domenica 31 ottobre 2021

Tre commedie nere e ... - 31 ottobre 2021

Essendo finalmente riuscito a trovare il tempo (e la voglia) di leggere l’ultima commedia nera di Recami, posso anche passare ad una trama che affonda nel tempo. Visto che i primi testi di questa settimana risalgono alle vacanze di Natale dello scorso anno. Avendo tre commedie nere (che devo dire mi sono piaciute veramente poco) ho rimpolpato il carniere con due racconti. Uno sempre di Recami, dal piacere incerto, ed uno di Manzini, dove il caro Rocco Schiavone fa una sua figurona rispetto a tutto il resto. E non arrivando lui, il migliore, neanche alla sufficienza, capite bene che questa è una settimana mortifera (mi scuso dell’involontario calembour).

Francesco Recami “Capodanno nella casa di ringhiera” Repubblica “Natale in giallo” 7 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 20/12/2020 – I: 28/12/2020 – T: 28/12/2020] && -- 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 47; anno: 2012]

Come detto anche altrove, lo ripeto qui che non so mai quale trama leggerete prima. E se poi ne leggerete. Nella mini-raccolta del “Natale in Giallo”, otto racconti omaggio di dicembre da parte di Repubblica, ce ne sono tre che avevo già letto. Alcuni da poco, altri da più tempo. Quindi li utilizzo per riempire qualche buco di trama, e qualche altro resoconto da scrivano.

Intanto una considerazione: Repubblica invece di regalare racconti, al fine di vendere i giornali di carta, dovrebbe ripensare meglio alle sue strategie di vendita tra edicola e mercato online. Ma è una polemica che ho cercato di discutere con loro, che, ovviamente, si guardano bene da tenerne conto. Andiamo avanti.

Nel da poco letto, e da poco già tramato nel complesso, all’interno di “Sei storie della casa di ringhiera”, era presente anche questo racconto. Che a sua volta veniva pubblicato nel 2012, all’interno della raccolta di Sellerio “Capodanno in giallo”. Dove facciamo un ulteriore rilievo per la collana: un po’ fuori posto un racconto di Capodanno all’interno di una collana intitolata al Natale.

Con la preghiera di scusarmi, mi ripeto anche qui: siamo verso il Capodanno, e tutti i personaggi della casa hanno qualcosa da dire e da fare. Il tutto si anima quando Amedeo, colpito da un tappo di champagne, sviene. Si pensa ad un infarto, ci si riversa in ospedale. Claudio pensa di essersi avvelenato con una bottiglia di spumante cui aveva aggiunto topicida, e finisce anche lui in ospedale. Ed anche Luis ha problemi con la sua BMW, prendendo multe per alta velocità, ma dove la sua paura è che gli venga tolta la patente. Mi scuso con chi non consce tutti i personaggi di Recami, ma qui ne faccio un’analisi assai veloce.

Insomma, le solite confuse circonvoluzioni in cui ognuno pensa che l’altro pensi ma che poi noi dice, per cui non dice quello che vuole o che si aspetta. Un esempio per tutti: Amedeo svegliatosi in ospedale, pensa di aver rovinato la festa, e torna in fretta a casa, senza avvertire Angela che, preoccupata per l’infarto possibile lo aspetta nell’atrio. E quando si incontrano a casa nessuno dice nulla sul come, perché, quando, chi, cosa. La solita confusione “recamiana” aggravata dalla brevità del testo.

Barboso. Per cui finisco qui, senza infierire né sull’autore, né sui personaggi, né su di voi.

Antonio Manzini “L’accattone” Repubblica “Natale in giallo” 2 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 08/12/2020 – I: 23/12/2020 – T: 23/12/2020] && ½  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 46; anno: 2012]

Anche questo fa parte del lotto dei “repetita iuvant”. Ma se avete letto il poco sopra riportato Recami, non tedio ancora inutilmente con le mie critiche alle scelte editoriali di questi allegati a Repubblica, utili solo a spingere all’acquisto della copia cartacea dello stesso.

Un altro elemento che ripeto e che probabilmente continua a disturbarmi semanticamente è l’inserimento anche qui di un racconto che si svolge a Capodanno in una serie battezzata per il Natale. O forse sono io che ho interpretato “Natale” come giorno mentre gli editori pensavano a “Natale” come periodo di tempo. Ma avrebbero allora dovuto chiamarlo “I gialli delle Vacanze di Natale”.

Comunque questo “L’accattone” viene dalla raccolta pluriautorale “Capodanno in giallo” del 2012. Come detto, non solo l’ho letto ma ne ho anche scritto. Righe che qui riporto:

“La prima uscita in assoluto, quella che doveva servire a vedere se il personaggio “tiene”. Sembra di sì, tanto che l’anno successivo esce il primo romanzo (“Pista nera”). Allora, Manzini in queste prime battute cerca di dare un profilo al “futuro” Rocco: romano, trasteverino, giovinezza sbandatella con amici ai margini. Quindi Rocco è un po’ arrogante, spesso legato allo spinello (che ne caratterizzerà l’uscita in televisione), incline a buttare un occhio verso le donne (in particolare verso l’agente Dobrilla). Ma anche umano nell’entrare empaticamente in sintonia con i personaggi. Come questi “poveri”, sbandati che raccolgono frutta e verdura nell’ora di chiusura del mercato rionale, che invecchiano e non sanno più badare a sé stessi. Magari qualcuno comincia anche ad essere affetto da Alzheimer o simili senilità. Per essere un giallo abbiamo sì il morto, abbiamo delle indagini che ricostruiscono spaccati al limite della legalità, ed una soluzione, ovvia anche se decisamente triste. Comunque si capisce che il personaggio può funzionare. Quindi andiamo avanti.”

E se dicevo che il personaggio può funzionare, credo che non abbia sbagliato di molto, visto che poi il nostro vicequestore Rocco Schiavone lo vediamo protagonista di ben otto romanzi. E probabilmente (almeno lo speriamo) ancora di qualcosa nel futuro.

Qui era ancora in fieri, aveva occhio per le donne (anche se sappiamo tutto di Marina, del sette di luglio e via discorrendo), non aveva ancora avuto la storia mal condotta con l’ispettore Rispoli. Insomma, poteva prendere molte direzioni.

Manzini ha fatto delle scelte, non tutte che io abbia condiviso. Ma lui è l’autore, io solo un lettore che segue e continuerà a seguire i suoi scritti.

Francesco Recami “La clinica Riposo & Pace – Commedia nera n. 2” Sellerio euro 14

[A: 16/04/2018 – I: 20/12/2020 – T: 22/12/2020] &

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 207; anno: 2018]

L’unica nota positiva di questo romanzo sommamente inutile, è che mi ha fatto capire la genesi di questo filone di storie, che non sono più dei nostri amici di ringhiera, ma di personaggi nuovi ad ogni testo. Quello che li accomuna, nel sottotitolo condiviso, è quel “commedia nera”. Nera perché c’è qualche mistero, qualche thriller, qualcosa forse di giallo, o di non limpido. Commedia perché potrebbero svolgersi come un testo teatrale, in un’unità spazio-temporale come se fossimo, finalmente e di nuovo, in un palcoscenico.

Ed in realtà, tutta la storia può benissimo essere rappresentata teatralmente in uno spazio limitato: la camera 9 della clinica Riposo & Pace. Dove tutta la vicenda si può svolgere (ci sono accenni esterni, ma facilmente riconducibili allo spazio scenico, con qualche artificio verbale).

Ciò detto, però, la trama ed il suo svolgimento sono altamente respingenti: non coinvolgono, non ci fanno sentir parte di un avvenimento. Rappresentano alcuni momenti, e li ingarbugliano senza trovare un vero filo avvincente. Già lontani dalla commedia nera n. 1, che almeno aveva un briciolo di ricerca dell’attenzione, e se ne seguivano le tracce per vederne lo svolgimento.

Qui, la storia di Alfio Pallini, del suo ricovero in clinica, e di tutte le vicende che ne conseguono, pur cercando di tirar fuori piccoli brandelli di attenzione, scorre senza colpo ferire dall’inizio alla fine. Recami cerca di instillare qualche dubbio, “nero” si dirà, su due filoni paralleli: Alfio è una vittima della cupidigia filiale, da un lato, e/o Alfio è psicologicamente disturbato e stiamo seguendo le sue paranoie?

Seguiamo, scena dopo scena, l’odissea di Alfio: il ricovero coatto nella clinica, la subitanea comprensione che qualcosa non giri bene nella clinica stessa. Fin dall’inizio, Alfio suppone che sia stato ricoverato per essere portato alla “dolce morte” dalla perfida figlia. Ed in effetti, i compagni di stanza di Alfio, muoiono uno dopo l’altro, inaspettatamente e senza particolari motivi.

Seguiamo il personale della clinica teso a somministrare medicine sempre più complesse e deleterie ad Alfio, con lo stesso teso ogni volta a sviarne le pericolosità attraverso un numero elevato (e poco probabile, direi) di espedienti. Alfio riesce così a svelare altarini diversi, magagne e turpitudini varie. Il tutto ruotando intorno al Professore titolare della clinica stessa, ed ovviamente, ai soldi.

Recami tenta di alleggerire ogni tanto la storia con accenni altri (macchiette, agriturismi compiacenti, pompe funebri dall’augurante nome di “L’addio”), ma non si solleva né ironia né denuncia sociale sulla mala sanità, o sul cattivo uso della stessa.

Rimaniamo tuttavia abbastanza basiti dagli accenni al famigerato Ulrich, una specie di amico fantasma di Alfio, che dovrebbe liberarlo, ma che sembra (e molto) parto delle sue paranoie e dai suoi (reali) disturbi psichici.

In una discesa all’abisso, muoiono (forse) molte persone. Alfio avvelena fruttini di marzapane, che provocano altre morti. Interviene anche la polizia, la magistratura, l’ASL. Insomma, un crescendo di climax nero che porta tutta ad una abbastanza scontata conclusione. Che però il nostro decide di velare con le nebbie del dubbio: è tutto vero o è tutto falso? Oppure, c’è molto di vero nel falso e viceversa.

In conclusione, credo che il progetto di “ridere piangendo” che sembra avvolgere questa nuova piramide narrativa di Recami non sortisca il suo effetto. C’era molta più penetrazione nel disagio e nella denuncia, quando, descrivendo la casa di ringhiera ed i suoi personaggi, usava il lato “giallo” della vita per dipingere uno spaccato reale, con le sue complessità, le sue contraddizioni, il suo essere falsamente vero.

Ho deciso comunque di dare fiducia a questo progetto, cercando di capirne le ulteriori articolazioni, visto che Recami è già arrivato alla “commedia nera n. 4”.

Francesco Recami “L’atroce delitto di via Lurcini – Commedia nera n. 3” Sellerio euro 13

[A: 10/09/2020 – I: 27/02/2021 – T: 28/02/2021] && --

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 187; anno: 2019]

Continuo, pervicacemente, la lettura di queste commedie in forma di romanzi, nel tentativo di comprendere, in qualche modo, la spinta di Recami a scriverne e le motivazioni generali che spingono un autore a proseguire una serie senza personaggi, ma solo seguendo l’idea di fornire un divertissement in forma di lettura.

Anche qui la storia potrebbe facilmente essere rappresentata in un luogo teatrale, uno stanzone prospicente la stazione ferroviaria di Santa Maria Novella a Firenze. È qui che si svolge la gran parte della storia, sia essa azione sia essa pensata, narrata o discussa.

Lo stanzone è un rifugio dei senza casa che gravitano nella città: il tedesco ubriacone, il prete spretato, gli sprovveduti turisti norvegesi, la coppia napoletana “chiattulella”, i due anziani rimasti senza casa ma uniti dall’amore, la comunità indiana (ma forse più bangla che hindi), i rissosi balcanici, i punkkabestia con i loro cani. Su tutti, c’è l’egida dell’autonominatosi gestore del ricovero: l’ex-imprenditore incappato in una bancarotta fraudolenta Francesco Molesin detto Franzes.

Franzes, il cui stato normale è di alterazione alcolica, per finire con estremi di ubriachezza incondizionata, forte della sua esperienza imprenditoriale, della sua forza e di un decespugliatore a motore che utilizza per mettere a posto i recalcitranti, ha messo su il suo business del ritrovo. Pagamento di un euro a persona a notte, e conseguente utilizzo di spazi delimitati dal nastro bianco e rosso, nonché utilizzo di latrine senza acqua corrente.

La storia si divide in due grossi filoni, l’uno ricorrente per tutto il testo, l’altro che sorge e si alimenta nella seconda metà, dando modo a Recami di dedicarsi a qualche ironica invettiva sull’uso modaiolo della cultura.

Il primo filone, dicevo, si lega al risveglio di Franzes dopo una notte di sbornia dura. È sporco di sangue, e nella sua tenda ritrova una parrucca bionda, una carta di credito, un paio di scarpe di valore ed un coltello anch’esso insanguinato. A fronte di una frettolosa lettura di un giornale, si convince di essere in qualche modo legato alla morte di una signorina russa, dove il giornale proprio a quegli elementi in suo possesso fa riferimento.

Ovvio invece, che Franzes non ricordi nulla, ma faccia di tutto per sbarazzarsi dei “corpi del reato”. Come in tutte le buone commedie, benché nere, è anche altrettanto ovvio che ad ogni passo per liberarsi di un oggetto, Franzes compia altre e reiterate effrazioni, tra ruberie, piccoli ricatti, fino a veri e propri delitti. E questo filone seguire Franzes per tutto il testo, dalla sua ascesa sino alla sua prevedibile (anche se non vi sveliamo come) caduta.

Da contraltare alla parte nera, c’è la feroce ironia di Recami verso chi usa e sfrutta questi diseredati per un malinteso senso culturale. Da metà libro in poi, infatti, assistiamo all’entrata in scena di un coreografo di fama mondiale, con annesso musicista dodecafonico ed artista “alla Jeff Koons”. Con un budget faraonico alle spalle, il gruppo culturale ingaggia Franzes ed i suoi diseredati in una grande avventura coreografico-musicale, da tenersi in quegli stanzoni degradati. Una pièce che si intitola “Gli Ultimi”.

L’idea cultural-demagogica è di utilizzare lo spazio (dopo averlo in gran parte rimesso a nuovo) come scontro immaginifico tra l’ordinato mondo, rappresentato da un eccelso corpo di ballo, e i senza casa che lì dimorano. Ha facile ironia, Recami, nel rappresentare le storture di una cultura mal pensata e mal agita. Gli spettatori all’esterno del luogo dell’azione, intabarrati in mise da capogiro, con tanto di sindaco e ministro. I senza casa che si girano per il loro spazio e diventano soltanto zimbello per chi casa (e soldi) ne ha a iosa.

Comunque, la parte migliore è proprio il capitolo dedicato alla descrizione della rappresentazione teatrale, con tutti i quiproquo che la punteggeranno, ma che nessuna delle due parti, i poveri ed i ricchi, riuscirà a capire.

Non dico certo nulla di nuovo, se ribadisco la capacità di scrittura corale di Recami, che già nelle “case di ringhiera” era riuscito a far muovere e bene i suoi personaggi. Qui, però, a parte alcuni momenti di divertimento ed ironia, poco altro si salva. Resta una lettura domenicale per riposare i nostri poveri neuroni, per sperare che Recami torni a fare di meglio e per immergersi nelle traiettorie mentali scaturite dal titolo.

Certo, il mistero della strada del titolo e dell’idea della commedia viene poi svelato da Recami nelle note finali. Cosa che ho apprezzato, perché mi ha consentito di rimettere in moto le sinapsi arrugginite. Nella nota confessa di aver preso spunto dalla commedia di Eugène Labiche “L'Affaire de la rue de Lourcine”, che ha un inizio similare (il protagonista dopo una solenne sbornia pensa di aver ucciso una signorina, a fronte della lettura di un giornale) ed una spiegazione, parziale, identica che comunque non svelo. Certo, il resto dello scritto di Recami è tutt’altro, ed altre sono le sue mire.

Inoltre, è pur vero che non esiste a Firenze una “via Lurcini”, ma questa esisteva, sino al 1890 e di certo quando Labiche scrisse la commedia, a Parigi. Infine, il nome francese deriva dal latino “lococinereum”, terra delle ceneri, essendo una via piena di depositi di carbone, e quindi con ovvia ed abbondante produzione di cenere, di cui il protagonista francese è ricoperto al suo risveglio. Ma forse questa filologia è un po’ troppo elucubrativa per un sì piccolo testo.

Francesco Recami “La cassa refrigerata – Commedia nera n. 4” Sellerio euro 13 (in realtà scontato a 12,35 euro)

[A: 10/09/2020 – I: 28/10/2021 – T: 29/10/2021] & e ½

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 183; anno: 2020]

Purtroppo, questa volta Recami non ci illustra i meccanismi che l’hanno spinto a questa quarta commedia. Quindi non sappiamo molto della sua genesi, anche se, leggendone tanti echi vengono fuori. Da commedie a pochade, da tragedie a litigi per futili motivi, si sentono motivi che risuonano di tante altre scritture. Ma l’effetto finale è poco ironico e poco coinvolgente.

Ricordo ai meno attenti che Recami, dopo la lunga ed ottima serie sulle “case di ringhiera” si è dedicato a libri “teatrali” che lui chiama commedie, dove l’azione è concentrata in poco spazio, quasi appunto ad essere un canovaccio. Ci sono anche descrizioni, ma c’è una certa attenzione al dialogo. Che in questa quarta uscita è quasi corale, cioè vengono fuori le voci dei personaggi senza quasi mai un’indicazione di provenienza. Appunto, teatro e scena affollata.

Altro punto di scarsa presa è l’assunto del testo, lo spunto di partenza. C’è una signora della provincia veneta, ricca e taccagna, che muore. In città si favoleggia abbia un grosso tesoro nascosto in casa, così che al suo funerale si presentano in tanti (rispetto alle conoscenze della morta). Abbiamo così la villetta affollata da una ventina di personaggi e dalla morta, rinchiusa in una bara refrigerata per mantenerne il corpo più a lungo.

I personaggi, ognuno con i propri tic e le proprie cattive maniere, metteranno a soqquadro la casa, nell’inutile ricerca del malloppo, che ovviamente c’è. Ma nessuno dei presenti ha letto “La lettera rubata” di Edgar Allan Poe. Così che noi, astuti cultori del genere, già sappiamo dove vada a parare un possibile finale.

Sono propri i presenti, che all’inizio sono 22 viventi ed un defunto, come ci viene detto ed aggiornato in sottotitolo ad ogni capitolo (anzi, ad ogni scena). E che, essendo anche per di più nera, ad un certo punto cominciano a diminuire tra i viventi ed aumentare tra i morti. Ci sono il prete, il colonnello, il legalista burocrate, due ragazzi (Ugo e Violetta), il becchino, il falegname, la prosperosa impiegata di banca, il pensionato, due energumeni pelosi, due sorelle zitellesche, una coppia in perenne litigio, una mamma con bambino, due tizi ben vestiti (forse parenti della morta), la donna delle pulizie ed altri tre o quattro poco appariscenti.

Più della metà del testo viene speso per descrivere i tentativi di sottrazione dei beni dalla morta, con un accenno pesante e ripetuto agli schieramenti che una tale situazione fa nascere. Ci sono i pragmatisti che vorrebbero un comitato ed una suddivisione globale e gli utilitaristi dell’ognuno per sé. Ci sono mozioni d’ordine per stabilire un clima rasserenato (impossibile) e poi comitati di controllo, servizi d’ordine, decisioni se si può uscire o meno.

Poi, due elementi fanno virare la tragedia in un thriller. Una pioggia battente che costringe anche chi vuole uscire a rimanere in casa, ed il fioccare di morti. Il falegname, che forse sapeva segreti della bara, una sconosciuta che tale rimane anche dopo morta, il prete che forse aveva letto il testamento. Infine, i due finti parenti escono allo scoperto, sono due evasi.

Dal thriller si vira nel farsesco con i tentativi, infruttuosi, degli evasi di fuggire con degli ostaggi, essendo intervenuta la polizia a cercare improbabili vie d’uscita. In tutto ciò, i due ragazzi cominciano a tubare. Anche se la vispa Violetta è molto avanti, di testa e di ragionamenti, all’imbranato Ugo.

Quindi, amore, morte, situazioni fintamente erotiche e fintamente thriller, un po’ di ironia, ma il tutto talmente lieve, che non graffia e non rimane quasi nulla nella mente. Ci si aspetta che la bella penna di Recami si riporti sulla via maggiore, che aveva prodotto libri leggibili, godibili ed anche ricordabili.

Rimane un dubbio atroce: perché 1992? Qual è il senso di porre la vicenda in quell’anno ed in quella zona (si dice “zone ex rurali del Veneto”)? Non certo per poter parlare di lire invece che di euro, né di alluvioni “tipo Polesine”. Che in effetti, nel 1992 ci fu una grande alluvione con ingenti danni, ma fu in Liguria, nella provincia di Savona il 22 settembre ed a Genova il 27 dello stesso mese. Rimarrò con questo dubbio, se l’autore non ce ne fornirà la chiave di lettura.

“Quanti libri legge all’anno? … Dipende … anche un paio al mese.” (143) [posso ridere?]

Risultando la quarta trama del mese di ottobre, come si sa ormai è prassi, ci aspetta una settimana senza allegati. Ma non senza citazioni. Che qui, per una volta, vado nella direzione contraria, con una contro citazione, presa da una raccolta di racconti del Corriere della Sera, dove in “Apposta per te” un autore che mi ha convinto in altre prove, Lorenzo Licalzi, cita l’esimio Blaise Pascal quando affermava: “Tutta l’infelicità del mondo dipende dal fatto che nessuno vuole resta a casa sua”. Potete capire quanto sia contrario a questa affermazione.

Per il resto, stiamo continuando l’onda festiva che ci porta sulla sua cresta da quasi due mesi. Spero di riuscire ad incontrare molti ed a sentire tutti. Se non riesco, comunque su queste righe continuerà ad abbracciarvi con tutto il mio affetto.

domenica 24 ottobre 2021

Chi legge è un viaggiatore - 24 ottobre 2021

Come mi scrisse una persona alcuni anni fa, e sa che ne abbiamo fatto tesoro insieme. Ma forse dovrei dire viaggiatrice, visto che abbiamo quattro scrittrici che ci mandano le loro piccole o grandi scritture in giro per il globo. Una settimana invero decisamente buona, con due letture di alto livello: la kossovara Elvira Dones e la coreana Han Kang (con sentiti ringraziamenti a Raul). A ruota segue la danese Siri Ranva Hjelm Jacobsen (che però parla e ci parla delle Fær Øer). Chiude ultima ma sempre sopra media, la nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie.

Siri Ranva Hjelm Jacobsen “Isola” Repubblica Mondo 17 euro 9,90

[A: 18/03/2019 – I: 27/04/2021 – T: 28/04/2021] - &&&

[tit. or.: Ø; ling. or.: danese; pagine: 149; anno 2016]

Interessante, pur con dei limiti, libro danese, con una ambientazione tuttavia decentrata, visto che la nostra esimia scrittrice è oriunda (e lì ambienta gran parte del corto romanzo) delle isole Fær Øer. Non meravigliatevi del corto titolo, che in effetti, in danese “Ø” significa “isola”; ed al plurale fa” Øer”, quindi “isole”. La prima parte pare derivi da qualche lingua norrena, col significato di pecore. Quindi, in virtù dei primi che vi sbarcarono, e per il grande numero di animali presenti, questo insediamento a metà tra Scozia e Islanda, viene chiamato “Isole delle pecore”. Ed al plurale, che le isole sono tante, pur se piccole: in totale la superficie è la metà del Lussemburgo, e gli abitanti sono intorno ai 50.000 (più o meno come il Lichtenstein, che però è un decimo in superficie).

Prima di entrare nel merito, un plauso va alla traduttrice Mara Valeria D’Avino, che si è dovuta districare tra danese puro e derive faroesi, che è intellegibile dagli scandinavi, essendo, insieme all’islandese, derivante dall’antico norreno. Ma è pur diverso. Come capii parlando con la mia amica svedese Annamaria, che capiva il danese pur non parlandolo (penso di aver capito, ma qualcuno potrà correggermi, che sono lingua molto vicine, quasi come italiano e spagnolo).

Tant’è che Siri Ranva, danese d’origini faroesi, quando tornava nella patria dei suoi avi, veniva apostrofata in danese, che gli isolani parlano correttamente. Facendo poi un passo di lato, soprattutto nella prima parte, descrittiva e legata a leggende isolane, mi è sembrato riprendesse le modalità di scrittura di Halldór Laxness in “Gente indipendente”.

Tornando al testo, accompagnati dalla sapiente traduzione, Siri Ranva, forse a volte con una scrittura che io personalmente trovo non semplice seguire, fa un viaggio nel tempo e nella memoria, portando alla luce due filoni che si intersecano: le migrazioni dei popoli del Nord e l’amore che gli scandinavi in generale portano alle loro terre, siano esse quelle propriamente nativa che quelle vicine, accomunate da un senso generale di affiatamento. Il senso del rapporto, ma anche della lotta, con la natura, con la terra, con gli animali.

L’autrice, in questo testo definito semi-autobiografico, parla della propria famiglia, ma non sappiamo, né forse ci interessa, quanto sia realmente accaduto e quanto sia potuto accadere, o sia accaduto a qualche d’un altro. I personaggi di fondo sono omma e abbi, cioè il nonno e la nonna, protagonista di una storia complessa iniziata negli anni Trenta.

Fritz, il nonno, è il quarto di cinque fratelli di una famiglia normalmente numerosa come capita lì al Nord. C’è il primogenito, Ragnar, duro, uno che legge libri, una che forse ha una storia con Marita, ma che poi vivrà una vita per lui soddisfacente con Beate. Ma morirà prima che l’io narrante entri in scena. C’è la seconda, zia Ingrún, quella che ha fatto un buon matrimonio e che gestisce i cordoni della borsa. C’è Jegvan, il terzo, che vuole far carriera sul mare ed otterrà i soldi dalla zia a scapito di Fritz e c’è il piccolo Arni, che sarà solo marginale al racconto.

Fritz voleva fare l’ingegnere, ma si deve mettere in coda, emigra in Danimarca per diventare insegnante. Ed è lì che lo raggiunge, proprio il 1° settembre 1939, la sua promessa, Marita.

Marita, la nonna, si sente sia uno spirito libero, ma si adatta, sa che la sua strada di migrante la deve percorrere tutta, raggiunge Fritz, e vivranno in Danimarca fino a potersi ritirare, anziani ma mai dimentichi, nelle natie isole. Ed è in Danimarca che nasce la madre della narratrice.

Comunque, questi sono avvenimenti. Che vengono fuori, appunto, come bolle di memoria. Quello che più irretisce dello scritto è il modo di affrontare la materia. La sensazione di spaesamento di migranti che non emigrano. Di ritorni a terre natie che non lo sono mai state. C’è un grande potenziale associabile allo sradicamento e al passaggio da una cultura all'altra, e qui viene fuori con tutta la sua violenza.

Personalmente, pur non essendo ancora andato alle Fær Øer, ritrovo il clima respirato nella mia amata Islanda, dove spero di tornare quanto prima.

Quindi, lettura non facilissima, ma di estrema gradevolezza, se si riesce ad entrare nella sospensione del tempo cui l’autrice colloca tutti gli avvenimenti, le storie, le sensazioni, dei personaggi che scorrono nelle pur non tante pagine.

Finisco ricordando che questo è il primo libro dedicato alla collana “Mondo” di Repubblica, dove compaiono testi da diverse zone, spesso inusuali. Come queste spero presto vedibili Fær Øer.

Elvira Dones “Piccola guerra perfetta” Repubblica Mondo 15 euro 9,90

[A: 04/03/2019 – I: 12/05/2021 – T: 13/05/2021] - &&&&     

[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 156; anno 2010]

Secondo romanzo in lettura della collana dedicata alle letterature in giro per il Mondo (e cosa di meglio per celebrare i miei due amori, leggere e viaggiare?). Non sembri poi una contraddizione, anche se scritto in italiano, non è un volume dedicato all’Italia, ma al Kossovo. Scritto da Elvira Dones, kossovara cosmopolita, ora sessantenne, per anni alla televisione svizzera di lingua italiana, poi brevemente in America per poi tornare a vivere in Svizzera, dove risiede tuttora.

Laureatasi in letteratura inglese, per la sua storia personale è quindi multilingue, ma principalmente, per la sua produzione letteraria, utilizza l’albanese e l’italiano. Non ci meravigliamo quindi, che questo breve ma intenso romanzo sul Kosovo sia scritto in italiano. Mi dà invece un po’ di fastidio che l’esegesi di Saviano, pur condivisibile, sia stata posta prima del testo, invece di essere messa, come andava correttamente, in postfazione.

Il libro, come dice l’autrice in finale, è un romanzo, seppur basata su lunghe interviste da lei fatte proprio a partire dal 1999 a donne kosovare che hanno attraversato l’orrore di questa “piccola guerra”. Romanzo e non saggio, che non vengono affrontati i come ed i perché della guerra, non ci si addentra nelle motivazioni e nelle conseguenze. È un collage di racconti umani, dove si prendono alcune persone che diventano simbolo ed emblema di quanto è successo nei pochi mesi del racconto. Che tutto si svolge dal 24 marzo al 12 giugno del 1999.

Stiamo a Pristina, quel giorno. Capoluogo del Kosovo, provincia serba a maggioranza albanese. Ed il romanzo ci porta in un mondo di donne: Rea, che festeggia il compleanno, giovane e piacente, alterata che il suo uomo, giornalista in carriera, non ha voluto, chissà perché, far l’amore con lei. C’è la sua amica Nita, di poco più grande, ma già professoressa, libera, indipendente, con un amore “storto” alle spalle. Si vorrebbe fare una festa, ma gli spari non sono fuochi d’artificio, ma esplosioni, di bombe e sparatorie. Che i kosovari vorrebbero l’indipendenza, mentre l’ultranazionalista Milosevic, li vorrebbe scacciare e schiacciare. Sappiamo, a posteriori, della pulizia etnica che ordinò, dei massacri che avvennero sotto la sua direzione (fu accusato di crimini contro l’umanità, ma morì prima della fine del processo). Nita, oltra a Rea, ospita anche alcuni parenti. Nei brevi capitoli le notizie si susseguono e incalzano. Pare che i serbi, sotto il bombardamento NATO, allentino la morsa. Ed allora gli albanesi tentano di partire da Pristina. Ci sono i figli di Hana, i parenti di Rea, amici di Nita, che fuggono. E quasi tutti non faranno fini gloriose. Avremo tempo di assistere e di abituarci (si fa per dire) alle atrocità serbe.

La città rimane deserta, spettrale, ostile ai pochi kosovari rimasti. Con le comunicazioni bloccate ai non serbi, con militari e paramilitari che si aggirano, sparando casa per casa. Si può venire accusati di essere dei terroristi dell’Uck (Esercito liberazione Kosovo) senza alcuna prova, senza processo, e così, in mezzo alla strada, mentre stai cercando di sopravvivere, la tua vita può finire in un attimo.

Non è interessante, da parte mia, entrare in tutte le storie. È bene che ne leggiate e ne soffriate di persona. Anche dopo la fine della guerra, le ferite descritte rimarranno aperte. Con un finale in controtendenza dove, dopo tante morti violente, c’è una morte per cause naturali: forse la scia di sangue si interromperà per riprendere un flusso normale?

Tornando alla sensazione generale, è di certo un libro drammatico, intenso, e molto al femminile (si sente, ed è un punto di forza). Racconta una guerra, in cui, sono morti circa 4000 serbi e 12000 tra kosovari e albanesi. Ma solo due occidentali, due americani che hanno perso la vita addestrandosi con un elicottero.

Come detto all’inizio, Elvira racconta sofferenze, speranze e delusioni. Non è un saggio, non entra nei perché. Entra solo nel dovere di ricordare, nel raccontare quello che resta nel ricordo. Perché è un “dovere” non dimenticare. Come diceva il grande Esopo: “Le offese [intese anche in senso esteso] possono essere perdonate, ma non dimenticate”.

Han Kang “La vegetariana” Repubblica Mondo 5 euro 9,90

[A: 22/12/2018 – I: 16/05/2021 – T: 18/05/2021] - &&&&  --

[tit. or.: The Vegetarian; ling. or.: coreano; ling. usata: inglese; pagine: 168; anno 2007]

In realtà il titolo originale è “채식주의자” scritto in coreano classico o tuttalpiù “Chaesikjuuija” se si usa la latinizzazione riveduta della lingua coreana, utilizzata in Corea del Sud dal 2000. Le piccole note negative del gradimento derivano dal fatto che qui è stata utilizzata la traduzione inglese, e non il testo originale.

Detto questo, era un libro che da tempo stava nel retro del mio cervello, da quando il mio amico Raoul mi disse: “Lo devi leggere”. Ma i miei tempi di lettura sono diversi dai vostri, e sono passati due anni prima che mi decidessi a seguire quel consiglio. Che comunque è un buon consiglio. Un libro forte, che non può lasciare indifferenti, anche se poi è diverso da come uno si aspetta essere un libro, o almeno un libro con questo titolo.

Intanto, due passi di lato. Han Kang, ora sui cinquanta, è scrittrice figlia di scrittore (il padre Han Seung-won pare sia molto noto in patria, anche se non di certo in Italia), con una sua carriera articolata, tra poesia, racconti, romanzi, financo insegnamento di scrittura creativa. Secondo passo: il libro nasce dopo che Han scrive e pubblica tre racconti, che hanno un filo conduttore comune, che poi riaggiusta un po’ per darne una visione più univoca. Ed è questo che alla fine, con i racconti che diventano un romanzo, quello che viene pubblicato in lingua inglese, e che gli farà vincere l’International Booker Prize, un premio dedicato ogni anno (dal 2016) ad un libro ed alla sua traduzione in inglese.

Torniamo allora alla strada principale, al testo, ed al suo (incomprensibile?) significato. Intanto, togliamo subito un dubbio: non è un libro sulla scelta di vita di diventare vegetariani o vegani, anche se questa scelta è una componente fondamentale della struttura del romanzo. Come dice un bravo critico americano, più cerchi il significato in un’opera criptica, meno sarai soddisfatto dalle spiegazioni che arrivano (e che talvolta non è neanche corretto inseguire). Forse sarebbe quindi corretto pensare che sia un libro sul rifiuto, una specie di onnipresente “I prefer not” di Bartleby, trasportato a tutte le attività umane. Con le tre parti che potrebbero essere viste con i seguenti titoli: “Preferisco non mangiare carne”, poi “Preferisco non seguire le convenzioni comuni”, ed infine “Preferisco non essere un animale”. Dove preferisco potrebbe essere sostituito dal più potente “Rifiuto di…”.

La storia del “rifiuto” di Yeong-hye è seguita sempre dall’esterno, da altre persone.

La prima parte è seguita con gli occhi del marito. Che la sposa in quanto la trova insignificante, e che difficilmente può dargli intralcio. Tutto vero, fino a che Yeong-hye fa un sogno, e da quel momento, rifiuta prima la carne, poi qualsiasi cibo animale. Qui cominciano una serie di peripezie, descritte dal punto di vista di Cheong, che vanno precipitando verso l’abisso la situazione. Tanto che viene anche coinvolta la famiglia, che si cerca di forzare Yeong-hye a mangiare carne. Tanto che lei, piuttosto cerca di tagliarsi le vene. Il racconto finisce che lei esce dall’ospedale e si ritrova, denudata, all’aperto, ripetendo “Ho fatto qualcosa di sbagliato?”

La seconda parte viene seguita dalla parte del cognato (di cui non sapremo mai il nome). Video artista concettuale, vive alle spalle della moglie (la sorella di Yeong-hye), senza particolari scosse. Quando sa che la cognata ha una “macchia mongolica” (cioè una voglia congenita con un tipico colorito bluastro, tipica delle popolazioni mongole) ha un sogno folgorante, e si appresta a realizzarlo. Convince la cognata a farsi riprendere con il corpo dipinto di fiori. Cerca anche di farle fare sesso con un altro artista “infiorato”. Ma sarà solo quando lui si farà dipingere il corpo, che avranno momenti di sesso feroce ed assoluto, contro tutte le convenzioni sociali. Scoperti da In-hye, la moglie, sembrano voler fare passi estremi, ma sono bloccati ed internati in ospedali psichiatrici.

L’ultima parte è seguita dalla visuale di In-hye che, lasciato il marito, è l’unica a tentare di aver un rapporto con la sorella. Che man mano, rifiuta tutto, anche il cibo. Seguiamo i percorsi mentali di In-hye, e gli ultimi tentativi di trovare un legame con Yeong-hye. Ma quando i medici tentano l’alimentazione forzata, anche In-hye non resiste, sbrocca. Mentre, nelle diverse ambulanze che le portano in diversi ospedali, Yeong-hye vedendo gli alberi dice di non essere più un animale, In-hye si augura, forse, che sia stato tutto un sogno.

Ripeto quanto detto sopra, forse non è neanche significativo cercare di spiegar tutto. Forse è solo un dipinto che va visto, aspettando le sensazioni che ci rimanda. Di certo, non è una prosa occidentale, che, anche laddove compaiono rabbia ed orrore, il tutto avviene attraverso una scrittura che rimane calma. Che rimane un passo indietro, con l’efficacia e la descrittività di uno scritto di Murakami, che i due si avvicinano molto nel modo di porgerci le loro parole.

Critici più forniti di me di conoscenze e di rimandi ne hanno visto proteste, rivolte sull’uso (e lo sfruttamento) della donna nel mondo moderno. Una pulsione sociale e ambientale che forse c’è o forse sarebbe bello ci fosse.

Io, banalmente, mi sono lasciato afferrare dalle parole, dal ritmo, dall’insensatezza del mondo moderno e delle sue convenzioni, dall’anelito di libertà, dal rispetto delle scelte. E dalla fondamentale incomunicabilità del proprio essere ad altri da sé.

Di sicuro un libro che andrà condiviso e commentato ancora.

Chimamanda Ngozi Adichie “Metà di un sole giallo” Repubblica Mondo 1 euro 9,90

[A: 25/11/2018 – I: 19/05/2021 – T: 21      /05/2021] - &&&--

[tit. or.: Half of a Yellow Sun; ling. or.: inglese; pagine: 542; anno 2006]

Secondo libro che leggo della scrittrice africana, che trovo un po’ sotto il primo (in alcune parti di intreccio), ma di sicuro molto più di impatto sui temi trattati e sul periodo descritto. Adichie parla sempre della sua terra, e qui entriamo ancora più in profondità, direttamente nella spaccatura verticale che si operò in Nigeria alla fine degli anni Sessanta.

La corposa struttura del romanzo ha la sola pecca di dividere i tempi del racconto in due frame: una nei primi anni Sessanta ed una alla fine degli stessi. Ma non è questo che, al solito, mi sfasa, ma la commistione dei due tempi. Certo, la suspense di alcuni avvenimenti viene accentuata, che nel primo salto in avanti vediamo intrecciarsi situazioni che lasciano perplessi e che verranno spiegati con il ritorno al flusso temporale ordinario.

Il tentativo di Adichie è comunque di parlare della sua terra, seguendo la vita, normale, di persone che anche se non normali, sono comunque più vicini a quello sguardo sulla “storia” che permette di vedere la “Storia” anche con altri occhi. Con gli occhi di chi ne auspica svolgimenti, ma che, per la maggior parte del tempo, ne subisce e patisce le conseguenze.

Cinque sono i personaggi principali del romanzo: Ugwu, un domestico nigeriano che apre e chiude il racconto, Odenigbo, professore di materie scientifiche nonché datore di lavoro di Ugwu, Olanna e Kainene, due gemelle figlie di un ricco uomo d’affari, la prima che si accompagna con il professore, la seconda che andrà a vivere con Richard, un inglese trapiantato in Nigeria, scrittore e innamorato dell’arte locale.

I cinque, in varia natura, sono “igbo” o coinvolti con la cultura “igbo”. Uno dei più grandi gruppi etnici africani, la maggioranza dei quali in Nigeria, nelle regioni prospicenti il mare. Furono grandemente influenzati dalla colonizzazione europea, come ha ben descritto lo scrittore igbo Chinua Achebe nel libro “Il crollo”. Qui siamo negli anni Sessanta, gli igbo sono cristiani, rispetto alla maggioranza nigeriana mussulmana, ed hanno molte delle leve culturali, in particolare nelle Università.

Entriamo nel loro mondo, seguendo Odenigbo, i suoi cenacoli con i professori universitari e le élite culturali locali. Ma anche nella crescita di Ugwu, che vediamo tredicenne entrare al servizio del professore, e che ci riporta le situazioni più legate alla cultura tradizionale igbo. I liberi costumi, la solidarietà, il rispetto degli anziani e dei parenti tutti. Lo vediamo in Olanna, laureatasi in Inghilterra, e tornata, andando a vivere senza matrimonio con Odenigbo. Lo vediamo nella spigliatezza di Kainene, che gestisce le imprese paterne, ma non disdegna di affrontare la vita con humor, e di innamorarsi dello spaesato Richard.

Quest’ultimo consente a Adichie di presentarci le due facce del bianco in Africa. Quella empatica, di Richard, che ammira la cultura locale, che impara la lingua, che si innamora di Kainene. E quella degli altri bianchi che incontra. La sua ex Susan, che non nasconde il suo razzismo verso i neri, pur frequentandone l’alta borghesia. O quella di due giornalisti, che vengono solo per “il colore” anche nei momenti bui, e non provano mai a comunicare con i locali. Fino a Padre Marcel che da un lato aiuta i rifugiati, dall’altro abusa delle giovani locali.

Il punto di svolta, e di non ritorno, avviene intorno al 1966. Tentativi di colpo di Stato, accuse di reciproche uccisioni, conflitto tra gli Yoruba, del nord e mussulmani, e gli Igbo, del sud e cristiani. Fino a che quest’ultimi proclamano la secessione, costituendo la Repubblica del Biafra. Elemento che scatenerà, dal ’67 al ’70, la guerra civile, ed il quasi genocidio degli igbo. Un nome, Biafra, che risuona in parti lontane della mia giovinezza.

Nelle diverse parti, seguiamo da un lato i problemi dei rapporti tra i cinque protagonisti. Odenigbo e Olanna che non riescono ad avere figli, Odenigbo che tradisce Olanna, Olanna che va a letto con Richard, cosa che mette in crisi il rapporto di quest’ultimo con Kainene. Sarà la guerra che smusserà di forza tutti questi problemi, unendoli nella resistenza ad anni senza cibo, senza medicinali, senza speranze, con parenti e amici che muoiono uno dopo l’altro. Punto fermo rimane Ugwu, nonostante molti altri problemi che affronta, ma che alla fine, ventenne, avrà la forza di scrivere un libro, come vorrebbe ma non riesce Richard. Un libro di cui vediamo alcuni brani posto sotto il titolo, crudo ma vero, “Mentre noi morivamo”.

Forse ci sarebbe da entrare meglio nei personaggi. Nella ricerca dell’amore in Ugwu, ma anche nella sua ingenuità, nel suo essere forzato alla guerra, negli orrori che vedrà. Nei modi di Odenigbo, nei suoi rapporti con le donne, forse condizionati anche dall’ingombrante madre, nel suo “socialismo” facile quando c’è la pace, nel suo pessimismo durante la guerra. Nella figura centrale di Olanna, nella sua bellezza che destabilizza gli altri, nel suo ruolo di donna decisa ad avere il proprio ruolo in un mondo molto ma molto maschile. Nel suo contraltare, la gemella Kainene, all’inizio cinica e dura, ma piegata dalla guerra, ed alla fine l’unica di cui si perdono le tracce. Infine, Richard, innamorato della cultura igbo, poi di Kainene, tanto che alla fine diventa più biafrano di un biafrano stesso.

Ma questi intrecci vanno letti più che raccontati. E mentre li leggiamo, pensiamo ai temi che Adichie ci vuole narrare: la guerra come ferita non rimarginabile nel cuore nigeriano, i problemi legati alla politica post-coloniale ed al ruolo degli occidentali, prima e dopo l’indipendenza. Ed in ultimo, ma non meno importante, il ruolo delle donne, esemplificato nei rapporti con il matrimonio (le due gemelle vivono a lungo con i loro uomini senza sposarli e senza averne la necessità o la voglia). Il tutto legato all’emancipazione femminile (ricordo che siamo negli anni Sessanta, laddove anche in Occidente non è che ci fosse tutta questa libertà), che mi viene cristallizzata in mente da una frase della zia di Olanna: “Non devi mai comportarti come se la tua vita appartenesse a un uomo. La tua vita appartiene a te, e solo te”.

In conclusione, un libro non facile, ma da tenere in considerazione, un buon inizio di una collana dedicata alla letteratura in giro per il mondo.

“Stavano troppo bene nella loro prosaica felicità … temeva che il matrimonio potesse svilire tutto al rango di un’unione prosaica.” (69)

“Così funziona l’amore: una catena di coincidenze che accumulano significato e si trasformano in miracoli.” (138)

Ancora senza libri felici, ma con una ragionevole felicità interiore, vi sottopongo il solito florilegio di citazioni, con una punta di senescenza da non dimenticare.

Siamo tornati, ed io torno, a lavorare per futuri viaggi (si spera non molto futuri). Prima di andare a chiudere, ho lisciato, lo scorso settembre il centenario della nascita di mio zio, cui dedico questa frase di Hilbert, citata da Francesco Berto in “Tutti pazzi per Gödel”: Dove potremo trovare certezza e verità, se anche il pensiero matematico fallisce?”.

Dopo i primi incontri informali, organizzeremo anche momenti topici fino ad esaurirvi. Qualcuno di certo ne saprà. Io misterioso sono e rimango. Ma non faccio mistero di abbracciarvi tutti.

Citazioni dagli appunti di Giovanni

Citazioni di ottobre

Un ottobre che si aperto all’insegna di un bel viaggio che non poteva non essere fatto, con tutte le promesse che porta e porterà. Con le citazioni mi è quindi facile tornare ai tempi del mio primo anno lontano dal lavoro, nell’elaborazione di un modo di vivere che non poteva che mettere le premesse di quello che siamo ora. Perché, come parafrasava Luisa, nulla cambia che tutto si trasforma.

Veniamo così ai mesi di settembre ed ottobre del 2008.

Si comincia facilmente ricordando quel primo anno da fuoriuscita del lavoro ritenendo una frase di Ermanno Rea ne “La dismissione”: “appartengo a quella categoria di uomini capaci di un amore soltanto: un accanito monogamo (almeno rispetto al lavoro)”.

A volte poi ci sono autori che colpiscono nel segno. E registi che ne prendono il libro e ne fanno anche un bell’oggetto da guardare. Come fu per “Caos calmo” sia per la regia di Antonello Grimaldi, sia, e soprattutto, per il libro di Sandro Veronesi. Fu una fucina di citazioni e di ricordi.

La prima frase è un’esortazione che non mi stanco di ripetere: “stai molto attenta con me, perché io sono buono!”. Con a ruota un ricordo di mio padre, e delle cose che non gli ho mai detto: “c’è sempre un padre dietro le soddisfazioni che gli uomini si prendono nella vita”.

Veronesi riesce poi ad esprimere una cosa che mi ha sempre colpito, e che trova in me un’adesione totale: “io l’inglese lo so abbastanza bene, ma … se mi chiedi cosa dice una canzone … non ci capisco nulla”.

Ci sono poi due frasi che la psicologia e la vita mi hanno inculcato dentro. La prima mi riporta ai tempi di via dei Sabelli (e che lo sa, lo sappia): “appena senti che non ce la fai, molla. Sempre, in qualsiasi situazione, molla”. La seconda l’ho imparata nel corso degli anni: “quelli che si accorgono di essere stati stronzi un secondo dopo esserlo stati sono i più stronzi”.

Infine, ci sono due frasi, d’amore, e di espressione che sono la prima di una validità universale: “era meglio se stavo zitta! – no … le cose vanno dette. Hai fatto bene. Fallo sempre. Dille sempre, le cose”. La seconda di una valenza personale molto forte: “perché sta dedicando la sua vita a…? perché lo amo”.

Nel settembre di quell’anno poi una serie di letture nordiche portavano a piccole e grandi riflessioni. La prima, generale, viene da Daniel Kehlmann che in “È tutta una finzione” ammonisce: “Chi è in grado di capire sé stesso? Chi è in grado di capire un’altra persona? Solo gli idioti possono affermare di riuscire a capire un altro essere umano”. La seconda forse allora era prematura, ma ora viene quasi naturale, con gli acciacchi che piccoli, ma persistenti, ci perseguitano. Così Per Olov Enquist in “La partenza dei musicanti” avverte: “cominciava sempre così … si cominciava con lo star male, si finiva con lo star male. E per tutto il tempo, una sofferenza continua”.

Poi, in un ottobre che poteva sembrare sereno, prima si continuava (come in tutto l’anno) a pensare al rapporto con i propri genitori. Laddove Giorgio Scerbanenco ne “I ragazzi del massacro” ci avvisa: “Non esiste assolutamente il caso in cui il padre o la madre o tutti e due insieme non abbiano nessuna colpa di come cresce il figlio”.

Terminerei infine con una lunga digressione su di un autore che in questo libro (ma anche in altri che purtroppo ho letto poco), esprime una summa di contenuti su tre direttrici: la vita civile, il rapporto tra sé ed il mondo, e quell’epoca che ora stiamo vivendo in pieno.

Parlo di Norberto Bobbio e di un libro che tutti dovreste leggere: “De senectute".

Sul primo volano del ragionamento ci ammonisce con due massime: “le virtù del laico … sono … il rigore critico, il dubbio metodico, la moderazione, il non prevaricare, il rispetto delle idee altrui” e “l’intellettuale … può permettersi di analizzare pacatamente i pro e i contro di una questione e terminare la sua analisi con un punto interrogativo”.

Sul secondo, prima riporta una massima di Anatole France che diceva: “i vecchi amano troppo le loro idee e per questo sono di ostacolo al progresso”. Poi esprimeva alcune considerazioni su quel rapporto tra il pensare e l’agire: “siccome non mi pare di aver dato tutto quel che avrei dovuto, temo sempre di essere chiamato in giorno a renderne conto”; “dopo aver cercato [per tutta la vita] di dare un senso alla vita, ti accorgi che non ha senso porsi il problema del senso, e che la vita deve essere accettata e vissuta nella sua immediatezza”; “la chiarezza non è sempre un pregio e l’oscurità non sempre è un difetto”; “la libertà consiste nell’obbedire alla legge che ognuno dà a sé stesso”.

Infine, parlando della vecchiaia, sua, mia e di noi tutti, mi hanno colpito tante frasi che quasi verrebbe voglia di riportare il libro per intero. Ma ne faccio invece una scelta:

1)   "Il vecchio vive di ricordi e per i ricordi, ma la sua memoria si affievolisce di giorno in giorno. Il tempo della memoria procede all'inverso di quello reale: tanto più vivi i ricordi che affiorano nella reminiscenza quanto più lontani nel tempo degli eventi. Ma sai anche che ciò che è rimasto, o sei riuscito a scavare in quel pozzo senza fondo, non è che un'infinitesima parte della storia della tua vita."

2)   “non è che la vecchiaia sia brutta, è che dura poco”

3)   “la vecchiaia… è la continuazione della tua adolescenza, giovinezza, maturità”

4)   “i vecchi mi hanno sempre meravigliato: ma come mai sono riusciti a passare in mezzo a tanti pericoli, arrivando sani e salvi alla più tarda età? (Campanile)”

5)   “solo io non posso raccontare la mia morte”

6)   “la vita del vecchio si svolge al rallentatore”

7)   “la vecchiaia è una fortuna, non una virtù”

8)   “la saggezza per un vecchio consiste nell’accettare rassegnatamente i propri limiti”

9)   “il mondo del vecchio è un mondo in cui contano più gli affetti che i concetti; … e per dirla con Hobbes … quasi trascorsa è ormai / della mia vita la lunga favola”

Ed io concluderei con questa mia riflessione personale “allora la vita ha un senso perché, a un certo punto, si muore”.

Per iniziare a parlare di Bobbio, invece, comincerei con il riportare due citazioni tratte dal suo libro “Politica e cultura” del 1955:

“Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze”.

“Quando non si vede bene cosa c'è davanti, viene spontaneo chiedersi cosa c'è dietro”.

Quanto ci ha insegnato il filosofo torinese!


lunedì 18 ottobre 2021

Penultimi scandinavi - 17 ottobre 2021

Due norvegesi e due islandesi, due premi Nobel e due no. Ma alla fine, prevale, seppur di poco la mia adorata Islanda, cui spero di tornare prima o poi.

Knut Hamsun “Misteri” Corriere Boreali 24 euro 8,90

[A: 01/11/2018 – I: 11/02/2021 – T: 13/02/2021] - &&+

[tit. or.: Mysterier; ling. or.: norvegese; pagine: 310; anno 1892]

Torniamo ancora una volta ad uno dei caposaldi (nonché capostipiti) della letteratura del Nord. Torniamo, dopo aver letto e gradito anni fa il suo primo libro, nonché capolavoro (“Fame”) al norvegese Knut Hamsun. In un libro che ha quasi 130 anni, e questa volta si sente.

Si capisce, per la forza della scrittura e delle immagini e delle idee, sparse a piene mani, che Hamsun abbia avuto il suo peso nella letteratura (tanto che nel 1920 fu anche insignito del Premio Nobel). Eppur tuttavia, in questa sua furia descrittiva ed in questo profluvio di immagini e situazioni, mi sono perso un po’. Ho perso il filo, mi trovo a ripensare alle pagine ed alle vicende del protagonista, l’eccentrico Johan Nilsen Nagel e vengo preso da sconforto. Cosa vuole questo quasi trentenne che piomba, insalutato ospite anche un po’ mal sopportato, in una cittadina norvegese, sconvolgendone, con i suoi comportamenti, l’ordinato filo delle attività quotidiane.

Ma soprattutto, cosa vuole dimostrare Hamsun? Che messaggio ci vuole mandare?

Nagel arriva dal mare, con un completo di un assurdo color giallo, portando con sé una vuota custodia di violino ed una boccetta di veleno. Chi è? Hamsun non ci dice molto del suo passato, né delle sue intenzioni. Nagel sostiene di essere un agronomo, ma capiamo ben presto che è una facciata. Sostiene di non essere ricco, e si auto scrive lettere di credito per far sembiante di esserlo. Ma pur non ricco, ecco che spende e spande corone in mance ed acquisti inutili. Afferma di portare la custodia per capriccio, poi si improvvisa in un assolo magistrale di violino.

In Nagel l’autore cerca di rappresentare un “topos”, un elemento senza tempo: un ciarlatano, una persona contraddittoria che ha cura solo di fare il contrario di quello che si aspetta da lui “l’ordine costituito”. Con il risultato di riuscire (è questo quello che vuole?) a scombussolare i placidi cittadini.

Sconvolge la quarantenne vedova Martha Gould, prima con elemosine non richieste, poi con folli promesse di matrimonio, tanto che la compita donna preferisce allontanarsi in silenzio. Sconvolge Johannes Grögaard, detto Minuto, considerato lo zimbello del villaggio; anima semplice, sempre pronta ad essere servizievole con tutti, senza chiedere nulla in cambio. Nagel gli si attacca come una piattola, lo blandisce, lo irretisce con promesse, con doni, per poi allontanarlo freddamente. Tanto che lo stresso emotivo porterà il semplice Minuto sull’orlo della follia.

Ma è soprattutto con la bella Dagny Kielland che la personalità di Nagel e l’ordine norvegese avrà il suo crollo. Donna di puntuale bellezza, promessa ad un ufficiale di marina, assente dalla scena, sconvolge in modo totale il pur fragile Nagel. In lui scoppia un amore totalizzante e sconclusionato, che Hamsun rappresenta anche con sbalzi di umore e di eloquio degni di una grande penna. Ma Dagny non ha alcuna intenzione di accondiscendere. Nagel parla, sproloquia, assume atteggiamenti contrastanti e contraddittori ad ogni pagina. Sostiene il rosso per un capitolo, poi passa al verde ripudiando quanto diceva prima. Per fare un esempio, all’inizio sostiene Gladstone e la sua politica inglese, per poi scagliarsi contro di lui, citando la posizione bigotta del leader inglese nella controversia con il leader irlandese Charles Parnell (se avete tempo, leggetene sulle vicende anglo irlandesi dal 1880 al 1890).

Tuttavia, l’irresoluta capacità di Nagel di prendere posizione, di non essere capace, come ci ricorda Magris nella bella postfazione, di prendere una posizione, di inserirsi in qualche modo nella società, non possono che portarlo alla rovina. Nagel vuole solo, in modo epicureo, vivere e godersi la vita, ma si rifiuta di definire, per sé stesso ed il suo perimetro vitale, uno scopo, una modalità di navigare verso la felicità.

Nagel, ed Hamsun con lui, è fondamentalmente anarchico. Si sottrare a legami, a ruoli, a impegni di qualsiasi tipo. La fine, come direbbe Holiday Hall, è nota. Hamsun, in fondo, rappresenta anche qui l’alienazione dell’uomo, gli eccessi disarmonici della vita, la negazione della realtà e dei suoi valori, a vantaggio del proprio star bene. Anche quando questo fa star male tutti gli altri. Non è una filosofia che mi appartiene, non la segue, non capisco Nietzsche, né quello che Hamsun diventerà in vecchiaia. E non mi appassiona, neanche dal solo punto di vista intellettuale.

Forse solo in alcune esternazioni di Nagel, dove si scaglia contro Tolstoj ed altri russi, a favore dell’accademico Bjørnstjerne Bjørnson trovo della verve (anche se Hamsun li cita rovesciandone il suo giudizio personale, e dove vi rammento che Bjørnson, dieci anni dopo, fu il primo norvegese a ricevere il Premio Nobel).

Finisco solo con un piccolo cross letterario laddove Hamsun, raccontando un suo sogno, cita la Torre dei Venti di Atene, monumento costruito tardivamente nell’antichità per ricordare comunque Eolo ed i suoi figli. Tributando quindi un omaggio alle isole Eolie, come dal libro su Aristotele di Margaret Doody da non molto tramato.

“Ma se tu sapessi con quanto ardore e costanza ho pensato a te … senza mai dimenticarti … gli altri ricordano per un anno e poi basta, io continuo a ricordare.” (38)

“Magris: la vecchiezza non aveva portato maturità, ma soltanto e nient’altro che la vecchiezza.” (310)

Halldór Laxness “Gente indipendente” Corriere Boreali 25 euro 8,90

[A: 01/11/2018 – I: 27/04/2021 – T: 03/05/2021] - &&& +

[tit. or.: Sjálfstætt fólk; ling. or.: islandese; pagine: 604; anno 1934-35]

Un grande affresco, un grande libro epico, che, attraverso l’epopea di persone semplici, restituisce un dipinto della profonda anima islandese: dura, solitaria, ma anche pronta alla vicinanza dei simili, specialmente se reietti, e spesso in contrasto con l’ufficialità, il potere, in particolare nelle sue espressioni più coercitive.

Faccio un inciso inziale sulle date: due sono gli anni di pubblicazione che il libro, per la sua mole, venne pubblicato in due parti, una nel ’34 con il sottotitolo “Landnámsmaður Íslands” ed una nel ’35 con il sottotitolo “Erfiðir tímar”. In italiano, il titolo è correttissimo, e le due parti si traducono “Il colonizzatore d’Islanda” e “Tempi duri”. Riunti sotto l’altrettanto esatto titolo di “Sjálfstætt folk”, cioè “Gente indipendente”.

L’autore è considerato poi il fondatore della letteratura islandese, non a caso premio Nobel per la letteratura nel 1955. Nasce nel 1902, in un aprile sotto il segno del toro, con il nome di Halldór Guðjónsson. Nome che poi cambierà utilizzando come cognome il luogo della sua infanzia, Laxness, una fattoria a 12 km da Reykjavík. È un caparbio giramondo, dai venti anni comincia a girare l’Europa e poi anche l’America. Negli anni Trenta scrive i suoi romanzi migliori, anche se poi continuerà a produrre cose considerate egregie anche negli anni Cinquanta e Sessanta (metto il dubitativo, che non molto è tradotto in italiano). Finirà la sua vita a più di 95 anni, purtroppo avendo gli ultimi anni funestati dall’Alzheimer.

Veniamo allora al testo, che segue una gran parte della vita di un eponimo islandese Guðbjartur Jónsson, familiarmente chiamato Bjartur. All’inizio ero rimasto un po’ disorientato, che l’attacco del libro sembrava riprendere troppo le modalità descrittive di Selma Lagerlöf, con le sue disquisizioni epiche. Poi, però entriamo nei personaggi, nella vita quotidiana, nella lotta per la propria personale indipendenza di Bjartur.

Bjartur ha lavorato diciotto anni presso un padrone, ora ha messo da parte i soldi, ha sposato Rósa, ed entra in possesso di una fattoria, che battezza Sumarhús (la casa dell’estate). Ma non sarà mai solatia come la bella stagione. Non si trova con Rósa, pensa più al gregge che alla moglie. Anche se lei è incinta va in giro a trovare pecore e renne ed altri animali. Così che, al ritorno, trova Rósa morta di parto, ed una piccola creatura accudita dalla cagna. Le mette il nome di Ásta Sóllilja (che si può tradurre come “Amato Girasole”). Ma non la può accudire da solo, così che si mette in casa una donna di buon carattere, Finna, e Hallbera, la madre di lei.

Nella seconda parte, sono passati dieci anni. Bjartur e Finna si sono sposati ed hanno avuto tre figli: Helgi, Gvendur (Guðmundur) e Nonni (Jón). Questo è il capitolo della durezza e delle rivelazioni. Bjartur scopre che l’amato girasole è figlia del suo vecchio padrone di casa. Poi ci sono passaggi alla fattoria, un aiuto che poi aiuta poco, un pittore che porta aria nuova, ma che non si rivela molto a modo. Il vecchio padrone gli regala una mucca, ma Bjartur non è contento: avrà latte, ma anche meno fieno per le sue amate pecore. Bjartur e Ásta Sóllilja fanno una gita in città, ma la ragazza ne esce più sconvolta che felice. Vengono momenti di carestia, Finna si ammala. E quando Bjartur, dovendo decidere se soffrire o uccidere la mucca, decide per la seconda opzione, anche Finna ci lascia.

La terza parte, se vogliamo, è ancora più cruda e difficile. Non a caso, il titolo è “Tempi duri”. Muoiono inspiegabilmente molte pecore, una cooperativa cerca di associare i contadini ma Bjartur preferisce il suo vecchio sodale per investire i suoi soldi. Helgi, responsabile delle morti ovine, fugge e scompare nei crepacci islandesi. Il sodale fallisce e Bjartur si trova senza soldi. Va in città per rimettere in sesto l’economia familiare, ed invia un precettore per far studiare i figli rimasti. Ovvio che, per una serie di motivi, data la solitudine, Ásta Sóllilja rimane invaghita del tipo, e poi anche incinta. L’unico a risolvere in positivo è il piccolo Nonni, che, invitato da parenti, riesce ad andare a vivere in America. Al suo ritorno, Bjartur scopre la gravidanza di Ásta Sóllilja e la scaccia di casa.

Il quarto è un “libro” di transizione. Prima viene la Guerra che porta benessere perché la lana islandese è molto richiesta. Gvendur potrebbe andare in America, ma si innamora di una donna sbagliata e perde tutti i soldi. Bjartur decide di investire i soldi in una casa in cemento. Che consuma tutti i suoi averi, fino a che, la fine della Guerra, porta recessione. Anche se potrebbe essere aiutato da una nuova donna che circola per casa, l’orgoglioso Bjartur continua a voler essere indipendente, e scaccia tutti, o tutti si allontanano. Cerca di riavvicinarsi alla figliastra, ma anche lei lo rifiuta. La bancarotta costringe Bjartur a svendere la casa, e con l’unico figlio rimasto e nonna Hallbera decide di lasciare la casa dell’estate e rifugiarsi nella capanna della vecchia a Urdarsel.

Siamo arrivati alla fine. Bjartur e il figlio si fermano ad una riunione di comunisti, che convincono Gvendur a rimanere con loro. La mattina passa davanti alla casa di Asta Sóllilja, rimasta sola e malata con la figlia piccola. E finalmente i due si riconciliano e vanno a vivere a Urdarsel.

Seppur cercando di ridurre il commento all’essenziale, non sono riuscito ad essere più stringato di così. Ed ho tralasciato molte parti, e molte descrizioni che solo noi islandofili riusciamo a digerire. È un libro che, nella sua “fredda” nordica, potrebbe essere considerato l’antesignano del nostro emisfero dei Cent’anni di Garcia Marquez. E non solo, come citato sopra, c’è il rapporto con la natura di Selma Lagerlöf, ma ci si può trovare (soprattutto nella parte finale) il realismo sociale di Jorge Amado. E perché no, l’analisi dei personaggi come poteva derivare da Dostoevskij.

Alla fine, per tornare al testo, i due protagonisti della saga, il brutale ma eroico Bjartur e la dolce, strabica Ásta Sóllilja, hanno tutte le cattive qualità per risultare antipatici: sono stupidi, rozzi, ciechi, eppur tuttavia non li dimentichiamo facilmente. Sono esemplari, che tutto il loro mondo si racchiude nei confini della fattoria. L’amore strania la debole personalità di Ásta Sóllilja, perché nessuno le ha mai spiegato cosa sia. Bjartur, nella smania di essere indipendente, non fa che prendere decisioni che hanno il solo risultato di isolarlo, quindi di incattivirlo. Bjartur è un antieroe, ma è la grandezza della scrittura di Laxness che ne rende immortale l’epopea. Forse non sono attuali, ora negli anni Venti di questo secolo. Ma sono lì da dove noi si viene. Sono i nostri nonni, quando non sono ancora i nostri genitori.

Un’ultima raccomandazione: NON leggete questo libro (molto bello)! Potreste avere subito il bisogno (che a me è venuto e viene mentre ne lessi e mentre ne parlo) di visitare (di tornare in) l’Islanda.

Einar Már Guðmundsson “Angeli dell’universo” Corriere Boreali 27 euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,91 euro)

[A: 31/12/2018 – I: 23/06/2021 – T: 25/06/2021] - &&& e ½ 

[tit. or.: Englar alheimsins; ling. or.: islandese; pagine: 225; anno 1993]

Pur non essendo una fucina infinta di autori, in questo giugno in cui i miei cari amici hanno realizzato un grande ring islandese, ecco che è già il secondo autore dell’isola nordica che capita nelle mie trame. Autore molto noto in patria, poeta, romanziere, traduttore ed altro ancora, nato un giorno fausto (il 18 settembre) di molti anni fa.

Il libro, devo dire, non è per nulla facile, anche se alla fine risulta interessante, ed anche a suo modo coinvolgente. Il testo nasce da una tragedia personale e privata di Einar, la morte (forse suicidio, ma non sono riuscito ad appurarlo) del fratello Palmi, più grande di lui ed affetto da schizofrenia. E schizofrenico, o comunque colpito da disturbi della personalità è il protagonista del romanzo. Che, per vicinanza al fratello, viene chiamato Pall, cioè Paolo in islandese.

La difficile strada scelta da Einar è di narrare della malattia soggettivamente, dalla parte di Pall, che, fin dalle prime righe, ci dice che appunto sta parlando di sé da una prospettiva particolare: è morto suicida, e vede la sua vita in prospettiva. Una prospettiva che porta anche il lettore a seguire i fatti, le allucinazioni, i sentimenti di Pall, dal suo punto di vista. E come Pall, anche noi non capiamo il perché della malattia. Certo, indizi ci sono, ma sono indizi labili, validi un po’ ovunque, per molte patologie (ed anche per molti stati d’animo non patologici). Un cattivo rapporto con i genitori. Una difficoltà a rapportarsi con gli altri, siano essi i propri fratelli, o i propri amici, o le donne in genere.

Il viaggio nostro condotti per mano da Pall, ci fa conoscere i protagonisti del disagio, le persone cosiddette “diverse” (ma dov’è il confine tra normalità e follia?), ci descrive la loro solitudine, ci dipinge con colori crudi la loro incomunicabilità verso il mondo. Che certo è un’incomunicabilità a due vie. E nello stesso tempo, quasi a volte prendendo il volo, e parlando d’altro, ci porta nella natura islandese, nella potenza e nella contemporanea delicatezza dei suoi paesaggi. A me rende sempre viva l’immagine dei suoi colori. Quelli forti, quando c’è il sole nel giugno assolato delle notti senza ombre. Quelli tenui, verso i tramonti al nord, verso le scogliere di Akureyri o verso l’isolotto dei puffin. Quelli di un bianco senza contrasti dei ghiacciai eterni. Quelli scuri, ombrosi, impenetrabile, delle notti invernali.

Pall, da quel suo posto ormai fuori dal mondo, ci porta dentro il mondo reale e dentro il suo mondo immaginario. Seguiamo la nascita, nel marzo del ’49, lo stesso giorno dell’entrata dell’Islanda nella NATO. Un giorno di lotte, per gli islandesi. Un giorno fondamentale per Pall. Segnato dal sogno della madre: quattro cavalli che corrono, tre roani, belli potenti, uno maculato, presto stanco, tanto che si accascia e muore. Pall avrà tre fratelli, e capite da soli la metafora.

Pall giovane, con i suoi amici bambini, scherzoso, intelligente. Pall in campagna, a pascolare mucche e pecore, atterrito da navi ignote. Pall a scuola, con i suoi amici che lo accompagneranno fino all’adolescenza. L’uno che sembra realizzarsi per poi buttarsi in un fiordo. L’altro che non si trova, e finirà alcolizzato in Danimarca. Pall vicino alle donne, dove sembra farsi normale, ma che non accetta rifiuti, che diventa violento, che si dà alle droghe per superare i dolori. E che da quelle droghe, e da quell’alcool non uscirà più fuori.

Pall che sogna di essere un Van Gogh redivivo. Che alla fine non può che entrare ed uscire dal grande ospedale psichiatrico. Dove incontra i suoi ultimi amici. Baldvin il re d’Inghilterra, Oli il Beatle mancato, e Petrus, con cui farà un sodalizio apostolico (Pietro e Paolo, ovvio), fino alla morte di Petrus. Per poi, lui nato in un giorno speciale, congedarsi da noi e dal mondo in un giorno normalissimo.

Pur con tutta la difficoltà immaginabile, Einar non ci lascia soli in questo viaggio, non ci fa sentire altri. Anzi, spesso ci fa sentire meno normali di Pall. A volte pecca di lirismo forse inutile, di voli di parole che non seguo a fondo, per cui alla fine è ben sopra la sufficienza, anche se non verso vette altissime.

Un libro che fa riflettere, che sottolinea, dal punto di vista letterario, quello che dirà Vasco in una sua canzone “perché la vita è tutta un equilibrio sopra la follia”. Quant’è vero!

“È comunista e non se ne vergogna: o si è comunisti o si è idioti.” (72)

“L’ho amata tanto che è passata come una gomma da cancellare sul mio cuore e ha fatto sparire qualsiasi altra donna.” (108)

Levi Henriksen “Norwegian Blues” Corriere Boreali 32 euro 09,90 (in realtà scontato a 8,90 euro)

[A: 31/12/2018 – I: 04/07/2021 – T: 05/07/2021] - &&&+

[tit. or.: Harpesang; ling. or.: norvegese; pagine: 297; anno 2014]

Levi Henriksen è uno strano personaggio nell’ambito del panorama culturale norvegese. Intanto è un toro (15 maggio) e questo non guasta. Nasce musicista (basso) e si fa un piccolo nome nel mondo musicale intorno alla sua città natale, Kongsvinger. Poi dopo i quaranta anni comincia a scrivere, con storie ambientate spesso nella sua cittadina, ed anche sovente legate a quel mondo, provinciale e molto religioso. Come lui stesso, proveniente da una famiglia di grandi tradizioni pentecostali. E come si evince anche da questo romanzo.

Ha sempre avuto (per quanto ne ho visto io) un discreto uso dell’ironia, specie nelle titolazioni delle sue uscite. Un’antologia intitolata “L’uomo che non era di Kongsvinger”, la canzone “Albert Einstein non ha mai vissuto nella mia città” ed il romanzo “La neve cadrà sulla neve già caduta”. Qui, il titolo è abbastanza tranquillo, peccato che sia stravolto nell’edizione italiana. Allora, il libro si chiama “Canto dell’arpa”. E si sa che l’arpa è uno strumento molto presente nella musica soft, in quella da camera ed in quella religiosa (come mi ricordava sempre mia zia Isabella in gioventù). Qui, l’arpa si trasforma in un “blues norvegese” … Ora, è vero che siamo in Norvegia, è anche possibile sentire un’atmosfera blues nel libro, ma un’arpa blues…

Ma veniamo allo svolgimento dello scritto. Che, come detto e come si può intuire dalle parole sulla vita di Levi, è pervaso di musica e misticismo (o meglio, religiosità). Il protagonista è un discografico, quarantenne ormai stanco della sua vita un po’ falsata da regole che non condivide più (ne farà una parodia verso la fine, con quell’insistere sull’inglese, sulle abbreviazioni, sulla pubblicità di cose inutili, ed altro che fa di quell’industria, a volte, un’insulsa appendice di altro, mentre dovrebbe tenersi vicino al suo fulcro: la musica). In una chiesa, presente a causa di un battesimo, sente un trio di anziani cantare a cappella canzoni di argomento religioso. Ma non è il testo, o non è solo il testo, che colpisce Jim. È la purezza e l’armonia delle voci.

Da questo punto si instaura un braccio di ferro tra lui ed i tre fratelli Thorsen: Timoteus, Maria e Tulla. I tre sono più o meno ottantenni, hanno ancora voci angeliche, ed in gioventù avevano successo come cantanti-predicatori. Tanto che fecero anche una tournée in America. O meglio, come dice Maria, nell’America norvegese, laddove si insediò l’emigrazione scandinava.

C’è un lungo braccio di ferro tra loro e Jim, laddove il discografico, dismettendo tutti i suoi panni esteriori, ritorna alla sua essenza umana (spogliarsi del superfluo per essere sé stessi, uno dei messaggi religiosi di Levi), e uno dopo l’altro, entra in comunione con i tre Thorsen.

Prima con Tulla, la più giovane, quella dalla vita più movimentata, che in America conosce Jingo un musicista jazz di colore, si innamorano, si sposano, fanno un figlio, Jingo muore, il figlio ha a sua volta un figlio, che dirazza, che abbondano la serietà e serenità dei suoi avi canterini, e diventa un “mercante del tempio”. Cosa che costringerà Jim a lottare con tutte le sue forze per emarginarlo.

Poi Maria, l’elemento equilibratore del trio, quella che non sbanda mai, ma che forse ha segreti che non dirà nemmeno a Jim, quando riusciranno a comunicare. Ed infine Timoteus, il più scorbutico, ma anche il più ironico. Quello che da cinquanta anni soffre il dolore di non aver avuto la possibilità di sposare Thina. Quello che prende in giro Jim perché si scusa sempre, senza avere il coraggio delle proprie azioni. Ma casualmente, sarà Jim ad organizzare un concerto presso la struttura di Thina, iniziando un processo di riavvicinamento che porterà a situazioni nuove ed inaspettate nel piccolo mondo antico di Kongsvinger.

Così, mentre i tre anziani riscoprono il gusto della vita e dell’amicizia, anche in questa tarda epoca della vita, Jim riscopre la bellezza di una vita meno frenetica, dove può tornare alla musica più genuina e vicina alla sua sensibilità. Levi chiude il suo cerchio, battendo molto su alcuni temi che spiccano come casse di risonanza nella letteratura scandinava: la voglia di fuggire dal caos della città (rifugiandosi così in questa poco abitata cittadina pochi chilometri fuori Oslo), il contatto con la natura (Greta docet), ma anche la musica come aiuto, la solitudine come risorsa, l’ineluttabilità della vecchiaia e l’avvicinarsi della fine. Non sempre il libro è su alti registri, cadute sono inevitabili. Ma anche la religiosità di Levi, che potrebbe essere di intralcio, è invece lieve ed accompagna docilmente l’andamento del romanzo.

“Uno scrittore di cui avevo letto un’intervista sosteneva che i libri migliori sono quelli mai scritti. Capivo molto bene che cosa intendesse. A volte il successo più grande sta nel fallire invece che ripetere sempre lo stesso successo.” (127)

“Il grande amore … era finito … Un amore del genere capita una sola volta nella vita. O si impara a convivere con la sua perdita, o si cola a picco.” (156)

Siamo alla seconda trama, e quindi vi porgo un allegato sul volo, sperando di tornare presto a farlo.

Mentre per le citazioni, mi rivolgo ad un Alessandro Baricco d’annata, che in “Questa storia”, continua a suggerirmi alcuni comportamenti intelligenti, se ami qualcuno che ti ama, non smascherare mai i suoi sogni”, ma soprattutto, un suggerimento su come non passare il proprio tempo: “la gente vive per anni e anni, ma in realtà è solo in una piccola parte di quegli anni che vive davvero, e cioè negli anni in cui riesce a fare ciò per cui è nata. Allora, lì, è felice. Il resto del tempo è tempo che passa ad aspettare o a ricordare.”

Per il resto, vorrei continuare a dedicare questi ultimi mesi del 2021 per incontrare tutti gli amici che non sono riuscito a vedere (spesso) in quest’epoca clausurale, e continuare a festeggiare con loro. Loro sanno perché (ed anche Guðmundsson lo sa). Quindi posso anche continuare ad abbracciarli.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

OTTOBRE 2021

Una cura pensando, sperando che presto si ritorni a viaggiare

I DIECI MIGLIORI ROMANZI DA LEGGERE DURANTE UN VIAGGIO IN AEREO

Così avvincenti che dimenticherete di essere a diecimila metri da terra.

Jorge Amado                        “La bottega dei miracoli”

Niccolò Ammaniti                   “Io non ho paura”

Paul Auster                          “La città di vetro”

Denis Diderot                        “Jacques il fatalista”

Jerzy Kosinski                       “Oltre il giardino”

William Somerset Maugham    “Il filo del rasoio”

Raymond Queneau                “I fiori blu”

Rudolf Erich Raspe                 “Il barone di Münchhausen”

Alice Sebold                          “Amabili resti”

Jules Verne                          “Il giro del mondo in 80 giorni”

Bugiardino

Anche se, a parte Diderot e Maugham, li ho letti tutti, le letture risalgono a tempi molto lontani, che poco ricordo e soprattutto nulla scrivevo. Amado lo lessi se non ricordo male una trentina di anni fa, mentre Queneau, Raspe e Verne risalgono alle mie letture da ventenne. Auster fu divorato agli inizi di questo secolo, insieme a Kosinski (e contemporaneamente al bellissimo film). Rimane Ammaniti, che lessi agli inizi di queste scritture, con un commento sinteticamente fulmineo. Quindi, solo Alice merita un suo degno spazio.

Niccolò Ammaniti “Io non ho paura” Einaudi euro 9,50

[tramato il 31 marzo 2007]

Bella scrittura, ti avvolge e ti porta sino alla fine. Meglio il libro del film. Un buon scrittore italiano.

Alice Sebold “Amabili resti” E/O euro 11

[tramato il 24 maggio 2015]

Ecco un altro di quei libri di cui uno sente tanto parlare e non sa se comprare o meno, se leggere o meno. Rimasto a lungo nell’indecisione, sotto la spinta libropatica che ormai avete imparato a conoscere, mi sono deciso ad intraprenderne l’ardua lettura. Ardua non in quanto difficile, ma in quanto mi aspettavo qualcosa di leggermente più “realistico”.

Soprattutto dopo quell’attacco in prima persona in cui la narrante confessa di essere una ragazza di quattordici anni, stuprata ed uccisa. Quest’artificio si può accettare, visto che così Suzie, la protagonista, può descriverci gli avvenimenti e commentarli, agendo come “deus ex-cathedra” della storia (non machina giacché non riesce praticamente mai ad intervenire, e tuttavia descrive e bene quello che accade ed i sentimenti degli attori sulla scena).

Quello che mi è andato meno a genio è quel sottofinale un po’ fantasy, quasi ad imitare il film “Ghost”, quello con Demi Moore, per intenderci. Tralasciando questa parte, ed anche il finale vero e proprio, dove vediamo i protagonisti (a parte la morta) cresciuti ed il cattivo… beh quella del cattivo non ve la dico.

Comunque, tralasciando le ultime 40 pagine, veniamo al libro in sé, alla parte “sana” del racconto. Sicuramente, c’è tutto un grido di dolore contro le ragazze stuprate in giro per tutta l’America, dove credo sia un fenomeno con una ricorrenza ed una risonanza maggiore che da noi (ovviamente, con questo non dico che non ci sia anche in Italia; tuttavia, un conto è lo stupro, che penso sia purtroppo presente costantemente, un conto è l’omicidio che ritengo meno frequente nel nostro vecchio e bistrattato mondo).

Contro l’assassino, contro la polizia che spesso è incapace di trovare prove e portare a compimento indagini (ed il libro è più realistico di molte fiction tv, a volte troppo consolatorie, dove i colpevoli sono sempre puniti). Vediamo i modi con cui George circuisce ed uccide la piccola Suzie, il modo con cui prende in giro vicini di casa e poliziotti. Poi la stessa Suzie ci porta negli omicidi precedenti dello psicopatico, ci fa vedere come solo suo padre Jack pensa a lui come colpevole. Ci porta accanto alla sorella Lindsey che trova possibili prove, ma anche ci fa vedere come George riesca a scappare perché… Questo tormentone, poi, ci seguirà per tutto il romanzone.

Insieme alla storia della famiglia di Suzie, e di alcuni personaggi che le sono vicini e che vengono coinvolti dal dolore della morte e dalla incapacità, per molto tempo, di elaborare il lutto. Abbiamo la madre, che era compressa nel ruolo di portare avanti una famiglia senza molto aiuto da parte di Jack, che prima cerca di rifiutare la morte, poi di esorcizzarla (magari con una scopata selvaggia nei momenti meno opportuni), poi, quando non può fare a meno di costatarla, decide di fuggire. Lascia la famiglia e la Pennsylvania, e si rifugia in California, fino a che …

C’è Jack, il gran lavoratore, tutto preso dall’amore verso il figlio maschio, ma che rimane attonito alla morte di Suzie, non ne esce fuori, abbandona (almeno di testa) la moglie ed il resto, aggrappandosi a piccoli episodi e riti quotidiani, ma che rimane (per me) una figura di poca simpatia.

C’è il fratellino Buck, troppo piccolo per capire a pieno la morte di Suzie (all’inizio ha quattro anni), poi cresce coccolato dal padre, con l’idea dell’esistenza di questa strana sorella mai realmente conosciuta, ma anche con la mancanza della madre che, rabbiosamente, rivedrà solo dieci anni dopo. Inciso: alla fine il romanzo copre un po’ più di dieci di storia, dalla morte di Suzie allo scioglimento del suo Cielo (checché voglia dire quello che ho scritto).

C’è la sorella Lindsay, quella più brava, più intelligente, più colpita dalla morte (che da entità a sé, diventa “Lindsay, la sorella di…”). Quella che trova le prove della colpevolezza di George, quella che si innamora di Samuel, un compagno di classe, con il quale, dopo la laurea, decide di sposarsi ed andare a vivere in una casa fortuitamente scovata nei boschi, e di proprietà del padre di Ruth.

C’è Ruth, appunto, quella dark, quella strana, quella sfiorata dall’anima di Suzie quando questa muore, che dedicherà la sua vita di poetessa alternativa alla commemorazione di Suzie ed alla ricerca di tutte le altre ragazze morte, per ricordarle nei suoi diari. Coinvolgendo, non spesso ma nei momenti significativi, l’indiano Ray, quello innamorato di Suzie, quello, solo, che riuscì a darle un bacio vero prima della morte della nostra eroina. Speravo che Ray e Ruth si mettessero insieme, ma non era destino, anche se…

Insomma, tutta la parte non “poliziesca”, è dedicata agli sforzi di Suzie di far accettare la propria morte ai propri cari. E tutto il libro è quasi un inno alla elaborazione del lutto, ed alla maniera, quindi, di uscirne in modo positivo. L’utilizzo di metodi fantastici, tuttavia, mi ha fatto apprezzare meno questo sforzo. Rimane tutto avvolto in un po’ di favolistico, che mi è poco congeniale, poco fruibile in questo nostro mondo concreto. Dove, purtroppo, tanti lutti avremo da elaborare, fortunatamente non così “funesti” come questo. Peccato!

Conclusioni

Libri mediamente avvincenti, con il mio adorato Queneau su tutti. Io avrei aggiunto “Un indovino mi disse” di Terzani, non perché solo avvincente, ma perché sommamente bello da leggere.