domenica 30 giugno 2019

Un'epoca saggia sarà? - 30 giugno 2019


Hans Tuzzi “Come scrivere un romanzo giallo o di altro colore” Bollati Boringhieri euro 14 (in realtà, scontato a 11,90 euro)
[A: 25/07/2017 – I: 27/12/2018 – T: 31/12/2018] - && e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 166; anno 2017]
Anche questo è un libro entrato un po’ di soppiatto nella mia libreria. Anche se letto un anno dopo, lo comprai appena uscito per il duplice motivo che parlava di scrittura (ed io che leggo mi appassiono se ne sento parlare) ed è scritto da un giallista non prolifico, ma di peso (ed anche di altre scritture). Imparai a conoscere ed apprezzare Tuzzi sin dal suo primo “Il maestro della Testa Sfondata” del 2002 ed all’incontro con il suo commissario Melis. Ne approfondii la conoscenza e la stima, scoprendo che in realtà l’autore si chiama Adriano Bon ed è un esperto di libri antiquari ed autore di apprezzati saggi sull’editoria cartacea. Vedendo apparire questo saggio non potevo certo tirarmi indietro. Tuttavia, benché sia stata una proficua lettura, devo iniziare con qualche critica. Al titolo, ad esempio, che certo, è attrattivo per chi conosce Tuzzi, e lo apprezza come giallista, ma che poi si rivela altro nel testo. Che si parla, in finale di gialli, ma non sono il centro del saggio stesso, che, fortunatamente, si rivolge alla scrittura tout court. Con quell’evidenziazione che una scrittura “di genere” come il giallo ha sì delle sue peculiarità, ma che spesso, nei suoi più riusciti esempi, si rivela un modo per parlare del mondo, così come tutta la letteratura. Utilizzare il giallo serve, a volte, ad immergerci in un quotidiano più vicino al normale flusso della vita di ogni giorno. È un espediente, che, se ben usato, ci fa vivere comunque momenti alti di riflessione. Ripenso ad un capolavoro come “La promessa” di Dürrenmatt, o a tutto il ciclo di Maigret (di cui a lungo parlo in altro contesto). L’altro punto dolente è la ripetizione di interi paragrafi negli ultimi due capitoli, che forse avrebbero meritato una più attenta riscrittura. Anche perché sono i soli, in fondo, a rispettare l’assunto del titolo e parlare delle possibilità e delle particolarità di una scrittura di genere. Anche se mi sarei aspettato, proprio per parlare di “gialli” un cenno al caposaldo delle liste, quella delle “Venti regole per scrivere romanzi polizieschi” redatte da S.S. Van Dine nel 1928. Ma Tuzzi è un abile conoscitore della scrittura (e della lettura, che ne è l’immancabile complemento) per cui è bello ed interessante percorrere con lui alcune tappe fondamentali per portare un semplice scrivano a pensare di scrivere come uno scrittore. Il fatto che poi ci riesca o meno, dipende da qualcosa che va al di là dell’onesta artigianeria dilettantesca. Attraversiamo così le varie tappe, se mi è consentito elencarle, che portano a decidere l’indirizzo dello scrivere. Lo stile, ad esempio, che inferisce sulla struttura dello scritto. Il modo di tenere il lettore agganciato alla pagina. Certo, un buon incipit può essere d’aiuto. Ma anche un normale inizio, se seguito da piccoli ganci, riesce a tenere il lettore a sfogliare un libro pagina dopo pagina. Decidere anche tra i tre grandi paradigmi di dizione: l’io narrante, la terza persona (onnisciente o meno) oppure la polifonia (da un capolavoro come “Mentre morivo” di Faulkner ad un onesto pot-pourri avvincente come “Il trono di spade” di Martin). Per finire con il dilemma di tutti, lettori e scrittori: finali aperti o finali chiusi? Pensiamo a cosa succederà a Cenerentola dopo aver sposato il principe, o andiamo verso l’impossibilità di scrivere una riga in più su qualsiasi cosa o personaggio, come in “Cent’anni di solitudine”? E come detto, dopo averci accompagnato, con una massa di citazioni e di esempi letterari che meriterebbero pagine e pagine di discussione, Tuzzi ci porta all’assunto iniziale. La letteratura di genere, sia esso giallo, nero, rosa, o altro. Ognuna con le sue particolarità ed i suoi vincoli. E con le sue trasgressioni. Perché è avvincente sopra ogni altro momento letterario, l’autore che riesce a sovvertire le regole pur seguendole. Anche qui, rimando immancabilmente a Dürrenmatt. Finiamo appunto con i due capitoli decisivi per la lettura come l’avevo concepita: la scrittura di gialli, ma soprattutto, la lettura di gialli. Cioè un capitolo dedicato a “l’ideale lettore di gialli”, laddove in molte righe mi ritrovo (forse un po’ compiaciuto). Finendo con una frase di qualche riga anteriore alla parola fine: il lettore ideale di gialli sa che la vita è diversa dai libri. Una frase che sottoscrivo, lasciando ora questi libri, e tornando alla vita.
“Ogni racconto dev’essere scritto per l’ultimo paragrafo o forse per l’ultima riga … in questa affermazione … troviamo la differenza fondamentale fra racconto e romanzo, il ritmo.” (54)
“[che cosa succederà a] Kim? Al contrario del lama – chi poi ne ricorda il nome, a memoria? – egli è il vero protagonista.” [il libro è ‘Kim’ di Kipling ed il lama si chiama Teshoo] (100)
“Marziale: per essere perfetti è necessaria l’imperfezione.” (127)
“Cocteau: ci vogliono molti anni per diventare giovani.” (127)
“Il perfetto lettore di gialli è un lettore transgender.” [cioè legge Agatha Christie e Wittgenstein] (147)
“L’ideale lettore di gialli corregge i refusi … e individua … tutte le citazioni e gli ammicchi che tanti giallisti disseminano e celano nelle loro pagine.” (149)
“Un buon libro va sempre oltre le coscienti intenzioni del suo autore.” (149)
Stefano Rodotà “Solidarietà – Un’utopia necessaria” Laterza euro 7,90
[A: 02/07/2017 – I: 21/01/2019 – T: 23/01/2019] - &&&&--
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 138; anno 2014]
Il 23 giugno del 2017 muore ad 84 anni Stefano Rodotà e pochi giorni dopo, per celebrarne il pensiero, Repubblica in unione con Laterza ripubblica questo suo saggio del 2014 su di un tema già allora scottante ed ora sempre più sulle braci del fuoco della politica. Per i ricordi che la persona suscitava in me, come uomo e come politico, l’ho subito preso, anche se poi ho faticato a leggerne. Per la complessità della materia e per lo stile, rigoroso ma di non facile preda su di un lettore un po’ arrugginito come me nelle tematiche così istituzionalmente rilevanti. Come detto, ricordi suscitati, che ho ancora nella testa i compiti giornalistici di mio padre nella fine degli anni ’70, durante la nascita di quella avventura istituzionale della “Sinistra Indipendente”, che ne vide Rodotà presidente, mio zio Vicepresidente del Senato e mio padre giornalista accredito al Gruppo Parlamentare. Detto allora che Rodotà era una persona di un’indubbia preparazione nonché un fine giuridico, in questo veloce pamphlet parla di solidarietà, delle sue radici storiche e giuridiche, appunto, della sua evoluzione, e della sua applicabilità nel contesto del mondo attuale. Ora, io non sono sinceramente in grado di seguirne le complesse parole esplicative di Rodotà, che, tutte giuste, hanno però un andamento tale che, ad un povero lettore ed al massimo una volta matematico, sfuggono. Per la loro complessità sintattica di concatenazione logica. Allora cercherò solo di riprendere alcune bolle che mi sono affiorate nel corso della lettura, tentandone una condivisione con i miei cari tramanti lettori. Il primo pensiero è la circolarità evolutiva che segue Rodotà nel suo excursus sulla solidarietà. Parte dalla Costituzione italiana, da quell’articolo 2 che pone la solidarietà come base della convivenza sociale, cui tutti (quindi anche gli apolidi e gli stranieri, oltre che i cittadini) devono attenersi. E dopo essere passato dal Montesquieu del 1748 che cito sotto, ai concetti fondamentali della Dichiarazione dei Diritti dell'uomo e del Cittadino emanata nel 1789, che legavano intrinsecamente libertà, uguaglianza e fratellanza proprio alla solidarietà, arriva ai Trattati fondanti dell’Unione Europea, ed in particolare all’inclusione dei diritti sociali del Trattato di Lisbona del 2007. Per chiudere tornando proprio all’art. 2, dove la solidarietà è uno degli elementi connettivi non più di uno Stato isolato, ma dell’interconnessione statuale in un’epoca di globalizzazione. La conclusione che ne trae, ed a cui aderisco in toto, è che senza la solidarietà lo stesso funzionamento della democrazia risulta manchevole. Se si sgretola il consenso sociale su cui si fonda proprio la democrazia, verrebbero ad essere minate le basi stesso dello stato di diritto. C’è un passo che trovo bellissimo, dove Rodotà parte dalla citazione della parabola del Buon Samaritano, dove c’è (e papa Francesco l’ha detto più e più volte, direttamente o meno) l’accoglienza, la solidarietà con l’altro, con lo straniero. Solidarietà, non attività assistenziale, pertinente allo Stato, o carità, racchiusa in un ambito prettamente privato. Da qui, per me, parte quell’affondo alla società moderna che mi lascia perplesso per la sua grandezza e per la sua inattualità (purtroppo). Come può la solidarietà continuare ad esprimersi come principio unificante, nei processi di disgregazione in atto per effetto della globalizzazione? È possibile, può esistere una globalizzazione solidale? Se il capitalismo, se il potere economico, si unisce in forme sovranazionali, puntando irresponsabilmente solo sul profitto, a scapito di tutte le risorse, umane ed ambientali, che fanno sì che possa esistere il nostro pianeta, bisogna ricostruire un tessuto di solidarietà che non sia solo quello delle “comunità chiuse”, quello della sobrietà individuale che lessi anni fa e trovai di una forza spaventoso, se attuato, nelle parole di Gesualdi, uno degli allievi di don Milani a Barbiana. Quindi, come in modo lungimirante vide già sessanta anni fa Altiero Spinelli, bisogna unire, aggregare comunità che superino i singoli Stati (pur mantenendone le specificità) al fine di mettere argine e riparo a rischi che non sono più solo nazionali. La conclusione può essere solo una: la solidarietà deve diventare l’asse delle strutture costituzionali moderne. Bisogna trovare il coraggio, che ad esempio non ebbero i francesi nel 1789, accanto alla carta dei diritti dell’uomo, scrivere quella dei doveri! Con buona pace dei Salvini nostrani, dei Trump internazionali e di tante teste calde che porteranno, lo sappiamo tutti, ad un mondo che, da un certo punto in poi, non sarà più sostenibile. Aggiungo una mia riflessione, di quando andavo in giro a proporre progetti in varie parti del mondo: per disinnescare le mine che portano alla disgregazione certa delle azioni di solidarietà, bisogna costruire lì dove ci sono i popoli che se lasciati soli verranno a cercare minuzie di benessere altrove, il modo di farli crescere. Lì, con l’esperienza delle società avanzate, bisogna costruire per far maturare localmente il piccolo benessere possibile. Quando respingiamo i migranti o gli zingari o i negri elemosinanti ormai è troppo tardi. È necessario, sarebbe necessario, lavorare lì, non qui. Rileggendo queste righe emozionali, mi rendo conto di averle gettate più di pancia che di testa. Ma la pancia è mia. La testa la lascio a Rodotà, che scriveva e riusciva a porgere questi concetti con una lucidità cui rimando i miei ora tremanti (di paura? di sdegno?) lettori.
“Delitto … di solidarietà, quando i comportamenti di accettazione dell’altro, dell’immigrato irregolare ad esempio, vengono considerati illegittimi e si prevedono addirittura sanzioni penali per chi vuol garantirgli diritti fondamentali.” (3)
“Qualche elemosina fatta a un uomo nudo per la strada non basta ad adempiere gli obblighi dello Stato.” [Montesquieu nel 1748] (12)
“Le disuguaglianze portano le persone all’infelicità e minano la stessa efficienza economica di un sistema.” (81)
“Le vicende oggi narrate rivelano continuamente la diseguaglianza elevata a dato strutturale … il ‘respingimento’ dell’altro come riferimento forte della politica e della legislazione.” (123)
Telmo Pievani “Atlante dell’evoluzione umana” Libreria Geografica s.p. (natale di Ciccio)
[A: 25/12/2018 – I: 11/03/2019 – T: 18/03/2019] - &&&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 221; anno 2018]
Devo, senza se e senza ma, ringraziare infintamente il mio amico Ciccio sia per questo inaspettato regalo, sia, e forse ancor di più, per una dedica che, nobilitando il mio senso di irrequietezza, dona un senso meglio compiuto a molte attività, non solo mie. Il senso profondo di questo libro, didattico e comprensibile, è l’accento posto alla peripateticità della voglia di conoscenza. A quella che, con Chatwin, chiameremo “anatomia dell’irrequietezza”. Perché noi irrequieti non ce la facciamo a stare troppo a lungo fermi. E come i primi uomini, ci muoviamo, ed andiamo guardando e girando il mondo. E mentre io, con modestia e umiltà, mi muovo per vedere come siamo ora, dove siamo ora, chi siamo ora, questo fondamentale testo, con il suo stupendo corredo di diagrammi, dati e immagini, ci fa vedere come e perché l’uomo si è mosso dal suo nucleo iniziale. Come e perché questo ha generato l’evoluzione da animali forse socievoli, ma stanziali e sedentari, verso un’umanità che ha popolato tutta la terra. Evolvendosi, diversificandosi, ramificandosi. Per arrivare a noi, ora. Un percorso che comincia circa sei milioni di anni fa, quando le scimmie antropomorfe cominciano a diventare bipedi alternativi. Siamo nelle savane africane, ed alzarsi in piedi è un modo per avvistare le prede prima che loro avvistino noi. Siamo nella Great Rif Valley, laddove tutta l’umanità ha avuto inizio. E sì, perché con buona pace di tutti gli ariani doc, ed altre nefandezze culturali, dobbiamo dire che siamo tutti africani. E non è una battuta. Veniamo da lì, e da lì ci siamo mossi, prima attraverso il canale di Suez per popolare l’Europa a nord e fino alle vallate sudafricana a sud. Quella migrazione che viene chiamata “la prima Out-of-Africa”. Poi vengono freddi, poi tornano caldi, e ne comincia anche una seconda, che popola tutta l’Eurasia, cammina lungo l’attuale Indonesia, al tempo tutta terra fino all’Oceania, così da popolare l’Australia. Al nord si passeggia sullo stretto di Bering, ed i nostri antenati africani scendono lungo le dorsali americane, popolando il nord di indiani nativi, e conquistando nel sud di nuovo dei posti che riprendono i calori africani. Pare anche, che nei periodi di maggior calore, il capo di Buona Speranza sia legato a Capo Horn da un’altra striscia di terra. Ma per tornare al libro, le spinte alla conquista di nuove località abitabili vengono dal bisogno di cibo e dai cambiamenti climatici e geofisici, che servono alle scimmie antropomorfe per adattarsi alle nuove situazioni. Seguiamo, con un impianto cartografico che invidio, il biforcarsi delle scelte evolutive, fino all’arrivo sulla terra degli ominini. Non è un errore di battitura. Dalle vecchie tassonomie che parlavano di ominidi, negli ultimi decenni, la tribù che comprende uomini, gorilla e scimpanzé, si è diversificata, che i gorilla presentano alcune caratteristiche differenti, di modo che dall’ominide comune si staccano appunto i gorilla e gli ominini, che a loro volta si diversificano in “homo abilis” e “pan” (nome comune degli scimpanzeidi). Seguiamo con Telmo alcune derive anche dell’erectus, come il ramo secco dei neandertaliani, che non sono nostri progenitori, ma dei simpatici cugini estinti. Nelle sue cinque sezioni didattiche di cui seguiamo l’evoluzione temporale e cronologica della nostra specie: l’alba degli ominidi e le prime diaspore (fino a 100.000 anni fa), una pluralità di forme umane nel vecchio mondo (da 500.000 a 25.000), la seconda nascita di Homo sapiens (da 60.000 a 12.000), la rivoluzione neolitica e l’espansione globale (da 12.000 anni fa), la diversità dei geni, dei popoli e delle lingue e i crocevia dell’umanità. In fondo l’essere tutti imparentati ci rassicura anche se ora siamo 7 miliardi e mezzo di “eucariote animale cordato mammifero primate aplorrino ominide homo”. Tra l’altro sono rimasto affascinato, e voi comprenderete anche perché, dall’ultima parte del testo. Laddove l’homo abilis o erectus o come volete voi è rimasto solo, ed allora ecco che, non avendo più diversificazioni fisiche, cominciano quelle linguistiche. Un tuffo nel mosaico delle famiglie linguistiche del mondo, un tema che mi è caro sì come l’evoluzione della specie, l’adattamento e le contaminazioni. Che anche sulla lingua poi si nacque in maniera diversificata, con le famiglie linguistiche strutturate, e quelle che usavano simboli per rappresentare cose sensazioni oggetti. Rozzamente se volete la diversità fra le lingue attuali e i geroglifici egiziani, che non a caso si andarono estinguendo non riuscendo a seguire compiutamente l’evoluzione del pensiero contenuto in quella scatoletta cranica che chiamiamo cervello. Un libro magistrale, che con poche frasi di raccordo tra un’immagine e l’altra, tra una cartografia ed una ricostruzione ci consente di seguire senza difficoltà le connessioni spazio-temporali dell’evoluzione umana. Un libro memorabile, dove, insieme a Pievani non possiamo che ringraziare e rendere omaggio al grande antropologo italiano Luigi Luca Cavalli Sforza.
“Si pensa che 60.000 anni fa vi sia stata l’ondata finale di espansione di Homo sapiens fuori dall’Africa, attraverso un gruppo che probabilmente aveva affinato l’utilizzo del linguaggio articolato. Noi discendiamo tutti da questi pionieri africani e la comunicazione verbale è stata forse l’arma segreta della colonizzazione planetaria. Il linguaggio fu l’innovazione culturale cruciale che permise l’emergenza del comportamento umano moderno, dell’intelligenza simbolica e delle nostre capacità espansive e invasive.” (110)
Aldo Cazzullo “Giuro che non avrò più fame” Mondadori s.p. (Natalino di Paola&Ferdi)
[A: 25/12/2018 – I: 26/03/2019 – T: 28/03/2019] - 🕮🕮 +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 254; anno 2018]
È proprio vero che a volte ci vogliono gli amici per spingermi a leggere qualche saggio, invece dei soliti romanzi. Il fatto è che spesso dei saggi rimango deluso, non trovando argomenti che stimolano il mio interesse. Qui, al contrario, devo ringraziare i miei compagni di Natalino, che ho letto il libro con interesse, anche se non condivido le posizioni generali dell’autore. Certo, ci sono molte affermazioni condivisibili, ma al più improntate al discorso di tolleranza, mentre io, al momento, ritengo più importante mettere l’accento sulla parola “rispetto”. L’ipotesi di Cazzullo è che stiamo vivendo il presente in modo troppo passivo (condivido), e potremmo recuperare il motore delle nostre azioni ripensando al passato (qui si aprirebbe un discorso sull’abolizione della storia, dibattito che “infiamma” i terzapaginisti di Repubblica), facendo proprio il grido di Rossella in “Via col Vento” che dà il titolo al libro. Ma da quel grido, Rossella compie una serie di azioni che a me risultarono altamente riprovevoli. Meglio affidarsi, se proprio volgiamo parlare di lei, alla sua ultima affermazione “Domani è un altro giorno” (se volessimo poi dare un segnale ad una qualche idea di sinistra, inviterei a ripensare a tutta l’ultima frase del film, che recita: “A casa... A casa mia! E troverò un modo per riconquistarlo. Dopotutto, domani è un altro giorno!”). Ma questa potrebbe essere anche la fine del libro che, invece, e giustamente, ripercorre quei momenti in cui l’Italia aveva fame, quei momenti di poco dopo la fine della guerra, e che Cazzullo segue sul filo degli anni. Ci sono quei passi che ho vissuto di riflesso, quando me ne parlava mio padre, ricordandone alcuni, tralasciandone altri (che a me sarebbero forse di più serviti, come ne cito in finale). Cazzullo, che ovviamente sa scrivere, ed in modo giornalisticamente efficace, ci porta così, in questa cavalcata sul filo degli anni, a rivivere gli scontri elettorali del 18 aprile 1948, prime elezioni “libere” dopo l’approvazione della Costituzione. Vediamo gli aneliti insurrezionali seguiti all’attentato a Togliatti. Sfatiamo anche la vittoria di Bartali di pochi giorni dopo. Certo placò gli animi, anche perché Bartali (sempre tacciato di democristianismo) fu comunque una figura di rilievo (anche) nella Resistenza e nel salvataggio di ebrei (non a caso è nel giardino dei Giusti in Israele). Riviviamo le grandi tragedie: le ultime ore del Grande Torino prima dello schianto di Superga, il calvario di Fausto Coppi, ostracizzato perché adultero, morto inspiegabilmente di malaria non curata. Non mancano, e ce ne sarebbe ancora bisogno, le donne che si sono battute per un ruolo loro e del loro sesso all’interno di una società più equa. La senatrice Lina Merlin, prima donna ad essere eletta al Senato, che seguiamo in tutta la sua battaglia per la chiusura delle case di tolleranza. L’ardore, la passione, la bravura, le lotte, il rapporto di amore e odio con Rossellini, della bellissima Anna Magnani. Piccolo inciso didattico: Anna Magnani studiò recitazione a Roma, nell’allora scuola di recitazione “Eleonora Duse”, ora Accademia Nazionale, insieme a Paolo Stoppa. Ed i comici dell’avanspettacolo, da Macario a Wanda Osiris per finire con l’irraggiungibile Totò. Ma anche i personaggi dell’economia e della politica. Personaggi che continueremo a rimpiangere forse per sempre. Come dimenticare Di Vittorio? Come non pensare ad un rivale come Dossetti, diverso eppur così rispettabile da non aver paura di essere sconfitti (vogliamo paragonarlo non so ad un Di Battista qualunque? Sarebbe impietoso). Pensiamo anche ad i “martiri” dell’economia, che, anche lì con molti forse, hanno pagato con la vita l’opposizione ai poteri forti: Olivetti morto in treno mentre andava in Svizzera o Enrico Mattei, precipitato con il suo aereo. Come riporta un’immagine non ricordo dove letta, sembra veder scorrere i cinegiornali dell’Istituto Luce, con in sottofondo la colonna sonora cantata dal Quartetto Cetra. Mentre i monti si imbiancano, si avvicina il Natale, laddove si regalavano cesti di mandarini, e si andava da mia zia Lory a vedere la televisione (lei era l’unica della famiglia ad averne una). Tempi che ricordo, dove la carne si mangiava una volta alla settimana, il pollo solo in occasione delle feste comandate, e mia madre portava le camicie dei maschi di famiglia a rivoltare polsini e colletti, così duravano di più. Cazzullo, come detto, parla di allora per parlare di oggi. Lì dove il web ed il benessere hanno travolto i giovani che non hanno (molta) voglia di costruire, ed attendono. Certo, non abbiamo fame. Ma ugualmente, non abbiamo più felicità di quanto ne avevamo i miei genitori, nel loro matrimonio alla fine dell’Anno Santo, con tante speranze, e poco certezze. Con il ricordo (e qui riprendo quel fil sospeso all’inizio) di quelle manifestazioni a sorpresa a Piazza San Pietro nel 1946, quando, cristiani ma non democristiani, osarono sventolare bandiere rosse durante il discorso del Papa. Non per far abbeverare i cavalli cosacchi a quelle fontane, ma per testimoniare che si può essere coerentemente cristiani ovunque. Basta ritrovare quello che abbiamo perso: la fiducia. Nell’altro, nel diverso, nel fratello che ci sta accanto, nel figlio che non trova lavoro e che se ne andrà lontano. Ed io aggiungo, perché ormai è la mia parola d’ordine, nel rispetto. La tolleranza non deve essere più una parola del nostro vocabolario. Perché chi tollera, sopporta a mala pena. Noi dobbiamo avere rispetto, lottando sempre e per tutti, anche per chi non ci comprende. Sperando, con i miei migliori amici (che sanno che sono, senza che io li elenchi), di portare un piccolo granello costruttivo verso un mondo in cui giuro che avrò sempre fiducia. E terrò le porte aperte.
Anche se siamo all’ultima domenica del mese, in effetti è solo la seconda piena di trame. Per cui, vi prendete un piccolo allegato, dedicato a qualcosa che ci ha accompagnato nella trasferta canadese.
E dopo tanto girovagare, ci si prospetta un mese di caldo riposo per ritemprare lo spirito, le stanche membra, e quant’altro per poter poi ricominciare.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
GIUGNO  2019
Dopo aver passato due settimane in un ambiente simile, non poteva mancare questa cura.

RUSSARE

Dormire con qualcuno che russa può essere un tormento. Nella migliore delle ipotesi si finisce per dormire in letti separati e dover affrontare un futuro con minori occasioni di intimità fisica. Nel peggiore dei casi passerete la giornata con i nervi a fior di pelle per avere dormito a tratti, e la notte comincerete a odiare la persona che russa e a meditare vendetta. Per salvaguardare la vostra salute mentale e la vostra relazione - se non la vita del vostro partner - investite nell’acquisto di un paio di cuffie o di un dispositivo audio che possiate infilare sotto il cuscino, e tenete una pila di audiolibri rilassanti sul comodino. Letti con tono mellifluo e tranquillo, vi garantiamo che questi libri copriranno il russare del vostro partner senza tuttavia impedirvi di dormire. Ascoltateli tutta la notte, se necessario. Per dormire nel modo migliore, è opportuno conoscere già il libro.

I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER COPRIRE QUALCUNO CHE RUSSA

Jane Austen             “Ragione e sentimento”
Mario Benedetti        “La tregua”
Alain de Botton         “Esercizi d'amore”
lan Fleming              “Casino Royale”
Antonio Gramsci       “Lettere dal carcere”
Ismail Kadaré           “I tamburi della pioggia”
Primo Levi               “La tregua”
Manuel Scorza          “Rulli di tamburo per Rancas”
Alan Sillitoe             “La solitudine del maratoneta”
Walter Tevis             “Lo spaccone”

Bugiardino

I libri di Fleming, di Levi, di Scorza e di Sillitoe li ho letti tantissimo tempo fa e non ci torno sopra per mancanza di riferimenti scritti. Austen e Benedetti dovrei averne in qualche piega libraria che non riesco a trovare. Kadaré e Tevis mancano. Rimane allora solo il buon Alain, ma è un libro che fa piacere aver letto.
Alain de Botton “Esercizi d’amore” Guanda euro 11
[tramato il 31 maggio 2015]
Devo dire che nonostante tutto questo “intellettuale” mi diverte. Certo, non è una persona che ha dovuto sudare per farsi largo nella vita, anche se ha studiato, è eclettico, cosmopolita, plurilingue, multinazionalista. Nel senso che nasce in Svizzera da una famiglia ebrea, dove impara, oltre l’ebreo tradizionale anche se non ne professa la religione, francese e tedesco. Poi si trasferisce in Inghilterra, dove si laurea in storia, dove vive e lavora, dove riceve a 30 anni un’eredità del padre di qualcosa come 250 milioni di euro. Aveva già comunque cominciato a scrivere. Ed ha continuato, senza troppi problemi, anche se sostiene di mantenersi solo con i diritti d’autore. Ma tant’è. Ne avevo sempre sentito parlare tra un orecchio e l’altro, ma non avevo avuto l’occasione di leggerne sino ad ora. In attesa di cimentarmi con un “saggio” puro (su Proust o sul viaggio vedremo), ho letto e discretamente gradito questo che nel sottotitolo inglese porta il termine “saggi”, sottolineando che sono una serie di considerazioni filosofiche e pratiche sull’amore. Per rendere poi più seguibili le sue lunghe tirate, l’autore le intreccia con la descrizione della nascita, la crescita e la morte di un amore tra lo scrittore soggettivo ed una ragazza di nome Chloe. Motivo che consente di collocare il libro fuori da molti schemi, e che gli estensori italiani etichettano “romanzo”, termine su cui ho dubbi e riserve. E naturalmente non è neanche un saggio nel senso classico del termine. Per cui, lo inseriamo nello scatolone degli scrittori moderni di sesso maschile, e cominciamo a parlarne. Non per farne una trama, invero, che come “romanzo”, appunto, si riassume in meno di otto righe. Il pensatore e Chloe si incontrano su di un aereo che torna da Parigi a Londra, lui comincia ad abbordarla, qualche scaramuccia, ristorantino, prima scopata, sinfonie varie, cinema, musei, colazioni, non vita in comune ma amore con la valigia (in fondo sono poco più che ventenni), e quando lui dopo un annetto comincia a pensare per cicli storici, lei si fredda, e va a vivere in California con un altro, lui si incazza, pensa al suicidio, passano mesi, ed alla fine… Ed il resto? Le altre 200 pagine di cosa parlano? Essendo de Botton essenzialmente un filosofo, parlano di tutto. Ma in sostanza, analizzano, sminuzzano e commentano ogni piccolo gesto ed accidente della vita quotidiana, con le armi della filosofia. Mette in campo Platone e Hegel, Marx e Lacan, Nietzsche e chi più ne ha più ne metta. Ci si interroga su tutto: che cos’è che mi ha fatto innamorare di lei? Estetica o etica? Perché mi piacciono le sue imperfezioni? Cosa voleva dire, quando ha detto? Ma non può non piacergli quella musica. Perché si è irrigidita quando la baciavo? Perché mi ha lasciato? Cosa ho fatto io di male, io che l’amavo di un amore così totale? Potrei continuare ora si per decine di righe, ma avrete già capito l’andazzo. Intanto, se incontro uno che impiega dodici pagine per dire che vuole analizzare i motivi per cui ha avuto un colpo di fulmine, e si è innamorato, giuro lo ammazzo. Inoltre, se dopo la prima scopata e la prima notte insieme, facciamo colazione guardandoci con gli occhi dolci, e lui mi viene a fare una pippa perché ho solo marmellata di fragole, non solo lo lascio, ma impiegherò i successivi 12 mesi ad impasticciargli la scrivania con tutte le fragole che trovo. Il lui della storia è talmente logorroico che alla fine risulta appunto divertente. Con il suo marxismo amoroso, il terrorismo romantico e via discorrendo. Ecco, discorrendo. O pensando. O studiando. Sembra che per duecento pagine e più di un anno il nostro non abbia fatto un passo senza analizzare perché lo abbia fatto, i motivi, le contromisure. E bla e bla e bla. Dicendo tante cose che, per come le dice, sono delle banalità colossali (e spesso si è accusato di questo il nostro tenace scrittore). Ma facciamo anche un passo indietro, e diamo ad Alain ciò che è di Alain. Se veramente ci si interrogasse su tutte le motivazioni dei nostri innamoramenti e disamoramenti, troveremo certo una scrittura che renderebbe una strofa di Baglioni tutto il libro appena letto. Ricordo ancora un me quindicenne che si disinnamorò di una ormai dimenticata lei perché non mi piacevano le sue unghie. E di cui, ora, ricordo solo le unghie, non il nome, né il luogo, né altro. In conclusione, prendiamo il libro per quello che è, divertiamoci un po’ sopra, ed utilizziamolo per domandarci qualcosa di noi stessi. Non tanto perché quello o perché quell’altro, che diventa tutta un’operazione cerebrale infinita. Ma, visto che stiamo amando (o abbiamo amato o ameremo) godiamocelo, e facciamo in modo di essere noi stessi, in tutto. Anche quando finì, anche quando ricomincerà. Solo così potremmo affrontare quello specchio, guardarci negli occhi e sostenere il nostro sguardo, e dicendo a quella faccia: io sono così, quando sono solo, quando mi innamoro, insomma sempre. E finisco mandando un mio messaggio personale ad Alain: solo dopo aver imparato a stare da soli, si riesce ad amare, ad essere amati, ed anche a ritornare soli.
“È sempre di sconosciuti che ci innamoriamo.” (22)
“Se lei/lui è davvero così speciale [tanto che io me ne sono innamorato/innamorata] com’è possibile che lei/lui ami qualcuno come me?” (52)
“Ciò che rende l’erba del vicino più verde e desiderabile è il fatto che non appartiene a noi.” (60)
“Non esistiamo finché non c’è qualcuno che ci vede esistere, che non parliamo finché qualcuno non è in grado di comprendere ciò che diciamo; in sintesi, che non siamo del tutto vivi finché non siamo amati.” (119)

Conclusioni

Questa volta divergo in modo assoluto con le mie dottoresse in libri, che ritengo gli audiolibri uno strumento assolutamente poco consono alla lettura. Inoltre, i libri citati, a me tengono ben sveglio. Anche per meditare, con Alain, su alcune fasi dell’amore.




domenica 2 giugno 2019

Primi Hard-Boiled - 02 giugno 2019


Horace McCoy “Non si uccidono così anche i cavalli?” Corriere della sera Gialli Americani 11 euro 6,90
[A: 05/09/2017 – I: 25/01/2019 – T: 25/01/2019] - &&& ½
[tit. or.: They Shoot Horses, Don’t They?; ling. or.: inglese; pagine: 155; anno 1935]
Eccoci allora ad un’altra serie di romanzi interessanti. Anzi di gialli. Anzi, come dice il titolo della collana “I classici del giallo americano”. Che leggo in ordine casuale, cominciando da questo, undicesimo titolo della serie. Vedremo come si sviluppa questa serie, e come si contrappone all’altra, coeva ma di qua dell’Oceano, del giallo anglosassone. Qui, ovvio, si passa dalle finezze dell’investigazione all’hard-boiled o simili invenzioni statunitensi. Sono infine contento di aver iniziato da questo titolo, sia per l’autore, di cui parleremo più avanti, sia perché ricordo ancora il bellissimo film che ne trasse Sydney Pollack nel 1969, con la bellissima seppur non premiata interpretazione di Jane Fonda nella parte di Gloria. Come ricorderà senz’altro il mio mentore cugino, il film ricevette invece l’Oscar come miglior attore non protagonista per Gig Young, stano tipo di attore di cui si potrebbe parlare, ma in altra sede. Tornando allo scrittore, McCoy, americano del Tennessee, sui trent’anni tenta la fortuna ad Hollywood. Prima come attore, poi come tuttofare, con scritture, collaborazioni, attività spesso non pagate. Tutto un bagaglio di esperienze che metterà a frutto nei suoi primi tre romanzi. Di cui questo è per l’appunto il primo, datato 1935 (Horace ha 37 anni e qualche mese). Ma non riuscì mai a sfondare, barcamenandosi nel limbo delle comparsate americane. Per morire d’infarto a 58 anni, 14 anni prima che Pollack porti al successo una sua storia. In realtà, il libro non è realmente né un giallo, né un hard-boiled. È uno spaccato americano, cruento e senza speranza. Basato sull’incontro, casuale, di due vite disperate ed un po’ ai margini. Dove Gloria è senza speranza, non vede nessuna via d’uscita alla sua vita e fin dall’inizio, oltre ad essere scorbutica, antipatica, ed oltraggiosamente sincera, si interroga se la sua vita ha un senso, se vale la pena vivere ed altre “amenità”. Mentre Robert, certo senza grandi speranze, coltiva l’idea di poter sfondare. Non come attore, che non ci si vede, ma come regista. Tanto da seguire con occhi di riguardo tutte le persone che hanno la fortuna di mettersi da questa parte della macchina da presa. Il romanzo poi non ci porta a nessuna scoperta o sorpresa, che, dall’ex ergo di ogni capitolo, sappiamo che Robert sta venendo giudicato per omicidio di primo grado e ritenuto colpevole, tanto da finire (probabilmente, anche se non lo vediamo scritto) sulla sedia elettrica. E mentre questi titoli accompagnano il lettore nel breve excursus, Robert ripercorre in flashback tutta l’ultima parte della sua vita, a partire proprio dal casuale incontro con Gloria. Dopo essersi barcamenati alla bell’e meglio per un po’, a Gloria viene in mente di partecipare ad una maratona di ballo. Una gara senza fine, dove chi si ferma viene eliminato, sino a che non rimarrà una sola coppia, che si aggiudicherà la bellezza di mille dollari. Seguiamo così tutte le varie fasi della maratona, scandite da Rocky, il maestro di cerimonia (quello che frutterà l’Oscar a Gig Young), che sprona i concorrenti, che cerca, e a volte riesce, a spupazzarsi qualche ballerina. Che infine ha l’idea vincente e terribile, per accorciare la gara, di proporre ogni sera un cosiddetto derby, dove le coppie, in cui l‘uomo ha la donna legata alla vita da una corta corda, sono costrette a fare una gara di corsa tipo l’australiana del ciclismo su pista. Dove appunto, ogni sera l’ultima coppia viene eliminata. Nel corso delle varie giornate, seguiamo le vicende di alcune coppie vicine a Robert e Gloria ed altri elementi di contorno. Quella del mafioso italiano che viene arrestato. Quella della coppia incinta. Quella della ragazza minorenne. La lotta per avere degli sponsor che forniscano vestiti e scarpe di ricambio. Quella della ninfomane che ceca di andare a letto con tutti i ballerini. Ed altro ancora. Ma non è importante. Perché importa seguire il pessimismo sempre più accentuato di Gloria. Che si scaglia verso tutti. Che non ha mai un momento di serenità. Che non vede nulla nel suo futuro. Al 37° giorno (come l’età di McCoy) per una serie di motivi la gara viene interrotta. Gloria, come un cavallo cui si è spezzata una gamba, chiede allora a Robert un gesto di pietà: spararle per farla finita. McCoy riesce in poche pagine ed in pochi tratti a rappresentare tutta la crudezza della “Grande Depressione Americana”. Gli anni in cui tutto andava male, senza speranze e senza economia. Di certo è comunque una scrittura veloce, di pronta presa, quasi già cinematografica, con pochi e quasi nulli momenti di riflessione. Ma l’idea, il modo di esporla e la figura di Gloria meritano senz’altro di portare buoni voti all’autore. Meno Robert e qualche contorno. Poi, se penso a Pollack, si potrebbe volare ancora più in alto. Ma questa è veramente un’altra storia.
“Sono stanca di vivere e ho paura di morire” (103)
Horace McCoy “Un sudario non ha tasche” Corriere della sera Gialli Americani 14 euro 6,90
[A: 11/09/2017 – I: 30/01/2019 – T: 31/01/2019] - &&&&
[tit. or.: No Pockets in a Shroud; ling. or.: inglese; pagine: 199; anno 1937]
Secondo romanzo che leggo di McCoy, e devo dire che, già avendo constatato la buona prova del primo (pur nel ricordo mixato con il film di Pollack), questo mi è piaciuto di più, ed ho trovato che, per il tempo ed il luogo della scrittura, sia veramente un libro interessante. Spulciando nelle poche note biografiche disponibili nel Web, ho anche avuto la conferma che una buona traccia del romanzo deriva da esperienze personali di Horace: dal ’20 al ’30 il nostro è a Dallas come giornalista nel Dallas Journal (anche di sport) e recita in piccole parti nel Dallas Little Theatre. Esattamente come il Mike Dolan del romanzo, anche se l’azione viene spostata nella cittadina di Colton, sperduta nella vallata di San Bernardino in California. L’edizione italiana, inoltre, ha di certo beneficiato dell’ottima traduzione di Luca Conti, che ne ha reso fresco il linguaggio, anche con l’utilizzo di interiezioni non certo usuali (esempio che riporto). Unico neo/dubbio, oltre quelli strutturali che riporto più avanti, è nel titolo, che l’autore fa citare a Mike a metà romanzo, quando il giornale è accerchiato (psicologicamente) da loschi figuri, con il significato che, quando muori, non ti puoi portare molto con te. Né amori, né denari, né prove. Ma viene citato come antico proverbio celtico, che forse è vero, ma l’Oxford Dictionary lo riporta come frase nata alla meta del 1800 (citata per la prima volta in un giornale di Cleveland nel 1854). I dubbi strutturali vengono dal fatto che questo romanzo non mi pare possa ascriversi ad un filone “giallo”, né di ragionamento, né hard-boiled tipico americano di quegli anni. Seguiamo tutte le avventure giornalistiche di Mike, da quando abbandona il giornale locale, per fondare una sua rivista che gli permetta di dire tutta la verità, a tutte le traversie che lui ed i suoi amici subiscono per dire la verità e pestare i calli ai potenti, locali e non. Certo c’è una dose di violenza, ma non ci sono investigatori, poliziotti, indagini o altro. Tra l’altro, tutto il romanzo è incentrato sulle malefatte della vita americana, su cui torneremo, con alcune punte polemiche forti verso l’Europa. Lo scritto è del 1937, e ci sono diversi strali che l’autore lancia contro la “resistibile” ascesa di Hitler e Mussolini, e critiche ai loro comportamenti ed all’acquiescenza mondiale al riguardo. Non è forse un caso, quindi, che in America fu pubblicato solo nel 1948. La storia, molto basata sul dialogo (e non è un caso, che McCoy in quegli anni faceva il Ghostwriter sceneggiatore a Hollywood, con una discreta capacità nell’uso di questa forma espressiva) ci fa seguire le gesta appunto di Mike Dolan. Che lascia il quotidiano locale, e con l’aiuto della bella Myra e dell’amico Ed fonda una rivista settimanale dove inizia a denunciare ciò che il giornale non gli permetteva di fare. Comincia con la corruzione di una squadra di Baseball che vendeva le partite. Poi prosegue con lo smascherare un medico abortista, colpevole della morte di alcune ragazze in seguito ad aborti mal praticati. Questi gli mette sulle tracce il potente boss locale, fratello del medico, che cerca, anche con le cattive, di fermare l’attività di Mike. Il colpo finale è la scoperta di una organizzazione modellata sulla falsariga del Ku Klux Klan, che si arroga il diritto di farsi giustizia da sé. Mike, aiutato dal suo amico poliziotto Bud, si infiltra nel Klan, ed assiste a scene di violenza che non può fermare. Ma riesce a fuggire, e, annotando le targhe delle automobili presenti, si rende conto che i capi del Klan sono i potenti della città, i corrotti che lui sta mettendo alla berlina sul suo giornale. A questo punto l’autore poteva optare per tre diversi finali. Uno pessimistico, dove Mike viene ucciso ed i cattivi trionfano. Uno buonista, in cui, con un articolo ben strutturato e l’aiuto del poliziotto Bud, i cattivi vengono smascherati e Mike e Myra proseguono nella loro carriera giornalistica. Uno intermedio, in cui Bud salva Mike da un attentato, ma, ormai in pericolo di vita, Mike e Myra decidono di trasferirsi altrove (Los Angeles ad esempio) dove ricominciare la loro attività di denuncia lontano dai cattivi locali. Quale abbia scelto McCoy lo lascio a voi lettori. L’altra faccia del libro, oltre a questa forte di denuncia, è nella descrizione dell’allegra vita dei trentenni americani e della lotta, sempre infinita, tra le classi agiate e chi “si fa da sé”. Mike viene dal nulla, ma frequenta tutti. Ed amoreggia a più non posso con tutte le signore e signorine del luogo. Anche con la segretaria Myra, che però è l’unica che ha sempre il coraggio di dirgli cosa pensa di lui. Una parte scanzonata, che un po’ allevia la pesantezza del resto, anche se, pure qui, vengono fuori esempi di malcostume non poco censurabili (tipo divorzi pagati a suon di quattrini già il giorno dopo il matrimonio). In fondo, è un libro più complesso di quanto possa far pensare la sua collocazione storica. Un libro che ci fornisce una fotografia dell’America degli anni Trenta assolutamente fuori linea con le scritture omologate del tempo. Se McCoy fosse stato più abile anche con descrizioni e trame, poteva uscirne un libro da tenere accanto a Scott Fitzgerald e Hemingway. Non è così, ma è un libro che è giusto segnalare e leggere.
“Cazzate … e scusate il francesismo.” (97)
Jim Thompson “I truffatori” Corriere della sera Gialli Americani 18 euro 6,90
[A: 09/10/2017 – I: 07/03/2019 – T: 08/03/2019] - &&& e ½
[tit. or.: The Grifteers; ling. or.: inglese; pagine: 185; anno 1963]
Un degno scrittore del mondo americano. Una lettura interessante, forse con qualche annacquatura, dovuta ai quasi sessanta anni del libro. Ma devo senz’altro convenire che Thompson si colloca ai primi posti del genere. Anzi, nelle pattuglie di testa della scrittura. Che, a braccetto di Hammett e Chandler, può andare ovunque. Tanto che anche questa saga sulle truffe, alla fine risulta essere un libro su di uno spaccato americano. Con tante belle uscite letterarie. Certo, la fine converge più sul versante nero, ma così va il mondo. Anche per Jim che scrive questo libro quando da tempo si è installato in California, per seguire i soldi del mestiere di sceneggiatore. Dove però di soldi non ne farà mai tanti, almeno in vita. Sia per la sua produzione considerata migliore, i libri scritti tra la metà dei ’40 e la metà dei ’50. Sia anche per le sceneggiature, dove avrà difficoltà a farsi riconoscere i meriti, ma che per me rimarrà indelebile per la parte da lui avuta in uno dei più bei film antimilitareschi, quel “Sentieri di Gloria” di Kubrick con la magistrale interpretazione di Kirk Douglas (e che spero Luciano ricorderà in una mia magistrale lezione universitaria). Questi truffatori sono ormai nella seconda parte della carriera, già più segnata dai possibili impatti sul cinema. Anche se bisognerà aspettare il 1990 per vederne il film (intitolato “Rischiose abitudini”) per la regia di Stephen Frears e le magistrali interpretazioni di John Cusack, Anjelica Huston e Annette Bening. Ma per venire al libro, per buona parte è veramente uno spaccato di un certo tipo di America. Laddove seguiamo le vicende ed i modi di vivere dei tre personaggi principali: Roy, sua madre Lilly e la sua amante Moira. La capacità di Thompson è di farci arrivare, a poco a poco, al nocciolo dei personaggi. Il primo che dispiega (quasi) tutta la sua essenza è Roy: venticinquenne, dedito a piccole e grandi truffe. Figlio di Lilly, che lo ha avuto a 14 anni, cresce nell’ombra della madre, dura e sempre alla ricerca di denaro, come doveva fare una donna degli anni ’50 senza arte né parte. Intelligente e svelto, Roy si costruisce un suo modo di vivere, ed appena può, lascia i lidi materni (del padre nulla si sa). Cominciando con piccoli trucchi, come quello, stupendo, dei venti dollari: entra in un negozio, compra caramelle per pochi cent, paga con venti dollari, si fa dare il resto, poi trova i cent che stava cercando in tutte le tasche, paga con quelli e si fa ridare i venti dollari. Un trucco che necessita una buona dose di faccia tosta e di sveltezza di esecuzione. Ma Roy fa anche truffe più in grande, con le carte, con i dadi, raggirando i gonzi. Tanto da mettere da parte, nel suo alloggio californiano, cinquantamila dollari. Quando un trucco gli riesce male, e sta per lasciarci le penne, ecco che entra in scena Lilly, la madre vagabonda, che si è legata al mondo di scommettitori ed altra gente ai margini. Lilly lo salva, trovandosi per caso a Los Angeles, dove, per conto di una banda di malavitosi, ha il compito di drogare le scommesse sui cavalli, puntando in modo da far scendere le quotazioni dei favoriti e salendo quelle degli outsiders. Insomma, anche lei vive di espedienti. Peccato che per salvare il figlio mette in pericolo la sua carriera. Tutto è percorso poi dalla presenza di Moira, amante più grande di Roy, che sembra solo volerne la parte erotica. Ma che poi scopriamo essere essa stessa una truffatrice, che aveva vissuto per anni con un mitico “Cole The Farmer”, uno dei più noti truffatori dell’epoca, con il quale inscenava grandi truffe edilizie per raccogliere fondi con scene finali di arrivo di (finta) polizia, ed altri trucchi scenografici. Mentre Thompson ci narra le vicende dei tre, le loro vite si intrecciano. Intanto, ognuno scopre che gli altri sono essi stessi truffatori. Ma quando Moira propone a Roy di unire le loro capacità, questi rifiuta, che vuol rimanere battitore libero. Moira si vendica denunciando Lilly agli allibratori che avevano perso soldi per le sue mancate scommesse. Lilly stessa vuole da Roy i soldi che questi ha racimolato con le sue truffe, per poter fuggire dai cattivi che le ha scatenato Moira. Nella parte finale, i tre truffatori avranno modo di spiegare tutte le loro arti, ed alla fine, come in un romanzo alla Christie, solo una persona ne uscirà viva. Thompson imbastisce un finale duro e senza speranze, cattive quasi. Ma d’altra parte, come non aspettarselo da uno scrittore eclettico, che cita, con proposito, Dostokjeski, ed imbastisce una trama che figlia direttamente dalle tragedie greche. La bravura di Thompson è di imbastire la trama anche di altri personaggi, tutti interessanti, tutti particolari. Non ne faccio elenchi o citazioni, ricordo solo l’interessante figura di Carol, l’infermiera immigrata fuggita dai campi di sterminio di Dacahu. Un libro duro, non consolatorio, ma che rappresenta, con cruda esattezza, una parte della vita americana che noi, di qua dell’Oceano, tendiamo a dimenticare che esista. Veramente una bella penna.
David Goodis “C’è del marcio in Vernon Street” Corriere della sera Gialli Americani 23 euro 6,90
[A: 13/11/2017 – I: 27/02/2019 – T: 28/02/2019] - && ---
[tit. or.: The Moon in the Gutter; ling. or.: inglese; pagine: 157; anno 1953]
Ora, David Goodis è un onesto scrittore ed anche un bravo sceneggiatore (come dimenticare “Giungla Umana”, uscio in Italia come “La fuga” con i mitici Bogart-Bacall?), ma di certo non è un Tennessee Williams o un Arthur Miller che riescono a tirar fuori l’anima della vita americana perduta tra sbandati ed altra gente alla deriva. Inoltre, e questo ne è un esempio, non sempre scrive “noir”. Come in questa “Luna sopra la grondaia”, che diventa inopinatamente questo marcio in Vernon Street, dato che esce in prima assoluta negli anni Cinquanta, per i Gialli Mondadori, che avevano bisogno di un titolo “acchiappa-gonzi” per aumentare le vendite. In effetti, tutto il libro, breve ed a volte intenso, è basato sulle peripateticità di Bill Kerrigan, che per tutto il testo, vaga tra il porto, dove lavora (rimandando ad un grande Marlon Brando di “Fronte del porto”), Vernon street dove abita ed i luoghi più “puliti” dove cerca di capire se può svoltare la sua vita unendo il proprio destino con quello di Loretta, donna dei “quartieri alti”. Tutto si muove nella Philadelphia natia di Goodis, che da lì prende le mosse, con un retroterra russo-ebraico che affiora di tanto in tanto nelle atmosfere e nei sensi di colpa. Bill è ossessionato dalla morte della sorella Catherine, avvenuta alcuni mesi prima. Non è stato mai chiarito il mistero della morte, o forse solo in parte. Forse Catherine è stata violentata e non ha retto i sensi di colpa e si è uccisa. Forse chi l’ha violentata l’ha anche uccisa. O forse anche altro. Ma seppur questa ossessione percorre tutta l’esistenza di Bill, quello che andiamo scoprendo, pagina dopo pagina, riga dopo riga, è questo mondo di emarginati che vive nella squallida Vernon Street, e da cui non riesce ad uscire. Sono ladri, prostitute, ubriaconi all’ultimo stadio. Tutto un fondo dell’umanità arrivata al capolinea di sé stessa. Intorno a Bill, ruotano gli altri personaggi del dramma senza speranza. Frankie, il fratello alcolizzato e schizofrenico, che ricalca (anche se solo da lontano), lo stesso fratello di Goodis, anche lui malato. Il padre Tom, sempre dietro a qualsiasi donna che cammina, e sempre in eterno conflitto con la (terza o quarta, ho perso il conto) moglie Lola, un po’ manesca ma nel fondo con un profondo senso della giustizia locale. Bella, la figlia di primo letto di Lola, completamente innamorata di Bill, ed anche completamente gelosa. Di una gelosia che rasenta la morbosità, e la quasi follia, se per essa si arriva al limite della soppressione fisica. E poi ci sono i derelitti di Vernon street, spesso raccolti nell’unico pub locale, a bere ed immaginare altre vite da vivere. Come l’ex-pittore Mooney, che per vivere ora dipinge le insegne dei negozi, ma che era innamorato senza speranza di Catherine cui aveva fatto uno dei più bei ritratti di tutta la città. Su questo corpo di gente che va alla deriva, si innestano i fratelli Channing, Newton e Loretta. Il primo, molto ma molto disturbato, attratto dall’abisso di perdizione della strada, dove si reca per affogare nell’alcool tutti i sui sensi di colpa. Per aver provocato l’incidente dove sono morti i suoi genitori. Per aver rovinato la vita di tutte le donne con cui si è sposata. La seconda, spesso per riprendere e portare nei quartieri alti il fratello. Ma la prima volta che Loretta e Bill incrociano gli sguardi, nasce un’attrazione fatale ed irresistibile. Bill è soggiogato dalla bellezza di Loretta, ma è anche conscio delle loro differenze di stili di vita. Forse potrebbe sfruttarne la diversità per fuggire da Vernon street, e dimenticare la storia della sorella. Loretta è attratta dalla “veridicità” dell’uomo Kerrigan, che in fondo è onesto, buono, oltre che un pezzo di marcantonio da non finire più. I due a lungo fanno schermaglie, si avvicinano e si allontanano. Arrivano anche a sposarsi (ma Goodis glissa se consumano o meno il matrimonio). Si arriva così alla scena finale e capitale. Bill è profondamente convinto che Frankie sia la causa della morte della sorella. Ma nella scena in cui (forse) cerca di ucciderlo, ha una serie di in-sight. Potrebbe essere stato il pittore Mooney geloso. Potrebbe essere stato Newton in preda a qualche delirio. Potrebbe infine essere stata la stessa Catherine, quando capisce che non riuscirà mai ad uscire da Vernon Street. E qui Bill ha due alternative: prendere Loretta per mano ed andare via da Vernon street o lasciare Loretta, e tornare in Vernon Street con Bella. Lascio agli onesti lettori la scoperta della vera fine, ricordando solo due cose. La scrittura di Goodis, in questo testo, non è così coinvolgente come avrebbe potuto essere per farne un testo significativo. Il libro, come molte opere di Goodis, verrà portato sullo schermo negli anni ’80, ben dopo la morte dell’autore, in un film francese con Gérard Depardieu nella parte di Bill Kerrigan, Nastassja Kinski in quella di Loretta e Victoria Abril in quella di Bella. Per la regia di Jean-Jacques Beineix (sperando che i miei cugini cinefili se ne ricordino).
David Goodis “Sparate sul pianista” Corriere della sera Gialli Americani 20 euro 6,90
[A: 01/11/2017 – I: 14/03/2019 – T: 15/03/2019] - &&& -
[tit. or.: Down There; ling. or.: inglese; pagine: 204; anno 1956]
Devo dire che, alla fine, David Goodis è risultato un autore interessante. Non sarà certo un caso allora (e Alessandro me lo confermerà) che da questo romanzo il grande Truffaut escogita il suo film “Tirez sur le pianiste” con protagonista Charles Aznavour. Non entro qui nelle differenze tra il testo e lo schermo, che sarebbe utile in altro spazio. Qui sottolineo solo come Truffaut abbia utilizzato il titolo con cui uscì la seconda edizione del libro (non concordata con Goodis) mentre il titolo originale era quel “Laggiù”. Che si riferisce ovviamente ai bassifondi di Philadelphia, una location non usuale per un noir americano, che in genere si svolgono nel 60% dei casi in California e nel 35% a New York. Ma Goodis è discretamente atipico in queste sue scelte, forse anche perché proprio da Philadelphia proviene, ed è interessato alle dinamiche della sua città. E dove, dopo un fertile periodo hollywoodiano, torna per gli ultimi 15 anni della sua vita. Il periodo di Hollywood, ricordo per i meno attenti, culmina con il magnifico film “Dark Passage” (in italiano “La fuga”) del 1946 con Humphrey Bogart e Lauren Bacall. Come, e forse meglio che, nel precedente, si sente l’attenzione di Goodis ai “suoi” luoghi, e la ricerca non di effetti da “colpo al fegato” del lettore, ma verso una lenta ma congruente scoperta di cose, fatti, situazioni ed altro. Ad esempio, qui si comincia con un lungo capitolo in cui seguiamo le vicende di tal Turley che scappa inseguito da loschi figuri. Per poi capitare nel losco bar in cui suo fratello Eddie suona il piano. E da quando Eddie ostacola i due cattivi per far scappare Turley, seguiamo tutta un’altra storia. Che il libro, in effetti, è imperniato sulla figura di Eddie. Sul mistero che racchiude in sé questo virtuoso della tastiera che a nessuno dà confidenza. Che parla poco con Plyne, il gestore del bar, un ex-lottatore ancora in carne. Che ogni tanto si accompagna con Clarisse, una prostituta dal buon cuore che, in fondo, tiene a Eddie più di quanto lui comprenda. Che proprio nella mischia generata dall’arrivo di Turley, scopre l’esistenza “reale” (che fino ad allora ne aveva vista solo l’ombra) della cameriera Lena. La quale, vistolo in difficoltà, gli si appiccica (e noi capiamo che in lei nasce un vero sentimento), e lo aiuta in diversi frangenti. Ma intanto Turley è riuscito a scappare, mentre i due gangster sono in giro, e riescono a rintracciare Eddie e Lena, per la delazione di Plyne. Riescono a fuggire, hanno una violenta scena di svelamento di minacce e tradimenti con Plyne, che muore accidentalmente per mano di Eddie. Finalmente, i due fuggono nella casa di campagna di Eddie, da dove lui mosse i primi passi, e dove ritrova Turley e l’altro fratello, il ben più cattivo Clifton. Fino alla scena clou dell’arrivo dei cattivi, delle sparatorie, delle morti. Certo non vi dico chi vive e chi muore, che quello che rende interessante tutto il romanzo non è tanto questo “sovra-plot” noir, ma tutta la storia di Eddie, che, tra una riga e l’altra, mai in flashback, ma piuttosto in ricordo, riviviamo e che fa salire il libro di qualche punticino. Perché i fratelli Lynn vengono da quella casa di campagna. Ma mentre Clifton e Turley si dedicano a ruberie e truffe varie, Eddie è “la pecora nera” che il padre, alcolista disoccupato, inizia all’arte pianistica. Per sfuggire il mondo violento dei Lynn, Eddie si butta a capofitto nella musica, scalando con fatica diversi gradini da gavetta pura. Poco prima del suo debutto sul palcoscenico scoppia la guerra, e la sua carriera si ferma. Al ritorno nessuno lo conosce più, si adatta a dare lezioni di piano, fino ad incontrare una gentile signorina di cui si innamora. Che gli dà anche la forza di ritentare ad uscire sulla scena. Fino a trovare un agente vero, che lo prende sotto la sua ala, e lo fa debuttare alla Carnegie Hall. Ecco che il grande Edward Webster Lynn sembra aver imboccato la strada giusta. Concerti in America, concerti in Europa. Ma la moglie incupisce vieppiù. Era una ragazza semplice, che lui pensa sia oberata dal peso del successo e da ambienti altri. Scoprirà invece che lei è sommersa da immensi sensi di colpa, per aver ceduto alle lusinghe dell’agente che le aveva promesso sostegno al marito in cambio di sesso. Un peso che lei, ad un certo punto, non riesce più a sostenere, e si getta dal piano alto dell’albergo. Eddie è devastato. Regola i conti con il bieco agente, ma poi si butta laggiù, a fare il barbone nei bassifondi di Philadelphia. Di abiezione in abiezione, fino a che, stordito e quasi inebetito, riesce solo a rimettersi, muto e solitario, al piano di quel pub dove lo troviamo all’inizio. Dove non dà confidenza a nessuno. Dove vuole portare avanti la sua inutile vita (così ormai la pensa). Leggete quindi per capire se e come Goodis cercherà di arrivare ad un finale sensato per la storia. Io credo di sì, forse con qualche sbavatura, ed un punto negativo per quei pasticci sul titolo. Ma a consuntivo un romanzo interessante.
Prima domenica di giugno, con la prospettiva di un mese di poche trame. Ma non possiamo tirarci indietro dalle letture di marzo, mese molto denso di letture interessanti. Illuminate da Thompson sul fronte dei gialli e dal gradito libro regalatomi dal mio amico Franco, il superbo Atlante di Pievani.

#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
William C. Gault
Fuoco incrociato
Corriere della sera Gialli
6,90
2
2
William C. Gault
Un’esca per la belva
Corriere della sera Gialli
6,90
2
3
Klaus Modick
Concerto di una sera d’estate senza poeta
Corriere della Sera Arte
7,90
2
4
Jim Thompson
I truffatori
Corriere della sera Gialli
6,90
4
5
Paola Mastrocola
Non so niente di te
Einaudi
12,50
3
6
Wade Miller
Quattro giorni di guai
Corriere della sera Gialli
6,90
2
7
Wade Miller
La scelta del killer
Corriere della sera Gialli
6,90
3
8
Stephanie Cowell
La donna col vestito verde
Corriere della Sera Arte
7,90
3
9
David Goodis
Sparate sul pianista
Corriere della sera Gialli
6,90
2
10
Telmo Pievani
Atlante dell’evoluzione umana
Libreria Geografica
s.p.
4
11
Gianni Materazzo
I labirinti della memoria
Repubblica Italia Noir
7,90
2
12
Chiara Gamberale
L’isola dell’abbandono
Feltrinelli
16,50
3
13
Michele Catozzi
Acqua morta
Repubblica Italia Noir
7,90
2
14
Alice Hoffman
Il matrimonio degli opposti
Corriere della Sera Arte
7,90
2
15
George Harmon Coxe
L’occhio indiscreto
Corriere della sera Gialli
6,90
2
16
Aldo Cazzullo
Giuro che non avrò più fame
Mondadori
s.p.
2
Dicevo un giugno di poche trame che si dovrebbe tornare presto al di là dell’Oceano, come scoprirete se non mi sentirete la prossima settimana. Anche di molte idee cui mi spingono a riflettere i miei amici Roberto e Pietro. E vedremo se uscirà qualcosa, oltre le spinte. Mese infine, di piccoli pensieri privati, dedicati ai miei sempre meno numerosi zii. Ma bando alla tristezza, vediamo il caldo che avanza.