domenica 23 novembre 2014

Noir Italia (quarta parte) - 23 novembre 2014

Torniamo ancora alla ben lunga collana del Sole 24 ore ed i suoi neri italiani. Un lotto di trame che non mi ha entusiasmato, con giudizi che vanno dal sufficiente a da dimenticare. Milone, come descrivo, ne è l’esempio eponimo (nel bene e nel male). Poi due autori che, anche con prove non eccelse, trovo interessanti e che replicherò, come Morchio e Mogliasso. Il dimenticabile Guglielmone, accomunato con l’altra prova poco riuscita di Zannone (che rinchiude tutto il giudizio nel titolo “Imperfetto”!).
Massimo Milone “Milano corri e muori” Sole 24 ore – Noir Italia 36 euro 6,90
[A: 21/03/2014– I: 15/07/2014 – T: 17/07/2014] - &&& 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 121; anno 2013]
Una delle ultime uscite della collana del Sole 24 ore, che sembra aver voluto riempire gli ultimi titoli della serie, che hanno deciso di prolungare fino a 40 romanzi, con qualche prova molto basic. Anzi, direi che questa uscita è proprio un esempio del bene e del male della collana, e della scrittura di esimi autori che, pur innegabilmente avendo facilità di scrittura, non hanno altresì facilità di invenzione. Allora perché gli do ben 3 libricini? Proprio perché è un tipico prodotto e mi consente anche di farci sopra una riflessione. Intanto, possiamo ben dividerlo in due analisi diverse. La parte Noir, motivo dell’inserimento nella collana, e la parte ambientale e descrittiva. Ecco, se dovessimo giudicare solo la prima parte, il giudizio crollerebbe miseramente. Diciamo che posso concedere la lettura di 20 pagine ad un attento conoscitore di gialli per scoprire il 90% dei “misteri” del libro. Misteri che si addensano intorno alla morte di una consulente “tagliatore di teste” che viene uccisa durante uno jogging mattutino, a poca distanza da un commissario anche lui in tenuta da runner. E poco prima della morte, Francesca fa una telefonata a casa di un suo collega Alessandro. Che oltre ad essere antipaticuccio, ha l’aria di voler nascondere qualcosa. A chi era diretta la telefonata? A lui o alla moglie Daniela? E si scopre ben presto che sia lui che il figlio Simone sono patiti di armi (campioni al poligono), ed entrambi (pur con diverse abilità) capaci di utilizzare computer ed affini. Con chi della famiglia Gavioli, la nostra Francesca aveva una tresca? E chi dei tre era in grado di inscenare il delitto, pensando di farla franca? Pensando anche di far cadere i sospetti su qualche dirigente di società che fa un po’ di cresta sui libri contabili societari. Purtroppo, la pistola del delitto viene rubata da dei balordi che fanno una rapina, e si fanno beccare. Poi ci sono le telecamere a circuito chiuso del garage dei Gavioli entrate in funzione all’insaputa dell’assassino. Insomma, abbastanza semplice e scontato. Così come semplice, anche se meno scontata, l’altra storia che seguono i poliziotti, quella di uno stalker con relativo innamoramento del poliziotto verso la bella presa di mira. E con l’intervento risolutore di uno degli elementi spesso in ombra della squadra. Sì, perché il nostro autore pensa bene (e qui veniamo alle note ambientali e descrittive) di scopiazzare le atmosfere alla Ed McBain e la sua serie dell’87° distretto. Qui siamo a Milano, ed al massimo arriviamo all’8°, ma l’idea è lì. Un procedural thriller basato su di una squadra. Di cui conosciamo i componenti: Salvatore Van Dir detto Sasà, commissario napoletano trasferito a Milano, ed un po’ l’anima della squadra, Remo Barocci, suo alter-ego, romano “de’ Roma”, Melina Laganakis, detta Venere in quanto greca e nata a Milos, Mara Fossati, detta Fosset, per richiamare una delle Charley’s Angel. Poi ci sono i due dello stalker, Castoldi, quello quasi leghista, ma in fondo no, e Fumagalli, quello che ragiona molto, e “zitto zitto”… Quello dei soprannomi è forse la parte migliore, che raggiunge il vertice con l’antipatico e quasi pelato Gubbio (quello che vuole sempre fare in modo di avere molti onori e pochi oneri) che tutti chiamano Harry Potter, solo perché Remo, con il suo accento romano, lo aveva soprannominato “er riporter” (e provate a dirlo con l’accento romanesco…). Queste sono le parti più scorrevoli e meglio riuscite della scrittura di Milone. La descrizione della squadra, dell’ambiente di polizia, del tifo per le squadre di gran cuore e poco blasone (Roma e Napoli, si capisce, e si accetta Venere solo perché tifa l’Aris di Salonicco). Ma anche di alcuni ambienti malavitosi di vecchio stampo milanese (il Maestro, ad esempio), il dispiacere per il dilagare della droga a buon mercato. E le grandi bevute di birra alla Montagnola, da dove i casi si discutono meglio che al distretto. Insomma, un facile libro, ammirevole per lo scorrere delle vicende di contorno, poco incisivo per la parte gialla. Quindi, concludendo, tipico esempio di una scrittura capace ma non ancora indirizzata. E di politiche editoriali di livello non eccelso (d’altra parte Milone pubblica per Happy Hour edizioni non per Mondadori o Feltrinelli…).
Alessandro Zannoni “Imperfetto” Sole 24 ore – Noir Italia 37 euro 6,90
[A: 21/03/2014– I: 21/07/2014 – T: 23/07/2014] - && 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 171; anno 2009]
Direi che il titolo racchiude tutto quello che si può dire di questo romanzo. Ricollegandomi con la precedente uscita (il 36 di Milone) ribadisco che la collana del Sole nelle ultime uscite è in calando. Si salvano soltanto (visto che si comincia sempre dalle note positive) alcune descrizioni della zona di Sarzana, di Lerici, attraversando la Lunigiana, ricordando Aulla, valicando verso Parma, e magari guardando il mare da Portovenere. Il resto è buio pesto. La storia, il modo di raccontarla, i personaggi, il finale. Certo, l’autore conosce e legge di noir (organizza un festival Noir proprio in Lunigiana), ed usa i più classici canoni del genere. Nella scrittura, ad esempio, alternando l’impersonale con il soggettivo di chi commette gli efferati delitti. E poiché chi li commette è senza dubbio una persona disturbata, usa un linguaggio che vuole imitare il flusso di coscienza di una persona quanto meno psicopatica. Con l’unico risultato, che, dopo i primi due interventi, è bene saltarli a piè pari. Non aggiungono nulla alla storia, neanche nella ricerca della chiave. Il personaggio centrale è poi un investigatore privato, messo sul caso dell’omicidio irrisolto di Amedeo, scapestrato figlio di un ricco spezzino, con tutte le classiche manie e “pose” da investigatore “alla Sam Spade”. Un matrimonio che sta andando a rotoli, una nuova fiamma che Merisi, questo il suo nome, non sa come gestire (gli vuole bene? è un modo di scarica la moglie?), ed un caso che nessuno vuole e che quindi gli viene affidato perché faccia “ammuina”. Ovviamente è in attrito con le forze dell’ordine, ma ha anche qualche angelo custode: la segretaria, un giornalista, qualche maresciallo sparso sui monti. E Merisi si mette a ripercorrere tutta la storia di Amedeo, trovato nudo, con 5 colpi mortali, sulla strada verso Parma. Zannoni le prova tutte: la pista gay, la pista casuale, ed altro. Ma né noi né Merisi ci caschiamo. La svolta si ha quando uno sperduto oste (guarda caso non interrogato dalla polizia) ricordo un caso simile di una decina di anni prima. Merisi e la sua squadra si mettono in caccia. E trovano alla fine almeno altri 3 omicidi fotocopia. Giovane, nudo, con 5 colpi mortali. E senza segni particolari di lotta. Si vede che chi organizza gli omicidi non fa paura ai futuri morti. Ed allora indaghiamo su chi possa entrare nelle case senza tema: postini, trasportatori, ufficiali pignoratori, operai ristrutturatori. In parallelo, seguiamo una persona che brucia quadri nelle chiese e poi fa una donazione con un suo dipinto. Guardando il dipinto nella chiesa di un suo amico frate (anche lui ucciso) Merisi ha il colpo di fulmine. Vuoi vedere che indovino? Avevo scommesso su San Sebastiano, ed eccolo là. Che scarsa fantasia! Il colpo di fulmine porta Merisi a comprendere che non sono pugnalate, ma frecce. Quello che non capisce (d’altra parte è solo un investigatore) è che una freccia per fare così tanto danno non può che essere lanciata da una balestra. E una balestra può essere maneggiata sia da uomini che da donne. Merisi ha un bel cedere l’indagine alla polizia, che non crede alle sue piste. Per poi accettare l’invito a casa di una donna, guarda caso uno degli ufficiali che vanno pignorando gli inadempienti. E lì… Mica vi posso dire il finale, ovvio. Ma verso questo finale corriamo velocemente e senza suspense (benché le recensioni che ho letto parlino proprio di finali mozzafiato). A me è sembrato un finale che vuole fare effetto, ma che tronca tutte le discussioni. Perché sul quadro c’è scritto Caravaggio, unico a non aver mai dipinto San Sebastiano? Perché e come viene scatenata la furia omicida? E venendo sul personale, perché Merisi lascia la moglie? Che senso ha la sua storia con Giulia? Insomma, dopo 170 pagine, Zannoni ci lascia insalutato ospite, con questo prodotto, ribadisco, non a caso intitolato “imperfetto”. Sarà difficile che se ne legga altro.
“- Poteva finire in modo migliore? … - Non esiste un modo migliore per lasciare una persona, e qualcuno deve soffrire.” (130)
Giacomo Guglielmone “La stagione da Iseo” Sole 24 ore – Noir Italia 34 euro 6,90
[A: 14/03/2014– I: 24/07/2014 – T: 26/07/2014] - & e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 189; anno 2013]
Ho impiegato tutto il libro, nonché una ricerca sul primo editore di Guglielmone (il benemerito Robin di Roma), per capire che Iseo era (è) una locanda rinomata in quel di Lerici. Collegata al fatto che la vicenda è ancora una volta spezzina (un giorno o l’altro farò un’analisi dei luoghi di questa collana), sembra avere un senso. Ma soltanto sembra, che il mangiare ed i ristoranti non sono di certo al centro delle indagini che il commissario D’Imporzano porta avanti lì, tra le Bocche del Magra, per venire a capo dell’uccisione di tal Setubal Santiago, ex-portoghese naturalizzato italiano, molto fascio in gioventù, poi legato ad ambienti “di soldi”, ed infine imprenditore in prima persona, abbiente e sempre ben ammanicato. L’autore attinge un po’ al suo retroterra (un po’ giornalista, un po’ specializzato in comunicazione sociale) per condire la vicenda con molta carne al fuoco. Peccato che si passino giorni senza reali costrutti. E peccato per quel vezzo da “noir” di belle fatture, di utilizzare pesantemente flash-back, e tutti in corsivo. Così alla vicenda del morto, si intreccia la vicenda di Silvestri, a suo tempo sodale del figlio di Santiago, e poi persosi in varie vicende. Estremista più per denaro che per convinzione, partecipante a pestaggi, poi all’incendio di una scuola. Ma soprattutto messo in prigione per aver malmenato il figlio di Santiago per questioni di droga. Ed in prigione a sua volta pestato, ridotto a mal partito, ed ora invalido al 100% per la perdita della vista. Tanto che ha diritto ad accompagni, svolti da giovani del servizio civile. C’è la storia di uno di questi, in flash-back, toscano di quel di Prato, trombato alle specializzazioni per mancanza di appoggio, poi dentista di medio profilo. Che dopo aver servito il Silvestri, trova il modo di avere una relazione con la di lui bella sorella, Arianna. Una tipa che ha cavalcato di molto in gioventù, e che si è sistemata dopo una notte di sesso con un pittore, indicato con le iniziali KH, che tutti riconoscono nel grande muralista gay Keith Haring, che gli autografa una T-shirt, con la quale appunto sistema il suo futuro (compra casa, e vive di rendita). Dedicandosi alla bella vita, soprattutto con dottori, lasciando un po’ di spazio al dentista di cui sopra, il Guelfi. Il nostro commissario, nel corso della sua indagine, trova anche il tempo di consolare “fattivamente” la ancora piacente vedova di Santiago (molto consolabile, in quanto il morto aveva ormai una relazione stabile con una giovane tunisina). Guglielmone cerca di inzeppare sospetti a destra e sinistra (il fratello della tunisina, la vedova stessa, gli ex-compari di Santiago, Silvestri e la sua cricca di sbandati) riuscendo solo nell’intento di rendere confuso l’andamento del libro. E poco coinvolgente. Così che tra un giro e l’altro, tra una trasferta in Lunigiana ed una in Toscana, un pranzo, l’ascolto di Silvestri che di notte fa il DJ, ci si avvia mestamente a conclusione. E come tutti i gialli mancati, ci si avvia senza che vengano sciolti tutti i nodi. Certo, Ines, un’amica di Silvestri, lavora da talpa e copia alcuni indirizzari “segreti” di un vecchio a suo tempo (e forse tuttora) sodale di Santiago. Passa i nomi a Silvestri, che utilizzandone uno (probabilmente si tratta di vecchie storie legate alle torbide vicende liguri degli anni ’70, dove non a caso c’è un ex ergo di frase del buon vecchio e dimenticato Arnaldo Forlani) convoca Santiago ad uno strano appuntamento notturno. Dove Arianna aiutata probabilmente da Guelfi, fa la festa a Santiago. Ed i cerchi si chiudono. Con poco lustro e poca voglia di saperne di più. Tutto sommato la parte migliore (che invece puristi del giallo di cui ho letto commenti in rete ritengono minore) è proprio la descrizione dei luoghi. Tanto che il primo capitolo, che ci parla di Spezia e dei suoi luoghi (e dove ritroviamo piazza Brin al centro di uno dei precedenti e di certo migliori noir della seria), per me è la parte migliore del libro. Insomma, un libro un po’ troppo di testa, che vuole ammiccare troppo, e, facendolo, perde verve e simpatia. Da dimenticare.
Bruno Morchio “Bacci Pagano. Una storia da carrugi” Sole 24 ore – Noir Italia 1 euro 6,90
[A: 03/08/2013– I: 21/08/2014 – T: 23/08/2014] - && e ½   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 279; anno 2004]
Entrato finalmente nella roulette strampalata delle mie letture, questo primo libro. Primo come romanzo della serie pubblicata dal Sole 24 ore con il titolo “Noir Italia” ed iniziata a luglio dello scorso anno. Primo romanzo scritto dall’autore con protagonista l’investigatore Giovanni Battista “Bacci” Pagano. E primo romanzo da me letto di Bruno Morchio, di cui avevo visto più volte pubblicità in libreria, ma che non era ancora entrato nelle mie letture. Ed anche se questo libro mi ha un po’ deluso (e cercheremo di capire perché), credo che sarà un autore a cui ritornerò. Morchio, come Licalzi, viene poi dalla psicologia, ma al contrario dell’autore delle Bocche del Magra, non si dedica all’ironia, ma utilizza il noir come descritto da Varasi per “illustrare il nostro mondo”. Lo fa immergendo il simpatico Pagano nel pieno dell’Italia berlusconiana, con un’ottica (anche se a volte disincantata) che mi è congeniale. Purtroppo (e qui veniamo subito ai difetti piuttosto che ai pregi), cercando di descrivere e di far toccare con mano l’Italia dei Servizi Segreti deviati, del malaffare, della politica corrotta, nonché dei guasti che l’esimio Silvio ha prodotto in 20 anni di (mal) governo. Tutto vero, tutto giusto. Ma il modo anche un po’ amaro che ci riserva il finale, dove (almeno sembra) l’attentato al Capo del Governo può andare a buon fine, mentre Pagano viene sconfitto (e la sua amica africana rimpatriata come prostituta indesiderabile) lascia a desiderare. Non per la sua credibilità (che è credibile e molto) ma perché viene come lasciata in sospensione, quasi che siano state tolte una ventina di pagine che (come insegna il decalogo di S.S. Van Dine sul buon uso del poliziesco) servivano a fare una ricostruzione degli avvenimenti, ed a sciogliere eventuali nodi irrisolti. Ma d’altra parte, le regole sono fatte per essere trasgredite (basta che si sappia quali siano le regole e quale le trasgressioni). Per il resto, ed è tanto, il libro ha un suo andamento gradevole, e discretamente coinvolgente. Primo punto a favore, ovviamente, la descrizione di Genova, dei suoi quartieri, ed in particolare dei carrugi, e della fauna che vi abita. Dall’extra alle prostitute, dagli impiegati ai grandi uomini d’affari. E lì nei carrugi, vive il nostro Bacci, direi sulla cinquantina (o poco meno). Alcune storie di donne alle spalle, gioventù tra manifestazioni e contestazioni, nonché (per un errore giudiziario cui lui non si sottrae) cinque anni di carcere a Novara. Passati che lo aiutano nel presente da detective, che tra amici e conoscenti, folta schiera di persone riconoscenti ha in giro per la città. L’oste con le sue gallette tipo bretone, il tassista, le prostitute, ma soprattutto il commissario Totò Pertusiello, suo alter-ego istituzionale, che spesso (ma non sempre ci riesce) cerca di tirarlo fuori dai guai, condividendone filosofie di vita, anche indossando la divisa. Pagano s’immerge nel romanzo chiamato a risolvere questioni di spionaggi industriali conditi da amori ancillari, per conto di una delle famiglie bene dei carrugi. Compito che ben assolve, anche se, mosso da strane pulsioni verso la commessa Alma, non lo porta alle estreme conseguenze. E sarà un errore. In parallelo, un suo vecchio sodale, ora gestore di una radio alternativa, lancia in onda provocazioni para-brigatiste. Dove però il fucile che esibisce quasi per gioco e quasi a voler ripercorrere i (ne)fasti delle P38, viene rubato. Questo scatena guerre di bande tra Polizia e Digos. Viene alla luce un vecchio killer (o presunto tale) del tipo Zorzi di Piazza Fontana. Killer che Pagano per due volte sta per arrestare e per due volte ne viene beffato. Ovviamente la Digos avrà la meglio su tutti, togliendo la licenza a Pagano e lasciando che il killer faccia (forse) quello che deve fare. Ma se tutto ciò è interessante, perché così poco gradimento, mi chiederete. Colpa di tutte quelle lungaggini su i mali dell’Italia, sulla politica, sui mafiosi nostrani (e forse su quelli cinesi). Pagine che non aggiungono nulla alla vicenda, e sembrano servire soltanto ad illustrare i pensieri dell’autore. Interessanti, forse, ma in altri contesti. E per come finisce la storia, mi domando con curiosità come farà a costruire altri episodi (visto che almeno altri due libri con Bacci Pagano li ha scritti). Sperando che le prossime letture genovesi restituiscano l’asciuttezza tipica della Liguria, per regalarci ancora delle belle storie (e delle belle passeggiate per una Genova sempre presente nella mia mente, grazie ai ricordi di mia nonna).
“Solo libri, libri, tanti libri per riempire la mia solitudine e impedire che divenisse disperazione … dopotutto siamo fatti di quello che mangiamo e di quello che leggiamo, e poco di più.” (67)
Rosa Mogliasso “L’assassino qualcosa lascia” Sole 24 ore – Noir Italia 9 euro 6,90
[A: 09/09/2013– I: 09/09/2014 – T: 11/09/2014] - &&&   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 217; anno 2009]
Stava veleggiando alto questo libro dell’esimia collana del Sole, scritto dalla torinese Rosa Mogliasso. Per buona parte univa una scrittura accattivante ad una storia che, pur nella sua non evidente complessità, teneva desto l’interesse. Peccato la caduta finale, quando si vanno a raccogliere i frutti di quanto seminato. Troppo di corsa, qualche passaggio solo accennato, qualcosa lasciato cadere (forse sarà ripreso in altri libri, immaginando una vicenda seriale). Sin dalle prime pagine si respira un’aria da “Donna della Domenica” di Fruttero & Lucentini: qualche profumo di ambiente bene torinese (la famiglia Peressi), assaggi di quartieri diversi (non dico il Valentino, ma la stazione, i Murazzi ed altro), e la questura, dove troviamo il commissario Barbara Gillo, personaggio centrale dell’inchiesta e non solo. In questa fase è soprattutto la scrittura che avvince: dice e salta, ma non dimentica, presenta i personaggi e ne fa intuire potenzialità e possibilità. In primo piano la famiglia Peressi: l’avvocato, impaccato di soldi e con la passione del golf, ma soprattutto con la passione verso giovani ben dotati di attributi virili, possibilmente neri, ma anche rumeni vanno bene, la moglie Alma, rifatta da capo a piè, dedita alla bottiglia in mancanza del marito, e presenza costante di quella Torino bene fatua e senza scopo, e la figlia Titti, anoressica da adolescente, ed ora ventenne tossica senza speranza. Intorno a loro un po’ di “fauna”: giri di tossici ed investigatori in cerca di prova intorno alla Titti, il finto romeno Guy (o forse rumeno ma molto francese) che ronza intorno all’avvocato, cedendo alle sue avances, ma con suoi scopi precisi, ed il cameriere cingalese Solomon, conforto delle serate solitarie di Alma. In questura intanto il commissario Gillo impazzisce intorno ad un serial killer di prostitute (rebus che verrà risolto a metà romanzo, in un capitolo molto veloce, uno delle tante accelerazioni della scrittrice che non mi hanno convinto), invischiandosi nelle trame che la sorella Mariù cerca di rifilarle, cercando di trovarle un uomo. Purtroppo la sorella è “del lato Alma”, cioè bene e svampita, così che ad un certo punto si ritrova sola e con due figli, che il marito fugge con una giovinetta. Ed è un secondo punto che poi lascia in sospeso, sembra un dramma epocale, Mariù vuole fuggire in India, poi due capitoli passano e non se ne parla più. Il nodo centrale però avviene quando viene uccisa la Titti con un colpo di bastone da golf alla testa. Il delitto fa scoprire un po’ degli altarini dell’avvocato, ma soprattutto la scrittrice ci mette al corrente dei piani di Guy e della sua banda. Perché il sedicente gay è in realtà il capo di una banda di palestrati fascisti che vuole sfruttare soldi e conoscenze del Peressi per mettere su una banda eversiva. Peccato che il contatto primario tra la banda e la famiglia è lo spacciatore tunisino Aziz (che riforniva la Titti), ucciso a sua volta appena mette piede a Torino. Della banda fa parte la bella Angelique, che ogni tanto scopa con Guy, e l’oscuro Bruno. Si aggirano tra Parigi e Torino (con un’unica divertente battuta: Torino è un modo economico di vivere a Parigi), ma a parte le attività sessuali di Guy, e qualche accenno di ricatto, poi sembra tutto cadere nel nulla. Che l’avvocato scompare, Alma ne inscena la morte per avvelenamento (almeno così crede) insieme a Solomon. Il cingalese torna a Bangkok dove l’avvocato vuole rifarsi una vita. Peccato che Alma nella sua nullità mentale si auto-accusi della morte. E Solomon (l’unico con un po’ di pietà verso la svampita) una volta saputo il fatto, faccia in modo (ma non si sa come, perché anche qui si corre molto), di avvertire il commissario, di coinvolgere Guy a Bangkok, e di far precipitare tutte le trame. Nelle more, il commissario Barbara Gillo trova il modo di invaghirsi e poi di essere ricambiata dal commissario Massimo Zuccalà. Una piacevole storia d’amore e di sesso agli inizi, foriera di possibili interessanti sviluppi. Ma come detto, se per due terzi la vicenda si segue bene, con il divertimento di mettere titoli ai capitoli una frase contenuta nel capitolo stesso (e non la prima), con citazioni di Nietzsche da parte del palestrato, e dotte disquisizioni sulla filologia del crimine e delle prove annesse da parte di Zuccalà, alla fine tutto corre. Con passaggi misteriosi (Barbara deve andare dalla sorella e la troviamo invece dalla Peressi, Guy sembra introvabile poi lo troviamo in questura, l’avvocato sembra scomparire a Bangkok, e poi al suo letto d’ospedale per la chirurgia facciale troviamo Guy, funzionari dell’ambasciata italiana, e chi più ne ha…) che portano alle conclusioni diverse della vicenda, di cui scopriamo praticamente tutto (e non ve ne narro, lasciandovi qualche suspense), anche se il ricatto di Guy rimane misterioso ed irrisolto. Insomma, la scrittura mi è piaciuta, l’autrice mi ha convinto che può essere seguita in altre prove, mi aspettavo qualcosa di meglio date le premesse, ma alla fine un prodotto discreto (ed alcune belle passeggiate per Torino, dove ci si tornerà, prima o poi).
Ho scritto la settimana scorsa che mi stavo “avvantaggiando” in vista delle assenze di dicembre, così trovate in allegato anche il solito mensile sulle “cure”, che questa volta, con due libri di valore, surclassa tutta la trama settimanale: non è un caso che si parli di decisioni ed indecisioni. Intanto si va stringendo anche l’ultima settimana di preparazione alla lunga trasferta vietnamita. Torno quindi allo studio degli itinerari.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

DICEMBRE 2014
In questo dicembre anticipato per ragioni di viaggio, ecco che ci imbattiamo in un disturbo veramente invalidante, dove però le nostre libropeute ci mostrano un caso irrecuperabile ed un rimedio “sicuro”.

COGLIERE L’ATTIMO, INCAPACITÀ DI

Un mese in campagna, James Lloyd Carr
Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve, Jonas Jonasson
Viviamo solo un numero limitato di giorni. E all’in­terno di quel prezioso arco di tempo, i giorni in cui arriva qualcuno o succede qualcosa di speciale sono dav­vero pochi. Se esitiamo, o non abbiamo il coraggio di agguantare ciò che il destino ci ha offerto, potremmo rimpiangerlo per il resto della nostra vita.
In nessun romanzo l’eroe - e in un superlativo atto di osmosi, anche il lettore - è più tormentato dalla con­sapevolezza di non essere riuscito a cogliere l’attimo che nel classico degli anni Ottanta di James Lloyd Carr, “Un mese in campagna”. Subito dopo la conclusione della prima guerra mondiale, portando con sé una tremenda balbuzie e un tic che gli è rimasto dalla battaglia di Passchendaele, Tom Birkin arriva nel villaggio di Oxgodby aspettandosi una «meravigliosa» estate rigenerante. È stato assunto per portare alla luce un affresco medievale sul soffitto della chiesa del villaggio, e nel frattempo vivrà nella cella campanaria. L’esperienza riesce salutare quanto ci si aspetta - perché in questo «rifugio tranquillo» Tom passa le giornate in beata solitudine, arrampicato in cima alla scala, nutrendosi di carne di manzo in scatola e dei pasticcini da tè al ribes della signora Ellerbeck, facendo amicizia con Charles Moon, un altro sopravvissuto alla prima linea, e innamorandosi di Alice Keach, bella e giovane moglie del vicario.
Lui non chiede niente. Alice lo va a trovare regolarmente - ma lo fa anche la giovane Kathy Ellerbeck, e in qualche modo fa tutto parte della magia di quell’estate che lui vorrebbe non finisse mai. Un giorno, nel campanile, si affacciano insieme e quando Tom le mostra il prato dove Charles sta scavando sente la pressione dei seni di lei contro il proprio corpo. Sa che è ora o mai più. Che cosa lo ferma? Una certa abitudine all’infelicità che ha contratto negli ultimi anni, forse. Il senso inglese della correttezza. Un’ipotesi che ha fatto a proposito di Alice. Alla fine di questo romanzo ci sentiamo più tristi – a meno che, ovviamente, non cogliamo l’occasione per impegnarci a non commettere mai lo stesso errore.
Se, come Tom, sospettate di avere la tendenza a essere, nella vostra vita, più passeggero che pilota, potrebbe esservi utile una lezione su come farlo. Il vecchio protagonista di “Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve” di Jonas Jonasson è un uomo che naviga a meraviglia attraverso una vita lunga e movimentata. Allan ha sempre vissuto la propria vita con leggerezza, più con curiosità che per convin­zione, eppure in un modo o nell’altro ha partecipato a molti degli eventi chiave del Novecento. Alla vigilia del suo centesimo compleanno, che si festeggerà alla casa di riposo di Malmköping, e a cui sono stati invitati i giornalisti, il sindaco, il personale e gli altri ospiti della struttura, Allan decide che quella casa non sarà, dopo tutto, la sua ultima residenza sulla Terra e che morirà «in un altro momento, in un altro luogo». Non è solo ottimista, ma anche fortunato, poiché una delle prime cose che gli capitano dopo la fuga è trovare una valigia piena di soldi.
Quello che segue è una vivace retrospettiva sulla vita di Allan, dalla nascita nel 1905 al suo nuovo inizio a centouno anni a Bali, con una donna più giovane (ottantacinque) al fianco. Lungo il tragitto contribuisce alla realizzazione della bomba atomica e fa da consigliere a vari leader mondiali, tra cui Winston Churchill e Mao Tse-Tung. Le sue avventure nel presente continuano, portando lui e la sua valigia, grazie anche a una serie di omicidi accidentali (Allan ha un rapporto molto rilassato con la morale), in molti splendidi luoghi. Il messaggio di Jonasson è chiaro. Se vi capita di domandarvi se «do­vreste», la risposta è sempre «sì».

Bugiardino

Questa volta, pur a distanza di anni (e sotto la spinta proprio di questo regalo) ho completato l’insieme dei libri citati. Il secondo, grazie ad un gradito regalo, letto, consigliato e ripensato sorridendo. Il primo da poco condiviso con gli amici, con ritorni diversi: a chi è piaciuto, a chi lo trova un po’ “moscio”. Andiamo a vedere cosa se ne scrisse al momento della lettura.
James Lloyd Carr “Un mese in campagna” Fazi editore euro 12,50
[trama del 14 settembre 2014]
È uno di quei romanzi in cui non succede niente, e proprio per questo è pieno di tante cose. Inoltre, anche se ha scritto altro, l’autore è una specie di single-book man. Il buon J. L. Carr, tra l’altro, è morto una ventina di anni fa. E questo suo romanzo, scritto a 66 anni, dopo essere andato in pensione come ex-preside di liceo, gli valse anche premi ed onori. Direi giustamente. Dicevo, non succede niente, ma è pieno di tanto. Se volessimo chiudere la storia in poche note, da quarta di copertina, dovremmo parlare della piccola storia del ragazzo Tom, appena finita la Prima Guerra Mondiale (il romanzo è ambientato nel 1920), ripreso in mano il lavoro di restauratore di dipinti ed altri oggetti in deperimento, viene chiamato da un parroco di campagna per rimettere alla luce un affresco probabilmente celato dietro l’altare. Ovviamente Tom è rimasto segnato dalle esperienze militari. E la comunità campagnola non facilmente accetta estranei. Mentre Tom mette alla luce il dipinto, lavora al suo fianco il giovane Charles che invece sta cercando una tomba. Nasce solidarietà tra i due, entrambi reduci dalle rovine militari. Ma Charles ha qualcosa in più, essendo stato cacciato dall’esercito in quanto gay. Durante il suo lavoro, Tom viene avvicinato solo da due persone: la ragazza Kathy e la giovane Alice. La prima, tredicenne e spensierata, coinvolge Tom prima nella vita domenicale (il padre è predicatore), poi nell’aiutare dei bimbi disadattati, poi in tutta una serie di attività di aiuto in cui Tom con la sua naturale empatia si mostra vincente. Alice, invece, è la moglie dell’attempato parroco. E si capisce ben presto che ha un debole per il nostro Tom. Che si domanda il perché di questa unione tra Alice ed il prelato. Che si domanda se deve fare qualcosa, anche lui sentendo del trasporto. Ma il mese trascorre. Charles trova la tomba, Tom ripulisce l’affresco. Alice ed il parroco chiedono il trasferimento in una diversa parrocchia. Ve l’avevo detto, no, la trama è ben presto riassunta. Ma è tutta la carica di inespresso e/o di velato che c’è dietro e dentro che rende molto interessante il romanzo. Innanzi tutto, le tonalità che usa Carr, perché narra appunto come se fosse il Tom anziano che ricorda un periodo della sua giovinezza. E quindi sappiamo, a posteriori, che, in effetti, non successe gran che in quel mese in campagna. Se non che Tom – Carr matura e prende coscienza di se. Capisce di avere comunque un mestiere tra le mani (restauratore). Capisce che può riprendere il rapporto con gli altri (aiutato da Kathy), cosa che sembrava fosse stata interrotta dalla guerra e non più riprendibile. Capisce che se fa un gesto, un piccolo gesto, la sua vita, quella di Alice e quella del parroco, potrebbero cambiare. Quindi romanzo di possibilità. Ma anche romanzo di rimpianto. Che Tom si chiederà sempre e per sempre cosa sarebbe successo se… Una specie di contraltare delle domande irrisolte che si farà il narratore del bellissimo libro di Barnes “Il senso di una fine”. Se potesse continuare a restare lì in campagna. Se accettasse di fare il maestro ai ragazzi del paese. Se avesse baciato Alice. Se avesse iniziato a fare il predicatore, come il padre di Kathy. Insomma, un piccolo momento in cui Tom fa un salto in avanti nella sua vita ed un momento in cui non tornerà più (“non ho più incontrato nessuno di quel paese sperduto”) ma gli servirà per costruire la sua vita. Mi ricorda e mi fa venire in mente tanti piccoli istanti che ognuno vive. In particolare, un viaggio in treno da Siviglia a Madrid, fatto più di quarant’anni fa, e la conoscenza che feci sul treno della giovane Monika, turista tedesca. Non ci fu gran che di più di quello che successe tra Tom e Alice, ma modificò e di molto, la mia percezione dell’altro (o meglio delle altre e del mio rapporto con loro). E come Tom, dopo quel luglio di quaranta anni fa, più nulla seppi di Monika, delle sue amiche e della loro vita. Per tornare al libro, l’unico elemento che mi ha leggermente disturbato è l’introduzione di Penelope Fitzgerald. Non perché non dica cose condivisibili, ma perché le dice prima del romanzo. Guastando un po’ il godimento che se ne trae leggendolo. Io ritengo che le introduzioni debbano soltanto inquadrare, se del caso, l’autore ed il momento della scrittura. Mentre lascerei alle postfazioni il compito di entrare nei dettagli del narrato, che ora, avendolo letto, consente di condividere e di comprendere meglio quanto si dice. Evitando di anticipare cose che il prefatore vede, e magari io lettore no. Ma in fin dei conti, amici, leggete il romanzo. E non tiratevi indietro come il nostro Tom. Meglio una domanda ben posta che una ricerca di una risposta per tutto il resto della vita.
“Per quanto mi riguarda, avrebbe potuto girare l’angolo e morire di colpo. Ma questo vale per la maggior parte di noi, non è vero? Ci scambiamo sguardi vuoti. … Che facciamo qui? … Sogniamo ad occhi aperti. … Sì, quelli sono la mia mamma e il mio papà. … Vado a lavorare alle otto e torno a casa alle cinque e mezzo. Quando andrò in pensione mi regaleranno un orologio… Adesso sai tutto di me.” (52)
“Ciascuno di noi vede le cose con occhi diversi, e non serve a nulla sperare che anche uno solo su mille la pensi alla tua stessa maniera.” (96)
“Siamo entrati in questo mondo e prima o poi lo lasceremo. … Siamo qui a tempo determinato.” (101)
Jonas Jonasson “Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve” Bompiani s.p.
[trama del 13 maggio 2012]
Un libro divertente per una scoperta di un autore (di 13 giorni più piccolo di mio fratello) che non conoscevo. Ingredienti di un ottimo regalo. Ed è anche scritto in modo che ti prende un po’ tutte le parti del corpo, e ti si piazza là, finché non vai avanti. Cervello, gambe, stomaco sono coinvolti, forse solo il cuore rimane un po’ fuori, anche se di lato e di lontano fa le sue comparse. Un Forrest Gump dall’intelligenza di Zelig attraversa le oltre 400 pagine portandoci in un turbine di avvenimenti che riescono a non stancare e a non essere neanche ripetitivi (rischio che poteva esserci). Seguiamo così Allan il centenario che fugge dall’ospizio il giorno del suo centesimo compleanno, ed avventurandosi per il mondo con le sue forze limitate ma con quell’acume che scopriremo ben presto ha, si incarta in una serie di vicende che potrebbero portarlo presto fuori strada. Ed invece… Invece si ritrova in fuga con una valigia piena di milioni, inseguito da una banda di spacciatori scalcagnati. E trova man mano l’aiuto di Julius un ladro sessantenne, di Benny un quaranta-cinquantenne che si è quasi laureato in dieci discipline diverse e di Bella una signora di 43 anni, con cane ed elefante (una delle tante invenzioni di Jonas, farci trovare una fattoria nella profonda Svezia dove si rifugia un elefante in fuga da un circo). E questa banda di svitati riesce a mettere in scacco i malviventi della banda “Never Again” (cioè mai più… dietro le sbarre di una prigione). Ed anche a prendere in giro la polizia svedese, ed il pubblico ministero incaricato delle indagini sulla morte dei malviventi. Da ricordare tutto il controinterrogatorio in cui i 4 mettono sotto scacco il GIP, con un dialogo che sembra essere il contro esempio di un manuale di comunicazione di Paul Grice, dove tutto è consequenziale, ma interpretato fuori dal contesto, in modo che per il GIP diventa assurdo ma farà in modo che la nostra banda esca vincente dalla contesa. Già questo sarebbe un bel romanzo, ma lo scrittore – giornalista Jonas lo inframmezza con la storia della vita del nostro centenario. E qui vengono fuori gli altri momenti da un lato esilaranti, dall’altro che, coinvolgendo tutti i grandi attori del secolo, ne tratteggiano tutto il possibile di modo che ne esce un ritratto della storia del Ventesimo secolo, disincantato ed un po’ anarchico. Cominciando dal padre di Allan, comunista sfegatato, che fugge in Russia, dove conosce Fabergé e si mette in contrasto con Lenin quando questi sale al potere. Allan, rimasto solo ed orfano, si dedica allo studio degli esplosivi (d’altra parte siamo nella patria di Nobel), e questo lo porterà in giro per il mondo, e per le sue vicende, nel corso degli anni. Nella fabbrica di esplosivi conosce un rifugiato spagnolo, e con lui decide di andare in Spagna quando scoppia la Rivoluzione. Per la sua esperienza viene reclutato nel far saltare i ponti, cosa che fa con coscienza, ma cercando di non uccidere nessuno. Tanto che quando qualcuno sta per saltare in aria con il ponte lo salva. Peccato che sia il generalissimo Franco. E questo lo imbarca in una serie di improbabili avventure. Franco gli fa una lettera di encomio e lo imbarca su una nave spagnola, che arrivata a New York viene sequestrata. Ma lui non è spagnolo ed è esperto di esplosivi, per cui viene mandato a Los Alamos. Lì, suggerisce ad Oppenheimer il modo di far funzionare la fissione con l’esplosivo. Quindi si ubriaca con il presidente Truman, che lo invia in missione “esplosiva” in Cina con Chiang Kai-shek. Ma Allan non sopporta i boriosi e presupponenti. Quindi abbandono il Kuomintang, salvando nel contempo la moglie di Mao Tse-Tung. Vuole tornare a casa, e si avvia a piedi dalla Cina verso l’Europa. Ma in Iran viene coinvolto in altri attentati, e per salvare la pelle (sua) salva anche quella di Winston Churchill. Tornato in patria, viene reclutato dai russi per fabbricare la bomba atomica russa. Aiuta il buon Popov, ma entra in urto con l’antipatico Stalin, che lo spedisce in Siberia. Dove fugge dopo 5 anni verso la Corea. Per trovare il modo di tornare a casa, riesce ad avere un colloquio con Kim Il-Sung, che vorrebbe però ucciderlo, ma viene salvato da Mao, presente al colloquio, quando questi scopre che lui salvò la moglie. E così si ritrova a passare 15 anni di ozio a Bali a spese della Cina comunista. E tanto altro, in modo che sarà a Parigi nel maggio del ’68 ed a Mosca nell’89. Per finire chiudendo il cerchio, centenario recalcitrante nella moderna Svezia. Il bello della scrittura di Jonas è l’uso del paradossale come se fosse normale. Con il nostro Allan - Forrest Gump che non si meraviglia di nulla, basta che non lo opprimiamo con lunghe discussioni su politica e religione e che gli facciamo avere un po’ d’acquavite. Non ci chiediamo qui se il verosimile delle storie sia anche plausibile, perché ne godiamo il lato ironico pensando che, anche se non fosse così, sarebbe carino fosse stato così. Alla fine un libro che merita il successo che ha avuto. E che mi ha fatto piacere leggere, tanto che riusciva a farmi ridere fra me e me come non succedeva da tempo. Un piccolo appunto all’editore che ha lasciato un refuso nell’indicazione del titolo originale (certe attenzioni ormai sono fuori dalle logiche di chi stampa libri, peccato).
“Lei è un pensionato …. Particolare che gli fece capire che, contro tutte le previsioni e senza averci mai pensato prima, era inaspettatamente invecchiato. E lo attendevano ancora molti, molti, molti anni di vita.” (435)

Conclusioni


Questa volta le conclusioni sono brevi e plaudenti. I libri illustrano bene l’assunto iniziale. Il primo facendoci vedere i “mali” a cui si può incorrere esitando. Il secondo consigliandoci, come dicono le due scrittrici, che nel momento di prendere qualche decisione, sarebbe bene rispondere sempre “si” (e sicuramente rispondere e non tacere).

domenica 16 novembre 2014

Italia anomala - 16 novembre 2014

Un quartetto italiano con tre scrittori diversi ma vitali, in una settimana in cui, altra anomalia, v’inserisco anche i libri del mese di settembre (poiché questo dicembre non ci sarò, come sanno i miei amici viaggiatori). Così ci anticipiamo un po’. E intanto andiamo a leggere qualcosa di interessante. Il solito Vitali con due prove della saga di Bellano di buon livello (interessante soprattutto la seconda, in quanto primo libro pubblicato dal nostro dottore). Così come interessanti sono l’isolata prova di Mazzucco (migliore anche degli orridi lanci pubblicitari ricevuti) e la pièce quasi teatrale del sempre leggibile Carlotto.
Andrea Vitali “La leggenda del morto contento” Garzanti euro 10,90 (in realtà, scontato a 8,18 euro)
[A: 18/06/2013– I: 25/06/2014 – T: 27/06/2014] - &&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 238; anno 2011]
Siamo fortunatamente dalle parti del Vitali di buona resa, anche se non il migliore. Non siamo nelle vicende recenti, ma, purtroppo, neanche in quelle migliori dell’epoca littoria. Quelle che rendono meglio l’ironia e la fantasia di Vitali. Qui facciamo un ulteriore salto all’indietro. E ci collochiamo nel 1843. Quando Bellano fa parte di un Regno Lombardo - Veneto, indipendentemente dipendente (e vai con l’ossimoro) dalla corona austriaca. L’unico accenno al periodo migliore della sua scrittura, Vitali lo fa collocando l’inizio dell’azione il 25 luglio. E ben sappiamo cosa accadrà esattamente 100 anni dopo. Ma qui siamo sulle rive del lago, siamo nell’ambiente pauperato dei lavoratori di ogni giorno. Il sarto, lo stalliere, il barcaiolo, il trattore (nel senso di gestore della trattoria) ed altri che ho dovuto cercare per capirne il significato desueto (come il magnano, che sta per stagnino e lavoratore di aggeggi saldati). Dall’altro abbiamo i benestanti, per non dire ricchi signori (la famiglia Gorgia, i Testaplana, gli Spanzen), e la coorte del potere: il delegato di polizia, il podestà (che prefigura le figure littorie), il pretore. La storia, esile come tutte quelle di Vitali, non è altro che un susseguirsi di bozzetti di vita, e la descrizione dell’atteggiamento che popolo alto e basso ne ha di fronte. Neredonte (la magnana) reclama un paio di braghe dal sarto Lepido che non le trova. Sua moglie Diomira per ripicca gli nega il pranzo, e Lepido, passeggiando sul lungolago, vede i due giovani Gorgia e Spanzen uscire in barca. Sono due scapestrati, e Lepido si accorge che si avvicina burrasca. Tenta di fermarli, niente, tenta di avvertire Baldi il barcaiolo, ma questi sta pranzando e non gli da ascolto. Ovviamente i due muoiono affogati. Ed il potere, si trova in difficoltà. Primo che si trova solo un corpo, e solo Lepido sostiene che sono usciti in due. Secondo, si vanno montando ripicche e risentimenti, che nulla hanno a che fare con la morte dei giovani e molto con gli odi che sempre sottendono alla vita di un paesotto. Messo in mezzo, il pretore Scaraffia, sostenuto dalla moglie Arcana, cerca di fare un pubblico processo per stabilire cause dell’accaduto. Le sue mire sono tuttavia sconvolte prima da Gorgia senior che, distrutto dal dolore, decide di togliersi la vita. Mai non sia che i potenti non riposino in terra sconsacrata. Quindi pretore ed accoliti nascondono il fatto. E non si può far altro che spostare viepiù la luce sugli affogati. Risalendo di testimonianza in testimonianza, si arriva di nuovo al sarto Lepido. Uno bravo nel cucire, ma inutile al resto. Inutile anche ad usare le parole (ne pronuncerà un paio in tutto il libro). Il pretore capisce di avere un capro espiatorio, e lo condanna “per omessa denuncia” a sei mesi di carcere. Poiché coinvolte sono le famiglie potenti, non volendo che si parli ancora dei morti, gli viene dato carcere in isolamento in quel di Como. E lì, Lepido ha i momenti migliori della sua vita, senza Diomira che lo assilla, o questo o quel cliente che lo tormentano. Ripercorre tutta la vicenda, fino alla scena madre delle braghe. E scoperto che non fu colpa sua la loro scomparsa, si lascia morire di inedia, dando il suo cibo ai gatti. Lo porteranno morto in quel di Bellano, ma con un sorriso di tranquillità sul viso. Lui sarà quel morto del titolo, anche se non si capisce cosa intenda l’autore con la premessa di “leggenda”. La maestria di Vitali è che questa scarna storia è farcita da tanti piccoli ruscelli, che alimentano il grande fiume narrativo. La storia della famiglia Gorgia, i turbamenti del giovane Spanzen, le speranze del pretore di essere trasferito, la gonagra del podestà (come ricorda Emilio, gonagra essendo una gotta localizzata nel ginocchio) ed i suoi tentativi di mangiare comunque i pesci grassi del lago, i pranzi alla trattoria del Crachen, le comari ed i loro “gossip” ante-litteram. Insomma, il solito mondo variopinto di Bellano (e niente dintorni, che qui, essendo nell’Ottocento, ci si muove poco). Quindi, a parte la filologia del titolo, di cui aspetto lumi da intenditori letterari, direi una solida ed onesta prova, di un romanziere che cerca di rinnovare i suoi elementi narrativi, pur rimanendo legato a ciò che lo ha reso celebre nel mondo dei lettori. Il solito plauso va in ogni caso alla ricerca dei nomi di battesimo. Tutti bellissimi.
Roberto Mazzucco “I sicari di Trastevere” Sellerio euro 13 (in realtà, scontato a 11,05 euro)
[A: 18/06/2013– I: 28/06/2014 – T: 30/06/2014] - &&&& 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 277; anno 1989]
Leggendo i lanci pubblicitari dello scorso anno, che parlavano di una riscoperta di un “romanzo criminale” scritto ben venticinque anni fa, ed ambientato nella fine dell’Ottocento, avevo collocato il libro tra la mega categoria di “Gialli e affini”, lasciandolo sedimentare insieme alla gran massa di quella tipologia di libri. Ora che l’ho finalmente letto, posso smentire categoricamente: è un bello e solido romanzo, che incappa in un morto, in un’inchiesta ed un processo, ma di altro si parla. In realtà, infatti, si parla del crollo della Destra Storica, con il passaggio di potere alla Sinistra, e, contemporaneamente, al primo e definitivo sacco di Roma dopo la breccia di Porta Pia ed il passaggio della mia città a capitale dell’Italia unificata. Mazzucco si è sempre occupato di teatro, e conseguentemente di sceneggiature. E dopo aver partecipato alla stesura dello sceneggiato RAI del 1975 intitolato “Processo per l’uccisione di Raffaele Sonzogno”, con Ferruccio Amendola nella parte del trasteverino, decide di approfondire il tema, arrivando alla stesura di questo romanzo poco prima della sua morte. Peccato, che la scrittura è salda, coinvolgente, e documentata. L’autore si cala nella parte di un giovane redattore del giornale “La Capitale”, Filandro Colacito, e da quel pulpito ci narra la vicenda. Ed ovviamente gli annessi e connessi, che non sembrarono venire in luce a prima vista. Il punto centrale (o iniziale) è appunto l’omicidio di Raffaele Sonzogno, della dinastia dei Sonzogno, quelli della casa editrice. Sonzogno, garibaldino e di sinistra, con vocazione polemica, cala a Roma insieme ai bersaglieri di La Marmora, e dal settembre 1871 inizia a scrivere il suo foglio polemico. È sposato con la giovane Emilia, ed ha come stretto collaboratore un giovane romano, Giuseppe Luciani. Tipo ambiguo, fratello di pregiudicati, che sembra condividere le idee di Sonzogno. Ma forse, l’unica cosa che cerca è “un posto al sole”. Pur non avendo l’età si presenta alle elezioni del 1874, risultando in testa nella circoscrizione di Trastevere. Non potendo essere eletto, si rifugia allora verso le elezioni comunali. La Sinistra, che lo appoggiava prima, sotto la spinta di Sonzogno che sospetta brogli, ritira il suo appoggio alla sua candidatura, così che con due candidati di sinistra, ha buon gioco la destra. Sonzogno, tra l’altro, non tira fuori l’asso dalla manica: Luciani, mentre lui si spingeva verso le lotte politiche, aveva fatto in tempo a circuire la bella Emilia e metterla in cinta. Emilia fugge da Raffaele, ma Luciani, sentendo venir meno gli appoggi politici, corre a Torino dove ancora c’è molto potere, oltre ad esserci il Re. Quello di cui Sonzogno ha le prove è che il voltafaccia di Luciani avviene sotto la spinta (monetaria) dei potentati clericali romani, con capofila la Banca Romana (quella che di lì a vent'anni sarà al centro del grande scandalo). Questo perché si stava giocando la partita edilizia della costruzione della “nuova” Roma, quella che doveva accogliere burocratici ed impiegati pubblici, e le loro famiglie. La Sinistra spingeva per un’urbanizzazione verso Est, mentre il clero e la Destra proponevano Ovest. Ed in particolare la zona Prati (ah, come non sentirsi coinvolto!!!). Questo attraverso la presentazione di un controverso Piano Regolatore, in cui c’era modo di inserire anche la richiesta del Generale Garibaldi di bonificare l’Agro Pontino e di deviare il corso del Tevere a valle del Ponte Mollo. Colacito sa che Sonzogno ha le prove di tutto ciò, e sa che ha appena convinto Garibaldi a tirarsene fuori. Ma il potere è forte. De Luca, della Banca Romana, convince Luciani che deve far qualcosa. E Luciani, usando una tattica che ritroveremo negli anni del terrorismo in Italia, convince dei disadattati di Trastevere, poveri e garibaldini, che Sonzogno sta tramando contro il Generale. E con una catena di soldi e depistaggi vari, si arriva al povero Frezza, che uccide Sonzogno. Ovviamente, la polizia è connivente, ed una volta arrestati “i sicari di Trastevere”, starebbe ben ferma, se non ci fosse il delegato Galeazzi, che, instradato da Colacito, porta tutto almeno a livello Luciani. Colacito vorrebbe andare più su, ma durante il processo (che si tiene all’Oratorio dei Filippini alla Chiesa Nuova), non riesce a far alzare il tiro. Così Luciani e i sicari sono condannati all’ergastolo (e moriranno in carcere a Ventotene). Anche tutta la catena del potere fino a De Luca viene più o meno messa in ombra o “pensionata”. Rimarrà, unico e vittorioso, il potere dei costruttori che avranno mano libera per consegnarci il quartiere Prati così come lo vediamo ora. Due sono le cose che mi sono piaciute maggiormente dello scritto. Quell’entrare ed uscire di personaggi storici, da Garibaldi al figlio Menotti, da Felice Cavallotti ai Rattazzi, e chi più ne ha più ne metta. E la descrizione di alcune parti di Roma, così come quella sotto riportata. Devo inoltre sottolineare, ma non credo che ce ne sia bisogno, come Sonzogno aveva, nelle sue prove scomparse, fatto vedere che anche la Sinistra, che di lì a pochi mesi sarebbe andata al potere, aveva le mani in pasta nello scempio di Roma. Niente di nuovo sotto il sole, purtroppo. C’è qualche vicenda amorosa, qua e là, ma neanche tanto importante. C’è un dubbio sulla fine di Luciani (che Wikipedia dice essere fuggito con Emilia, ma credo che questa volta sbagli la rete, incredibile!). Dispiace, infine, che Mazzucco non ci abbia potuto dare altri scritti.
“Dopo il XX Settembre si verificò un impetuoso afflusso di nuovi cittadini a Roma: nacque rapido il bisogno di altre case, specie per gli impiegati pubblici, cioè per un ceto di limitate disponibilità economiche. La città non era preparata alla prima ondata immigratoria mentre capitali, chiarezza d'idee ed esperienze erano tutti dalla parte degli speculatori vaticani che già da un quinquennio avevano avviato una serie di costruzioni intensive. Capintesta, Francesco Saverio de Mérode, un ex ufficiale belga passato dalle armi al sacerdozio e dal sacerdozio agli affari. A lui si deve la via Nazionale sorta sulle rovine di splendide ville e di ampi giardini. Intorno a lui, una folla di piccoli imprenditori per lo più abruzzesi (tra cui un d'Amico, padre del futuro grande critico drammatico Silvio), legati a filo doppio con i clericali. Via Nazionale portò abitazioni intorno al Quirinale, residenza del papa, fino ad allora lambita dalle campagne. Ed erano campagne coltivate a vite, fianco a fianco dell'antichissimo e maleodorante quartiere della Suburra. Lassù in cima, la stazione Termini - inaugurata poco prima della Breccia - era isolata in mezzo ai prati. A sua volta, il Campidoglio era un'estrema propaggine della superba città imperiale umiliata dalla storia. Tra il Colosseo e S. Giovanni c'erano ancora gruppi di edifici, ma da lì fino ai Castelli non si vedevano che acquedotti romani e pecore in transumanza.
A nord la città finiva a piazza del Popolo. Al di qua, il medievale Borgo, al di là del fiume, Trastevere che moriva a Porta Portese e a Ripa.
Roma era ancora la Roma di trecento anni prima, la città che alcuni papi illuminati come Sisto V avevano tentato di organizzare intorno a nuclei di sviluppo attrezzati. Roma non aveva conosciuto innovazioni edilizie, accerchiata com'era dalle greggi, dalla malaria, dai banditi e dai risultati di una politica fatta di paura e di repressioni.
La ricongiunzione alla madrepatria, affidandole un ruolo per il quale era impreparata, aveva si sprigionato energie sepolte ma anche tolto ogni freno a predatori e sfruttatori.” (183)
Massimo Carlotto “Il mondo non mi deve nulla” E/O euro 9,50 (in realtà, scontato a 8,08 euro)
[A: 02/04/2014– I: 12/07/2014 – T: 13/07/2014] - &&&& 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 100; anno 2014]
Libro veloce, di lettura e di fruizione, per un autore che in genere scrive cose più corpose. Un autore su cui non torno sopra tanto ne ho parlato, tanto ho voluto e voglio bene al suo personaggio migliore, l’Alligatore per chi non lo sapesse. Ed alle sue storie di fuga in Sudamerica. Ma questo è un libro diverso, anche perché, personalmente, lo inserisco nella categoria “romanzi” tout court, senza inserire quelle punte di “noir” che sempre accompagnano il nostro amico padovano. Certo, anche qui ci potrebbe essere, forse c’è, ma la trovo non significativa, forse uno degli accidenti della vita così come viene. Inoltre ha un andamento molto “teatrale”, svolgendosi la maggior parte della vicenda in una stanza, ed essendo presenti in tutto, tre personaggi. Adelmo, lavoratore licenziato da un’azienda in crisi, che, per sbarcare il lunario, si adatta a fare il ladro, in genere in appartamenti vuoti in quella città di turisti e stranieri che è Rimini (e che Massimo ricorda con i versi di una canzone di Arbore, anche se forse io avrei citato De Gregori). Carlina, la moglie, ossessionata (e giustamente) dalla mancanza di denaro, che invecchia e non lo accetta (anche se credo siano entrambi tra i quaranta e i cinquanta), che rifiuta spesso di far l’amore con Adelmo, proprio che si sente brutta. E poi c’è Lise, la tedesca, sessantenne ancora nel pieno del suo splendore, una vita passata sulle navi a fare da croupier, ed ora ritiratasi, in base a contorti ricordi di amori passati, in quel di Rimini, dove avrebbe voluto scorrere tranquillamente il resto della sua vita. In uno dei suoi pur maldestri furti, Adelmo entra nella casa di Lise, e qui nasce il nodo del racconto, l’idea narrativa di Carlotto. Perché Lise aspettava che entrasse un ladro per fargli una proposta: investimenti sbagliati l’hanno ridotta quasi a zero. Per una come lei, avere “solo” centomila euro per vivere tutta la vita è come non avere nulla. Con l’arroganza tipica di persona intelligente e tedesca, propone ad Anselmo di dargli tutto, in cambio di una morte onorevole. Questo il dilemma morale che percorre tutto il racconto. Dobbiamo seguire le parole di Lise per capire le sue motivazioni, capire non personalmente accettare. E nel farlo, le sue parole ci fanno intravedere la vita che ha vissuto, le navi, il lusso, gli amori sballati, le decisioni forti. Intelligente e colta ha presto gioco della fantasia di Adelmo, che pur sempre è solo spontaneo, ma, come ce lo dipinge Carlotto, incolto. E come dice Lise con una punta di sarcasmo, Adelmo non è un uomo da profumi e vestiti, ma solo da cioccolatini. Eppure qualcosa aleggia tra i due. La delusione della vita che profondamente segna Lise la porta a concedersi e con trasporto al più giovane Adelmo. E lui, pur comprendendo le parole che continua, furto dopo furto, a sussurrargli Lise, chiedendo di essere onorevolmente strangolata, lui innocentemente se ne innamora. Cerca nel suo modo basico e balneare di far breccia nella granitica idea di Lise. Con regali, con notti d’amore appassionate. Ma sono su due pianeti diversi. E la lotta titanica tra i due non potrà avere che conclusioni ferali. Che Carlina lo chiama al telefono ogni volta che ruba da Lise. Che Lise non accetta ancor di più di vederselo tra i piedi la mattina, dopo un’ultima intensa notte d’amore. Carlotto ci porta con consequenzialità all’unica fine possibile. Alla morte di Lise. Alla rottura tra Adelmo e Carlina. E ad un finale di speranza per Adelmo che, pieno dell’amore a senso unico che ha accumulato in così pochi giorni, parte per Berlino, dove vivrà facendo il cameriere, ed altri “piccoli” mestieri. Finalmente forse sereno verso il mondo che l’aveva esautorato del futuro (“volevo un lavoro semplice, che mi accompagnasse fino alla pensione, e poi passeggiate in riva al mare e partite di briscola al bar, fino a lasciare questa vita senza rimpianti”). L’incontro con Lise, la consapevolezza dell’esistenza palpabile della morte, lo porta ad assaporare la vita, e quello che offre anche di minuto. Sorridendo. Un bel racconto, basato su di un assurdo mentale (il baratto tra denaro e vita), posto in termini che ce lo fanno accettare. Che ce ne fanno immaginare una sorta di eutanasia, non per i mali del corpo, ma per quelli dello spirito. Mi rende perplesso, ma è stato piacevole leggerne.
“La menzogna è l’unico, vero strumento di sopravvivenza a disposizione dell’essere umano.” (25)
“Di quello che ti succede di bello nella vita hai bisogno di parlarne perché il deserto che separa il tuo cuore dalla mente non ha confini e la parola ti aiuta a conservare … qualche indizio di realtà.” (86)
“La vita … che avevo prima me la sono lasciata alle spalle il giorno che ho capito che un uomo nasce e poi muore, ma nel mezzo può avere tutte le vite che vuole.” (97)
Andrea Vitali “Il procuratore” Garzanti euro 9,90 (in realtà, scontato a 7,43 euro)
[A: 05/06/2014– I: 25/10/2014 – T: 27/10/2014] - &&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 144; anno 1990]
Seppur pubblicato in questa veste da Garzanti solo nel 2006, questo testo è in realtà il primo scritto di Vitali, da lui redatto a partire dal 1988, all’età di 32 anni, e pubblicato presso un editore locale appunto nel 1990. Quest’edizione si completa anche con un ricordo dello stesso Vitali sulla sua voglia (atavica) di scrivere, sull’ostilità familiare, e sulla sua “liberazione” che appunto inizia in quel fatidico anno. Non ci dice, ma noi lo sappiamo, che nel frattempo è diventato medico di base a Bellano, e sempre, nelle pause professionali, ha iniziato ad appuntarsi su foglietti volanti le storie che sentiva raccontare in giro. E che poi elaborava per farne questa saga “del lago di Como” così come la conosciamo. Qui, seppure in forma embrionale, ci sono i punti salienti della sua scrittura, quella che ci fa piacere leggere nelle sere distensive. L’ambientazione nel ventennio fascista (che rimane uno dei suoi topos migliori), le piccole vicende, l’estremizzazione di comportamenti quotidiani. Non è ancora giunta a maturazione la stringatezza della pagina (qui ci sono addirittura capitoli lunghi 4 pagine) né il piacere del nome desueto e campagnolo (anche se ne sforna alcuni, come Deilde, Zita e il poco usato ma simpatico Andreina). La storia è una tipica romanza “alla Vitali”. In una giornata al solito nebbiosa sbarca in quel di Bellano, nel corso del 1938, un personaggio cinquantino elegante. È Marco Perini, giovane del luogo, ma presto allontanatosi (e scopriremo anche perché), ora tornato per riscuotere l’eredità familiare. Figlio di commercianti, esuberante (diciamolo con eufemismo) non segue le orme paterne, ma si mette sulle orme … di tutte le donzelle che riesce a trovare. Creando non pochi imbarazzi, ma ben presto volando verso altri lidi dove, tra una conquista e l’altra, si avvia a quella che sarà la sua professione: il procuratore. Non tuttavia nel senso legale del termine, ma nel senso di procuratore di donne per i casini (all’epoca si sa prosperosi). Professione di certo poco onorevole per la benpensante Bellano. Il racconto si snoda quindi su due filoni: da una parte ripercorriamo la storia del Perini, le avventure giovanili, il trasferirsi a Milano come mantenuto della prostituta chiamata Zita, le piccole ruberie, e poi le altrettanto piccole fughe quando si scoprono i suoi magheggi. Quindi una volta a Forlì, poi in campagne romagnole e lombarde, fino a diventare croupier in Svizzera. Dall’altra il suo aggirarsi per Bellano, traccheggiando con il notaio alla ricerca delle sue proprietà, rovinando un banchiere a cui chiede in contanti i soldi dei genitori, e duellando di sguardi e di grappini con il giovane Romano, entrambi avendo gli occhi verso la bella Deilde. Che guada caso, invece, è concupita con maggior successo dal giovane notaio. Come in un ballo austriaco, anche se con meno vivacità di successivi romanzi, personaggi entrano ed escono di scena, soprattutto il locale tutore dell’ordine ed il prevosto, figure al tempo importanti e sempre presenti nelle saghe di Vitali. Perini scopre anche che un lascito dei genitori è appannaggio di tal Maria, presentatasi una ventina d’anni prima con figlia in braccio. Figlia di Marco, ovviamente. Non ci sarà soverchia sorpresa nello scoprire che Maria non è altri che la Zita. E che la figlia è ora la bellissima Deilde. Questo disvelamento porta pensieri a Marco, che decide di far beneficiare la figlia ed altri giovani sodali dei suoi attuali averi. E poi sparire. Come sparirà Romano, una volta che Deilde convolerà nelle braccia del notaio. Con un ultimo sussulto di moralismo, quasi verso un lieto fine non sempre presente nelle altre sue opere, sapremmo al fine che lo scomparso Perini in realtà è di nuovo in Svizzera. Non più procuratore, ma, visto che ormai si è in guerra, traghettatore di ebrei ed antifascisti di là del confine. Ripeto le sottolineature iniziali: un romanzo di formazione del mondo di Bellano, pieno di spunti ancora acerbi che andranno maturando. Tuttavia una discreta lettura, veloce e piacevole, forse non ancora permeata dal futuro umorismo dell’autore (o forse più che umorismo, ironia). Certo un romanzo vitale (mi si permetta il gioco di parole) che rispetta le minuziose ricostruzioni storiche che mi hanno scatenato il piacere della lettura di Vitali, quello che fa muovere le sue pedine nel Ventennio. Perché quando se ne allontana, non sempre (almeno nelle prove lette finora) mi ha convinto.
Come detto, anticipiamo i titoli letti in settembre, dove a fronte di un'unica prova veramente deludente (il giallo di Sarasso), abbiamo ben 6 letture decisamente sopra la media. E se non mi sarei meravigliato se mi avessero anticipato la bellezza di lettura di Pintor, di Bassani o della Walker, non mi sarei aspettato una così degna riuscita dal non sempre riuscito de Botton, o da Peter Cameron, mentre mi aspetto sempre sorprese positive dal messicaneggante anarchico Cacucci.

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Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Alfredo Colitto
La porta del Paradiso
Piemme
9,90
3
2
Carlo Lucarelli
L’ispettore Coliandro
Corriere della Sera
6,90
3
3
Alain de Botton
Esercizi d’amore
Guanda
11
4
4
Luigi Pintor
Servabo
Bollati Boringhieri
s.p.
4
5
Simone Sarasso
Il paese che amo
Corriere della Sera
6,90
1
6
Giorgio Bassani
Dietro la porta
Feltrinelli
7
4
7
Peter Cameron
Quella sera dorata
Adelphi
11
4
8
Rosa Mogliasso
L’assassino qualcosa lascia
Sole 24 ore – Noir
6,90
3
9
Simona Baldanzi
Il Mugello è una trapunta di terra
Laterza
12
3
10
Pino Cacucci
Oltretorrente
Feltrinelli
7,50
4
11
Carrie Bebris
Le ombre di Pemberley
Repubblica – Noir
7,90
2
12
Alice Walker
Il colore viola
Sperling
9,50
4
13
Louis L’Amour
Lo svelto e il morto
Meridiano Zero
10
3
14
Mino Milani
Tradimenti
Corriere della Sera
6,90
3
15
Marco Malvaldi
Argento vivo
Sellerio
14
3
16
Michael Chabon
Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay
BUR
12
3
17
Candace Robb
La croce degli innocenti
Repubblica – Noir
7,90
3
18
Michael Connelly
L’uomo di paglia
Piemme
13
3

Come ho detto più e più volte in questa trama, qui si anticipa e si moltiplica che il Vietnam si avvicina. Ed un viaggio in cui saranno presenti ben tre dei miei amici lettori. Un successo di pubblico, per ora. Speriamo che alla fine lo sia anche di critica. Ma andiamo a continuare la preparazione del viaggio