domenica 29 ottobre 2023

Imma ed altri questori - 29 ottobre 2023

Anche se forse non sono questori né i primi né l’ultimo, ma mi piaceva un titolo ad effetto. Intanto, l’interessante Imma Tatarianni da quel di Matera, pur non essendo di levatura extra, è di certo, per me, meglio sulla carta che nelle versioni televisive, che stanno andando un po’ troppo sul melo. Per non parlare dell’ultima spy story di Repubblica, a me altamente aliena, da ricordare solo per quell’ultima frase. Meglio sia l’ambiente triestino di Roberta De Falco che quello milanese di Piero Colaprico.

Roberta De Falco “Il tempo non cancella” Repubblica Anima Noir 34 euro 8,90

[A: 15/02/2022 – I: 25/04/2023 – T: 27/03/2023] &&& +   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 266; anno: 2014]

Primo libro che leggo della scrittrice che, casi della vita, ho saputo essersi ritirata in campagna nell’Orvietano, e quindi non lontano da dove passo molta parte dei miei momenti di riposo. Libro che fa parte di una serie di almeno quattro libri (di cui questo è il terzo) e che prosegue con un’altra serie dove, pare ma non l’ho letta ancora, si incentri su di un personaggio presente già nella prima.

Ma voglio parlare dei libri, quindi tralascio le parti private e la vita di Roberta Mazzoni, valente e nota sceneggiatrice, per rimanere sul suo “nom de plume” quando scrive gialli. Peccato che non esser riuscito ad iniziarla dal primo volume, che, come tutte le serie, qualcosa si perde, soprattutto se poi si riesce a ritrovare il bandolo. Quello che a me sicuramente è piaciuta, è l’ambientazione triestina, che mi ricorda un po’ il commissario Laurenti di Veit Heinechen (che da molto tempo non riesco a ritrovare), nonché, per l’economia del discorso, il rapporto tra la città giuliana ed il territorio istriano. Che quando ne leggo, penso sempre a mia suocera ed alla sua gioventù giuliano-dalmata.

Quando inizia a scrivere “noir”, Roberta De Falco costruisce il suo centro nel commissario Ettore Benussi (col nome dedicato al suo concittadino e scrittore Italo Svevo) e la sua squadra investigativa composta dagli ispettori Elettra Morin e Valerio Gargiulo. Elettra è anche lei friulana, abbandonata alla nascita dalla madre, adottata, molto dura e rigida, ma con un rapporto (che qui già vediamo avviato) con Valerio, fatta di un misto di tenerezza e di difficoltà di abbandonarsi. Gargiulo è invece napoletano, anche se di madre anche lei sveva. Benussi ha poi una famiglia composta dalla moglie Carla, sempre molto attenta, e dalla figlia Livia, tipica adolescente con tutti i pro e i contro dell’età.

Da accenni e rimandi posso ricostruire che nei libri precedenti si è narrato di una fuga adolescenziale, risolta da Elettra e Valerio con l’aiuto della comunità di padre Florence e della sua assistente Violeta. Nelle more c’è stato anche un coinvolgimento di Carla in qualche fatto di sangue, che alla fine ha messo in mezzo anche Ettore, cui nasce un sentimento di “forte amicizia” con Violeta. Ma che soprattutto, alla fine, costringendo a letto il nostro, lo costringe anche a metter mano alla scrittura che da sempre aveva nelle corde, e ad arrivare alla stesura completa di un libro giallo. Questo è lo scenario da cui cominciamo la nostra lettura.

Che in realtà è molto d’ambiente e che di giallo ha poco (oppure niente se vogliamo essere giusti sino in fondo). La trama si incentra su Ivo Radek, scrittore istriano profugo da decenni a Trieste, dove si è rifatto la vita. Noto per il suo primo libro, pubblicato negli anni Cinquanta, dove narra una storia semi-autobiografica che, ricostruendo varie frasi da quel che se ne dice, ricalca un po’ il “Jules e Jim” di Henri-Pierre Roché. Ivo è anche il nonno di Ada, protagonista di quella fuga di cui si narrava all’inizio. Così, noi per la prima volta, e gli estimatori della scrittrice di nuovo, veniamo coinvolti nella vita della famiglia Radek. Con Ivo, schivo ed anziano, la sua seconda moglie Petra, i figli Caterina e Fabio. Ognuno con le sue debolezze ed i suoi punti oscuri. E poi c’è il mondo editoriale, gli editori di Radek, la sua agente Rhoda (che poi è la più simpatica), un giornalista acido, il presupponente marito di Cristina (nome omen di rimembranze altre che qui non investighiamo).

Tutto si costruisce intorno ai rapporti interpersonali, soprattutto attraverso la scrittura altra del croato Frano, amico di Ivo in gioventù, nonché amante di Lea, che poi diventerà la prima moglie di Ivo. Avrà modo, chi leggerà il libro, di entrare nei meandri dei super triangoli intrecciati dei tre, e del loro mondo di Parenzo, località istriana nativa dei protagonisti della vicenda. Con punte di interesse soprattutto sulle vicende post-belliche dei luoghi, sullo stalinismo ed il mondo titino dell’epoca, sorretto inoltre da un’ottima bibliografia.

Insomma, un libro non giallo, con qualche punta di suspense, ma gradevole per l’aspetto complessivo, ed anche per quegli scorci sul mondo editoriale, dove tra l’altro ipotizziamo possa entrare anche il nostro commissario. Ma questo sarà forse materia di altre letture. Per ora rimaniamo con questo libro di una scrittrice che non conoscevo e che risulta in ogni caso godibile.

“Esistono persone che attirano a sé l’ammirazione di tutti … e altre che sembrano possedere invece un fluido respingente.” (243)

“Emily Dickinson: Non sappiamo di andare quando andiamo / Noi scherziamo nel chiudere la porta / Dietro, il Destino mette il catenaccio, / e non entriamo più.” (263)

Piero Colaprico “Il fantasma del Ponte di Ferro” Repubblica Brivido Noir 9 euro 8,90

[A: 04/08/2020 – I: 11/05/2023 – T: 13/05/2023] &&& -   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 267; anno: 2018]

Come ho già detto in altre trame, è sempre gradevole leggere di Colaprico, sia in libri che in articoli (anche se preferivo quelli passati di cronaca che trovo più coinvolgenti). Qui, per un dovuto omaggio postumo all’altro Pietro con cui ne scrisse i primi, torniamo sulle vicende del commissario Pietro Binda, per inserire un altro tassello nelle vicende milanesi del secolo scorso. Perché, come in tutti i romanzi del commissario, pur andando su e giù nel tempo, è sempre lì che si ritorna, con passaggi a partire degli anni ’70, per tornare su e giù nel tempo ed avere (anche) un quadro della vita del commissario.

Intanto facciamo un po’ d’ordine. All’inizio del secolo, insieme a Valpreda, decide di scrivere dei gialli, imperniati sulla figura di un maresciallo dei carabinieri, Pietro Binda. L’idea era di pubblicare quattro libri, uno per stagione, ma morendo Valpreda dopo i primi tre, sono quelli che escono a doppia firma. Nel 2003, per completezza, Colaprico pubblica il quarto, su di un’idea avuta con l’altro Pietro, ma sviluppata in solitaria. Dopo altri tre anni esce un quinto romanzo (non a caso intitolato “La quinta stagione”) che non è ancora entrato nella mia libreria. Poi più di dieci anni di silenzio, per arrivare a questo che stiamo analizzando.

La tecnica generale è sempre la stessa. Ci si immette in un presente, che spesso non è il presente del lettore. Poi, per una serie svariata di motivi, si affrontano indagini passate, si ricuciono brandelli di storia e di memoria. Ricucendo anche la vita del maresciallo. Forse per un omaggio all’amico scomparso, dopo le prime storie, Binda va in pensione, pur rimanendo all’erta per casi vecchi e nuovi. Muore la moglie Rachele, amata a lungo, ma con qualche interrogativo. Il figlio decide di costruirsi una vita a Londra. Nelle more, Binda si consola, o viene consolato, dalla portiera dello stabile, Alba, con cui ha un rapporto lungo ma mai deciso. Ad un certo punto, però, hanno una rottura definitiva. Nelle more dell’ultimo periodo noto, Binda si accompagnerà con Teresa, ma questa è un’altra storia, per cui non vi dico né chi è né come si evolve. Qui il presente del racconto è il 1985 e Binda passa il tempo di non indagini con Alba.

Indagini che invece si riaprono all’improvviso, con una signorina, o signora trentenne, tal Olga che ritiene la madre, data per scomparsa 13 anni prima, sia invece ancora viva. Una scomparsa legata ad una vicenda che Binda aveva affrontato in prima persona, ma la cui conclusione non lo aveva mai convinto completamente.

C’è una violinista russa di alto profilo musicale, che si muove quasi indisturbata tra Mosca e l’Italia, anche in periodi di guerra fredda. Per poi scomparire all’improvviso poco prima di un concerto a Milano. Quasi contemporaneamente, viene ritrovato un corpo senza testa, impiccato sotto il Ponte di Ferro del titolo, ed anche decapitato.

Da qui partono le indagini, con il solito piglio descrittivo di Kola che ci fa vivere quei mondi non come se fossimo nei noir americani, ma con tutte le difficoltà e farraginosità delle indagini sul territorio italiano. Con fatica, Binda scopre l’identità del morto, e con altrettanta fatica scopre un possibile legame con la russa. Ci sono banditelli del “mondo di mezzo” che si trovano coinvolti, che fanno in modo di collegare il morto, la russa e dei ricettatori di gioielli. Una volta imboccata questa strada, le gerarchie superiori al povero Binda, lo mettono in contatto con i servizi segreti russi. Perché la violinista voleva fuggire dalla Russia, ed aveva escogitato un furto clamoroso per andare in America con i gioielli.

Qui la costruzione di Kola si impantana un pochino, che vengono messi in mezzo anche i servizi segreti israeliani, nonché dei comunisti fuggiti dalla Grecia dei colonnelli e riparati in Italia in parte protetti dai russi (ed in parte no), non tacendo anche qualche collegamento alla strage delle Olimpiadi. La storia del ’72 ha un suo epilogo, con un possibile colpevole, ma senza aver ritrovato né i gioielli né la violinista.

La vicenda, quindi, avrà il suo “vero” epilogo solo nel presente del racconto, dove sotto la spinta di Olga, Binda ripercorre tutta la vicenda, per arrivare ad un finale che mette tutto in una luce comprensibile. Ma l’idea di Kola non è tanto risolvere il caso, quanto gettare qualche sassolino negli ingranaggi delle segrete cose. Lui sa, e noi con lui, che spesso, muovendosi nel mondo spionistico, non tutto è appurabile in modo palese, e ci sono poteri che si muovono e ordiscono, in spregio di ogni possibile giustizia. Binda tirerà fuori una piccola giustizia umana, non potendo, come è ovvio, arrivare alla Giustizia dura e pura.

Al solito, gli scritti del nostro autore cercano diversi bersagli da colpire, ma soprattutto provano, spesso felicemente, a mettere qualche sassolino negli ingranaggi, e qualche pulce nei nostri orecchi. Non sempre la scrittura sorregge compiutamente l’idea, ma si fa leggere e fa riflettere. Una prova dignitosa.

“Da quando t’ho incontrato finalmente ho meglio da fare che leggere. Vivo la mia vita, non quella degli altri.” (199)

Mariolina Venezia “Rione Serra Venerdì” Einaudi euro 17,50

[A: 06/08/2020 – I: 15/06/2023 – T: 16/06/2023] && e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 277; anno: 2018]

Dopo poco più di un anno, e dopo aver lasciato passare tutta la serie televisiva, torno agli scritti materani di Mariolina Venezia e del suo Pubblico Ministero Immacolata “Imma” Tatarianni. Anche se ho, facilmente e fortunatamente, rimosso la serie televisiva, pur gradevole, di certo il “personaggio” Imma avrà sempre le fattezze della brava attrice Vanessa Scalera. E così anche i personaggi ricorrenti. Anche se io ricordo solo il marito Pietro (un grande Massimiliano Gallo) e il procuratore capo Vitali (l’altrettanto bravissimo Carlo Buccirosso).

A valle della lettura, in ogni caso, devo dire che ricordo al fine decise discrepanze tra libro e televisione. In particolare, nella vita privata di Imma, sia con Pietro che con la figlia Valentina. Mentre sempre sull’onda del forse ma forse no, c’è il rapporto con il maresciallo Caligiuri.

Tuttavia, non essendo un critico televisivo, ma solo un assiduo lettore, torno al testo ed alle sue implicazioni. Cominciando dal sottotitolo che compare in questa edizione Einaudi (e che scompare nelle riprese di editoria di Repubblica). Cioè, “Imma Tataranni e le trappole del passato”, che è poi il filo conduttore di tutto il libro.

Infatti, l’elemento “giallo” che scatena il racconto è l’omicidio di Stella, compagna di classe al liceo di Imma. Anzi, più di compagna, visto che avevano fatto sodalizio insieme, Stella la timida e Imma la secchiona. Stella che era rimasta timida tutta la vita, ed ora viene trovata strangolata, nella sua casa chiusa a chiave dall’interno, vestita di provocante biancheria intima. Con l’unica possibile uscita costituita da un lucernario dove a mala pena passa un adolescente.

Qualche cosa pian pianino esce, tra le soffiate della cancelliera Diana (anche lei campagna di liceo) e le indagini del fido Caligiuri. Che forse tanto fido non è, ma la possibile storia tra loro e tra Caligiuri e le belle poliziotte è poco interessante, se non per qualche risvolto onirico, ma soprattutto sembra essere messa a posta per dare qualche riempitivo grottesca a storie che potrebbero essere piatte. Come di certo non è Imma, quinta di seno, bassa che porta sempre pericolosissime scarpe con il tacco, e vestita in modo casula-sbagliato (tipo maglietta zebrata sopra un paio di pantaloni tigrati).

In un lamione (vedi il finale) di Stella si trovano lastre di foto dell’800, documentando la strage di Pontelandolfo (vedi anche qui il finale), che metterebbero in cattiva luce il nobile decaduto De Nardis. Che, per soldi, vorrebbe vendere la casa avita al comune, chiedendone perizia al geometra Francesco. Che insieme al cugino, anche lui Francesco, era compagno liceale di Stella. Il secondo Francesco era poi emigrato in Svizzera (terzo elemento del finale), lasciando scie di ricordi. Che coinvolgevano Stella, le vacanze, il cugino, ed un compito di greco che Imma non passò a Stella.

Forse De Nardis veniva ricattato da Stella per quelle foto? E come entra nel calderone il sito di incontri dove Stella conosce uno spiantato telefonista? E come fece Stella a pagare i cinquemila euro per farsi rimettere a nuovo da una scalcinata estetista? E quel cioccolatino trentennale che veniva dalla Svizzera? Soprattutto, come ha fatto l’assassino a lasciare la casa?

Di lato, si infilano i ragazzi dei sassi, con le loro storie, con la possibilità che uno di loro sia entrato e uscito dal lucernario. Tutto molto complicato, anche perché l’esuberante Eustacchio detto Stakkio prima sparisce, poi viene trovato morto. I fatti sono collegati?

La travolgente Imma, irascibile, dispotica, ma sempre sul pezzo, fa un grande calderone di tutto, trovando alla fine il modo di separare gli elementi probanti dalle false piste. Arrivando, ma forse con un po’ troppa fretta alla soluzione di tutti i punti interrogativi.

Venezia, anche in questo tuffo nel passato, trova il modo di sfruttare una trama abbastanza gialla per parlare anche di altro. E queste sono forse le parti più interessanti. Che portano acqua alle mie considerazioni sull’utilizzo del giallo per stabilire un contatto con il lettore, ma parlare di altro. In primis, della quotidianità, del mondo e del vissuto di tutto i giorni.

L’insoddisfazione di Pietro marito messo un po’ da parte, il tormento dei giovani, con Valentina che passa da un quasi fidanzamento ad una più giovanile espressione di sé. Nonché i turbamenti della cinquantenne Imma a confronto con i giovani, il belloccio Caligiuri e le belle e profumate poliziotte in carriera.

Ma poi per toccare alcuni elementi interessanti. Il primo sono i lamioni, elementi tipici dell’architettura dei sassi materani, dove l’ipogeo scavato nella roccia veniva prolungato all’esterno, e chiusa da muri per creare nuovi ambienti. Ambienti che videro la visita negli anni Cinquanta di Alcide De Gasperi, che, constatando il degrado dei sassi avviò la riforma urbanistica di Matera, che portò alla costituzione di questi quartieri dormitorio esterni, il cui esempio tipico è proprio il Rione Serra Venerdì.

Il secondo elemento interessante è l’accenno storico alla strage di Pontelandolfo, perpetrata dalle truppe sabaude nell’agosto del 1861, che a fronte dell’uccisone di un battaglione regio da parte dei resistenti borbonici, rasero al suolo la cittadina di Pontelandolfo ed uccisero civili in numero imprecisato. Con stime che vanno da 13 a più di 400.

Infine, ma questo è stato solo accennato da Venezia, anche se poi sarebbe un interessante elemento di approfondimento, la questione dell’emigrazione lucana in Svizzera, che da un lato spopolano le terre del meridione. Ma dall’altro fanno luce sul modo in cui gli emigrati vengono trattati: andate a rivedere il bellissimo fil con Manfredi “Pane e cioccolata”.

Come vedete, da un libro di media intensità, si possono trovare anche molti spunti. Vedremo poi come proseguirà la lettura delle avventure di Imma nonché il primo libro della scrittrice.

Mariolina Venezia “Via del Riscatto” Repubblica Brivido Noir 7 euro 8,90

[A: 27/07/2020 – I: 28/06/2023 – T: 30/06/2023] && e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 279; anno: 2019]

Con questo libro, siamo alla chiusura del ciclo dedicato ad Imma Tatarianni, PM di Matera. Almeno al ciclo finora pubblicato. Facendo un po’ di conti con quanto letto, di veramente legato a Imma ed alle indagini sono quattro libri, che vanno legati a quello che viene indicato come sottotitolo (e che spesso nelle riprese, ad esempio, di Repubblica, viene o ignorato o poco evidenziato). Così, il primo “Come piante tra i sassi” si legava a “la storia sepolta”; il secondo, “Maltempo” a “gli inciampi del presente”; il terzo, “Rione Serra Venerdì” a “le trappole del passato”. Questo, infine, viene congiunge idealmente con “le incognite del futuro”.

Esiste, ma non ce l’ho, un quinto libro che si intitola “Ecchecavolo – Il mondo secondo Imma Tataranni”, ma non sembra costituire una nuova fase delle avventure di Imma, piuttosto una piccola summa del suo pensiero verso il mondo.

Ora, cosa c’entrano i sottotitoli? Hanno due funzioni, legate entrambe al privato della nostra eroina. Una, molto interna al nucleo familiare stretto, ed in particolare alla figlia Valentina, che seguiamo nella sua crescita, visto che in questo quarto libro si avvia verso i sedici anni. E dopo aver passato nel precedente una crisi con il broccolone Giovanni (e non fate ironie!), qui si avvia verso il futuro, sia rischiando una gravidanza, sia rivolgendosi al mondo fuori la scuola ed alla società civile in generale.

L’altro riferimento è alla storia (vera? presunta? possibile?) di Imma con l’ormai maresciallo Caligiuri, immeritatamente battezzato Ippazio (dal nome della grande matematica dell’antichità). C’erano stati momenti intensi nel presente e nel passato tra Imma e Ippazio, con alcune considerazioni non banali sulla femminilità e sulla maturità.

Qui siamo andati anche un po’ oltre. È vero che, anche rispetto alle diversità della serie televisiva, Imma non sembra mettere in discussione il suo matrimonio con Pietro. Di certo, qui, un certo coinvolgimento sessuale (anche se non amoroso) c’è. Quali incognite ci svelerà il futuro? Come diceva il grande Mogol per bocca di Battisti “lo scopriremo solo vivendo”.

Intanto, anche qui c’è una morte violenta, un’indagine ed un sotto filone interessante, legato ad abusi edilizi, che in quel di Basilicata sembrano essere (stati) all’ordine del giorno, fin dal decreto De Gasperi degli anni ’50.

Il morto è un “puttaniere”, abbastanza dedito alla coca (ma pare stia smettendo), e molto dedito alla rincorsa di sottane e sottanelle. Non ha una grande preparazione lavorativo, se non una bella presenza ed una discreta facilità nell’eloquio. Non sorprende quindi che l’unico lavoro che riesce a portare avanti è l’agente immobiliare. Anche perché Matera si stava avviando a diventare capitale europea della cultura (cosa che poi ha di certo portato un grande incremento nel turismo materano).

La vicenda si restringe ben presto alla famiglia Sinagra: il patriarca, molto avanti negli anni, si è ritirato in campagna, lasciando il Palazzo avito ai due figli. Carolina, un po’ “figlia dei fiori”, all’inizio del libro in India presso un ashram, e Guido, forse gay o forse no, ma di sicuro senza molto polso negli investimenti. Guido ed il morto, Antonello, erano molto amici in gioventù, poi ad un certo punto, si allontanano in modo quasi definitivo.

Questo in concomitanza con l’arrivo di una Triumph regalo di Sinagra alla moglie, di un incidente in motorino che provoca la morte di un operaio, di una depressione e conseguente suicidio della moglie di Sinagra. Antonello poi, nella sua lunga carriera di tombeur de femme, ha una lunga relazione romana con l’avvocato Brunella.

Ma sotto la spinta di Carolina, lascia tutto e tutti, frequenta e poi sposa la figlia di quell’operaio morto in motorino, ed ai due nasce anche un figlio. Ora, sono tutti riuniti in quel di Matera. Sinagra senior per tamponare i guasti dei figli, Carolina, tornata di corsa dall’India per (forse) capire se l’infatuazione giovanile per Antonello avesse un seguito, Brunella per cercare di riprendersi Antonello, Guido per cercare di fare soldi con la vendita del Palazzo Sinagra, nonché Antonello e la moglie Ambra perché, in fondo, a Matera ci vivono.

Ci sono anche altri filoni laterali, che portano novità nelle cause civili che Imma sta intentando con i palazzinari locali, ma è lì, in quell’intreccio di passioni e conoscenza che i nostri dovranno cercare di separare “separare il grano dal loglio”.

Ora, alla fine della saga (o comunque nel suo momento di pausa), non scopriamo di certo la tranquilla serenità con cui Mariolina riempie le pagine. C’è solo un non so che di “affrettato”, se mi si consente di chiamarlo così, in alcuni passaggi, in alcune descrizioni dove si salta di discorso, quasi come mancasse qualche collegamento. Come nella scena del bar dove ad un certo punto si palesa una signorina, quasi ignorata fino ad allora, ed interviene nella trama, con una durezza come se si dovesse, noi lettori, sapere già tutto di lei. Non so, forse son io che leggo male, ma mi ha lasciato un po’ disorientato.

Come disorienta tutto l’impianto generale, con la solita fine un po’ troppo veloce. Ma va anche bene così, rispetto ad alcuni prodotti anglosassoni letti da poco e di poco valore, rispetto a questa comunque dignitosa prova.

Giaime Alonge “Il sentimento del ferro” Repubblica Spy 20 euro 7,90

[A: 29/05/2019 – I: 10/07/2023 – T: 12/07/2023] - &&

[tit. or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 475; anno 2019]

Giaime Alonge professore associato di Storia del cinema all'Università di Torino, nato nel ’68, specializzatosi al DAMS di Bologna. A lato di una lunga frequentazione, accademica e personale, del mondo del cinema, ad una dilettantesca attività sportiva nella scherma, inizia anche a scrivere altro. Romanzi dal 2009, fino a questa opera classificata di spionaggio dieci anni dopo.

Diciamo etichettata che lo spionaggio entra nella trama perché i servizi segreti israeliani, americani e russi, tanto per dirne alcuni, sono presenti. Ma è ben lontano da una spy story alla Le Carrè. Piuttosto è un romanzo che coniuga storia e fantasia, con una trama interessante, con alcuni punti che sollevano interrogativi e domande valide in tutti i contesti. La trama, però, è piuttosto una ricerca di cattivi da parte di buoni. Almeno nella prima lettura. Anche se poi, pur se i cattivi rimangono cattivi, i buoni, a volte, non sono poi tanto buoni.

Alonge, che certo di cinema se ne intende, comincia con l’usare una tecnica filmica ben nota: andare su e giù nei due spazi temporali del racconto, facendo uscire, frame dopo frame, il contesto della storia stessa. Una tecnica che, personalmente, non ama e mi lascia tutte le volte che la incontro, leggermente scostante (uno dei punti a sfavore del romanzo).

Questi due spazi sono il primo che va dal 9 settembre 1941 al 18 maggio 1948, ed il secondo che si espande dal 25 giugno al 5 agosto 1982. Come avete già capito, una parte preponderante si svolge durante la Seconda guerra mondiale. Quando poi diciamo che i tre personaggi che seguiamo sono il maggiore delle SS Hans Lichtblau, il sionista polacco Shlomo Libowitz e l’ebreo praghese Anton Epstein, già tutti vi fate un’idea di quale possa essere il contesto del romanzo.

Il luogo dell’azione nel lontano passato si muove vicino alla cittadina di Soldau, famigerato campo nazista, prima di transito poi di sterminio in primis di malati mentali, poi, sotto la direzione di Otto Rasch, campo di lavoro e morte per più di 10.000 prigionieri. Vicino a Soldau, c’è la villa del barone antinazista Wilhelm von Lehndorff (il cognome, non per niente, è lo stesso di uno dei partecipanti all’operazione Walkiria, l’attentato a Hitler del 20 luglio 1944, cioè Heinrich Graf von Lehndorff-Steinort), dove Lichtblau organizza un campo di ricerca per la sterilizzazione degli ebrei, e poi per l’uso militare di una potente droga lì sintetizzata. Ovviamente, il campo prevede uno strato di “kapò”, che fanno da cuscinetto tra SS e morituri, con compiti essenzialmente di becchini. Un Kommando dove si ritrovano gomito a gomito Shlomo e Anton.

Lichtblau ha una mente criminale non banale, così, vista la mala parata, alla fine della guerra, fugge con la droga, si consegna agli americani, e si ricicla come consulente (ed anche killer) della CIA. Mettendo in piedi un fiorente commercio di droghe in Sudamerica dove, nel presente, appunto nel 1982, sotto falso nome, combatte i Sandinisti per conto della CIA.

Da parte loro, Shlomo e Anton vengono salvati dall’Armata Rossa, ma mentre il primo emigra in Israele, il secondo decide di rimanere a Praga, con tutti i limiti di quella scelta. Per seguire le loro scelte, poi, avremo modo, con Alonge, di cominciare a riflettere sia sulla situazione oltrecortina in tutti gli anni della guerra fredda, sia sulla situazione mediorientale, dove, e qui Alonge lo fa con una crudezza encomiabile, i sionisti dell’Irgun si comportano con gli Arabi quasi in modo contrappuntistico (ricordiamo con lui l’attentato del 22 luglio 1946 al King David Hotel con 91 morti: 28 britannici, 41 arabi, 17 ebrei e 5 persone di diversa nazionalità, rivendicato proprio dall’Irgun).

Nel 1982, i servizi segreti russi individuano Lichtblau in Salvador, e coinvolgo in una caccia all’uomo all’ultimo colpo i due superstiti. Capirete già come tutto vada a finire. Ma non è tanto la parte di lotta (e marginalmente di spionaggio) quella che interessa Alonge. Lui usa questo testo per porsi e porci alcune domande. La prima è la vendetta, che dovrebbe rimettere le cose a posto, pacificarci con noi stessi. Anche dopo tanto tempo? Anche quando diventiamo simili a chi ha fatto del male la sua arma primaria?

Il secondo è interrogarsi sulla condizione di “ebreo”: saranno sempre vittime? Riusciranno a superare il trauma di essere sopravvissuti? Come fare a saldare i conti nello specchio mediorientale, se ci si comporta come gli aguzzini del passato? Non a caso Shlomo si interroga se ha fatto le cose giuste, guardando in televisione il massacro di Sabrā wa-Shātīlā. Un esempio forte di questo interrogativo sotteso viene da un episodio storico narrato. All’inizio del libro (1941) vediamo un attacco sferrato da paracadutisti lanciatisi da caccia tedeschi della serie Messerschmitt. Alla fine del libro (ma ancora nel 1948) vediamo un attacco israeliano a postazioni arabe, usando i caccia modello Avia. Che sono gli stessi Messerschmitt sopracitati, sempre prodotti in Cecoslovacchia come i primi. Cambia solo il produttore.

Terzo, e non meno importante, il ruolo della Chiesa allora ed ora. Laddove si narra di monsignor Keller che si ribella a Lichtblau e viene deportato a Dachau, e del suo segretario, monsignor Grabski, convinto antisemita, che collaborerà al salvataggio dei criminali nazisti.

Forse questi interrogativi sono le cose migliori che vengono a galla da un testo che non mi ha colpito particolarmente per il suo narrato. Magari solo per quelle descrizione della natura, contrapponendo la Prussia degli anni Quaranta al Nicaragua e all’Honduras degli anni Ottanta.

Probabilmente ha ragione lo scrittore Laurent Binet quando afferma che la Seconda guerra mondiale è la nostra guerra di Troia, sempre pronta a fornirci storie, sempre diverse, ma in fondo sempre uguali. Dipende chi le scriva. E qui siamo ad un buon ma non eccelso esempio.

“A volte … per stare dalla parte giusta, bisogna avere il coraggio di mettersi con le persone sbagliate.” (430)

Credo che mi abbia molto attirato il titolo per fornirvi le citazioni della settimana, che con Paolo Sorrentino mi sento di dire che “Hanno tutti ragione”, che forse è anche un modo per pensare che, ora come ora, hanno tutti torto. Ma fortunatamente, le frasi di Paolo vanno più sul privato che sul pubblico. Magari parlando di matrimoni (“Sempre la stessa rovinosa caduta nei matrimoni, col tempo ci si concentra nei dettagli, perdendo di vista l’ambizioso progetto iniziale. Forse perché quel progetto iniziale non era poi così ambizioso come si credeva.” (80)), della voglia di viaggiare (“è che io stanziale lo sono fino ad un certo punto. Ci ho il nomadismo al posto del deodorante sotto le ascelle, io.” (215)) o dell’amicizia (“certe verità andrebbero sottaciute per sempre. Perché interrompono le amicizie. Le lacerano. Sono certi bluff che tengono vive le relazioni.” (257)).

Per finire con un grido di dolore per tutto e tutti: “Ad un certo punto … avverti senza fondati motivi ... che si sta abbattendo la fine di un periodo. Dagli e dagli, poi lo capisci, che il gesto si fa meccanico, la battaglia stanca. Gli uomini, limitrofi alla tua esistenza, amici e conoscenti, prima erano uomini, ora sono comparse… sono trasparenti.” (187)

Avete capito che, come tutti si sta vivendo un momento complesso, problematico, mondialmente instabile, che “nel pensier rinnova la paura”. Spero ancora nella vicinanza, nell’amicizia e nello stare vicini, abbracciandoci. 

domenica 22 ottobre 2023

Insoddisfiction - 22 ottobre 2023

Un piccolo tour tra i gialli di vari continenti, tutti poco riusciti, dove alla fine mi trovo a dare la palma del migliore alla scrittura della “mamma” di Harry Potter. Gli altri cominciano poco sotto la sufficienza con l’indiana Anita Nair, e poi vanno in calando con il croato Drago Hedl, con la finlandese Minna Lindgren sino al quasi illeggibile cinese di Mia Jia. Insomma, ho letto di meglio.

Anita Nair “La ferocia del cuore” Repubblica Passione Noir 24 euro 7,90

[A: 25/11/2018 – I: 29/03/2023 – T: 30/03/2023] - && e ½ 

[tit. or.: Cut Like Wound; ling. or.: inglese; pagine: 425; anno 2012]

Dopo aver letto la bella immersione nella realtà indiana delle “Cuccette per signora”, eccoci ad una scrittura che si colloca una decina di anni dopo. Anita Nair ha ben presente il mondo indiano in cui vive, e per parlare di un altro fenomeno radicato nella società indiana, decide di cambiare genere, e di utilizzare il “noir”, dovendo maneggiare una sostanza abbastanza scivolosa. Operazione che, a parte il presente risultato, ha di sicuro dato una buona risposta editoriale, dato che il personaggio principale diventa il protagonista di almeno una seconda puntata. Che purtroppo ho già letto, e quindi forse, tendo a mescolare un po’ i caratteri principali dei due scritti. E dove avete capito cosa intendo per scivolosa.

Intanto, andiamo a menzionare due fatti importanti e preliminari. Benché si classificato come inglese, lo scritto è Indian English, che, molto vicino all’inglese, è comunque l’inglese parlato in India (e molto incomprensibile, soprattutto nella pronuncia). Secondo, il titolo originale parla di un taglio come una ferita, cosa che ha un suo senso nel corso del libro. Mentre il titolo italiano è stranamente vicino al titolo spagnolo (“El corazón es un lugar feroz”), anche se entrambi portano poca acqua alla comprensione del testo (ovvio che potrebbe anche essere il contrario, che lo spagnolo abbia ripreso dall’italiano).

Comunque, ripetendo quanto detto per l’altro libro, qui assistiamo alla nascita del personaggio dell’ispettore Borei Gowda, uomo molto corretto e poco corrotto. Per questo, emarginato nel corpo della polizia, così che si dedica particolarmente a “bere, fumare e mangiare”. Ha un figlio tossico che vive in un’altra città, dove, per la sua carriera e per tenerlo d’occhio, s’è trasferita anche sua moglie Mamtha. I due personaggi che si affiancano a Borei sono poi il giovane apprendista Santosh e la sua vecchia fiamma Urmila, il suo amore di più di venti anni prima, che Borei non aveva dimenticato, e che, ripresentatasi ora, fa rinascere scintille sopite nel nostro.

Il giallo prende le mossa dall’uccisione di un ragazzo che vende il suo corpo, ucciso per strangolamento con un laccio cui sono incollati pezzi di vetro (tipico espediente utilizzato per i lacci usati per le gare di aquiloni, come ci aveva insegnato Hosseini nel suo primo libro). Un’uccisone che lascia un tipico segno di ferita sul collo, come dice il titolo.

A questa prima si accavallano altri omicidi di uguale stampo, e di simile ambientazione. Così che veniamo proiettati nel mondo dei travestiti indiani, gli “hijra”, un fenomeno ben presente nel mondo indiano, tanto che una legge del 2014 ne ha riconosciuto l’ufficialità come terzo sesso. Anche se poi, più che transessuali, si tratta di “khoti”, ragazzi che si vestono al femminile. All’inizio Borei stenta a trovare un fattore comune alle morti, e solo la sua pazienza investigativa porta ad individuare la strada maestra.

Strada che noi già intravediamo dalle prime pagine, anche se Anita tenta di confonderci entrando in descrizioni, anche magistrali, dei rapporti complessi, delle contraddizioni che, pur in un paese teso al futuro, ne legano tradizioni ad un passato difficile da superare. Comunque, nel proseguire delle descrizioni e delle indagini, apprezziamo il bel modo di introdurre e descrivere i personaggi.

Ad esempio, il Consigliere Ravi Kumar detto “Anna” (parola hindi per indicare la “grande madre protettrice”) corrotto come tutti gli amministratori del distretto di Borei, ritratto nella sua casa-fortezza con tutta la corte di malavitosi che vi girano intorno. O il bel personaggio di Urmila, che, a parte il rapporto tra lei e Borei, ci fa entrare nelle contraddizioni indiane, tra un passato ed un presente permeato di magia, con le rigidità del sistema delle caste, rispetto ad un possibile futuro moderno e “occidentale”.

Ma ovviamente al centro, ritorna la figura di Borei, troppo alcool, troppe sigarette, un cinquantenne trasandato, con la carriera bloccata da superiori corrotti. Una persona onesta, bloccata per la sua onestà, e messa in disparte perché le sue intuizioni mettono quasi sempre sotto accusa personaggi che sarebbe bene “non toccare”.

Fortunatamente, la scrittrice ci riserva un piccolo colpo di scena finale, che dà un tocco di interesse maggiore all’ultima parte, a volte (spesso) troppo in fretta scritta e presentata. Tuttavia, pur essendo un libro con poco suspense, ha un suo interesse per le descrizioni di un mondo di cui difficilmente si sa qualcosa, un mondo di prostituzione che, a leggere i giornali, anche ora, a dieci anni della scrittura, è attuale. Che i casi di stupro e di morte (oltre quelli vicini a noi) riempiono pagine e pagine dei giornali indiani.

Un piccolo inciso finale. Borei viaggia per la città su di una Royal Enfield Bullet, una moto molto diffusa in India, ma nota soprattutto per il tempio “Om Banna” a lei dedicato vicino a Jodhpur. È una storia complessa e molto indiana quella di questo tempio. Ne potete cercare in rete, oppure leggere il piccolo allegato a questa trama.

Drago Hedl “Silenzio elettorale” Repubblica Passione Noir 26 euro 7,90

[A: 07/12/2018 – I: 09/04/2023 – T: 10/04/2023] - &&

[tit. or.: Izborna šutnja; ling. or.: croato; pagine: 362; anno 2014]

Se la memoria, ed i miei file, non dicono menzogne, credo sia il primo libro scritto in croato che entra nelle mie trame. Una nuova lingua, ma sentimenti “antichi”, che, seppur mescolati ad altri, escono con le lingue di tutti i paesi dell’ex-Jugoslavia. Lingue che magari non rispettano l’andamento sociopolitico del territorio, ma che, ad ora, possiamo elencare come: bosniaco, croato, macedone, serbo e sloveno. Più, ovviamente, dialetti riconducibili ai paesi limitrofi.

Qui, per l’appunto, abbiamo uno scritto croato, ed uno scritto post-militare. Non si parla della grande tragedia degli anni Novanta, ma ci si immerge nella vita quotidiana di una cittadina, Osijek, incuneata tra Bosnia, Serbia ed Ungheria. Cittadina che è anche il luogo natale dell’autore, Drago Hedl.

Drago è un giornalista investigativo croato, noto per le sue forti inchieste che spesso hanno fatto tremare i palazzi del potere, e non solo. Dalla metà degli anni ’10 ha completato la sua scrittura con la pubblicazione di alcuni romanzi “gialli”, che cercano (anche) di potere a galla problematiche sociali. Ma che soprattutto sono imperniate su alcune figure investigative interessanti. In particolare, già qui (e ho letto che si ripresenteranno anche in altri scritti) due sono gli elementi cardine: l’ispettore Vladimir Kovač ed il giornalista Stribor Kralj. Dove il secondo sembra ricalcare abbastanza la vita stessa di Drago, soprattutto nel momento in cui Stribor, per una serie di motivi, lascia i quotidiani locali, per passare alla “grande investigazione” nel giornale nazionale “Jutarnji List”, proprio come Drago stesso.

Qui, in questa prima uscita, vediamo appunto la nascita dei due personaggi. Stribor, con una piccola carriera alle spalle che gli ha fornito molti ed utili contatti, sposato con Lena che all’inizio del romanzo gli confessa di essere incinta. Vladimir invece è più grande, e lo vediamo alle prese con il triste divorzio da Magda, dopo quattordici anni che sembravano dover proseguire per sempre. È Magda che lo lascia, lui rimanendone innamorato, e confortato solo da lunghe chiacchierate e bevute con la collega Vesna. Che fin dall’inizio sembra avere una cottarella per Vladimir, ma sono storie che è ancora troppo presto per sviluppare.

L’altro elemento che appare è un reduce della guerra, Igor, perseguitato dalla vista dei cadaveri incontrati durante i grandi massacri degli anni Novanta, che lo hanno portato ben dentro la follia, da dove un valente psichiatra lo ha tirato fuori (o quasi).

Igor è quello che trova i cadaveri, Vladimir (con Vesna) indaga e Stribor, facendo il suo lavoro giornalistico, collabora con Vladimir e scrive pezzi di fuoco sul giornale.

I cadaveri sono di due giovani, sui quattordici anni, ospitate dall’orfanotrofio locale, che, disinibite e comunque desiderose di accrescere le poche risorse economiche personali, si danno a piccole avventure pseudo-pornografiche. Ma che, ad un certo punto, diventano qualcosa in più. Che Ivana rimane incinta, e viene trovata morta, forse annegata, sulle rive della Drava (il fiume di Osijek). Che Sanja la sua amica e sodale sa qualcosa, ne inizia a parlare a Stribor, prima di finire anche lei, morta sulle rive della Drava, con una siringa sul braccio sinistro (peccato che sia mancina). Tutti puntano su suicidi per varie ragioni, meno i nostri “eroi”.

Il tutto immerso nel clima politico croato. Perché siamo vicini alle elezioni, ed il politico di punta è fin dall’inizio avvolto in torbide faccende. Allora, complotti, sicari, mafie più o meno palesi, con i nostri che, nonostante i colpi che subiscono, non possono che arrivare, stanchi e malconci, alla verità. Di facile immaginazione, anche se con qualche piccolo colpo di scena (ad effetto).

Insomma, un impianto decente, personaggi simpatici, vicenda che promette, ma che alla fine il tutto rimane a livelli di scarsa sufficienza. Con qualche punta poco credibile. Dei sicari che riescono a mettere a segno colpi magistrali, ma che alla fine si perdono in un bicchier d’acqua. Con una vicenda finale venata da colpi rancorosi del tipo visto che non mi aiuti, ti affosso. Quindi, buon inizio ma una vicenda alla fine abbastanza prevedibile.

Sono comunque curioso di vedere come si possano evolvere i personaggi, per cui credo, che, prima o poi, qualche altro romanzo del buon Drago potrà forse entrare nella mia libreria.

Minna Lindgren “Mistero a Villa del Lieto Tramonto” Repubblica Passione Noir 27 euro 7,90

[A: 07/12/2018 – I: 20/04/2023 – T: 22/04/2023] - & e ½

[tit. or.: Kuolema Ehtoolehdossa; ling. or.: finlandese; pagine: 315; anno 2013]

Non sono certo molti gli autori finlandesi sia in generale sia nella mia biblioteca. Ed in genere, più sul versante narrativo in generale (Paasilinna, Waltari e pochi altri). Nella parte “noir” a mente non ne ricordo, come se non fosse un genere usuale. Tanto che anche questo, catalogato come racconto “di indagine”, in realtà, nella parte di studio dei comportamenti criminali risulta essere non dico carente, ma addirittura nullo.

Intanto, visto le nostre poche conoscenze, diciamo che l’autrice, Minna Liisa Gabriela Lindgren, è un personaggio discretamente noto in patria: da sempre all’interno della radio televisione nazionale (Yleisradio, che tra l’altro viene spesso citata nel romanzo e dove ha lavorato sino al 2008, prima di dedicarsi alla scrittura), è un’esperta melomane (ed anche qui, notevoli sono i riferimenti alla musica classica sparsi tra le pagine), autrice anche di libretti d’opera. Tra il 2013 ed il 2015 pubblica tre romanzi, di cui questo è il primo, e che ruotano intorno alle vicende di persone che vivono in un ricovero per anziani, il “Bosco del Crepuscolo”. Erroneamente classificati come “noir”, sono in realtà momenti, schizzi di vita, dedicati a persone anziane, che, per la loro età, non possono che, talvolta, morire. Ma su questo torneremo. Constatando, di passaggio, che in patria i libri sono noti come “Trilogia di Helsinki” (e ci si tornerà anche).

Collegandomi al nome del ricovero, che in finlandese suona “Ethoolehdon”, diamo anche una tirata d’orecchie ai responsabili editoriali che, a parte il cambio del nome della villa, modificano “Kuolema” che significa “morte”, con un anodino “mistero”. Altro inganno per i lettori, appunto, che di misteri ce ne sono pochi, mentre di morti, provocate, accidentali o naturali, è pieno il testo. La modifica del nome della villa in finlandese è dovuta all’uso delle declinazioni e delle agglutinazioni che in questa lingua sono pane quotidiano. Mentre il titolo originale, più che alle morti siano esse sospette o meno, si riferisce anche agli anziani della casa di riposo che aspettano una morte che sembra non arrivare mai.

Eliminando qui il “noir”, vediamo al centro le nostre tre protagoniste ben al di là dei novanta anni, che trascorrono gli ultimi sprazzi della loro vita nel “Bosco del Crepuscolo”, giocando a carte, bevendo alcolici, prendendo pillole e usando girelli e pannoloni. Abbiamo Anna Liisa puntigliosa ex professoressa di finlandese, Irma estroversa ed imprevedibile e Siiri, la protagonista, riflessiva, metodica, una volta velocissima dattilografa.

Certo, nelle prime pagine c’è un morto, il cuoco Tero, e sembra che dietro la morte ci sia qualche mistero. Ma le nostre tre nonnine non indagano realmente sul crimine, ma su quello che accade nella Villa. Aiutate dal misterioso tassista Mika, le nostre eroine riusciranno, anche in maniera diagonale, a sventare le storture del welfare finlandese, dove, per avere sussidi, i responsabili della Villa aumentano a dismisura i farmaci alle vecchiette, con mancamenti ed improvvise perdite di memoria, che fanno rinchiudere le più “pericolose” (per il sistema fraudolento) nei reparti d’isolamento.

È quindi un viaggio nel mondo degli anziani quello che ci propone Minna. Anziani spesso abbandonati dai familiari che neanche trovano il tempo di andarli a trovare, che vengono relegati in queste strutture solitarie, dove sì cercano conforto reciproco, ma che comunicano un forte senso di disperazione. Dove non ancora peggio, che dietro le belle parole ci sono violenze, fisiche e verbali, un modo infantile di trattare l’anziano, anche quando sembra ragionare ben meglio degli infermieri importati da mezzo mondo. Anziani di cui non ci si fida, anche quando (o soprattutto quando) denunciano queste storture.

Mentre le nostre tre continuano, con accanimento, a vivere una loro vita. Anna Liisa trova l’amore. Irma, superato un brutto periodo, torna a fare la svampita, tra shopping e whisky. Siiri, anche se forse con qualche colpo di demenza senile (a 92 anni!) è quella che dà il colpo giusto alla vicenda, dando fiducia allo sbandato Mika, e trovando la via d’uscita alle situazioni ingarbugliate che si andavano accumulando nella Villa.

Il tutto si scioglie senza un vero finale, laddove Irma finirà con il ripetere ancora una volta il suo ritornello che richiama il tempo che passa: "Tic tac, tic tac, tic tac".

Ci sono due cose finali da sottolineare, che riprendo dal bell’intervento della traduttrice Irene Sorrentino sulle difficoltà e sulle scelte effettuate per tradurre il romanzo. Il primo riguarda la cantilena di Irma, che nell’originale era in svedese (seconda lingua del paese) ed era espressa coma “döden döden döden”, che, come tutti i conoscitori delle lingue, significa “morte, morte, morte”. Nella difficoltà sia di lasciarlo in svedese, sia di tradurlo banalmente, Irene trova questa soluzione, rifacendosi al coccodrillo di Capitan Uncino.

Altro punto è le (forse eccessive) gite in tram di Siiri, che servono a Minna quasi a farci fare un giro turistico in Helsinki, parlandoci delle strade, ma anche delle case e degli architetti. In questa edizione non rende molto, mentre, come ho potuto vedere in libreria, nell’originale Sonzogno, corredato da una mappa della città, ha una ben altra resa. Peccato queste scelte.

Per la parte “personale” spero che l’accenno a pagina 48 “Avrebbe dovuto leggere “La vita, istruzioni per l’uso” di Georges Perec, ma non lo aveva finito tanto era noioso, prolisso e macchinoso”, sia ironico, altrimenti il giudizio finisce molto sotto lo zero.

Rimane un libro intrinsecamente finlandese, quindi anche con qualche difficoltà per noi “sudisti” di entrare in questo tipo di ironia. Che tra l’altro scatta con difficoltà. Mentre però in altri autori la verve riscatta il tutto, qui, alla fine, rimane tutto un po’ piatto.

Mai Jia “Il fatale talento del signor Rong” Repubblica Spy 11 euro 7,90

[A: 27/03/2019 – I: 24/06/2023 – T: 26/06/2023] - &   

[tit. or.: 解密 - Decoded; ling. or.: cinese; pagine: 379; anno 2002]

Ecco un altro prodotto che non soddisfa né le premesse né si modifica nell’andar di lettura, risultando anzi lento e fuori centro. Ma andiamo con ordine.

Non capita sovente di leggere di autori cinesi – cinesi, cioè escludendo gli espatriati ed i fuggitivi. In realtà, l’unico che ho veramente letto è il Nobel Mo Jan, e non mi piacque. Come scrissi per Mo, altra caratteristica dei cinesi è l’uso di pseudonimi nella scrittura. Veniamo così a sapere che il nostro si chiama Jiang Benhu, è un sessantenne, a lungo arruolato nell’Esercito e che scrisse questo testo in dieci anni, dal ’91 al ’01. Ed in effetti, la struttura del romanzo è assai complessa, e possiamo quindi capirne la difficoltà di nascita.

Il primo elemento che mi ha prima storto e poi reso difficile una piena comprensione del testo è la sua vicenda editoriale. Intanto, qui viene inserito in una collana di spionaggio dopo essere stato portato in Italia, con grande sforzo, dalla casa editrice Marsilio. Che nella sua edizione confessa di aver usato la traduzione inglese del testo cinese. Ho visto altre volte questi passaggi, e li ho sempre trovati forieri di impoverimento alla fruizione del libro.

Il secondo mal punto, sempre nell’ottica editoriale, è il titolo, che in italiano sottolinea una delle caratteristiche fondamentali di quello che si rivelerà il protagonista della vicenda. Ma sia in inglese che in cinese (stando ai traduttori online) il titolo tradotto in italiano sarebbe “Decifrato”. Un titolo ovvio meglio aderente all’idea del testo, che parla (ma vedremo come) di crittografia. E dove, forse, la decrittazione non attiene solo ai codici segreti, ma anche al personaggio stesso del romanzo.

Venendo al testo, è vero che l’autore si industria di utilizzare molte forme di scrittura, come ad esempio l’uso, molto da feuilleton francese dell’Ottocento, di finire i capitoli con delle frasi che dovrebbero portare il lettore a chiedersi: e dopo? Mi si dice, ma non sono un esperto, che è una tecnica cinese millenaria. Come cinese è l’uso del sogno in quanto rivelatore di verità nascoste, anche questo tipicamente usato nei racconti cinesi del XV secolo.

Giò tutto ciò porta pesantezza al testo. Se poi aggiungiamo che non c’è un briciolo di tensione in tutte le circa quattrocento pagine del testo, e che i personaggi paiono al più dei bassorilievi piuttosto che degli attori a tutto tondo, abbiamo ulteriori elementi di criticità. Perché in fondo certo sembra che lo spionaggio debba avere dei momenti nella trama, visto che si parla a lungo, ma solo dopo la metà del libro, di codici crittografati, dai nomi “colorati”, Porpora e Nero. Ma a che servono? Come vengono impiegati? Qual è lo sforzo del signor Rong per entrare nel codice e svelarlo? Nulla di tutto ciò esce dal racconto, ed allora, che spionaggio è?

Se poi seguiamo il testo, vediamo che per buona metà ci viene narrata la saga familiare della famiglia Rong, a partire dalla capostipite, Nonna Rong, e dalla trasferta in America del nipote per diventare un esperto analista di sogni. Nonna muore, e Rong, cambiato il suo nome in Vecchio Lillie (?), al contrario, diventa un esimio matematico che tornato in patria, fonda una Università dal fulgido prestigio.

Avremo poi tutta una serie di matematici, a partire da una donna dolicocefala, Rong Abaco Lillie, un nipote che segue le orme dei matematici, il Giovane Lillie, fino (e siamo quasi a metà libro) ad incontrare un ulteriore nipote (mi sono perso negli intrecci), Rong Jinzhen. Quasi autistico, anche lui con il cranio sviluppato, capace di ricostruirsi la matematica a partire dalla somma di due numeri. Abbiamo tanto tempo da seguirlo nelle lezioni con un tutore polacco, con la sua laurea in tre settimane, fino al suo arruolamento nell’unità 701, che si occupa, per l’appunto, di decifrazione. Vediamo il polacco riparare in America e sviluppare Porpora. Leggiamo, che non capiamo come, Jinzhen entrare nei segreti di Porpora. Vediamo gli altri (i cattivi?) sviluppare allora Nero. E vediamo come Jinzhen perderà la ragione poco prima di risolvere il problema.

Ma non capiamo chi ci sia, cosa faccia il polacco, perché l’unità 701 è così importante. Insomma, forse il verso mistero da decifrare è chi sia (chi sia stato?) Rong Jinzhen.

Lo scrivente cerca di portarci in tutti questi meandri, con testimonianze, interviste, salti temporali, e tante altre opere d’ingegno stilistico. Non ultimo, con la trascrizione di una serie di appunti desunti dai taccuini di Jinzhen, che avrebbero permesso ad un suo collaboratore di finire l’opera del sommo. Noi li leggiamo, e capiamo solo che, oltre a pensieri sparsi, ci sono citazioni varie, tra cui alcune, pur pregevoli, del “Cantico dei Cantici”.

E il mistero? Lo spionaggio? Poteva benissimo essere inserito in una collana di saghe familiari, o rimanere un testo isolato, senza etichette. Forse ne avrebbe giovato. Come, di certo, avrebbe giovato una sua traduzione diretta dal cinese.

Un ultimo accenno: in un’intervista Mia Jia dice di non conoscere Alan Turing e la sua storia. Primo, mi sembra una bufala. Secondo, se citi ad un certo punto Nash, lo ritengo una bufala. Terzo, se oltre a Nash parli di Intelligenza Artificiale, beh, finisco i commenti.

“Quando la gente parla del proprio paese si riferisce ai parenti, agli amici, alla lingua, al ponte che attraversa quando va a lavorare … non a una particolare fetta di terra delimitata da confini prestabiliti, né agli interessi di un partito … o alla venerazione nei confronti di un demagogo.” (199)

J.K. Rowling (Robert Galbraith) “Bianco Letale” Repubblica Emozione Noir 3 euro 7,90

[A: 01/07/2019– I: 06/08/2023 – T: 09/08/2023] - && e ½  

[tit. or.: Lethal White; ling. or.: inglese; pagine: 839; anno 2018]

Da una decina di anni ormai, la “mamma” di Harry Potter ha dedicato i suoi sforzi letterari alla costruzione dell’universo del detective Cameron Strike. Dopo un buon esordio, ha poi proseguito con libri di alterne fortune, arrivando con questo al quarto episodio. E noi sappiamo che dopo di questo, sono usciti già altri due libri. Che tuttavia non hanno ancora la forza di entrare nella mia biblioteca. Il mondo di Strike è interessante, ben costruito, ma a volte tende ad incartarsi su sé stesso. Come in questo caso.

Intanto, da protagonista unico, sta correggendo il tiro in un duetto, dove al nostro “cormorano” si affianca un “pettirosso”, la sua ormai socia Robin Ellicott. Sviluppo potenzialmente interessante, che in questo lungo romanzo mostra tuttavia i suoi possibili limiti.

Sappiamo ormai da lunga frequentazione che le serie tendono a sviluppare la loro trama sui due binari maggiori: il personale, che rimbalza di libro in libro, e la trama in sé, che si esaurisce nel corso del romanzo stesso.

Qui, come sempre più spesso nella Rowling, il personale si concentra più su Robin che su Cormoran. Del detective principe sappiamo quasi tutto. Ex-militare, gamba amputata e sostituita da protesi al ginocchio, intelligenza pronta, ma soprattutto un difficile rapporto con l’altro sesso. Ha avuto molte donne (beh, in partica una nuova ad ogni libro), ed anche qui a lungo si rapporta con una poco attraente (letterariamente parlando) Lorelei. Arriverà la rottura, inevitabile, ed un nuovo bivio: compare, come fa a tratti, la sua prima ed indimenticata fiamma, Charlotte, verso la quale ha un conflittuale rapporto, e si rinsalda un rapporto che non è ancora (e forse non lo sarà mai) di amore verso Robin. Riuscirà, prima o poi, la nostra scrittrice a decidere se i due possono fare una coppia fissa?

Sull’altro versante c’è Robin che inizia il libro con il suo matrimonio con Matthew, anche se, per come si comporta il tizio, io avrei divorziato il giorno dopo. Se tu ti permetti di cancellare i miei SMS non hai dignità di condividere la mia vita. Lei invece, pur combattuta, continua per quasi seicento pagine a cercare di rimetterlo in piedi, anche se poi dovrà finalmente arrendersi all’inconsistenza del tizio. Ma a quel punto, nella sua mente, torna il tarlo che la tormenta da libri e libri: “sono forse innamorata di Strike?”. Un dubbio che anche questa volta non avrà una risposta definitiva.

La trama in sé ruota invece intorno ad un bel garbuglio di personaggi, per districare i quali alla Rowling sono necessarie appunto le più di ottocento pagine del libro.

Molto ruota intorno alla famiglia (allargata) di James Chiswell. Lui è un Ministro conservatore del governo britannico. Ha tre figli avuti dalla prima moglie: Freddie, morto in guerra in Iraq, Izzy, nubile e sua segretaria e Fizzy, sposata ma in secondo piano nella trama. Poi c’è un figlio fuori dal matrimonio, Rapahel, da poco uscito di prigione dopo aver scontato una pena per aver ucciso una donna in un incidente automobilistico guidando sotto stupefacenti. Ed anche una seconda moglie, Kinvara, il cui unico interesse pare siano i cavalli.

Allargata anche a due giovani, un tempo alle dipendenze di Chiswell, Jimmy e Billy Knight. Il primo un patetico estremista, dedito a donne e droghe. Il secondo psicotico a seguito di un trauma infantile, del tempo in cui il loro padre faceva cose forse poco limpide per i Chiswell.

Il tutto nasce da Billy, che in una crisi, contatta Cormoran per parlargli di uno strangolamento di un bambino. Poi scompare. Strike e Robin cominciano ad indagare, scoprendo che James è sotto ricatto da Jimmy per una storia che si chiarirà nelle ultime pagine. Da qui comincia la ronda che attraversa tutto il libro. Robin si intrufola nel Ministero, dove scopre alcuni altarini, di interesse laterale rispetto al libro. Ma anche i comportamenti strani dei Chiswell: James sempre alterato, Izzy preoccupata, Raphael piacione verso tutte le donne con un fare un po’ losco, Kinvara con alti e bassi umorali, a seconda di chi le è vicino.

Collante a varie vicissitudini, poi, è il bianco del titolo. Primo, perché in diversi punti del libro, i protagonisti si trovano a bere a dei pub che, come spesso accade laggiù, sono dedicati al “White Horse”. Poi, visto che i Chiswell, e Kinvara in particolare, sono legati ai cavalli, c’è il bianco del titolo, il “Lethal White”, che è una sindrome equina, dove i puledri nascono esteriormente normali, ma con il mantello bianco e gli occhi azzurri. Questo indica una anomalia del colon, per cui nel giro di pochi giorni muoiono. Sindrome che è ben rappresentata in un quadro presente nella magione dei Chiswell, che ad un certo punto (forse sì, forse no) potrebbe essere attribuita a George Stubbs. Che tutti voi vi domanderete chi sia. Ho scoperto che è uno dei più grandi pittori di cavalli inglese, ed un suo dipinto ignoto potrebbe valere decine di milioni di sterline.

Ho dimenticato di dirvi che ad un certo punto, James Chiswell muore, e passeremo le ultime duecento pagine prima a capire che è stato ucciso, poi come è stato ucciso e poi da chi è stato ucciso. Questo per rimarcare la forse eccessiva lunghezza della Rowling. Inoltre, come spesso negli altri libri di questa serie, nel finale Robin si mette in situazioni pericolose, dove viene salvata all’ultimo istante dal nostro Cormoran Superman. Che per soprammercato, riuscirà a risolvere anche i motivi delle angosce di Billy.

Ci sarebbero altri rivoli minori da analizzare, ma penso che abbiate capito che la lunghezza del testo è un po’ stancante, anche per noi che raccontiamo le trame. Per cui, con la speranza che la scrittura potteriana migliori, metto anche io un punto fermo.

Non ci si può esimere da ricercare qualche frase utile dall’universo della “crime fiction”, come direbbero gli inglesi. Ecco allora che trovo una serie di frasi ricavate dal libro “Le perfezioni provvisorie” di Gianrico Carofiglio. Che cominciano e terminano con citazioni di citazioni, da Paul Valery a Theodor Adorno, per poi passare a florilegi che toccano l’universo dei libri e quelle delle relazioni tra persone.

“Paul Valéry: il modo migliore per realizzare i propri sogni è svegliarsi” (14).

“Io ho voglia di condividere quello che leggo. Quando ripeto una frase che ho letto, o un concetto, o una poesia, mi sembra un po’ di esserne l’autore” (15).

“Talvolta pensavo che mi sarebbe piaciuto incontrare una persona che mi piacesse come mi erano piaciute loro … Il pensiero mi metteva un po’ di tristezza … [ma mi dicevo] che non potevo lamentarmi. Avevo il lavoro, lo sport, qualche viaggio da solo, qualche uscita, ogni tanto, con amici cortesi e distanti. E poi i libri, naturalmente. Mancava qualcosa, certo. Ma io ero uno che da piccolo restava molto impressionato, quando gli dicevano di pensare ai bambini dell’Africa che muoiono di fame” (48).

“Chi legge troppi libri, speso fa cose di cui non c’è bisogno” (75).

“A volte mi viene da piangere … a pensare che il ricordo delle donne che ho amato non mi fa soffrire. Al massimo mi dà una vaga tristezza, fiacca e remota” (77).

“Tanti anni prima mi riusciva molto facile ripetere a memoria le parole dei film, delle canzoni, dei libri, delle poesie. Poi avevo cominciato a trovarlo sempre più difficile. Niente come assistere allo sgretolamento di un’abilità che davi per scontata riesce a evocare con più forza l’idea inquietante del tempo che passa.” (233).

“L’ultima volta con… Margherita… era stato tre anni prima. Eravamo andati a Berlino … Berlino mi era piaciuta pazzamente e avevo pensato che, se non fosse esistito l’inverno, avrei volentieri vissuto in quella città” (254).

“Come cazzo parli? La prossima volta che esci con una ragazza le chiedi se è propensa a prendere in considerazione la prospettiva di instaurare una relazione implicante anche saltuari intrattenimenti sessuali?” (262).

“Adorno diceva che la forma più alta di moralità è non sentirsi mai a casa, nemmeno a casa propria. Sono d’accordo. Non bisogna mai sentirsi troppo a proprio agio. Bisogna sempre essere un po’ fuori posto” (333).

I tempi esterni sono cupi e non invogliano pensieri sereni. Abbiamo sempre l’ottimismo dalla nostra, ma Gramsci c’è molto vicino. Speriamo che anche questa volta ci salvino i nostri abbracci.