia la boa dei sessanta?). Ma io in questa sede parlerei solo dei due filoni principali (la scomparsa e l’invecchiamento). Certo a noi da lontano sembra tanto facile la Svezia, anche un po’ stereotipata. Benessere, libertà di costumi (quanti ragazzi andavano fin lì per le belle signorine, anni ed anni fa?), neutralità. Poi… poi si scopre, ad esempio, che l’omicidio di Olof Palme non è mai stato risolto. E Palme non è che fosse un politico qualsiasi, ma era il Primo Ministro in carica. E poi la Svezia come teatro di grandi operazioni di spionaggio. Ovviamente dalla vicina Unione Sovietica. Ma anche dai lontani (solo geograficamente) Stati Uniti. Hakan van Enke era un alto grado della Marina in pensione. E misteriosamente, poco dopo un colloquio sulle vicende politiche degli anni ’80 con Wallander, scompare. Così come scompare, ma solo quattro mesi dopo, la moglie Louise. Indagini, con quel seguire le vicende giorno per giorno, in una presa diretta dilatata, ma reale. Non affidate al nostro, che tra incidenti ed altro, sta a riposo nella sua nuova casetta di campagna (suo sogno della maturità). Ma è Wallander che pensa, ricostruisce, cerca i vecchi amici degli scomparsi. Ha il primo shock quando viene ritrovata morta Louise, con dei microfilm nella borsetta. Era forse una spia? E per chi spiava dei due grandi? E Hakan come si colloca? Viaggia per l’Europa (mi sorprende una visita a Berlino in auto, ma in effetti, dalla Scania non è così distante). Ed alla fine, dopo pagine e pagine in cui si fa giocare dagli specchietti per le allodole che vengono seminati lungo il percorso, trova il bandolo, il perché ed il come. Tutto non senza coinvolgere (ma qui ci addentreremo troppo in terreni poco noti) le politiche e le vicende appunto di trenta anni di storia svedese. In parallelo, avanza l’età. Inizia le indagini ancora cinquantanovenne, e poi le termina oltre il sessantesimo. Interrogandosi sugli acciacchi, sull’avanzare del diabete (che però riesce a controllare), sui momenti quasi campanelli da Alzheimer in cui si ritrova a chiedersi dove sia e cosa stia facendo. Mankell ci fa capire che anche quello è il suo tormento, di non accettare il passare degli anni (e consiglio a lui ed a tutti noi di leggere e rileggere “La forza del carattere” di Hillman). Solo l’esistenza della progenie da un senso, a Mankell ed Wallander, del prosieguo della vita. C’è la figlia Linda. Ed ora anche la nipotina Klara. E mentre porta avanti le indagini, Mankell ci fa anche un riassunto di tutto quello che è capitato al nostro commissario durante tutte le indagini (e ne ripercorriamo i capisaldi, non ultima la famosa storia d’amore con la lettone Baiba). Una summa, via. Per dirci che ora lasceremo il buon commissario trascorrere in pace il resto, speriamo lungo, della sua vita. Anche con il cane Jussi. Ma lontano dagli occhi della cronaca. E dai nostri. Addio, Kurt, è stato piacevole trascorrere degli anni a leggere di te.
“Quando era giovane, i tratti del viso erano quelli di sua madre, ma ora sembrava quasi che suo padre stesse per raggiungerlo.” (15)
“Non riusciva ad accettare di avere sessant’anni e di essere arrivato irrimediabilmente alla soglia della vecchiaia.” (73)
“- Si è ancora giovani a cinquant’anni? – Io ne ho sessanta … e a quest’età uno passa definitivamente la barriera al di là della quale c’è solo la vecchiaia.” (76)
“Un amore può sostituirne un altro, diventando anche il più importante della propria vita, ma il vecchio amore rimane per sempre.” (231)
“Non possiamo scegliere i nostri genitori.” (333)
“Alcuni anni fa ho iniziato a studiare i necrologi … Se mi capitava fra le mani un … quotidiano … la prima cosa che leggevo erano gli annunci mortuari.” (500)
“- Nessuno può fare qualcosa per fermare la vecchiaia. – Lo so … Ma talvolta ho come la sensazione che lamentarmi è l’unica cosa che mi rimane.” (555)
Håkan Nesser “L’uomo con due vite” TEA euro 9 (in realtà, scontato 6,75 euro)
[A: 19/01/2012 – I: 02/12/2012 – T: 06/12/2012]
[titolo: Berättelse om herr Ross; lingua: svedese; pagine: 446; anno: 2008]
Passa un anno per l’autore, ed ecco (dopo che ne parlai non molto tempo fa) che sforna una nuova avventura del commissario italo – svedese Barbarotti. Anche se, a ben vedere, sono quasi due storie che vanno in parallelo, per poi unirsi e risolversi. Non a caso il titolo originale era “La storia del signor Ross”. E non si capisce il motivo per cui l’editor abbia deciso di cambiare titolo. Forse per dare un tono di mistero ed un taglio giallo a qualcosa che è un po’ di più? Che infatti, come ho detto parlando del libro che richiama Kim Novak, nelle storie di Nesser il giallo in quanto tale, il “thriller procedurale” o altro, prende sempre meno piede, per lasciar spazio ad altre storie. Come in questa, che per più di metà vede soltanto il buon Ante Valdemar Ross come centro della vicenda. Un sessantenne che tutti descrivono come “palla al piede”, solitario anche in mezzo alla gente, al lavoro, in casa con la moglie e le due figlie di lei. Deluso dalle pieghe della sua vita. Segnato dal ricordo del padre suicida. Ross che, ad un certo punto, trova la possibilità di cambiare vita: una forte vincita al totocalcio svedese. E lui che fa? Non dice niente a nessuno, si licenzia, e compera una casa nel bosco, dove si rifugia (nelle otto ore di presunto lavoro). Dove può cercare di comprendersi. Dove fa le cose più semplici senza doversi giustificare, con se stesso o con gli altri. Questa improvvisa libertà gli consente di guardare fuori senza ansia, di fermarsi a guardare. Ah, cosa di meglio si può fare nella vita, se non affrontare tutto con i propri tempi e non con quelli degli altri. In questo momento di rifugio, improvvisamente, irrompe un’altra vita solitaria. Quella di Anna, fuggita da una comunità di tossici, tossica anche lei (anche se non allo stadio perso). Ed anche lei con dei ritmi che mal si accordano con quelli della società. Che la giudica dura ed isolata, mentre è solo una ragazza in pena. Che, lei ventenne, stabilisce un sodalizio di scambio con il sessantenne Ross. Lei canta e lui narra storie. Con una delicatezza reciproca commovente. Ma i tossici si sa hanno storie strane alle spalle. Ed il perfido Stefan (non a caso di origine croata) la trova, la vuole portar via. Ovviamente Stefan ha la peggio, e muore. Anne e Valdemar fuggono allora, in macchina, prima al sud, poi in Danimarca, e poi in Germania. E qui entra in gioco il nostro commissario, che si è sposato con Marianne (vedi “È tutta un’altra storia” alla fine), ma si è anche rotto un piede. Ingessato, viene coinvolto nella ricerca di Valdemar dalla richiesta della di lui moglie Alice. Nessun capisce perché è scomparso. Fino a che, ma passeranno giorni, trovano il cadavere di Stefan. E scatta la caccia prima a lui, poi alla coppia. Che tutti pensano siano una sorta di Bonnie & Clyde, mentre i due vorrebbero solo essere lasciati in pace. Ma nella fuga, Anne ha sbattuto la testa, e l’ematoma interno, a poco a poco, rischia di portarla all’altro mondo. Ross allora decide di attuare un piano, che avrà successo, per scaricare le colpe da Anne, per darle modo di uscire dal tunnel, ed altre positività, che almeno i giovani abbiano un futuro. Barbarotti, intanto, mattoncino dopo mattoncino, con l’aiuto della sua assistente Eva Backman, ricostruisce tutta la storia. Arrivando ad un passo da Valdemar. Ma senza incontrarlo mai. Il bello del romanzo è tutto qui, nei dettagli. Nella vita di Gunnar e Marianne, con i loro figli, la casa da mettere a posto, la Bibbia usata come I Ching, ed il loro amore; nei problemi familiari di Eva; nella storia della possibile “redenzione” di Anne; nella vita della cittadina inventata di Klymge; nei pensieri di Ross, nella sua lettura di un libro del rumeno Mircea Cărtărescu (autore reale, punta di spicco della Blue Jeans Generation romena degli anni Ottanta) e nelle sue meditazioni su quanto accade intorno (senza scordare un accenno criptico per molti, ma per me lampante quando parla di aborigeni, vie dei canti e non cita Chatwin). Valdemar alla fine si mostra l’unico che comprende cosa stia succedendo, e che ne interpreta anche i malori ed i disagi. A me dando comunque una chiave positiva, sulla possibilità, difficile ma reale, di essere. Di essere se stessi, e di tirar fuori lati di carattere forse scomodi agli altri, ma assolutamente, intrinsecamente, propri. Anche il mio rapporto con il libro è stato ondivago. Ho divorato l’inizio. Ho rallentato alla comparsa di Stefan. Ho tremato alla possibilità che tutto finisse male (anche se non è un libro consolatorio). Stavo per darne un giudizio sotto media, ma si è riportato in linea con un bel finale. Vediamo che uscirà fuori nelle future prove.
“Ci sono molte domande nella vita … ma solo tre importanti. Dove sei stato? Dove sei? Dove stai andando? Se sai rispondere a queste tre hai la vita nelle tue mani.” (162)
“Uno deve rendersi conto delle proprie possibilità, ma soprattutto dei propri limiti.” (216)
“Lui è fatto così, un burbero orso bruno che bisogna grattare un po’ sulla pancia perché si metta, per così dire, sulla lunghezza d’onda giusta.” (313)
Åsa Larsson “Il sangue versato” Marsilio euro 12,50 (in realtà, scontato 9,50 euro)
[A: 18/03/2012 – I: 09/12/2012 – T: 12/12/2012]
[titolo: Det blod som spillts; lingua: svedese; pagine: 399; anno: 2004]
Sembra quasi che la nostra scrittrice non riesca ad ingranare. Ha scritto un primo romanzo ambientato nella Svezia del Nord, in quel di Kiruna e dintorni, che sono anche la sua patria. Un mondo che conosce bene: il freddo, i grandi panorami, i rapporti con gli altri sempre tra grandi amicizie e grandi odi. Lì si innestava il ritorno a casa di Rebecka, un avvocato fiscale, che alla fine (per salvare dei bambini) è costretta ad uccidere il cattivo. Ora sono passati dei mesi, ma la nostra non si è ancora ripresa. E questo suo andare, discretamente imbambolata, per tutto il romanzo, senza aver mai un guizzo di azione in prima persona, sempre guidata da altri, lascia veramente un po’ spiazzati. Appunto non ingrana. Rebecka rimane prigioniera e bloccata delle sue paure. Certo, uccidere non deve essere un’avventura di quelle che si dimenticano in un baleno. Ma la nostra (che dovrebbe essere anche la protagonista) è sballottata per tutte le 400 pagine. Certo ha un buon rapporto con gli animali, e con Nalle il bimbo down. Ma gli umani sembrano essere fuori portata. Anche se, per casualità, torna nei dintorni di Kiruna. Ed in quella cittadina scopre che un pastore della chiesa locale, donna, è stata barbaramente assassinata. Le indagini le svolge l’altra nostra conoscenza, l’ispettore Anna-Maria Mello, che, con Rebecka, aveva risolto il precedente caso. Tra narrativa presente e flash-back scopriamo quindi i problemi della cittadina di J., molto vicina a Kiruna. Mildred Nilsson è un pastore che prende sul serio la sua missione. Che vuole portare gente in Chiesa. Che vuole risanare l’economia ecclesiastica. Insomma, è una che rompe le scatole a tutti. Anche perché la società svedese è molto maschilistica e manesca. E lei convince le donne maltrattate a ribellarsi. Si creano quindi due folte schiere, di amici e nemici. I primi capeggiati da Lisa, una donna ormai cinquantina, che, nonostante il pastore Mildred sia sposata, s’innamora perdutamente della sua forza e della sua umanità, tanto da diventarne amante. E poi c’è Mimmi ed il suo compagno Micke, e le donne del collettivo di aiuto Maddalena. I secondi guidati da Warse, da cui scappa la moglie, Lars-Gunnar che vede messo in pericolo sia il suo ruolo di capocacciatore che quello di padre sofferente del bimbo Nalle, e Kristin, la moglie del canonico Stefan, nonché Stefan stesso che ambirebbe al posto di Mildred. In tutto questa confusione, Asa Larsson intreccia un’altra storia del profondo Nord. Solidarietà tra gli oppressi, amore per la natura, alberi, radure, cani, lupi. Bevute al pub e invidie profonde. Questo era anche il terreno che Mildred aveva scelto per smuovere le acque. Qualcuno non riesce a sopportare tutto ciò, e l’ha barbaramente uccisa. Poi, ma in modo più freddo e ragionato, uccide chi potrebbe aver visto la scena. Non ne è sicuro, ma potrebbe essere. Ed allora massacro. Ma non è questo il centro reale della storia. Certo, siamo curiosi di capire l’assassino. E di seguire i ragionamenti dell’ispettrice Mello per arrivare (seconda) alla soluzione. Che prima arriverà, ma solo per intuizioni, la nostra Rebecka. Ed al solito si troverà in pericolo. Tuttavia, ripetendomi, quello che più interessa sono gli scenari, le persone. Mildred ed il suo doversi mostrare pronta su tutti i fronti, e fragile internamente. Tanto fragile da dover cercare conforto tra le braccia di Lisa. E Lisa, la mai amata, che nonostante cani, gatti, e figlia, si dedica a Mildred, senza riuscirne mai ad elaborarne la morte. Rebecka che ancora deve superare i traumi subiti nel primo libro, e qui ne trova di nuovi. Nalle, con la sua aria innocente di bambino che porta solo un sorriso a tutti quanti. E la vita della profonda provincia svedese. Ed i problemi delle Chiese protestanti con donne ministro di culto. Alla fine rimane per me il solo mistero di cosa c’entri in tutto ciò la vicenda della lupa chiamata Zampe Gialle. Bella vicenda, con piccola ed interessante analisi dei comportamenti da branco, quasi che si volesse fare un parallelo tra lupi ed umani. Nella mia testa rimane sterile ed assente. Il tutto, alla fine, è meno accattivante e coinvolgente di quanto sembrava promettere. Vedremo se i caratteri miglioreranno nei prossimi romanzi.
Åsa Larsson “Sentiero nero” Marsilio euro 12,50 (in realtà, scontato 10,63 euro)
[A: 29/06/2012 – I: 22/12/2012 – T: 24/12/2012]
[titolo: Svart stig; lingua: svedese; pagine: 423; anno: 2006]
Altra puntata, ed ancora non ingrana. Anche se stiamo migliorando rispetto al precedente. Sembra la solita parabola degli scrittori con delle idee, ma con del successo inaspettato. Il primo libro colpisce, magari raggiunge un buon risultato. Allora si cerca di sfruttarne la scia, magari in modo affrettato, magari sotto la spinta di qualche buon compenso editoriale. Si butta lì allora un secondo romanzo, prima che le idee maturino. E risulta incompleto, carente. intanto si riflette. E con buone probabilità si capisce meglio cosa e come si vuole scrivere. Così pare si possa descrivere questo percorso della scrittrice svedese. Che appunto in questa terza prova sembra iniziare a trovare più giuste collocazioni. Intanto, Rebecka, dopo tutti i traumi subiti, si prende un periodo di riposo nella natia Kiruna. E cura le sue ferite dell’anima, accettando il lavoro di procuratore distrettuale, dove si butta anima e corpo nel lavoro. E nelle lande nordiche si inizia una nuova vicenda fosca. Viene trovata morta in un capanno isolato, una bella donna, che ben presto si scopre essere il braccio destro di un uomo d’affari, costruitosi dal niente, ed anche lui originario del freddo Nord. Seguiamo così in parallelo, l’inchiesta dell’ispettrice Anna-Maria Mello, che apprezziamo sempre più per quel tocco di umanità nordica che la distingue (la conciliazione e l’amore diviso tra il lavoro, i quattro figli ed un marito buono ma molto… maschile, tipo lasciare la cucina un disastro) e la storia di Mauri Kallis, il self-made man. Le sue origini oscure, il riformatorio, lo studio, le idee emergenti, il sodalizio con i fratelli Wrattang, dove lei, Inna, è la vittima di cui sopra, e Diddi è lo scapestrato che riesce ad infilare stupidità una via l’altre. E nasce in parallelo la storia della sorellastra di Mauri, la strana Ester, avuta dalla madre con un indiano pazzo, ed affidata ad una famiglia lappone. Ester che ha strani poteri di presentimenti, e che rimasta sola, verrà accolta da Mauri. Ma lascerà la sua indole pittorica, e per tutto il tempo la vediamo allenarsi in palestra e nella corsa a piedi. Deragliamento di cui scopriremo la necessità solo nelle ultime pagine, e che non vi anticipo. Rebecka, a poco a poco, si fa coinvolgere da Anna-Maria nelle indagini, prima con alcuni suggerimenti. Poi, data la sua origine di avvocato dedito alle analisi finanziarie, per scoprire i magheggi internazionali delle imprese Kallis. Sarà lei che darà la stura alla polizia per trovare il bandolo del filo, che, seguito nodo dopo nodo, porterà alla scoperta degli intrallazzi di Mauri con dittatori africani con sete di soldi ed abbondanza di diamanti. Mauri si era venuto quindi, nonostante il parere contrario di Inna, a trovare al centro di questa rete. Che deflagrerà, in un finale rocambolesco, che è diventato un po’ il marchio di fabbrica delle storie della Larsson. Sia che ci sia uno o più morti, uno o più assassini, nel finale c’è sempre uno scontro tra due forze antitetiche (e non parlerei di bene e male, che sono categorie troppo nette per questi romanzi). Anche questo non sfugge, ma non vi dirà altro. Chi muore, chi si salva, e perché e come, e via narrando. Il tutto condito con le storie familiari dei poliziotti di Kiruna (gradevoli) e con il tormento infinito di Rebecka, da sempre innamorata inconfessata del suo capo di Stoccolma. E sempre nell’impossibilità, per le due parti, di trovare il modo di parlarsi, di fare delle mosse in una qualsiasi direzione. A volte non basta il cuore ad indicare la via, ci vogliono anche parole, che sembra manchino sia a Rebecka che a Mars. Ma noi siamo tenaci, e continuiamo a fare il tifo affinché la gente sia capace di dire (e di fare). Per il resto, comunque, la confezione è buona, ribadendo le discrete capacità editoriali della Marsilio, nonché l’accurata traduzione di Katia De Marco. Una piacevole lettura in odore di Natale (seppur con tutte le riserve espresse in apertura).
Anche se in trasferta, non ci esimiamo da citare le letture del mese di novembre, anche questo molto denso, e di discreta qualità, senza cadute verticali. E con due buoni gialli (Malvaldi e Connelly), due bei romanzi (Veladiano e Oz) ed il solito a me caro Bianchi.
#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Giuseppina Torregrossa
Panza e prisenza
Mondadori
10
3
2
Clive Cussler & Dirk Cussler
Morsa di ghiaccio
TEA
8,90
2
3
Marco Malvaldi
La carta più alta
Sellerio
13
4
4
Alessandro Barbero
New York, 14^
Barbera editore
7,90
3
5
Amos Oz
Il monte del cattivo consiglio
Feltrinelli
9
3
6
Alessandro Barbero
Gli occhi di Venezia
Mondadori
s.p.
3
7
Marco Malvaldi
Milioni di milioni
Sellerio
13
3
8
Eric-Emanuel Schmitt
Concerto à la mémoire d’un ange
Livre de poche
s.p.
3
9
Arnaldur Indridason
Un caso archiviato
TEA
9
3
10
Enzo Bianchi
Ogni cosa alla sua stagione
Einaudi
12
4
11
Emilio Martini
Chiodo fisso
Corbaccio
8,90
3
12
Mariapia Veladiano
La vita accanto
Einaudi
12
4
13
Matilde Asensi
Tutto sotto il cielo
SuperPocket
6,90
2
14
Paolo Foschi
Delitto alle Olimpiadi
e/o
14
3
15
Lorenzo Licalzi
La vita che volevo
BUR
9,90
2
16
Amos Oz
Una pace perfetta
Feltrinelli
9
4
17
Benedetta Cibrario
Lo scurnuso
Feltrinelli
13
3
18
Joseph Hansen
Scomparso
Repubblica – Noir
7,90
3
19
Michael Connelly
Musica dura
Piemme
11
4
20
Matilde Asensi
Terra ferma
BUR
8,90
3
Per il resto siamo qui, a scrivere (molto), leggere (poco) ed organizzare tante cose che alla fine mi ci vuole qualche stacco di pace e tranquillità. Forse si accentuano alcuni dei lati orsacchiotteschi, ma ce la faremo.