domenica 26 maggio 2019

Maigret 14 - 26 maggio 2019


[A: 21/09/2016 – I: 30/12/2018 – T: 09/01/2019] - &&&&-
[tit. or.: vedi singoli libri; ling. or.: francese; pagine: 835; anno 2016]
Siamo arrivati al penultimo atto della lunga saga dedicata al commissario Maigret. Con questi, diventano 70 i titoli letti nell’arco di questi quattro anni. In questa tornata, tutta svizzera, come tutto svizzero sarà l’ultimo periodo della vita di Simenon, siamo un po’ sul limitar del bosco. Il tono, l’atmosfera sono sempre di buon livello. A volte fallisce un po’ l’intreccio, a volte la spinta dell’autore verso una sua tesi che lo preme interiormente, porta a qualche ruggine nella riuscita globale. Vedremo il prossimo ed ultimo, per tirare le fila.
Titolo
Scritto
Uscito
Data
Luogo
Il ladro di Maigret
5 – 11 novembre 1966
Scritto a Epalinges (canton de Vaud) (Svizzera)
Aprile 1967
Maigret a Vichy
5 – 11 settembre 1967
Scritto a Epalinges (canton de Vaud) (Svizzera)
19 gennaio 1968
Maigret è prudente
24 – 30 gennaio 1968
Scritto a Epalinges (canton de Vaud) (Svizzera)
1968
L'amico d'infanzia di Maigret
18 – 24 giugno 1968
Scritto a Epalinges (canton de Vaud) (Svizzera)
4 novembre 1968
Maigret e l'omicida di rue Popincourt
15 – 21 aprile 1969
Scritto a Epalinges (canton de Vaud) (Svizzera)
30 ottobre 1969
[tit. or.: Le voleur de Maigret; ling. or.: francese; pagine: 11 – 175 (165); anno 1967]
Sono ormai più di 35 anni che Simenon pubblica le avventure del commissario Maigret, e, benché sempre prolifico, sembra attraversare momenti di crisi e di allontanamento dalle vicende poliziesche. In questo 1966, ad esempio, passano ben nove mesi prima che riprenda in mano le storie del nostro Jules. È sempre rintanato, come rimarrà sino alla fine, nella Svizzera che lo ha accolto, ed è sempre più rivolto al suo interno familiare. In aprile, per Pasqua, torna per una settimana a Parigi con i figli Marie-Jo (che continua a non stare bene mentalmente) e Pierre, mentre in maggio si accorda con un editore svizzero per la prima pubblicazione integrale delle sue opere. L’estate decide di passare le vacanze con i figli e Teresa a Royan, sopra Bordeaux, dove però è colpito da una fastidiosa nefrite. Ma prima di tornare a Losanna per farsi curare, decide di fare una tappa a La Rochelle, che vuol far vedere a Teresa. In settembre, infine, partecipa a Delfzijl in Olanda all’inaugurazione di una statua dedicata al «suo» commissario, alla presenza di molti interpreti cinematografici e televisivi di Maigret stesso. Una cerimonia che rimarrà impressa nella sua mente, facendogli venire in mente tutti i rapporti con il cinema che ha avuto negli anni. Un tarlo che butterà fuori in questo scritto di novembre dello stesso anno. Perché Simenon non è stato mai contento di come il mondo in celluloide ha trattato Maigret, anche se diventerà negli anni amico di Jean Renoir, di Fellini o di Jean Gabin. Gli rimarrà sempre un piccolo rancore dentro, che cerca di esorcizzare in questo “Ladro” descrivendo con toni poco amichevoli la banda del Vieux-Pressoir, una banda di finti amici, tutti legati a filo doppio con Walter Carus, un produttore cinematografico quarantenne, dedicato il più delle volte alla bella vita ed alle belle donne, piuttosto che a produrre film interessanti. Una banda che vede intorno a Carus, la sua amante Nora, lo scultore Maki, lo scenografo Framin, il fotografo Huguet e la coppia formata da Francis Ricain e sua moglie Sophie. La vicenda, che inizia un tiepido 15 marzo, prende l’avvio dal furto che Maigret subisce in autobus del suo portafoglio, non solo con i pochi soldi, ma anche con il suo badge di poliziotto. Piccolo inciso, Simenon, nel ’52, quando visitò il Quai des Orfèvres, ricevette un badge analogo, dal numero “0000” con su scritto “commissaire Jules Maigret”. Badge che utilizzò una sola volta, quando lo mostra ad una pattuglia di vigili che lo aveva fermato per eccesso di velocità, ma che, riconosciutolo dalla medaglia, lo lasci andare. Ma tornando alla trama, Maigret scopre che è stato Ricain ad effettuare il furto, un venticinquenne squattrinato, narcisista e illuso di essere destinato ad una grande carriera. Ricain che lo coinvolge nella “sua” storia, portandolo alla scoperta della morte della moglie Sophie. Da qui, appunto, l’immersione nel mondo tra lustrini e pochi quattrini della gente del cinema di Carus. Maigret è subito convinto che sia proprio in quella cerchia che vada cercata l’origine del delitto. Allora, eccolo che cerca di comprenderne i meccanismi, le pulsioni. Cerca di capire la personalità di Sophie, laddove Simenon è sempre propenso, e noi con lui, a credere che decifrare un delitto significa soprattutto capire chi sia la vittima. Sophie che è soggiogata dalle belle parole e dalle illusioni di Francis. Ma che non disdegna di andare a letto e farsi consolare da molti della cerchia che si riunisce spesso nella brasserie. E mentre Francis, sempre senza un soldo e senza una prospettiva, cerca di non affondare nello squallore quotidiano, Sophie sembra vieppiù attratta dall’anziano (per lei) Carus, che forse potrebbe offrirle prospettive nuove. Una deriva che rende possibile una serie di scenari delittuosi: uno dei tanti amanti che si sente scaricato, Nora, l’amante ufficiale di Carus, che teme di essere messa in un angolo dalla nuova arrivata, Carus, che forse la usa per trastullo e che ha paura di essersi spinto troppo avanti, Francis stesso, che Sophie trattava da fallito. Il bel passaggio di Simenon è lo spazio dedicato ai dubbi di Maigret sul comportamento di Francis, perché è proprio lui che si rivolge a Maigret avendo trovato la moglie morta sul divano. È proprio lui che, indigente, fa il furto, ma restituisce portafoglio e badge a Maigret dicendo di averne seguito le storie, e di essere sicuro dell’onestà lavorativa del commissario. Altro dato, sempre più presente in queste storie finali del commissario, è la presenza di ricordi di Maigret. La pensione si avvicina, lui pensa sempre più spesso alla casetta in campagna che sta mettendo in piedi con la moglie, che gli fa ancora dei buoni manicaretti, e con la quale va sempre al cinema (qui si chiude il cerchio di Simenon, che non sopporta chi malmette in scena i suoi libri, ma che fa spesso andare la coppia Maigret a vedere un bel film di Chaplin o anche un western, passione del commissario. E come al solito, l’altalena dei capitoli serve a mettere in luce il dualismo tra Maigret e Francis, che scopriamo ben presto, essere trattato da fallito nel suo ambiente. Ha fatto il giornalista ed il critico cinematografico, è stato assistente alla regia e scrittore di dialoghi. Senza mai brillare troppo, ma senza che questi fallimenti gli impedissero di vantarsi e di parlare del futuro luminoso a cui, inevitabilmente, era destinato. Il tira e molla tra Maigret e Francis, porterà alla fine il commissario ha capire la trama del delitto, ed a sbrogliare tutti quei nodi che ho elencato sopra. per finire, sottolineo che, come gli ultimi scritti, questi redatti ad Epalinges vengono da Simenon scritti direttamente a macchina e non più preceduti dalla redazione di un manoscritto autografo. Simenon non ha più bisogno di segretarie, o di altre fantasie domestiche, laddove ormai sembra esserci, discreta e silente, solo Teresa.
Dove
Protagonista
Altri interpreti
Durata
Tempo
Parigi (principalmente quartiere di Granelle)
François Ricain detto Francis, giornalista, critico cinematografico, all’occorrenza assistente alla regia e scrittore di dialoghi. Sposato, senza figli, 25 anni.
Sophie Ricain, nata Le Gal, sposa di François, 22 anni, la vittima.
Walter Carus, produttore di film, quarant’anni.
Nora, la sua amante.
Lecœur, detto Maki, scultore.
Gérard Dramin, scenografo.
Jacques Huguet, fotografo, 30 anni.
4 giorni
15 – 18 marzo
[tit. or.: Maigret à Vichy; ling. or.: francese; pagine: 179 – 344 (166); anno 1968]
Come avevo detto nel precedente, sempre più rarefatti in questa fase i «nostri» Maigret. Qui, addirittura, passano ben 11 mesi prima che Simenon ritorni alle vicende «poliziesche». Perché intanto, con gli alti e i bassi continua la sua vita familiare: vacanze invernali a Crans-sur-Sierre con la famiglia, interviste televisive, uscita del primo dei 72 volumi delle opere complete. Vita che soprattutto, ora, gravita intorno a Tersa, ora che Denise è ricoverata stabilmente. Tanto che in aprile, su invito di Mondadori, fa un giro promozionale in Italia, sempre con Teresa. Né si dimentica dell’anziana madre che si trasferisce nel mese di giugno presso la famiglia Simenon a Épalinges. In agosto, invece, fa una strana esperienza curativa, trascorrendo con tutta la famiglia un mese presso gli stabilimenti termali di Vichy. Una strana esperienza, per lo scrittore inquieto, tanto che in settembre mette mano a questo Maigret … a Vichy. Non è facile trovare molti dei 75 volumi maigrettiani che si svolgano tutti fuori Parigi. In effetti, secondo una statistica dell’ottima Murielle Wagner, una delle maggiori esperte dell’opera, ben il 64% dei capitoli dedicati alle vicende del commissario si svolge a Parigi, il 36% in Francia e l’8% all’estero. Non ci si meravigli del fatto che il totale è 108%, che alcuni capitoli sono collocabili in due diverse categorie. Non solo ma nell’ultimo periodo (diciamo dal dopoguerra in poi) a parte i Maigret “americani”, questo è il solo volume che si svolge interamente fuori la “ville lumière”. Altra particolarità è l’immediatezza tra sensazioni e scritture, che passa solo un mese tra le passeggiate con Teresa tra i viali di Vichy, con gli incontri con il suo editore, Sven Nielsen, con il cantante corso Tino Rossi, con il suo esegeta gastronomo Robert Courtine (di cui posseggo l’introvabile “La cucina della signora Maigret”), mentre in genere faceva passare anni (le migliori descrizioni delle strade parigine avvengono ad esempio proprio nei romanzi del periodo americano). Ma Simenon è preso dall’atmosfera calma delle terme, e vi trasporta il nostro povero Jules, che, sotto il consiglio dell’amico medio Pardon, si concede un mese curativo, con passeggiate, bevute, ed ascolto della musica nel parco. Inciso, è proprio con il dottore che ricorda il suo vizio di bere, durante un’inchiesta, sempre lo stesso vino. Peccato che qui, a Vichy, beva soltanto acqua e non il Vouvray frizzantino… Con un clima diverso che pervade tutto il libro, fin dall’attacco, che non ci porta in descrizioni di luoghi e situazioni, che non ci porta nella camera da letto dei coniugi con la signora Louise che porge il caffè all’amato. Ma è un attacco dove prende la parola proprio la signora Maigret. “Tu li conosci?” ci introduce in quel clima di rapporti formali, di saluti e di sorrisi, rilassante a volte, ma di certo un po’ falso e stonato per l’ambiente solito dove bazzica il commissario. Perché si incontrano persone, magari si conoscono di vista, come di vista i Maigret vedevano la signora spesso seduta in prima fila ai concerti nel chiosco. Signora che viene trovata morta nel suo appartamento, di cui affittava le stanze per l’estate. Maigret non vorrebbe essere coinvolto, ma l’indagine è affidata al commissario Lecœur, un tempo a lui sottoposto. Che non dimentica il suo vecchio capo, e lo associa informalmente alle indagini. Con quest’aria di poca partecipazione si svelano a poco a poco diversi scenari, cui Maigret partecipa alla delucidazione solo facendo domande, chiedendo, pensando, suggerendo. Senza essere lui in prima persona a portare avanti l’inchiesta. La signorina Lange si rivela misteriosa, così come la sorella Francine, che verrà per i funerali (e su questo torneremo in finale). Come hanno fatto le sorelle nullatenenti di La Rochelle a costruirsi nel tempo delle solide basi economiche? Perché la nostra Hélène si allontana periodicamente da Vichy, girellando per la Francia? È vero che sempre lei, Hélène, aveva avuto per alcuni anni un rapporto intimo con un industriale di successo? Chi è il losco figuro che accompagna Francine? Che ruolo hanno gli affittuari della cassa di Hélène? Spulciando nei conti della morta, Maigret si fa la giusta idea che la stessa sia in realtà una ricattatrice, che chiede periodicamente soldi al ricattato, ma sempre da posti differenti, in modo da non essere rintracciata. Il colpo di sfortuna sarà quando il ricattato, casualmente a Vichy anche lui per le terme, la incontra e la riconosce. Facendo precipitare tutto nel dramma. Non è un solito racconto che penetra a fondo nella commedia umana messa in luce da Simenon in tutti questi anni. È un po’ in ombra, un po’ in sottotono. Come il funerale, ecco che ci torniamo, cui partecipa il commissario, e che spesso, nei romanzi classici, serve a scrutare, nei partecipanti, chi possa avere degli interessi nel gioco poliziesco che si va descrivendo. Si sente che Maigret invecchia, così come Simenon, anche da questo fatto. Dai funerali che avanzano. Tanto che ne descrive ben cinque negli ultimi nove romanzi (come ci dice sempre la Wagner), mentre erano stati solo 12 nei precedenti 65 romanzi. Dal primo quello di Emile Gallet (“Il defunto signor Gallet” del 1931), passando per quello della contessa di Saint-Fiacre (che lo aveva riportato all’infanzia ne “L’affare Saint-Fiacre” del 1932) e quello dolentissimo di Cécile (“Cècile è morta” del 19xx) sino a il molto partecipato della gente di Montmartre del proprietario di cabaret Emile Boulay (”La collera di Maigret” del 1962). Come detto, da qui in poi il tasso di funerali aumenta. Segno dei tempi? Si avvicina la fine?
Dove
Protagonista
Altri interpreti
Durata
Tempo
Vichy. Citazioni per Parigi, La Rochelle, Nice, Mesnil-le-Mont (Bourgogne), Saint-André-de-Lavion (Vosges).
Hélène Lange, la vittima. Viveva di rendita. Nubile. 48 anni.
Francine Lange, sorella di Hélène, parrucchiera a La Rochelle, 40 anni.
Louis Pélardeau, industriale fortunato, sessantenne.
Désiré Lecœur, commissario di polizia a Clermont-Ferrand, ex-ispettore sotto Maigret, 48 anni.
4 giorni
luglio
[tit. or.: Maigret hésite; ling. or.: francese; pagine: 347 – 508 (162); anno 1968]
Sarà che l’escursione a Vichy è molto fuori le righe dell’opera di Maigret, sarà che l’atmosfera svizzera permette un riposo alle inquietudini dello scrittore, ma questa volta solo quattro mesi passano tra i due Maigret. Intervallati tra l’altro da uno dei tanti romanzi “non-Maigret” (che alla fine saranno 118 rispetto ai 75 di Maigret). Si sta vivendo questa atmosfera strana, nella vita di Simenon. Losanna, il lago, le passeggiate con Teresa, i figli lontani, Tigy, la prima moglie ormai per sempre uscita dalla sua ombra, Denise, la moglie canadese sempre più alle prese con i suoi problemi psichiatrici, e da tempo relegata in diverse cliniche. Da tutto ciò non ci meraviglia che anche i romanzi di Maigret prendono un andamento “non Maigret”. Come in questo che stiamo tramando, dove, come ne “Gli scrupoli di Maigret” deve indagare su di un delitto che non è stato ancora commesso. Dove il corpo centrale della narrazione, almeno dell’idea che se ne fa Simenon, è legato al problema della colpevolezza di chi commette un crimine. Tutto inizia da una lettera che riceve Maigret in cui si annuncia che un delitto potrebbe essere commesso. Ma non viene detto né quale delitto né chi dovrebbe o potrebbe commetterlo. La prima mossa, facile, di Maigret è individuare da dove proviene la lettera, che, per una serie di peculiarità, è di facile soluzione. Viene dalla casa della famiglia Parendon. Dove troviamo Emile, non ancora cinquantenne, esperto di diritto marittimo internazionale. Ma con la fissazione, come capita in studiosi chiusi nel loro eremo senza tanta vita sociale, di capire ed analizzare l’articolo 64 del codice penale francese, quello che dovrebbe stabilire il grado di coscienza di chi commette un delitto. Simenon, si sa, non dà mai giudizi nelle sue opere. Ma questa domanda lo arrovella da sempre. Un delitto può essere dovuto a circostanze esterne agli autori che lo commettono. Legittima difesa? Momentanea follia? Cattiva interpretazione degli avvenimenti? Nella magione Parendon, Maigret, oltre ad Emile, trova la moglie, dura, inflessibile, mondana, proveniente da nobili famiglie, i due figli, la diciottenne Paulette detta Bambi studentessa di archeologia, ed il quindicenne Jacques detto Gus, liceale, la segretaria Antoinette Vague, 25 anni, amante discreta di Emile, ed i giovani di studio, Renè e lo svizzero Julien. Scoperta la provenienza, Maigret, con discrezione ma perseveranza, si introduce nel mondo Parendon, cerca di scoprirne i segreti, le dinamiche interne. Il loro estremo isolamento. Magistrale la scena del film che ne fu tratto, dove il maggiordomo Ferdinand serve la cena alla famiglia, portando ad ognuno il suo nella propria stanza. Di fronte a tutto ciò, Maigret non può che essere prudente: chi sarà il futuro colpevole e di cosa? Non ha alcun elemento. Silenzio dopo silenzio, ma anche discussione dopo discussione, arriveremo alla morte non di Emile, come tutti ci si aspettava, ma della povera Miss Vague, che tra l’altro aveva colpito Maigret con la sua franchezza. Maigret farà luce anche sull’autore materiale del delitto, ma Simenon lì si ferma. Chi ha commesso il delitto è anche responsabile del suo atto? La pazzia che si manifesta è una scusa, una spiegazione, una giustificazione? Pur fuori linea come indagine, che in pratica non c’è, è particolarmente degna di nota in questo romanzo la cura con cui vengono presentati i personaggi. A volte solo abbozzati, ma che alla fine troviamo ben scolpiti nel testo. Anche se non vengono mai ben chiariti i motivi per cui vengano scritte le lettere anonime. Altri elementi che fanno sì che questo sia un romanzo esemplare dell’ultimo periodo maigrettiano sono poi tutti i ricordi e le sensazioni che pervadano le mosse di Maigret. I ricordi della giovinezza, sempre più presenti e pressanti, come vedremo anche nel successivo romanzo. Le sensazioni temporali relative a questo inizio di marzo teatro dell’azione, con la sua primavera che si accenna anche se non arriva ancora. Ma più di tutti, l’esemplificazione del “metodo Maigret”. O forse più che metodo, del modo in cui Maigret conduce le sue indagini. Maigret che si impregna dell’atmosfera degli ambienti dove si aggirano gli attori del dramma, il tentativo di comprendere le motivazioni alla base dell’agire degli uomini, nonché il suo famoso “ruminare” questi elementi durante l’inchiesta, sino ad arrivare ad una sua conclusione e tirar dritto fino a provarla. Un libro che sta all’interno dei romanzi Maigret solo per la presenza di Maigret, ma che potrebbe stare ovunque, all’interno dell’opera di Simenon.
“I domestici mi chiamano ‘petit-suisse’ come il formaggino, anche se sono alto un metro e ottanta…” (420)
Dove
Protagonista
Altri interpreti
Durata
Tempo
Parigi (avenue de Marigny)
Emile Parendon, avvocato specializzato nel diritto marittimo internazionale, sposato, un figlio, una figlia, 46 anni
Mme Parendon, nata Gassin de Beaulieu, sposa di Emile, sui 40 anni
Paulette Parendon, detta Bambi, loro figlia, studentessa di archeologia, 18 anni
Jacques Parendon, detto Gus, loro figlio, liceale, 15 anni
Antoinette Vague, segretaria di Emile Parendon, 24 o 25 anni, la vittima
René Tortu, stagista
Julien Baud, svizzero del cantone di Vaud, ragazzo di bottega.
Ferdinand Fauchois, domestico.
3 giorni
4 – 6 marzo
[tit. or.: L'ami d'enfance de Maigret; ling. or.: francese; pagine: 511 – 667 (157); anno 1968]
Come trascorre pacifica la vita svizzera… Forse troppo, che allora tornano i ricordi, c’è tanto tempo per pensare, e 5 mesi che passano in fretta. Certo, prende appunti, si fa intervistare da una rivista medica ginevrina, scrive un romanzo “non-Maigret”. Ma Simenon sa che ha festeggiato i suoi 66 anni (o che coincidenza…), sa che molta sua vita è passata, e che i pensieri lo portano al passato. Ecco allora che sforna questo romanzo, un po’ sulla trama dei ricordi, un po’ andando a riciclare qualche idea (in fondo Simenon lo fa spesso, solo che qui passa poco tempo tra i due romanzi). Se nel ladro di due anni prima, era un estraneo che si intrufola nella vita del commissario, qui a chiedere il suo aiuto è proprio un amico d’infanzia. Che si presenta all’improvviso con un bel problema: la donna con cui viveva è morta, uccisa. È lui il colpevole? Per fugare i dubbi che potrebbe avere un poliziotto normale, ecco che Léon Florentin si presenta al suo compagno di liceo Jules Maigret. Il quale, come lo vede, osserva come sia molto invecchiato, e si domanda: l’avanzare dell’età ha lo stesso effetto su di me? Come mi vedono i miei vecchi compagni di liceo? Come la signora Maigret? Come i miei ispettori? Tutto il romanzo avanza su questo doppio binario. Da un lato il ritratto della vecchiaia di un fallito, dall’altro l’evocazione dei ricordi di infanzia. Certo, qualcosa abbiamo saputo del giovane Jules, ma qui siamo già al liceo, agli scherzi con i compagni, ai primi amori. tra l’altro, se riflettiamo su quanto letto in questi anni, ci accorgiamo che Simenon cerca di “sporcare” i ricordi di Maigret, facendo uscire dal passato queste bolle di memoria, per poi ricoprirle di qualcosa che rende gli altri oscuri e fa brillare il nostro commissario. La venerata contessa di Saint-Fiacre del castello dell’infanzia è ora una vecchia che mantiene un gigolò, lo stesso castello, una volta andati in rovina i proprietari, è acquistato da un macellaio volgare. Così come tutti i compagni di liceo che incontra durante le varie opere, tanto che nell’anodino “Le memorie di Maigret” ricorda i primi anni, ma non ricorda nessuno dei compagni di liceo. È come se il commissario, infine, fosse l'unico ad aver "avuto successo" nella sua vita ... Dall’altro si parlava del fallito Florentin, uno dei tanti che attraversa la vita del commissario, uno che pensa di essere destinato a grandi cose, e che alla fine si risolve solo a fare il mantenuto. Della giovane (ha 20 anni di meno) Josée, che, per mantenersi lei ha bisogno di frequentare qualche bel signor disposto ad elargirle dei denari. L’abilità di Josée era di farsi venire a trovare, a giorni fissi, da un funzionario ministeriale (il mercoledì), da un industriale (il giovedì) e da un negoziante di vini (il sabato). Tutta la parte centrale è proprio dedicata a questa indagine senza essere una vera ricerca. Si cerca di capire che visitava Josée e come viveva Léon. Fino a trovare un nuovo amante, il trentenne Jean-Luc che probabilmente poteva scalzare Léon dalla sua posizione vivacchiante sulle spalle degli altri. Capito il pericolo, Léon cerca di trovare il modo per tirar fuori quella che ai suoi occhi di fallito potrebbe essere una “buonuscita”, non trovando di meglio che ricattare uno dei tre amanti fissi. Che non la prende bene, che si vuole vendicare, che si presenta a casa di Josée in un giorno sbagliato, e che spara a Léon, ma con una pistola antiquata e senza esserne capace. Così che invece colpisce ed uccide Josée. Ed è propria José ed un'altra donna, la portinaia Mme Blanc che occupano il proscenio poco a lato di Léon. Josée sfrutta i suoi amanti offrendo loro momenti d’intimità, la portinaia, che ha visto più di quanto dice, cerca di ricattare il colpevole. Josée è morbida, e con la sua dolcezza sconfigge gli uomini. Mme Blanc è dura, e dalla sua durezza viene sconfitta. Entrambe fanno parte della grande galleria di donne avide, dove la sicurezza materiale ha il sopravvento sui sentimenti. Come Hélène Lange di cui abbiamo parlato più sopra. Come per fare vendette trasversali, Josée o Hélène sono più forti degli uomini e vanno incontro ad una morte violenta. Mme Blanc invece rimane impunita (il suo ricatto servirà a Maigret per smascherare definitivamente il colpevole senza mettere troppo in mezzo lo sfortunato e fallimentare Léon) come se la sua colpa fosse meno seria: ha cercato di approfittare degli uomini apertamente e senza ipocrisie, e questo la porta a mancare i suoi bersagli, ma continuare a fare la sua vita. Detto del romanzo (che comunque porta un po’ in calando questo 14° volume), nelle righe della scrittura viene risolto uno dei tanti “misteri” che affliggono noi “maigrettofili”. In molte parti della sua vita matura, Maigret si avvicina all’acqua (del mare, dei fiumi, dei canali navigabili), ma il nostro commissario sa nuotare? Qui scopriamo la risposta. Quando Lapointe racconta al commissario come Florentin si sia gettato nella Senna (non per suicidarsi, ma per altri fini che scopriremo in seguito, cioè scoprirete leggendo il romanzo), Maigret gli risponde che non si deve preoccupare, “Léon era il migliore nuotatore di tutti noi quando facevamo il bagno nel fiume Allier (fiume vicino alla casa d’infanzia di Maigret)”. Questo fa trasparire che Maigret forse non è un gran nuotatore, ma si sa tenere a galla.
“Era un fallito, il tipico fallito, e, cosa ancor più grave e patetica, un fallito che stava invecchiando.” (581)
Dove
Protagonista
Altri interpreti
Durata
Tempo
Parigi (principalmente Montmartre: rue Notre-Dame-de-Lorette, boulevard Rochechouart).
Léon Florentin. Tuttofare che si fa passare per antiquario. Celibe, amante di Joséphine Papet. 54 anni.
Joséphine Papet, detta Josée, celibe, 34 anni, la vittima.
François Paré, alto funzionario al Ministero dei Lavori pubblici, 55 anni, tre figlie sposate.
Fernand Courcel, industriale a Rouen, 42 anni, sposato, senza figli.
Victor Lamotte, detto lo zoppo, negoziante di vini a Bordeaux, sessanta anni, tre figli sposati.
Jean-Luc Bodard, detto Pel di Carota, agente assicurativo, trentenne, celibe.
6 giorni
Metà giugno
[tit. or.: Maigret et le tueur; ling. or.: francese; pagine: 671 – 835 (165); anno 1969]
Riprende ora l’andamento lento, tanto che passerà quasi un anno per un nuovo Maigret. E forse tra i meno riusciti. Non perché non abbia, al solito, particolarità ed interesse. Ma l’intreccio pare quasi essere steso come su di una tavolozza di un pittore che, iniziato un soggetto, decide poi di aggiungerne altri, e fare un quadro diverso. Coinvolto anche in diverse vicende familiari, anche se non manca di passare il mese di agosto vicino Nantes, a La Boule (nell’hotel Hermitage, che diciamolo pure, non è che sia economico, almeno ora dove non si trova una stanza per meno di 600 euro a notte). Perché poi in settembre, il primogenito Marc convola in seconde nozze con Mylène Demongeot (e teniamo amente questo nome) mentre in novembre la madre Henriette aggrava il suo stato di salute, ed il figlio Georges la convince a lasciare Liegi per ricoverarsi in un istituto di riposo a Fouron-le-Comte, situato a metà strada tra Liegi e Maastricht. Luogo che visiterà sovente nei prossimi mesi ed anni, sino alla morte della madre amata-odiata. Per il momento, in aprile, tira fuori dal cassetto questo nuovo Maigret. Come ho detto, mi è parso un Maigret che non sapesse la strada da prendere, ed un Simenon che volesse provare di essere capace di fare tante cose, per poi incartarsi e ridisegnare la trama. In effetti, il romanzo sembra quasi diviso in due parti, la cui cesura è data da due momenti “privati” di Maigret, su cui torneremo più avanti. Nella prima parte, sembra quasi voler cominciare facendoci immergere nella vita dei quartieri di Parigi, offrendoci una sintesi di vari ambienti della capitale. In seguito all’uccisione di tal Antoine Batille, giovane dal capello lungo (in fondo siamo pur nel ’68 o giù di lì) che gira per la città con un registratore per sentire i “suoni degli uomini”. Così Simenon partendo da rue Popincourt (luogo dell’omicidio) ci fa girare per il quartiere dei Maigret, dove vive il popolino, dove ci sono artigiani e commercianti, per poi farci saltare all’ile St. Louis, domicilio dei Batille, quindi, seguendo le registrazioni di Antoine, nei caffè intorno alla Bastiglia, frequentati dalla malavita. Un modo anche per descrivere lì dove Maigret si sente a suo agio. Qui ci fa seguire la pista di una morte per coprire qualche altro crimine, come se Antoine avesse sentito qualcosa che non doveva. Si trovano i volti legati alle ultime voci del nastro, si scopre una banda di ladri di quadri. Si arriva al rocambolesco episodio del loro arresto in flagrante. Come se Simenon volesse fin qui dimostrare di essere capace di scrivere un "romanzo d'azione in stile americano", con suspense e arresti movimentati. Poi, improvvisamente, il tono cambia, vedendo i ladri Maigret capisce che non è quella la strada per trovare l’assassino. Maigret partecipa al funerale di Antoine (e proprio sui funerali abbiamo scritto poche righe sopra) e siamo riportati alla realtà: qualcuno è stato ucciso in questa storia, e l'assassino deve essere trovato. Come sempre in Maigret, allora il nostro commissario cerca di capire chi fosse la vittima, interroga i compagni dell’Università, parla con la sua ragazza, manda messaggi i giornali. Ma le luci della ribalta cambiano improvvisamente. Ora è l’assassino che entra in scena. Inizia la parte “intima” del romanzo, dove Simenon trona sulle sue domande: la responsabilità dell'essere umano quando ha commesso un omicidio. Dopo la lettera inviata al giornale dall'assassino, questi chiamerà costantemente Maigret al telefono, e il commissario, non smetterà di cercare di identificare la personalità del suo interlocutore e ottenerne la fiducia, per farlo arrendere. La confessione dell’assassino ci lascia comunque l’amaro in bocca. Un crimine insensato, e dove ancora una volta Maigret può esercitare il suo ruolo di “raddrizzatore di destini”. Ormai però ci sono troppi vincoli intorno, all’assassino non verranno date le cure di cui ha bisogno e sarà condannato a una detenzione "ordinaria", senza una reale speranza di recupero. C’è molta altalena in tutto questo susseguirsi di colpi di scena e di ripiegamenti su sé stesso. Ma in fondo questa fine amara non può che esprimere al meglio il senso che ha Simenon della inutilità della giustizia degli uomini di fronte alla domanda senza risposta sulla responsabilità dell’uomo. Dicevo che Simenon inoltre, sfrutta due cesure per marcare i cambi di scena del romanzo. La prima, con Maigret confuso e bisognoso di ripulirsi la mente da tutte le informazioni contradditorie che gli stanno arrivando. La seconda quando deve concentrarsi per affrontare il duello verbale con l’assassino. Nel primo caso decide di andare al cinema con la moglie. Ed il cinema è un momento topico di Maigret, a cui piacciono in realtà due tipi di film: quelli di Chaplin ed i western. Ma Maigret va al cinema non per vedere il film, ma per fumare la pipa e passeggiare sottobraccio alla moglie. Nel secondo caso, invece, decide di concedersi un fine settimana nella casa in campagna di Meung, quella dove pensa di ritirarsi quando andrà in pensione. Lì, la signora Maigret lo vedrà recuperare le forze, andando a pesca e mangiando “sano”, per poter affrontare con tutta la sua empatia il duello finale. Un ultimo cenno di trasversalità. La famiglia Batille è ricca, in quanto proprietaria di una catena di prodotti di bellezza marcati “Mylène”, che guarda caso è il nome della seconda moglie del figlio di Simenon. Piccoli omaggi familiari? Tuttavia, continuo a ritenere, nonostante tutte queste bravure stilistiche, il prodotto meno riuscito del volume.
“Vogliono fare di noi medici dei dipendenti statali … e non solo dipendenti statali … ma mediocri dipendenti statali, perché non possiamo più dedicare ai malati il tempo necessario.” (673) [dedicato ad Emilio]
“Il mio compito non è giudicare…” (813)
Dove
Protagonista
Altri interpreti
Durata
Tempo
Parigi (quartiere della Bastille, île Saint-Louis). Jouy-en Josas
Robert Bureau. Impiegato in una compagnia di assicurazioni, celibe, sulla trentina.
Antoine Batille, studente, 21 anni, la vittima
Gérard Batille, padre di Antoine, proprietario dei profumi e prodotti di bellezza Mylène, sulla quarantina
Monique Batille, sorella di Antoine, studentessa, 18 anni
Julien Mila, capo della banda dei ladri di quadri
Emile Branchu, membro della banda.
9 giorni
18 – 26 marzo

Visto che questo è un mese quasi regolare, così come la settimana scorsa ho ripreso le cure, questa domenica non manco di fornirvi qualche pillola di felicità, magari coniugata con del cibo.
Invece chiudo, ricordando di rileggere quella frase sui medici dell’ultimo romanzo, dedicata a tutti i miei amici dottori, ed in particolare ad Emilio. Per il resto, si spera che passi presto il Natale ed arrivi per tutti la primavera.

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

MAGGIO 2019
Se a Natale si parlava di cioccolato, ora che si avvicina (forse) l’estate è bene dedicarsi a piaceri più complessi. Ne riparliamo dopo averli letti.
RIMEDI GHIOTTI (III)AFRODITA di ISABEL ALLENDE (2003)

Un cucchiaino di trama
Isabel Allende si diverte a mescolare racconti, aneddoti curiosità e ricette di famiglia in un gustosissimo viaggio tra sapori sensazioni, Paesi lontani e diverse epoche storiche alla scoperta della liaison tra eros e cibo, piacere dell’amore e della cucina.
Una spolverata di saggezza
Con questo libro l’autrice si è concessa lo sfizio di una gioiosa divagazione di piacere. Ma a ben guardare, seppure in forma diversa, “Afrodita” non si allontana poi tanto dagli ingredienti principali dei suoi romanzi: amore e magia che, riuniti in una parola danno l’eros. Dopo aver scoperto che a eccitarla è soprattutto amore e che le è impossibile separare l’erotismo dal cibo si è lanciata con entusiasmo nella scrittura di quello che definisce un «viaggio senza carta geografica attraverso le regioni della memoria sensuale, là dove i confini tra amore e appetito a volte sono così labili da confondersi completamente». Usando i cibi afrodisiaci come un setaccio da farina, l’autrice filtra aneddoti, storie, leggende, riflessioni, poesie, racconti, ricordi e persone, compresi gli uomini che sono passati nella sua vita e che ricorda «alcuni per la qualità della loro pelle, altri per il sapore dei loro baci, odore dei loro indumenti o il tono dei loro sussurri, e quasi tutti sono associati a un alimento particolare. Il piacere carnale più intenso, goduto senza fretta in un letto disordinato e clandestino, combinazione perfetta di carezze, risate e giochi della mente, sa di baguette, prosciutto, formaggio francese e vino del Reno. […] Non posso separare l’erotismo dal cibo, e non vedo nessun buon motivo per farlo; al contrario, ho intenzione di continuare a godere di entrambi fino a quando le forze e il buon umore me lo consentiranno». Questa riflessione personale diventa l’inizio di un libidinoso iter eros-gastronomico per scoprire «l’arte sensuale del cibo e i suoi effetti nella pratica amorosa». La scrittrice cilena esordisce pentendosi delle diete, dei piatti prelibati rifiutati per vanità così come di tutte le occasioni di fare l’amore che si è lasciata sfuggire per occuparsi di lavoro. E, infatti, “Afrodita” è un gioco malizioso, un inno alla gioia e un invito a godere della vita in tutti i sensi e con tutti i sensi, un istruttivo e divertito percorso tra saperi, sapori, aromi e odori, alla scoperta di cibi afrodisiaci (si consiglia di prendere nota) e ricette impertinenti. Lungi dall’essere un tradizionale ricettario, è piuttosto un piccolo vademecum, un po’ libro di ricette e un po’ manuale di istruzioni erotiche, per sedurre, conquistare o riconquistare. La Allende spiega al lettore cos’è un afrodisiaco (il ponte gettato tra la gola e la lussuria), quali cibi solleticano la libido e come funzionano, condividendo generosamente alcuni segreti da utilizzare in cucina o in camera da letto, invitando ad allertare tutti i sensi per godere sempre al meglio. Non a caso la Allende dedica queste sue «divagazioni erotiche agli amanti che giocano e, perché no?, anche agli uomini spaventati e alle donne malinconiche» in modo che possano smettere di avere paura ed essere felici, insieme.
Con la sua prosa afrodisiaca e la sua fantasia speziata, Isabel Allende prende il lettore per la gola con un libro che sazia la mente, il cuore e lo stomaco lasciando una gran voglia di cedere alla passione. Se rimane un po’ di appetito e avete l’impressione di non essere sazi di Isabel Allende, basta procurarsi uno dei suoi numerosi romanzi e ingurgitarlo senza moderazione, facendo bene attenzione a centellinare il sapore di ogni singola pagina. Da “La casa degli spiriti” a “D’amore e ombra”, da “Eva Luna” a “Ritratto in seppia”, sono tutti comfort book.
Posologia
“Afrodita” è un rimedio magico per ritrovare il gusto della vita, risvegliare i sensi e dare una scossetta alla libido. Pertanto, se vi sentite disamorati, inappetenti e avvertite una grave carenza di energia vitale, assaggiare qualche pagina sarà sufficiente a ritrovare interesse per i piaceri gastronomici ed erotici. Isabel Allende sostiene che sesso e appetito sono i grandi motori della storia, quindi figuriamoci se non hanno un ruolo fondamentale per aiutarci a carburare nella nostra vita. Trattandosi di un ricettario afrodisiaco, può essere usato in modo efficace per pungolare il desiderio amoroso o far innamorare qualcuno. Ma per ottenere i maggiori benefici dalla cura bisogna far seguire la teoria con la pratica, passando dalla lettura alla cottura e cimentandosi nell’esecuzione delle impertinenti ricette messe a disposizione dall’autrice. Le lettrici si trasformeranno in dee dell’amore e dei fornelli, pronte a soggiogare aspiranti Adoni sfoderando armi seduttive e. culinarie. La cura dovrebbe funzionare anche se a tavola il partner sembra più un orco con la voracità di Shrek che un Adone. In fondo anche Shrek è un principe azzurro e molto più realistico di quello delle favole. Perché la guarigione sia completa è opportuno non tralasciare la terza fase, quella in cui dalla cucina ci si sposta in camera da letto.
Inno al piacere fisico e carnale dell’eros e del cibo, “Afrodita” può essere considerata una delle più efficaci medicine per l’anima, fondamentale per ritrovare il gusto della vita attraverso tutti i sensi, ricordando che a ogni età il piacere è una magia che dipende anche da noi e dal modo in cui misceliamo gli ingredienti, da come li impiattiamo e da come li serviamo, possibilmente con amore.
Effetti collaterali
È molto alto il rischio di essere contagiati da un eccessivo entusiasmo erotico-gastronomico. L’autrice stessa mette in guardia da alcuni effetti collaterali (non tutti negativi, a dire il vero) che durante la stesura del libro hanno coinvolto lei e i suoi collaboratori, tra cui: essere tendenzialmente portati ad abbandonarsi a orge di piacere, allentare i freni inibitori, mettere su un po’ di ciccia, ritrovare un insperato vigore e farsi tatuare un gambero sopra l’ombelico.
Consigli di “Afrodita”
Come parte integrante della cura letteraria si raccomanda di provare alcune ricette del libro. Non è necessario essere chef esperti perché la Allende ha selezionato ricette afrodisiache accessibili a tutti, sia per la facilità d’esecuzione che per la selezione degli ingredienti. Niente lingue di canarini, sangue di vergine o altri intrugli da pozione magica, ma alimenti di facile reperibilità. Sarà sorprendente scoprire quanti insospettabili cibi consumati abitualmente siano capaci di solleticare la libido, come le puzzolenti uova o il triste sedano. Quindi, tanti consigli pratici e qualche trucchetto per piatti di facile esecuzione, anche perché arrovellarsi con preparazioni troppo complesse farebbe spendere inutilmente le energie necessarie allo scopo finale del libro: abbandonarsi all’amore carnale. Per orge di piacere o più esclusivi tête-à-tête, le proposte sono tante e davvero sfiziose. Dall’antipasto al dessert vengono indicati gli ingredienti, la modalità di preparazione e spesso anche lo scopo amoroso del piatto (davvero molto utile!). Anche se non avete nessuno da prendere per la gola, cucinare e mangiare è sempre e comunque un grande conforto. Potreste accompagnare il pasto con la compagnia di “Amore”, il libro che raccoglie le più belle pagine dell’autrice sull’amore e l’erotismo, saziando così eventuali carenze. Ma questo consiglio vale anche se siete in due. La Allende, infatti, ha constatato che il cibo afrodisiaco più potente non è per lo stomaco ma per la mente e si tratta del racconto. Così, stando anche a “Le mille e una notte”, il miglior eccitante sembra essere una storia raccontata tra le lenzuola. Una storia breve da leggere insieme, un piccolo preliminare che prolunga il piacere della cena, stuzzicando l’impeto sessuale. Una delle pagine di “Amore” è, quindi, perfetta.
Commenti

Della scrittrice cilena ho letto molto, quasi tutto, seppur in gioventù. Qui si commentano le ricette, ed il libro che, con amicizia ed affetto, ricevetti per qualche festa ormai dimenticata (la festa, non l’amicizia).
Isabel Allende “Afrodita” Corriere della Sera Cucina 4 euro 7,90
[pubblicato il 27 agosto 2017]
Vedremo, quando se ne parlerà con altri, cosa ci dirà l’ottima Giulia Fiore Coltellacci quando inserisce questo libro tra i rimedi per darci felicità (o per farci vivere felici, che non è lo stesso). Intanto l’ho letto, perché mi fa sempre piacere leggere della Allende e perché inserito in questa altalenante collana delle “Storie di cucina” del Corriere della Sera. Sinceramente mi aspettavo di più. Mi aspettavo di più dallo scritto, e mi aspettavo un intreccio meno “disgiunto” tra testo e ricette. Allende fa un percorso tra vari elementi tipici e paradigmatici dell’erotismo alto, usando ingredienti afrodisiaci visuali, tattici e sensibili. Una buona gita, con alcune punte interessante. Poi, a metà libro, passa la palla alla madre Panchita che ci ammannisce una ricca dose di ricette giustamente etichettate “afrodisiache”. Ma i due discorsi rimangono disgiunti, non si arriva a nessuna sintesi. Come non aiutano, anche se sono interessanti visualmente, i disegni di Robert Shekter, che alterna ninfe efebiche e matrone rotondette. Anche qui, probabilmente, una riproduzione a colori, invece che in bianco e grigio, avrebbe reso meglio l’erotismo sotteso. Invece ci dobbiamo accontentare. Perché Allende scrive bene, è gradevole il discorrere, ma non risulta mai incisivo. Ci propina un paio di raccontini di situazioni emozionalmente erotiche, ma non affonda i colpi. Si vede che si è documentata, che citazioni e bibliografia sono pertinenti, ma è come se rimanesse sempre un passo al di qua del guado. Non entusiasma molti sapere che molti cibi afrodisiaci lo sono semplicemente per due motivi: o ricordano gli organi sessuali, maschili o femminili, o ne riproducono odori caratteristici. Ma sono considerazioni ovvie, quasi da elementari del sesso. I frutti di mare come vulve femminili? Banane o asparagi succedanei dell’organo maschile? Mi sembra ben poco per passare all’afrodisiaco. O all’erotico. Sono sicuramente d’accordo, di certo, che certe sfumature comportamentali orientali contengono erotismi a dismisura. Sensualità delle cerimonie del tè giapponese. Ricordi delle atmosfere delle “Mille e una notte”. Anche qui nessun diniego. Ma come non scordarsi una tavola imbandita di mezzè libanesi, quanto più vicino ad un orgasmo non solo culinario? La disamina dei cibi afrodisiaci passa pagina dopo pagina senza lasciare traccia. Le spezie? Certo, ma allora entriamo anche nelle menzioni del jalapeño piuttosto che dell’habanero. Oppure di visioni opposte del cibo verso la bocca, dal riempirsi le papille di grosse fette di scivolosi manghi piuttosto che di piccoli, impercettibili stimoli che può dare la maracuja. Rimango leggermente freddo alla disamina di pesci erotici, anche perché, dalla cultura sudamericana, esce prepotentemente fuori il grongo, che personalmente non trovo dai più eccelsi. Molto meglio, e viene sì citato ma senza molta enfasi, il pesce povero che compone il ceviche (altro piatto per me all’apice della scala afrodisiaca, forse perché contiene molto lime). Altrettanto poco coinvolto vengo dal caviale, di sicuro un alimento gradito ma non uno dei miei massimi amorosi. O, ancora meno, dal tartufo, il cui odore sovente prevarica le mie sensazioni favorevoli. Passata l’analisi del cibo potenzialmente afrodisiaco, mamma Panchita ci delizia con ricette su ricette, divise in quattordici capitoletti, che vanno dagli antipasti e dalle salse di base, su, su, piatto dopo piatto, verso i dolci ed il dessert. Magari, invece che citarne le ovvie proprietà nella prima parte, sarebbe stato interessante proporre alcuni abbinamenti con bevande, che esaltino, o quanto meno diventino complementari del mangiare cui sono associate. Quello che poco mi ha convinto è l’utilizzo di alcune nomenclature che sembrano messe lì a posta per farci capire che è un cibo “speciale”. Ma “fichi del vedovo”, “consommé di Bacco”, “insalata delle odalische” o “gallinella alla Valentino” sono cibi così battezzati che ho trovato solo in questo libro. E devo ancora capire da dove venga e perché così si chiami una delle ultime ricette, un’omelette flambé indicata come “Sorpresa Zucoff”. Un buon modo per rendere gradevole il libro sarebbe spiegarci chi mai sia questo Zucoff. Un’unica cosa mi trova concorde, ed è quella su cui vorrei terminare queste righe. Allende finisce il libro, ed io sottolineo con enfasi, che l’unica vera ricetta afrodisiaca è l’amore. Qualsiasi cibo, qualsiasi atteggiamenti, qualsiasi modo di porsi nella vita (dalla tavola al letto) ha senso ed è realmente afrodisiaco solo se condito con una abbondante dose d’amore. D’accordo, qui, ora e per sempre.
“I reconditi misteri di un bacalao a la vizcaina sottratto alle fiamme di un rustico falò di Bilbao.” [l’ho mangiato!] (25)
“”Ora tutto quello che mangio, tranne la barbabietola che non sopporto, mi sembra un pasto luculliano.” (47)
“Arrivò lo chef in persona a servire un piatto adornato con cerfogli e gelsomini, al centro del quale erano adagiate due cavie in gelatina.” [si tratta del cuy, un piatto tipico peruviano, e non cavie generiche ma porcellini d’india] (77)
“Non mi sono mai innamorato con prudenza, è sempre stato un fulmine che mi ha lasciato mezzo bruciacchiato.” (269)
Isabel Allende “D’amore e ombra” Feltrinelli s.p. (regalo di Rosa&Emilio)
[pubblicato il 30 dicembre 2012]
Sono moderatamente sicuro di aver già letto questo libro in gioventù. Tuttavia, non trovandone traccia in nessuna delle mie librerie personali (quelli reali ovviamente), l’ho ricomperato come regalo dei miei amici, e, con sommo gaudio, riletto. Non ha la forza e l’impatto del suo primo libro, quel forse ineguagliabile “Casa degli Spiriti”, ma è leggibile, dosato nelle emozioni, e con quel tanto (o poco o comunque c’è) di impatto sociale, che non può che essere piacevole leggerlo. E leggerlo anche in controluce, cioè alla luce della vita della Allende, al suo esilio dopo l’assassinio dello zio di secondo grado Salvador. Isabel da lontano continua a parlare del “suo” Cile, facendoci fare un bel viaggio “border line”: non tutti erano socialisti e rivoluzionari nei primi Anni Settanta, non tutti erano reazionari negli ultimi Anni Settanta. Ci sono più cose tra la terra e il cielo, … mi sembra dicesse qualche lontano cinese. In questo romanzo, quasi una favola calata negli orrori cileni di quegli anni, assistiamo alla progressiva presa di coscienza di Irene. Di famiglia alto-borghese, con un padre stralunato, ed una madre irrimediabilmente persa nel suo mondo “anti-comunista”, una volta sparito il padre (fuggito? morto? ucciso?), per vivere decide di affittare un piano della villa di famiglia come ospizio per vecchi e di lavorare ad un giornale. Intanto progredisce la sua relazione, fidanzata sin da bambina con Gustavo, ora ufficiale dell’esercito ed assolutamente ed irrimediabilmente di lei innamorato. L’altro corno della storia è Francisco, il più piccolo di tre fratelli di una famiglia spagnola, fuggita dall’Europa ai tempi del generalissimo, con un padre letterato ed anarchico ed una madre di una sensibilità che Isabel ci fa toccare con pochi tratti ma che ti fa dire: dov’è che trovo una madre così? Francisco (non trovando lavoro con la sua laurea in psicologia) da un lato fa il fotografo per il giornale (dove conosce Irene) e dall’altro (memore dello spirito libertario paterno) cerca di favorire piccole resistenze al regime del generale. L’elemento catartico incomincia quando per il giornale Irene e Francesco vanno a vedere una ragazza epilettica in odore di santeria. Qui si esaltano le capacità narrative della Allende, che in lunghi incisi ci presenta e ci fa innamorare della famiglia Ranquileo, e soprattutto della madre Digna. Assistono alla crisi di Evangelina, che maltratta anche un tenente dei carabinieri. Da qui la catastrofe: il tenente, giorni dopo, per vendicarsi di Evangelina la porta in caserma, e, dopo averla violentata, la uccide e ne nasconde il corpo in una miniera. Peccato che nella guarnigione del tenente ci sia il fratello di Evangelina che non si rassegna, si ribella, e scatena una serie di eventi che portano Irene e Francesco a scoprire la miniera, i resti di Evangelina, e di molta altra gente. Aiutati da José, il fratello prete di Francisco, i due riescono a non far mettere a tacere il tutto. Coinvolgono la Chiesa, stanno quasi per far punire l’ignobile tenente (ed è ovvio la critica del parziale per il tutto). Peccato che i militari siano sempre al potere, ed abbiano in mano la stampa e la televisione. Per cui muore il fratello di Evangelina, muore l’unico testimone, viene quasi uccisa Irene, che nel frattempo lascia Gustavo capendo e concedendosi al buon Francesco. La vicenda è ben sotterrata, tanto che la madre stessa di Irene se la prende con sconosciuti terroristi, piuttosto che con conosciuti militari. Aiutati dalla rete organizzativa di Francisco e da un simpatico parrucchiere gay, i due riusciranno a fuggire. E come Isabel quando nel ’75 scappa in Venezuela, dove rimane 13 anni, così i due, attraversando la Cordigliera, hanno una sola parola da affermare: “Ritorneremo!”. Il romanzo è forse un po’ troppo buonista in alcuni punti, e pieno di speranze nel finale, cosa che tutti vorremmo ma che non sempre accade. O è accaduto in quelle terre di dolore. Ricordo sempre di leggere le Irregolari di Carlotto sulle donne di Plaza de Mayo, per capire quanto altro dolore ne uscì fuori. Ma Isabel scrive bene, mi piace leggerne. E continuare a farlo.
“L’amore li avrebbe salvati dalla solitudine, la peggior condanna della vecchiaia.” (122)
“Il padre era un viandante della vita, sempre in viaggio.” (126)

Finalino

Isabel Allende è sempre una presenza nella mia biblioteca, e non ne dimentico molto. Le sue ricette non mi hanno purtroppo colpito. I suoi libri si, e mi hanno reso giustamente felice, come spero lo sarete voi leggendoli (o rileggendoli).