domenica 30 settembre 2018

Meglio gli ignoti - 30 settembre 2018


Un’altra settimana di massimo relax di lettura, anche se solo di quella. Due autori ormai classici delle mie letture, Patricia Cornwell con la sua Kay Scarpetta e Michael Connelly con il numero due, l’avvocato Heller, che non convincono molto rimanendo su di una scrittura onesta. Il giovanilista Pullman che preferisco qui piuttosto che nelle sue uscite fantasy. Ed un’ottima prova dell’israeliano Mishani, che mi riporta nella ridente Tel Aviv. La prova migliore della settimana. Da leggere per tornare in quelle terre sempre interessanti.
[A: 21/11/2015 – I: 17/03/2018 – T: 19/03/2018] - &&&&
[titolo: Tik Ne’edar; lingua: ebraico; pagine: 299; anno: 2011]
Un libro strano, che all’inizio ho stentato molto nel comprendere e nell’entrare in empatia con l’autore ed i personaggi. Verso metà è iniziato un modo di sospensione del giudizio, che stava scivolando verso il basso, chiedendomi io lettore cosa stesso combinando l’autore. Dai 2/3 in poi, una volta compreso meglio tutto l’andamento, è cominciato a risalire, ponendosi senz’altro come una delle buone letture di quest’anno. Per una serie di buone ragioni: un giallo ambientato in Israele, una trama che sembra banale e non lo è, il personaggio principale che alla fine ti entra un po’ nel cuore. Insomma una costruzione insolita, che spesso spiazza, che sembra portare il lettore verso uno scioglimento visto e rivisto, ma che contiene dei colpi di coda inaspettati. Incominciamo dall’ambiente, un Israele reale, non da cartolina. Siamo a Holon, sei chilometri a sud di Tel Aviv, tanto che possiamo considerarne parte. Ed a Tel Aviv e dintorni si svolge l’azione, le ricerche intorno alla scomparsa del giovane Ofer, sedicenne. Che appunto da Holon la mattina prende un autobus per la scuola a Tel Aviv. Ed una mattina, così denuncia la madre, scompare. E ad Holon e Tel Aviv si concentrano le ricerche della squadra di polizia, comandata dall’ispettore Avraham (Avi) Avraham. La difficoltà iniziale, per me, è stata che, per una buona metà le descrizioni delle attività e dei pensieri di Avi si alternano ai capitoli in cui in soggettiva entriamo nella testa e nella penna di Zeev, un professore vicino di casa di Ofer, che, sinceramente, oltre ad essere discretamente schizzato, è un personaggio che non mi è stato mai simpatico. Perché se Avi indaga, cerca di mettere tasselli intorno ad una vicenda che lascia fin da principio sconcertati, Zeev è egotisticamente preso da sé stesso, dalla sua voglia di scrivere, arenatasi dopo il matrimonio e la paternità. Poiché inoltre aveva frequentato a lungo Ofer per dargli ripetizioni di inglese, si sente in grado di conoscerne le mosse, di capire perché e come è scomparso. Tanto da surrogarsi il diritto di fare azioni, a dir poco sconclusionate, che ingarbugliano non poco le indagini. Fa una telefonata anonima per far cercare Ofer tra le dune della spiaggia solo per aver modo di parlare con Avi. Poi comincia ad inviare lettere ai genitori di Ofer, firmandosi Ofer ed asserendo di essere vivo, di esser fuggito, accusando i genitori di incomprensione nei suoi confronti. Sembra quasi, e questa è la prima svolta che Mishani ci fa seguire, e ci fa imboccare con tutte le scarpe, che Zeev non solo sappia molto, ma che sia in qualche modo direttamente coinvolto nella vicenda. Sarà vero? Avi, all’oscuro delle manovre di Zeev, intanto ceca con i suoi di ricostruire il “personaggio Ofer”, perché solo in questo modo pensa di poter sbrogliare la matassa. Interroga a lungo la madre, che risponde sempre con aria dimessa. Si aggira nella stanza di Ofer. Fa ricostruire alcune amicizie, una frequentazione femminile. Infine, riesce a parlare anche con il padre, un marinaio imbarcato il giorno della scomparsa, e che può tornare solo quando la sua nave si ferma a Trieste. Anche con il padre ha lunghi colloqui, cerca di capire la tranquillità del marinaio. Capisce anche meglio la struttura familiare. Perché i due, oltre ad Ofer, hanno avuto due anni dopo una femmina, Danit, affetta da sindrome di down abbastanza fortemente (ha anche problemi uditivi) e poi sette anni dopo un secondo maschio. Anche se nelle more c’è una terza vicenda sottesa, la vita nell’ambiente poliziesco, con il capo di Avi, una donna, cui lui è legato da un forte senso di ammirazione e devozione, ed un collega, giovane, che ha tutta l’aria di mettere i bastoni tra le ruote e di fargli le scarpe. Volendo, c’è anche una quarta storia, che nel bel mezzo delle indagini Avi è mandato in missione interforze a Bruxelles, missione inutile, ma dove conosce l’immigrata slovena Marianke, che gli fa da guida nella città belga (altro punto che mi ha fatto amare la seconda parte del libro). Marianke che, alla fine delle indagini, lo verrà a trovare in Israele, e se da cosa nasce cosa, ne vedremo delle belle in un successivo capitolo. Ma proprio durante la missione in Belgio le cose precipitano. Zeev ha un senso di pentimento, confessa le malefatte, e poi dice delle lettere che ha inviato alla famiglia. Avi, e noi con lui, si domanda perché i genitori ne tacciano. Da qui, precipitano gli avvenimenti, arrivando ad una conclusione, coerente, ma che non vi delucido. Coerente soprattutto con l’atteggiamento dei personaggi della vicenda. La pulce che alla fine Marianke mette a noi e ad Avi, è la possibile lettura delle stesse vicende in un’ottica simile, eppur diversa. Questa doppia lettura del finale è molto interessante, come elemento di sorpresa. Che fa scopa con un elemento altrettanto interessante che tira fuori Avi ad un certo punto: il nostro è un attento lettore di polizieschi, dove cerca di vedere se sia possibile e come e dove, che il detective che sbroglia le indagini possa aver commesso un errore. Un bel giallo ebraico allora, come non se ne leggeva da molto. Ultimo appunto, per quanto ho capito dall’ebraico, il titolo originale recita “Un file mancante”. Vicino ma non uguale al titolo italiano.
Patricia Cornwell “Carne e sangue” Mondadori euro 14 (in realtà, scontato a 11,20 euro)
[A: 21/03/2016 – I: 04/06/2018 – T: 10/06/2018] - && -
[tit. or.: Flesh and Blood; ling. or.: inglese; pagine: 359; anno 2014]
Continua a convincermi poco il proseguire delle inchieste di Kay Scarpetta e della sua tribù. Non disgiunto dal fastidioso scrivere dell’autrice che continua a dilatare i tempi descrittivi, come nel precedente. Tanto che anche qui ci vogliono 272 pagine per svoltare le prime 24 ore, 70 pagine per il primo sottofinale due giorni dopo e una decina per un calmo epilogo che non è altro che l’introduzione al libro successivo (almeno credo, conoscendo l’autrice ed anche se non so niente del 23° libro della dottoressa Scarpetta). Intanto la Cornwell consolida la tribù “Scarpetta”: c’è Kay ormai sposata felicemente con Bentley, il profiler dell’FBI (felicemente è un po’ forte che c’è sempre un po’ di attrito, e Kay non è mai serena); c’è la nipote Lucy che sembra ormai avere una storia tranquilla con Janet, ma anche lei non è mai tranquillo; c’è l’amico poliziotto Marino, rientrato da qualche libro nella polizia ufficiale. E poi c’è la trama, che cerca di avere il ritmo di un C.S.I. televisivo, ma la Cornwell non è la Reichs. Kay e Benton stanno per partire per una settimana in Florida dove festeggiare il compleanno di Kay (che scopro essere nata il 12 giugno, un giorno prima di mio padre), ma… Prima trovano monete di rame nuove ma con la data 1981 (anno di nascita di Lucy) attaccate al muro, poi Marino li chiama che c’è un morto, ucciso da un colpo di fucile, senza testimoni. Tutto chiaro, tutto normale? Ma scherziamo! Allora Marino, rientrato in polizia allettato dall’amico Machado, ora entra in competizione con lui che ha sempre notizie fresche, anche perché si è messo con una dottoressa del team di Kay. Ma Machado è ottuso, e Marino gli sta facendo le scarpe. Prima lotta senza esclusione di colpi sotterranea a tutto il libro. Seconda lotta, Lucy ha un comportamento incostante: fa acquisti di lusso come quando le capita di lasciare la sua ultima amante (nella fattispecie si compera una … Ferrari!), si toglie l’anello di fidanzamento, ed è sempre più adombrata dal fatto che i sistemi di sicurezza della società della zia sono sempre più diventati una groviera. Inoltre, a questo prima delitto senza movente, se ne aggiungono altri, come se ci fosse un infallibile cecchino che prende a casaccio delle persone (e non sarebbe una cosa nuova in un mondo guerrafondaio e trumpista come quello americano). Come sanno tutti i lettori di gialli, poi, se il serial killer è casuale, non si troverà mai. Così seguiamo impotenti la striscia di delitti che unisce il New Jersey, il Massachusetts e la Florida. Tuttavia, abbiamo Benton il profiler, Kay la patologa, Marino l’astuto poliziotto e Lucy genio dell’informatica. E vuoi che non si trovi un filo conduttore? Un dubbio c’era venuto, data l’insistenza sul dettaglio della violazione dei sistemi di sicurezza del bunker di Kay. Sistemi che Lucy aveva sviluppato quando era in FBI, e stava con una certa Carrie, che, libri e libri fa, dovrebbe essere morto. Ma vuoi vedere che… Una volta accettata l’ipotesi, tutto gira nel verso giusto. Carrie che si fa aiutare dal figlio di un mafioso nelle sue azioni criminali (scoperta diciamo come sottoprodotto di una uccisione misteriosa in una piscina di Boston). Carrie che non è morta, ma che sta cercando, uccidendo persone che alla fine si scopre possono avere un legame con Benton e Kay, di fare piazza pulita intorno a Lucy, per convincerla a tornare con lei. ma i nostri buoni sono più forti dei malvagi. nelle 70 pagine in Florida scopriamo una serie di collegamenti, che non vi dico, una serie di possibilità, che tralascio, ed una lotta finale tra buoni e cattivi, dove vinceranno i … Leggiamoci questo libro allora, che è un po’ risalito rispetto alle precedenti e poco convincenti prove. Sperando che la successiva puntata, come pensato, si mantenga a livello. Un ultimo chicca: Lucy sbroglia la matassa trovando il filo conduttore seguendo le vicende di una serie di bottiglie di birra. Non vi dico le vicende, ma vi parlo della birra. Si tratta della “St. Pauli Girl”, una dark lager tedesca che viene venduta solo sul mercato americano, dove risulta tra le marche più vendute. Anche perché ogni anno, sull’etichetta, c’è una modella vestita in costume tradizionale bavarese. Per i conoscitori del malto fermentato, comunque, io a queste lager, preferisco una forte ed amara IPA. E vediamo chi ne sa…
“Raramente i malvagi fanno la fine che meritano, e in realtà i buoni non vincono mai.” (204)
“Fare quello che è giusto complica sempre la vita.” (249)
Philip Pullman “L’ombra nel Nord” Salani euro 10 (in realtà, scontato a 8,50 euro)
[A: 15/11/2016 – I: 30/07/2018 – T: 31/07/2018] - && e ½
[tit. or.: The Shadow in the North; ling. or.: inglese; pagine: 317; anno 1986]
Avevo letto il primo libro della trilogia di Sally Lockhart nell’ambito dei “noir junior” di Repubblica. E come avevo detto allora, mi era sembrato un onesto e dignitoso prodotto, che sicuramente si staccava dall’anonimità di tentativi simili. Annunciai allora che avrei cercato di leggere la trilogia (anche se ora pare si sia aggiunto un quarto volume). Fatto sta che, almeno questo secondo episodio è stato acquistato, catalogato, ed ora letto. Devo dire che, da un certo punto di vista, Pullman fa un passo avanti e due indietro, tanto da perdere un librino di gradimento. La storia si porta avanti di qualche anno, dato che ci eravamo lasciati Sally sedicenne, ed ora la ritroviamo a 22 anni, e con una carriera avviata ed un solco di vita abbastanza ben tracciato. Tuttavia, il tono generale rimane quello degli “junior”, che credo leggano con meno entusiasmo storie di ventenni. Mentre i/le ventenni non sembrano essere in linea con queste letture. L’altro punto in sospeso è un raccordo non completo con il precedente. Sì, abbiamo gli stessi protagonisti, ma c’eravamo lasciati con la sparizione di una bambina di nome Alessandra, e che qui non compare. Si sono consolidati i diversi lavori: Sally ha aperto una piccola agenzia di consulenza finanziaria (anche se per le donne è un mestiere non ancora “open”), Frederick prosegue con la Garland&Co. per le foto e con le sue piccole investigazioni. Jim Taylor rimane il ragazzo tuttofare, anche se tende al melo e cerca di scrivere commedie e tragedie (che nessuno vuole interpretare). Anche se indirizzato ai meno junior, rimane il pallino di Pullman di indirizzare i giovani verso nozioni da approfondire, magari fuori del contesto del romanzo. Abbiamo così gli accenni a Edward Muybridge con i suoi esperimenti di fotografie in movimento, antesignane del lancio delle macchine da ripresa cinematografiche alla “fratelli Lumière” (ricordo che l’azione qui si svolge nel 1878 ed il cinema nasce nel 1895). I possibili agganci con le realizzazioni belliche di Nordenfelt, uno svedese che produsse cannoni e brevetti per sommergibili. Una parte consistente è anche dedicata agli spettacoli di “magia”, telepatia e psicometria, che fanno un po’ da sotto testo a tutto il romanzo (inteso come aiuto all’azione e spunto per la stessa). Dal punto di vista sociale c’è sempre il discorso sul ruolo della donna, e sulle scarse possibilità che aveva al tempo (mentre ora!!), ovviamente personificato da Sally e dai suoi atteggiamenti. Oltre ad un accenno alla nascita del sindacalismo nelle fabbriche. Infine, qualche carrellata sul teatro, inclusa una piccola stoccata al direttore del Lyceum Theatre e ad una sua tirata contro un dramma proposto da Jim, troppo pieno di vampiri (peccato che tal direttore sia proprio Bram Stoker, non solo autore di “Dracula” ma anche laureato in matematica!). Il romanzo prende le mosse dalla necessità di recuperare un investimento di una cliente di Sally, mandata in rovina dal fallimento di una società altresì solida. Indagando e cercando Sally risale ad un personaggio che lega questa ad altre imprese finanziarie, un misterioso Bellmann che sta mandando in rovina tutta una serie di società (ed i relativi investitori) per far convergere i soldi in una sua opera che scopriremo essere un “cannone a vapore”, una specie di mitragliatrice su rotaia, che fa molto gola allo zar di Russia. Questa storia si intreccia con quella di un prestigiatore che chiede aiuto a Jim (e quindi a Frederick) essendo minacciato di morte per aver “visto” in un delirio psicometrico la morte di tal Nordfels (vedete il parallelo con il nome di cui sopra) per mano di … Bellmann. Come ovvio le storie si intrecciano, Sally, Jim e Fred si aiutano nei vari passi che porteranno alla scoperta di cosa sia realmente la “Stella del Nord” di cui molti parlano ma di cui nessuno sa molto. Nel solito gran calderone si intrecciano momenti di tensione, inseguimenti, lotte, agnizioni, personaggi che non sono quello che sembrano. Insomma, il solito bagaglio di elementi che fanno, tutti insieme, il grosso del romanzo di Pullman. Momenti di amore, fanno da contraltare a momenti di tristezza, come la morte del cane Chaka, e … (altro che non narro). Alla fine, Sally riuscirà a sconfiggere il cattivo, a recuperare soldi e crediti. Lasciando aperta la porta per il terzo volume della serie. Una piccola chicca per finire è la scoperta dei brevetti di Nordfels, laddove tutti i pezzi di ferro presenti hanno inciso “норд”, dove con un po’ di fantasia si può leggere “HOPA”, per poi scoprire che, se lo leggiamo in cirillico, leggiamo appunto … “NORD” (con un piccolo ringraziamento a Nico che mantiene sempre vivo il mio interesse per le lingue).
“Gli attori e le attrici non sono crudeli come la gente comune; anche se pensano qualcosa di cattivo, sono più bravi a nasconderlo. E poi sono vanitosi … e non sempre si accorgono degli altri.” (165)
Michael Connelly “Il dio della colpa” Pickwick euro 10,90 (in realtà, scontato a 9,30 euro)
[A: 15/11/2016 – I: 20/08/2018 – T: 23/08/2018] - && e ¾
[tit. or.: The Gods of Guilt; ling. or.: inglese; pagine: 415; anno 2013]
È dall’aprile dello scorso anno che non mettevo mano ad un libro di Connelly, così sono contento che la roulette libraria me ne chieda una lettura. Anche se parliamo di un libro della serie spin-off della principale, dove il ruolo del protagonista viene assunto da Mickey Heller, fratellastro del nostro amato Bosch. Ma soprattutto, avvocato. Quindi siamo nel pieno del “legal thriller” americano, laddove, in effetti, poco ci si cura (anche se non si dimentica) la parte nera e/o investigativa (quella in cui era maestro Perry Mason), ma dove l’accento e l’attenzione è posta su tutti quei meccanismi legali che seguiamo con tanta difficoltà noi cultori del diritto latino (anche se qualche cosa c’è ormai entrata in testa da Grisham in poi). Ed in questo caso particolare, che sembra servire di raccordo ad altro che non capiamo, seppur abbiamo un piccolo mistero da risolvere, la maggior parte della storia serve a mostrare come si riesca a condannare il vero responsabile di quanto è accaduto. Usando poi quella metafora che, pur sensata, poi non riveste un ruolo centrale come dal titolo parrebbe. Mickey definisce la giuria “The Gods of Gulit” (Gli Dei della colpevolezza, o della colpa), laddove in italiano il plurale viene ricondotto al singolare (perché “Dio”, visto che i giurati sono 12, come gli apostoli?). E laddove, inoltre, seppur il nostro avvocato ed il suo avversario PM, si rivolgono alla giuria, questa non entrerà mai in campo. Perché il campo è occupato dagli avvocati stessi (tanti) e dal giudice. Al solito, in questa sotto serie, Connelly mescola più che altrove pubblico e privato, lasciando fluire il racconto su diversi binari. Quello privato di Mickey segue sempre i binari del suo difficile rapporto con la figlia avuta dal primo matrimonio, che in alcuni libri si avvicina, ed in altri, come in questo, si allontana. Anche per alcuni colpi non ortodossi dello stesso avvocato. Mickey lavora sempre al suo meglio, come quando fa assolvere un tizio, per altro poco raccomandabile. Il fatto è che lo stesso, uscito dal carcere, investe ed uccide due persone conosciute dalla figlia del nostro. E lei non gli perdona l’assoluzione. Per tutto il libro, questo rapporto va avanti ed indietro, e solo alla fine, anche se la figlia si allontana fisicamente (va ad abitare dall’altro capo di Los Angeles) sembra possibile un riavvicinamento morale. Altra incursione è la descrizione di un paio di incontri con il fratellastro Harry, quello della serie maggiore, che però non hanno molto senso nello sviluppo della trama. La trama stessa poi parte da un fatto quasi privato: la morte di una prostituta, Gloria Dayton, che Mickey aveva difeso in passato e che aveva aiutato (almeno formalmente) ad uscire dal giro. Cosa che invece era ben lontana dal vero. Gloria rimane a fare la escort, e del suo brutale omicidio viene accusato Andre, un omosessuale che gestiva i suoi siti web. Mickey comincia ad indagare ignaro, ma le indagini sue, e del suo team (la seconda ex-moglie e segretaria Lorna, il di lei marito Cisco e l’aiuto avvocato Jennifer) portano alla descrizione di un ben diverso scenario. Gloria era servita per incastrare un sicario e narcotrafficante messicano, Horatio Moya, nascondendo una pistola nel suo appartamento, dietro istigazione di un corrotto investigatore della sezione narcotici, Juan Marco. Ora gli avvocati di Moya avevano trovato delle prove di ciò, e volendo tirar fuori di prigione Moya mandano un mandato di comparizione a Gloria. I mandati sono pubblici, il cattivo di turno lo scopre, ed imbastisce una messa in scena alla “finta Pretty Woman” dove incastra Andre ed uccide Gloria. Mickey capisce il complotto, ma non ne ha le prove, e cerca di tirarle fuori agendo su quello che ritiene l’anello debole della catena. Alla fine, riuscirà nell’intento di far assolvere Andre, anche se non di catturare il o i colpevoli. Nelle more del racconto, intanto, conosce una ex-amica di Gloria, uscita dal giro ed ora insegnante di yoga, con la quale sembra nascere un timido rapporto. Comunque, tutto il libro, e tutta l’eventuale suspense, si basa sulle procedure penali ed investigative americane, decisamente aliene a noi del Vecchio Mondo. Quindi, dopo anni di letture, seppur si possono seguire, a me lasciano perplesso per il margine di discrezionalità ed arbitrarietà che a volte comportano. Incidenti procedurali, dichiarazioni emesse fuori tempo, affermazioni avventate durante i dibattimenti in aula. Certo, Connelly è bravo nel muoversi in questa giungla (anche se forse non come il primo Scott Turow o come John Grisham). Ed è anche bravo a sottolineare come i cattivi non sempre siano da una stessa parte. Il mondo è inevitabilmente grigio, e non tutto bianco o tutto nero. Una lettura rilassante, ma meglio tornare a Bosch, il prima possibile.
Essendo in modo non usuale la quinta settimana di settembre mi permetto di recuperare qualche trama dedicate alle letture che ci consentono di affrontare malanni e disagi.
Niente viaggi, ancora, solo idee e poca concretezza. Si va nel finale della ricostruzione della casa di campagna (che si finirà prima o poi). Si va ad affrontare un mese di compleanni e di ricordi, che commenteremo a poco a poco. Si spera che gli acciacchi si fermino lì dove sono. 
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
SETTEMBRE 2018 – QUINTA DOMENICA
Oltre a qualche festa non domenicale, mettiamoci a recuperare in quei mesi che presentano cinque domeniche. Eccoci quindi con quattro uscite da leggere ex-novo.

RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE GIÀ DESCRITTE

ADOLESCENZA, USCIRE DALLA

L'adolescenza non deve essere un inferno. Ricordatevi che, se siete adolescenti, pure i vostri coetanei stanno lottando per valicare lo stesso abisso e, se ce la fate, lottate insieme a loro. Con gli amici o senza, assicuratevi di fare tutte quelle cose stupide e folli che fanno gli adolescenti. Se non ci riuscite prima del diploma, allora prendetevi un anno di pausa e aspettate a iscrivervi all'università (badando bene di leggere, nel frattempo, i libri giusti). Poi, quando sarete più grandi, almeno potrete guardarvi indietro, ripensare a questo tempo inebriante, eccitante, ormonale, e riderne.
I DIECI MIGLIORI ROMANZI DA LEGGERE TRA LE SUPERIORI E L'UNIVERSITÀ
 Chimamanda Ngozi Adichie   L'ibisco viola
 Albert Camus                      Lo straniero
 Elias Canotti                       La lingua salvata
 Truman Capote                   Colazione da Tiffany
 Beppe Fenoglio                   La paga del sabato
 Ernest Hemingway               Festa mobile
 Daniel Keyes                      Fiori per Algernon
 Cesare Pavese                    La luna e i falò
 Alessandro Piperno              Con le peggiori intenzioni
 Charles Webb                        Il laureato

CENT’ANNI, AVERE PIÙ DI

I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER CHI HA PIÙ DI CENT’ANNI
1.    Thomas Bernhard                    Estinzione
2.    Andrew Sean Greer                 Le confessioni di Max Tivoli
3.    Jonas Jonasson                       Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve
4.    Yasunari Kawabata                  La casa delle belle addormentate
5.   Milan Kundera                            L’immortalità
6.    Cormac McCarthy                    Oltre il confine
7.    A. A. Milner                            Winnie the Pooh
8.    Georges Perec                        La scomparsa
9.    Osvaldo Soriano                      Un’ombra ben presto sarai
10. Giuseppe Tomasi di Lampedusa Il gattopardo

RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE PASSATE

ADOZIONE

Ann Patchett                   “Corri”
Nei Gaiman                      “Il figlio del cimitero”
Ed in aggiunta:
Frances H. Burnett          “Il giardino segreto”
Rudyard Kipling              “Il libro della giungla”
Emily Bronte                  “Cime tempestose”
T. H. White                    “Re in eterno”
La letteratura per l’infanzia è piena di bambini adottati. Mary Lennox, ne “Il giardino segreto”, è una bambina viziata che impara ad amare in un nuovo, gelido clima; Mowgli, ne “Il libro della giungla”, viene allevato dai lupi; Tarzan, nei romanzi di Edgar Rice Burroughs, dalle scimmie. Un alone romantico sembra circondare questi trovatelli - e a ben guardare a chi, da bambino, non è capitato di litigare coi propri genitori e immaginare di essere figlio altrui? I bambini adottati si sono fatti strada anche nella letteratura per adulti: per esempio Heathcliff, in “Cime tempestose”, che sconvolge il delicato equilibrio della propria famiglia adottiva; “Wart”, in Re in eterno di T. H. White, uno dei rari casi di bambini adottati di successo in questo elenco - scopriremo infatti che si tratta di Artù, re di Camelot.
In realtà, l’adozione è meno romantica e può essere una faccenda complicata per tutti gli interessati - per i genitori naturali che decidono di rinunciare al loro bambino; per i bambini che scoprono la verità in modo tutt’altro che ideale; per i bambini che incolpano i genitori adottivi della propria confusione, e che possono mettersi in cerca dei genitori naturali solo per restare delusi; infine, per i genitori adottivi che devono decidere quando dire ai propri figli che sono «speciali» e non consanguinei. L’intera questione è irta di insidie - ma anche piena di amore, e può significare la fine della sofferenza per chi non ha figli - e a tutti quelli che ne sono coinvolti farebbe bene esplorarne la complessità con chi ci è già passato.
Uno dei più belli tra i romanzi recenti con bambini adottati è “Corri”, di Ann Patchett. Doyle, ex sindaco di Boston, bianco, ha tre figli: Sullivan, Teddy e Tip – uno è bianco coi capelli rossi, due sono neri, atletici e molto alti. Sua moglie Bernadette, dai capelli rosso fuoco e madre di Sullivan, è morta. La madre biologica di Teddy e Tip è la «spia che venne dal freddo» - ha guardato i figli crescere da lontano, consapevole dei loro successi e dei loro fallimenti, delle loro amicizie e rivalità, come un angelo custode.
Quando Kenya, undici anni - la ragazzina che corre del titolo - viene a vivere inaspettatamente in casa Doyle, le complesse dinamiche famigliari cominciano a prendere nuove direzioni. Teddy e Tip sembrano destinati ad avere successo, come scienziato e futuro sacerdote, ma Doyle avrebbe voluto che seguissero il suo esempio in politica. Il fratello maggiore, Sullivan, ha passato un po’ di tempo in Africa per cercare di contribuire alla lotta contro l’AIDS, oltre che per fuggire al passato e a un terribile incidente. Con i nuovi problemi posti dalla presenza di Kenya le storie delle diverse origini dei fratelli salgono gradualmente in superficie - ed è il suo semplice, ma irresistibile bisogno di correre, splendidamente descritto da Patchett («era una forza sovrumana, fuori dalle norme fondamentali della natura. La gravità, con lei, non funzionava»), a riunirli tutti. Il messaggio complessivo del romanzo è chiaro, e trasmesso senza sentimentalismi: il sangue è importante, ma l’amore lo è ancora di più.
La conferma del fatto che anche i genitori meno convenzionali possono fare un buon lavoro adottando un bambino arriva dalle pagine de “Il figlio del cimitero” di Neil Gaiman. Un ragazzino, una sera, va in giro in esplorazione e così riesce a evitare la morte per mano di «Jack del Mazzo», che uccide il resto della sua famiglia. Finito in un vicino cimitero, viene adottato da una coppia di fantasmi. Il signore e la signora Owens, ora defunti, in vita non avevano avuto figli e accolgono con gioia quella inattesa occasione per diventare genitori. Il bambino si chiama «Nobody», ma per tutti è «Bod». Durante la sua eccentrica infanzia, Bod sviluppa poteri speciali come «svanire, infestare certi luoghi, entrare nei sogni altrui» - che in seguito si riveleranno molto utili.
Gli spettrali genitori di Bod fanno un ottimo lavoro. «Sei vivo, Bod. Questo significa che hai un potenziale infinito. Puoi fare qualunque cosa, costruire qualunque cosa, sognare qualunque cosa. Se potrai cambiare il mondo, il mondo cambierà». La loro saggezza di defunti spinge Bod a vivere la propria vita al massimo, malgrado la tragedia dei suoi primi anni, e lui sicuramente ci riesce.
L’adozione non è mai una cosa semplice. È essenziale che tutti siano onesti, perché ognuno possa accettare chi e quali rapporti lo legano agli altri. Qualunque ruolo interpretiate, questi romanzi vi mostreranno che non siete soli. Leggeteli, e poi passateli ai vostri famigliari - comunque sia formata la vostra famiglia. Incoraggiateli a dare voce ai propri sentimenti.

Bugiardino

Senza ripetermi, devo dire che dell’adolescenza ne scrisse in una trama del marzo 2014, dei centenari parlai nella Pasqua del 2016, e sull’adozione scrissi qualcosa per Ognissanti del 2017. Quindi non mi ripeto e riporto qui le “nuove” letture.

ADOLESCENZA, USCIRE DALLA

Charles Webb “Il laureato” Sonzogno euro 5,95 (in realtà scontato a 1,80 euro)
[tramato l’11 marzo 2018]
Secondo le mie libropeute andrebbe letto da tutti gli studenti universitari. Io allargherei il brodo, proponendolo un po’ a tutti, con l’avvertenza che: se conoscete a memoria il film avrete molte immagini sovrapposte (e non sempre giuste), se non conoscete Webb, sarebbe bene capire anche chi sia l’autore. Intanto, non so dirvi cosa sia meglio, anche se è certo che il film, con la sua risonanza, è un punto fermo nel panorama ideale di molti di noi. Ed è anche certo che senza il film, questo libro sarebbe rimasto uno dei tanti buoni propositi letterari americani. Scritto per di più da un irregolare della scrittura, da questo Charles Webb che (sembra anche in modo para-auto-biografico) produce questo libro, di protesta, verso un mondo che già vedeva stretto per i suoi orizzonti. Poco prima si era sposato con la sua Eve (cui dedica il romanzo), e comincia una vita strana ed errabonda. Eve si taglia i capelli a zero e decide di farsi chiamare Fred, come un noto gruppo femminista californiano. Charlie cede i diritti del libro per ventimila dollari. Charlie e Fred-Eve hanno due figli e, tanto per gradire, gestiscono un campo nudisti, divorziano per protesta verso il modo in cui vengono trattate le donne, ma ancora vivono insieme, fanno mille lavori: uomo delle pulizie, cuoco, raccoglitore di frutta, commesso in un supermercato. Attualmente, quasi ottantenne, vive nella costa sud dell’Inghilterra, sulla Manica. Ma veniamo al libro, che non è un capolavoro di scrittura, pur avendo alcuni presupposti interessanti, e che vengono intuiti da Mike Nichols, il regista del film. Perché il libro è tutto un dialogo, come ci si può aspettare da un libro dei primi anni sessanta, che cerca di farci intuire delle cose. Ma che con difficoltà ce le descrive. un dialogo tanto ben fatto, che, come dice qualcuno, sembra già di leggere il copione del film e non il libro da cui ne viene tratto. Ed attraverso i dialoghi vediamo (o meglio sentiamo) la ribellione del protagonista, Benjamin Braddock detto Ben, verso il mondo perbenista ed omologato della California del tempo. Illuminanti, pur nella loro essenzialità, gli scontri verbali tra Ben e il padre. Illuminanti, per un verso opposto, i mancati dialoghi tra Ben e Mrs. Robinson. Moglie di un amico del padre, conosciuta alla festa al ritorno dal suo “Graduate” (che più o meno equivale alla nostra laurea triennale), è una donna disillusa dalla vita e per ripicca alcolizzata ed un filino perversa. Ma anche, americanamente, diretta: vuole Ben come oggetto di piacere, e lo prende, lo usa, quasi gli fa da mamma. Tanto che lo istruisce e lo maltratta, come in molte famiglie non solo americane. Ed alla fine lo ripudia, quando il suo vibratore privato ha l’ardire di mettere gli occhi sulla figlia, unico suo punto debole. Elaine Robinson è pura, Ben è traviato. Ed ecco la buona, sana, mamma americana fare di tutto per allontanare i due. Arrivando a confessare i suoi misfatti, pur indorando la pillola, dicendo cioè che è Ben che le ha messo le mani addosso. Ma Ben, dopo tutta la noia dello studio, del padre, dell’insulsa vita familiare, nonché delle scopate senza amore con la signora Robinson, capisce le potenzialità del suo rapporto con Miss Robinson. La corteggia, dichiara il suo amore, rischia di perderla dopo la confessione, che Elaine fugge e non lo vuole più vedere, anche in questo sobillata dalla madre. Per arrivare all’epilogo che tutti conosciamo per aver visto il film (e quindi non scopro certo misteri): Ben vuole impedire che Elaine sposi un altro, entra in chiesa ma non riesce ad arrivare alla navata principale, è costretto a salire al primo piano, e dalla ringhiera vede Elaine andare verso l’altare, comincia a prendere a pugni la ringhiera, ad urlare, si precipita giù, lotta con tutti, e poi finalmente prende la mano di Elaine, corre fuori dalla chiesa Presbiteriana di Santa Barbara, e si avvia in autobus verso l’aeroporto. Avrete di certo notato le piccole differenze con il film, ma non importa, tanto non è un libro giallo di cui non dovreste sapere il finale. È un libro pieno di archetipi della vita americana (non ultima la Duetto rossa che il padre regala a Ben), ed ha in nuce i prodromi di quella ribellione che anche il film (che è del 1967) anticipa, e che proprio in California scoppieranno l’anno seguente. Ripeto e concludo: non un libro indimenticabile, ma un libro che funziona da madeleine proustiana, e che invoglia, ad un certo punto, di prendere un qualsiasi diffusore sonoro, e mettere su la colonna sonora mirabile di Simon e Garfunkel. E continuare a leggere mentre nella mente scivolano le parole “Hello darkness my old friend”, l’inizio di quel suono del silenzio che ad un certo punto riporta due versi scolpiti nella memoria per la capacità di rendere tutto un mondo: “People talking without speaking, People hearing without listening” [“Persone che parlano senza dir niente, persone che sentono senza ascoltare”]. Ascoltate e pensate, amici mei.

CENT’ANNI, AVERE PIÙ DI

Milan Kundera “L’immortalità” Adelphi euro 13 (in realtà, scontato a 9,75 euro)
[tramato il 9 settembre 2018]
In genere non sono particolarmente tenero verso Milan Kundera, che ho letto a sprazzi, e non sempre mi ha convinto o coinvolto. Devo dire che questo libro, che non conoscevo, e che sono stato spinto dal volume “Curarsi con i libri” a leggere, invece mi è discretamente piaciuto. Intanto, credo che posso affermare con tranquillità che, come cura per i centenari, non è efficace. Ma questo sarà oggetto di altre riflessioni. Qui vediamo intanto il profugo ceco che da più di dieci anni si è rifugiato a Parigi scrivere l’ultimo libro nella sua lingua madre. Dopo di questo, scriverà soltanto in francese. La vera sfida di questo libro è quanto poi riporto preso da pagina 257: Kundera afferma che un romanzo per essere sé stesso deve essere letto e non può essere raccontato. Il suo alter-ego, nel libro, gli fa presente che “I tre moschettieri” può essere ben raccontato, ma Milan rimane con il suo assunto, e noi qui si accetta la sfida. Non per raccontarlo, ma per attraversarlo. Un romanzo con tanti fili, tante storie che si intrecciano, ma che tendono a dimostrare l’assunto di fondo da cui nasce: che senso ha la scrittura in questo mondo dominata dall’immagine? Una domanda viva trenta anni fa e che ora è, se vogliamo, ancora più viva. Ed il mondo dell’immagine, se mi consentite (citazione ovvia) è un mondo che tende a rendere tutto superficiale, dimenticabile, sostituibile. Non voglio entrare in questioni politiche che però le mie parole hanno già adombrato, e chi ne sa, sa anche come si potrebbe proseguire. Io, molto modestamente, torno allo scritto. Che, appunto per la sua inenarrabilità, contiene tante storie che si intrecciano, e che alla fine hanno un filo conduttore che tutte le collega. Intanto, l’autore è presente nel testo dalla prima all’ultima pagina. Di persona, che ci narra come nasce lo spunto che gli fa inanellare gli avvenimenti. Ed alla fine, ci scioglie le riserve e chiude il libro. Con una chiusura aperta, così com’è la vita. Perché è questo il bello del romanzo, che parla di storie, come se parlasse di articoli giornalistici. Un gesto di Agnés scatena la fantasia di Milan che aspetta il suo amico Avenarius. Un gesto femminile, uno slancio del polso teso ad un saluto. Da lì, andando a spasso per il tempo, ci narra la complessa storia di Agnés e della sua famiglia. Di suo marito Paul, di sua figlia Brigitte, di sua sorella Laura. Un esempio dell’entrata ed uscita del romanzo dalla vita è ad esempio il sentire con Milan le notizie mattutine del giornale radio, lette e commentate da tal Bernard, figlio di un insulso deputato di nome Bertrand (voluta confusione di nomi). Con l’andare del tempo, scopriamo che Bernard è l’amante di Laura, e che Avenarius, sempre in vena di tirar fuori il ridicolo dalla vita (sostiene che è l’unica cosa seria), confondendo padre e figlio in un’unica persona, dona a Bernard una targa che lo elegge “asino integrale” (una specie di “tapiro d’oro” ante-litteram). Bernard va in depressione, non riesce a risolverla con l’aiuto di Laura, che medita il suicidio da cui è salvata da Paul e Agnés. Ma Agnés è ben incartata nella sua difficile vita, insoddisfatta dal marito e dalla figlia, anche se li ama profondamente. È anche divisa tra Parigi e la Svizzera, da dove proviene, e dove ogni tanto si rifugia per stare in solitudine con i suoi monti. Tanto che medita di accettare il trasferimento a Ginevra. Nel sesto capitolo, un capitolo tutto dedicato a Rubens, un tizio così soprannominato per la facilità pittorica giovanile, e che passa la sua vita a cercare soddisfazioni erotiche, vediamo come ad un certo punto della sua vita Agnés diventi amante saltuaria proprio di Rubens. E quando questi la cerca perché ne sente la mancanza, scopre che Agnés è morta. Sì, muore in un incidente stradale, di cui discettano Kundera e Avenarius (questo sempre per la capacità dell’autore di entrare ed uscire dal testo). Laura, lasciato Bernard, trova consolazione in Paul, che ha sempre amato. Scatenando le ire di Brigitte, la figlia, che va via insalutata. Per vie traverse, scopriamo anche che Laura è saltuariamente anche l’amante di Avenarius. Fino alla chiusura finale del cerchio, sempre nella piscina che vide l’inizio dell’avventura. Lì si ritrovano tutti, Paul, Kundera, Avenarius e Laura. Che per prima se ne va, ripetendo il gesto fatta da Agnés anni prima. C’è anche qualche altro cerchio che si chiude, ma non ha importanza. Perché questa è la storia nel senso “romanzesco” del termine. Il libro è, proprio per quell’assunto sopra riportato, ben altro. Anche altro. Non a caso il secondo capitolo è interamente dedicato alla storia tra Goethe e Bettina Brentano. Lì dove si discetta di gesti, di immortalità, di atteggiamenti di Bettina, dei suoi amori e dei suoi amanti. Tra i quali lei volle iscrivere anche il sommo Goethe, che già solitario si avviava all’immortalità, facendo in qualche modo caderne qualche goccia anche su di lei. È un capitolo intenso che non ha senso percorrere, ma che a senso leggere. Sia in sé, sia nel contesto del libro. Con quelle chiuse di passeggiate nell’aldilà tra due immortali come Goethe e Hemingway. Ma è proprio in questo capitolo che si gettano le fondamenta dell’essere e dell’apparire. Goethe è. Bettina appare, e lo fa talmente bene, che alla fine è e sarà così come il suo maestro. Mi sono divertito ad ogni incrocio improbabile della scrittura, seguendo le casualità folli che immagina Kundera: come il susseguirsi di alcuni episodi che mi hanno ricordato Peter Sellers e Hollywood Party. Avenarius, nelle sue folli scorribande, decide di bucare con un coltello le ruote di alcune macchine a caso. Buca due ruote di una macchina, rimane con il coltello in mano, si volta, una signora lo vede e pensa che lo stia minacciando, un gendarme lo vuole arrestare. Paul esce di casa, ed in quanto avvocato gli offre il suo patrocinio. Poi va a prendere la macchina ma è quella con le due ruote bucate. E lui deve correre in ospedale dove è ricoverata Agnés vittima dell’incidente che risulterà mortale. Un magistrale fuoco di fila. Un’ultima osservazione logistica prima di lasciarvi. A pagina 312, Rubens visita il Palazzo Barberini, poi esce e va a Villa Borghese dove incontrerà Agnés che non conosce ma che, tra i busti del Pincio, scatenerà la loro passione erotica. Ora, Kundera afferma che Rubens sale la scalinata di Piazza di Spagna, ma da Palazzo Barberini al Pincio, facendo via Sistina, non si fanno le scale. Svista? Non so. Comunque un altro momento intrigante di un libro piacevole. Proprio perché, l’essere di noi tutti, normali mortali, sarà sempre lontano dall’apparire. Purtroppo anche dall’immortalità. Che forse ha senso se si hanno figli, come si accenna ad un certo punto. Ma questa è tutta un’altra discussione.
“Un figlio è l’essenza di ogni amore e non ha nessuna importanza se sia stato realmente concepito e messo al mondo.” (71)
“Non sapremo mai come e perché irritiamo la gente, in che modo risultiamo simpatici, in che modo risultiamo ridicoli: la nostra immagine è per noi il nostro più grande mistero.” (141)
“Se un pazzo che oggi scrive ancora romanzi vuole salvarli, deve scriverli … in modo che non si possano raccontare.” (257)
“È una pura illusione voler iniziare … una ‘nuova vita’ … La vostra vita sarà sempre fatta … degli stessi problemi, e ciò che in un primo momento vi apparirà come una ‘nuova vita’ ben presto si dimostrerà una semplice variazione di quella precedente.” (294)

ADOZIONE

Ann Patchett “Corri” TEA euro 8,60 (in realtà, scontato a 7,31 euro)
[scritto il 18 agosto 2018 e non ancora pubblicato]
Pensavo che le cure delle mie dottoresse malate di libri si riferissero a quella brutta malattia chiamata razzismo. Invece no, anche se qualcosa c’entra, il maggior interesse cui viene sottoposto il libro riguarda il tema delle adozioni. Anche se poi, su questo tema, l’autrice imbastisce tutto un suo mondo dedicato ai rapporti. Rapporti tra adulti, rapporti tra giovani, rapporti tra giovani e adulti. Ma prima di entrare nel merito, due parole sullo stile. Si sente, dallo scorrere del testo, dalla presa delle parole, che la Patchett ha lavorato a lungo nel mondo della carta stampata, pubblicando articoli per una decina d’anni su settimanali e mensili. Una scrittura fluente, anche se, passando dal giornalismo al romanzo, ogni tanto si nota qualche intoppo: un passaggio a volte brusco di scena (da un ospedale ad una casa di riposo, dalla stanza di Tip al suo laboratorio). Il romanzo in sé è articolato in un mini prologo ed un mini epilogo, intervallati dal corpus di più di 200 pagine che descrive 24 ore nella vita della famiglia Doyle, e di alcuni personaggi al contorno. La famiglia è composta da Bernard, il padre, sessantenne ex-sindaco di Boston (ed a Boston si svolge tutta la trama), cui una quindicina (o poco più) di anni prima è morta la moglie Bernadette, entrambi eponimi di famiglie irlandesi, cattolici e devoti. I due hanno un figlio, Sullivan, che all’epoca della storia ha una trentina d’anni. Colpito dalla morte della madre, non riesce mai ad avere un buon rapporto con il padre, che in lui sperava per “onori e glorie”, così come spesso fanno i padri con i figli. I due rompono definitivamente quando, guidando ubriaco, Sullivan ha un incidente di macchina dove muore la sua fidanzata Nathalie. Per coprirlo, Bernard inventa una complicata menzogna, che però mette fine alla sua carriera politica. Sullivan allora si allontana sempre più. E qui lo ritroviamo tornante da un lungo soggiorno in Africa, dove si è dedicato ad affari poco chiari. La coppia Doyle, quattro o cinque anni prima della morte di Bernadette, adotta un bambino negro, Teddy. Ma per farlo, la madre naturale chiede loro di prendersi cura anche del fratello di lui, Thomas detto Tip, di soli quattordici mesi. Così i due si trovano ad avere una coppia di ragazzi coloured da crescere. Che poi crescerà Bernard da solo, riversando su di loro le aspettative che Sullivan ha deluso. Ma anche i due decidono di avere delle strade proprie. Tip si appassiona all’ittiologia, e, benché studente in medicina, passa tutto il suo tempo a studiare e catalogare i pesci. Teddy, più solare, e sempre con la testa tra le nuvole, trova i suoi momenti migliori andando a trovare il vecchio zio, il padre Sullivan, malato ed avviato ad una serena vecchiaia, pur contrappuntata da momenti di intensa religiosità. Bernard, pur non più sindaco, si appassiona sempre alla politica ed ai diritti civili, costringendo Tip e Teddy ad accompagnarlo in tutte le riunioni ed i dibattiti pubblici. Questo sarà l’elemento scatenante del libro: all’uscita da una conferenza di Jesse Jackson, Tip sta per andare sotto un SUV ma viene salvato da una donna, Tennessee, che viene investita al suo posto. Tip ha solo una slogatura, mentre Tennessee viene ricoverata in gravi condizioni all’ospedale. L’intrigo è che Tennessee ha con sé una ragazza undicenne di nome Kenya, e dalle parole di Kenya veniamo a sapere che Tennessee potrebbe essere la madre naturale di Tip e Teddy. E quindi Kenya ne è la sorellastra. Tutto il romanzo si costruisce intorno a questo intreccio. Ai sentimenti tra i ragazzi, ai dubbi di Bernard, ai rapporti con Dio e con gli uomini di padre Sullivan. Alle maturità della stessa Kenya, ed alla sua bravura nella corsa (da cui il titolo). Rimarranno dei dubbi se sia Tennessee la madre dei tre ragazzi negri, o se qualcuno di loro sia invece figlio della sua amica Beverly. Ma non è questo che importa. Noi seguiamo la crescita esponenziale della maturità di ognuno in queste 24 ore cruciali. E ne seguiremo l’epilogo nel breve capitolo di 4 anni successivo, dopo che Tennessee muore in ospedale ed anche Kenya entra a far parte della famiglia Doyle. Le cose migliori sono però proprio i rapporti che si instaurano tra Tip, Teddy e Kenya. E nei pensieri del fratello maggior, unico bianco in questa famiglia allargata. Una America come ci piacerebbe fosse, e come mi piacerebbe potesse essere ovunque. Senza barriere di colori, ma solo con le persone e con le loro personalità. Purtroppo credo che sia una visione un filo utopistica e buonista, che abbia poco riscontro nel reale. Ma la speranza, anche in noi anziani come Bernard, non viene mai meno. Ci sarà, io spero ancora, un mondo migliore per tutti. Intanto, rallegriamoci che, almeno sulla carta, qualcosa c’è. Anche se poi, nel finale, non tutto va o andrà verso lieti fini che sfortunatamente non sono (ancora) di questo mondo.
Neil Gaiman “Il figlio del cimitero” Mondadori euro 10,50 (in realtà, scontato a 8,90 euro)
[scritto il 22 agosto 2018 e non ancora pubblicato]
Ero molto curioso di leggere qualcosa di questo complesso autore inglese: scrittore, giornalista, fumettista ed altro ancora. Ma in particolare ero curioso di un duplice aspetto di questo autore. Scrive libri per ragazzi, vincendo con questo la “Carnegie Medal for children book”. E nello stesso anno, con questo stesso libro, vince il Premio Hugo di fantascienza. Chi sa i miei trascorsi giovanili, non potrà che convenire con me nella curiosa coincidenza. Da adolescente, avevo praticamente tutti i libri vincitori dei Premi Hugo (in onore di Hugo Gernsback, fondatore nel 1926 della prima rivista di Sci-Fi al mondo). Parliamo ad esempio di Robert Heinlein, di Fritz Leiber, di Philip K. Dick, di Roger Zelazny ino a Ursula Le Guin, Philip Farmer e Isaac Asimov. Ma la spinta finale me la donò il libro sulle cure librarie, accostando questo a quell’altro da poco letto (“Corri” della Patchett). Devo dire che confermo la gradevolezza del testo, la sua scorrevolezza, nonché rimandi sapienti a classici della letteratura gotica (da “Il castello di Otranto” Horace Walpole a “L’incubo di Hill House” di Shirley Jackson). Ma anche lo stile un po’ troppo didattico: certo in un “educational book” ci può stare, seppur a volte troppo palese. Fidarsi delle persone, ma controllare. Non aver paura dei diversi. Studiare. Osteggiare i bulli. Insomma, tutta una serie di codici civili che qualcuno dovrebbe ricordare a M6S (vediamo se capite a chi mi riferisco!). La storia, in sé, è di quelle che si pongono sul limitar del vero, dove, facendo un piccolo sforzo, si entra nel gioco e non se ne esce. Come cento anni prima di Neil era stato fatto per l’operazione Peter Pan. Un bambino sfugge ad una strage (ed in questo c’è un ricalco palese dell’inizio di Harry Potter), e viene accolto dalla comunità dei morti in un cimitero. Sotto l’egida della Signora con la falce, i morti si palesano al bambino. Due ne diventano i genitori adottanti. Uno, Silas, il tutore. In quanto Silas non è né vivo né morto, quindi può uscire dal cimitero e procurare al bimbo almeno da mangiare. Non esseno noto a nessuno, così viene chiamato; cioè, in inglese, Nobody, che verrà usato solo con il diminutivo Bod. Nel corso dei capitoli, assistiamo alla crescita di Bod, su per l’infanzia, sino allo scoccare dei 16 anni, che sembra un limite “fisico” per continuare a vivere con i morti (ossimoro cercato a lungo). E Bod attraversa tutte le tappe dell’infanzia e dell’adolescenza, contando solo sui suoi amici “tombali”. Che escono, girano per il cimitero, e non invecchiano (questo il peccato maggior per Bod che invece cresce). Ci sono i teneri genitori Owens, l’antico romano, il poeta, lo scrittore, e tanti altri. Oltre a Silas, che accoglie le richieste di Bod, risponde alle sue domande, cerca di indirizzarlo, ed anche di proteggerlo. C’è Liza, una falsa strega, bruciata per invidia e sepolta in terra sconsacrata. Che tuttavia è gentile e molto innamorata di Bod (anche senza possibilità di futuro). E poi c’è Scarlett, una bimba reale che incontra Bod intorno ai cinque anni. E che poi, dopo una parentesi scozzese, ritrova dieci anni dopo. Con immutata gioia e forse con l’idea che possa nascere qualcosa in più. Ma dietro tutti i momenti di formazione e di cauto divertimento, incombe la storia cupa. Chi è che voleva uccidere Bod? Ed il pericolo esiste ancora? Qui vediamo la parte più gotica del libro, dove ci sono i “buoni”, chiamati anche “Mastini di Dio”, che cercano e riescono alla fine a sconfiggere i cattivi. I buoni che sono amici i Bod: Silas, ad esempio, che scopriamo essere un vampiro pentito, e la signorina Lupescu, un lupo mannaro molto materno. I cattivi fanno parte di una non meglio “Confraternita”, un “Deck of People” (vedrete meglio il perché dell’inglese), che gestisce un non meglio fantomatico potere. Se si sente minacciata, interviene uccidendo a più non posso. Per fare ciò utilizza “gente di basso livello”, diremo i fanti dei battaglioni. Qui c’è appunto la parte intraducibile del libro e del gioco di Gaiman. Il potere è gestito da quell’insieme di persone numericamente ristretto, che costituiscono il mazzo (“Deck”). I sicari sono i Fanti, che in inglese vengono chiamati “Jack”. E sono proprio quattro Jack (come dice il capitolo “Tutti i fanti del mazzo” cioè “All the Jack of the Deck”) che cercano di eliminare Bod. Soprattutto il primo, quello che aveva ucciso la famiglia di Bod. Primo che si mimetizza in ricercatore stralunato, facendosi chiamare Mr. Frost, che raggira Scarlett per usarla contro Bod, minaccia che Bod sventa, facendo uccidere il cattivo da un mostro delle tombe. Ovviamente la parte “ironica” di Gaiman si mostra anche in questo passo, dove il cattivo, alla fine, si presenta come Jack Frost. Che a noi italiani non dice nulla, ma che nella letteratura inglese, e nei racconti popolari, è il nomignolo di Mastro Inverno, quello che porta freddo e gelo, e fa morire campagne e persone. Tornando al romanzo, Scarlett, pur volendo bene a Bod, rimane sconvolta da questi fatti. Sarà Silas a farle dimenticare tutto e rimandarla in Scozia. Dove forse, in un futuro libro, incontrerà di nuovo Bod, e tutto potrà cambiare. Ma Bod deve lasciare il cimiero, ormai è grande, e deve percorrere le strade del mondo. Come gli canta mamma Owens nella ninnananna che lo segue per tutta la storia: “Face your life / Its pain, its pleasure / Leave no path untaken” (“Affronta la vita / Son gioie e dolori / Non lasciar cammini inesplorati”; dove purtroppo nella traduzione l’ultimo verso viene aggiustato con “Che non siano inesplorate / le strade di ieri”. Perché ieri? Misteri). Alla fine, certo, libro per adolescenti, ma ce ne vogliono come questi per farli crescere. Ben scritto, Neil.
“È come chi crede che se va a vivere da qualche altra parte sarà felice, ma poi scopre che non è così che funziona. Ovunque tu vada, porti te stesso con te.” (118)

Conclusioni

Nulla da dire sulle adozioni e sull’adolescenza. Siamo d’accordo ed in sintonia. Meno, l’ho detto già e lo ripeto ora, sui libri consigliati ai centenari. Anche se Kundera, rispetto ad altre prove, mi è sembrato leggibile e da consigliare.


domenica 23 settembre 2018

Non tanto geniale - 23 settembre 2018


Nancy Mitford “L’amore in un clima freddo” Adelphi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 19/01/2016 – I: 08/04/2018 – T: 13/04/2018] - && +
[tit. or.: Love in a Cold Climate; ling. or.: inglese; pagine: 280; anno 1949]
Certo è consigliato dalle mie libropeute come coadiuvante per il raffreddore, ma se non avessi letto “Inseguendo l’amore” non credo che avrei avuto voglia di affrontare questo secondo libro di Nancy Mitford, né tanto meno il raffreddore (che poi sarebbe un po’ duro usarlo come fazzolettino…). Infatti, questo libro ha un senso proprio perché lei ha scritto e noi abbiamo letto “Inseguendo l’amore”. Questo infatti è il volume centrale di una ipotetica trilogia che verrà conclusa con “Non dirlo ad Alfred” (che tuttavia non è al momento tra i miei piani di lettura). Qui, la nostra signorina di buona famiglia (anche se all’epoca della scrittura già quarantacinquenne) continua a mostrarci il lato fatuo del mondo snobissimo inglese tra le due guerre. Ma se nel primo c’era afflato, c’era pathos sia umano che politico, qui si va tutto molto più sul leggero. C’è, ed è ovvio nella storia della Mitford, la feroce critica al mondo fatuo e senza prospettive della nobiltà inglese. Con tutta la grande famiglia che viene rappresentata, cugini, zii, cognati, suoceri, perfino vicini di casa o di castello. Tutti belli, tutti piani di gioielli in cassaforte, tutti senza una sterlina da spendere per la casa. La narratrice qui diventa Fanny, che dal suo punto di incontro con i parenti (più o meno tali) ci narra le gesta della famiglia Montdore. Un a famiglia da poco tornata dall’India, dove il Lord signor padre aveva pur un incarico di prestigio, ma dove c’è la figlia Polly, che ormai è in odore di matrimonio. E non si può farla sposare con un meticcio indiano. La madre, volenterosa e senza un briciolo di cervello, continua ad organizzare balli e ricevimenti affinché Polly metta la testa a posto e faccia girare la testa ai giovani di buon partito che ronzano intorno a tutto ciò. Tuttavia Polly non metterà proprio la testa a posto. Anzi, con un colpo di testa decide di sposare il vecchio e supersciocco zio. Un altro essere che gravita in quel mondo fatiscente, che aveva l'unico pregio di essere stato per anni l’amante della madre. Nancy ci descrive allora tutta una sequela di avvenimenti, che ci lasciano non dico freddi, come l’more del titolo, ma addirittura gelati per lo scarso coinvolgimento. Feste, scenate, cacce, abiti da giorno ed abiti da sera, chiacchiere e pettegolezzi (sembra quasi di assistere al matrimonio di Harry e Megan …), adulteri a ripetizione. Nonché lunghe pagine dedicate alla pesca delle trote, che è una delle attività che a me hanno sempre fatto una repulsione fisica (a meno di non parlare del libro di Richard Brautigan, ma quella è tutta un’altra cosa). La nostra riesce a riempire pagine e pagine con i dialoghi tra questi nobili carichi di una geniale stupidità. Ma alla fine, Polly non viene perdonata per il suo colpo di testa. Anzi viene diseredata ed allontanata da casa. Così, il bel patrimonio cui avrebbe avuto diritto, unica figlia di Lord Montdore, viene a cadere sulla testa di un lontano cugino, unico erede maschio, che vive in Nuova Scozia (che per i non informati non è in Inghilterra ma in Australia). Rintracciato e convinto a venire, l’erede sarà la sorpresa finale della vicenda: bello, frivolo, allegro. Ma soprattutto, molto, ma molto gay. Proprio questa sua non coinvolgibilità, fa in modo di dare nuova linfa a Lady Montdore, che al suo braccio riprende la vita mondana ripudiata per la vergogna di Polly. Vi lascio, se vi interessa, gustare gli ultimi intrecci e la fine della fiaba. A me, ripeto, il primo libro era sembrato interessante ed esemplificativo. Questo invece solo ripetitivo. Ma come detto c’è un legame forte tra i due, pur nel mutare dei nomi. O anche nel non cambiarli, laddove vediamo ad esempio Fabrice de Sauveterre (che nel primo ha un suo ruolo ma che non ripetiamo qui) a colloquio con Fanny, dove, esemplificando la leggerezza mondana del libro, la Mitford gli fa descrivere come le donne francesi sappiano meglio tenersi i loro amanti vicino, rispetto all’insipienza delle donne inglesi. Lettura fuori di metafora, che Fabrice è nient’altro che la trasposizione di Gaston, amante per anni entrato e uscito dalla vita di Nancy, e ultimo uomo cui la nostra diede la mano stringendola mentre moriva del linfoma di Hodgkin. Grazie per le lezioni di snobismo, cara sorella Mitford, ma penso che la nostra frequentazione finisca qui.
“Ti ho preparato per il matrimonio, che a mio parere … è di gran lunga il lavoro migliore per una donna.” (115)
“I cani e gli esseri umani non sono la stessa cosa … ma per … invece lo erano, anzi, per loro i cani erano tutto sommato più reali delle persone.” (127)
“Passare il tempo a leggere libri va bene per gentucola come voi.” (194)
Elena Ferrante “Storia di chi fugge e di chi resta” E/O s.p. (Regalo di Natale di Bene&Fra)
[A: 25/12/2017– I: 13/05/2018 – T: 18/05/2018] - &&&--
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 382; anno 2013]
Concludevo la lettura e la trama del secondo libro della geniale amicizia di Elena Ferrante con il voto di poter leggere gli altri volumi sperando di averne in regalo da chi mi aveva omaggiato con i primi due. Per ironia della sorte o del caso, i due ultimi (ultimi?) volumi mi sono stati invece sempre regalati da una coppia, passando da Rosemilio a Benefra. Ma non di questo voglio parlare, ma solo ricordare di passaggio. Vorrei invece andare subito al libro e nel libro. Di quelli ad ora letti, devo dire che è quello che meno mi è piaciuto, quello con cui meno sono entrato in sintonia. Anzi, la parte finale l’ho trovata dura da leggere, non riuscivo a progredire, laddove la trama ed il testo si andavano infilando in cul de sac prevedibile e scontato. L’altro dato che emerge da questo terzo libro è lo spostamento sempre più accentuato dell’attenzione da Lila a Lenù. Sebbene non sappia dirvi se sia un bene o un male, è da constatare e sottolineare. Lenù ormai ha la maggior parte della vita lontana da Napoli, ed i suoi rapporti con la città e con l’amica sono sempre più telefonici e distanti. Abbiamo così le loro due storie che proseguono, a volte si intrecciano, ma come i binari forse si incontreranno solo all’infinito (vedremo nel prossimo volume). Quindi a Napoli abbiamo Lila che continua a vivere con Enzo e Rinuccio in quel di San Giovanni a Teduccio, in quelli che saranno gli anni Settanta (e quindi con le protagoniste che si avviano ai trenta anni essendo nate, come sappiamo, nel 1944). Lila lavora in fabbrica, sopporta angherie varie. Enzo fa lavori oscuri e studia la sera su libri di programmazione, capendo, intuitivamente, quale sarà il prossimo futuro. Lila fa uscire la sua coscienza politica con le prime lotte in fabbrica, e lì la nostra autrice ha buon gioco nel descrivere il clima italiano e napoletano di quegli anni. Studenti velleitari a volantinare davanti alle fabbriche, operai che non capiscono che cosa si vuole da loro, padroni e fascisti alleati a reprimere, con la forza, tutte le manifestazioni del dissenso. Lila si ribella, Lenù l’aiuta pubblicando un articolo sulla fabbrica, Lila viene licenziata, anche perché sono sempre i cattivi Solara che hanno in mano la fabbrica. Lenù che con i suoi contatti derivanti dallo sposo (su cui si tornerà) procura un nuovo posto di lavoro a Enzo e Lila, nel centro informatico che la IBM inaugura a Bagnoli (e la storia dell’informatica di allora di intreccia con la mia storia, che alla fine degli anni ’70 anche io entrai in quel mondo, pensando durasse poco, e ne sono uscito solo 35 anni dopo). Enzo e Lila che, forse, cominciano ad avere una “loro” storia d’amore, ma lì, in IBM, Enzo guadagna più di Lila (solita disparità uomo-donna) tanto che alla fine Lila accetta il ruolo di capo informatico nella nuova industria messa in piedi proprio da Michele Solara, il cattivo, mafioso ed antipatico, che dal primo libro la insidia. Lila dice che sarà lei ad usare Michele, mentre Lenù sostiene il contrario. Vedremo. In parallelo, ma sempre più in primo piano, seguiamo invece la storia di Elena Greco. L’avevamo lasciata all’uscita del suo libro ed all’incontro con il mai sopito amore di Nino Serratore. Ma Lenù procede, anche se non a grandi passi. Sposa, ma solo civilmente, Pietro Airota, alla cui famiglia si è appoggiata per allontanarsi da Napoli ed avere una sua indipendenza. Aiuta Lila nelle lotte sindacali, inimicandosi l’ala estrema dei movimenti napoletani, esemplificata da Pasquale Peluso (il primo che si innamorò di Lenù) e da Nadia Galiani (la figlia della professoressa). Ma la vita di famiglia la prende oltre misura. Fa due figlie, Dede e Elsa. Si inimica la sorellina Elisa che si fidanza con l’orrido Marcello Solara (si quello dei camorristi). Vede passare da Firenze Pasquale e Nadia, avviati (noi lo sappiamo, loro no), alla lotta armata. Elena prova a continuare a scrivere, ma non ci riesce più. Trova un aiuto, parziale e laterale, da Mariarosa, la sorella di Pietro, diventata super-femminista. Per tutto il libro assistiamo alla caduta verso lo sfacelo della vita di Elena, ce ne accorgiamo noi, forse anche gli amici, ma lei no. Sarà il ritorno alla ribalta di Nino che provocherà una svolta. Nino che ha fatto un figlio (Rinuccio) con Lila, Nino che ha fatto un figlio (Mirko) con Silvia di Milano, Nino che ha sposato Eleonora ed ha fatto un figlio (Albertino) con lei. Nino che le professa il suo immutato amore sin dai tempi di Ischia (ma perché non lo fece allora? Perché si mise con Lila?). Ed Elena cade con tutte e due i piedi nel trappolone amoroso. Certo, questo gli dà la spinta di riprendere la scrittura, che la quotidianità e la poca verve di Pietro le avevano spento. Il libro finisce con la fuga d’amore di Elena e Nino, che abbandonano i rispettivi figli per una settimana a Montpellier. Finisce anche con Lila che questa volta prende lei a male parole Elena, così come questa aveva fatto all’epoca del matrimonio dell’amica. Trovo che il libro (non la scrittura) si stia troppo scentrando. Come parlare a nuora perché suocera intenda. Proclamare tutto l’interesse per l’amica geniale, e passare quasi mille pagine a parlare di sé. Vedremo nel quarto libro come tutto ciò andrà verso il suo fine. Sono stato contento, andando in giro per il mondo di vedere i libri della Ferrante in molte librerie, soprattutto anglosassoni. Sono contento del successo di una scrittura che non può che portare lo straniero ignaro a cercare di capire meglio Napoli ed il nostro tormentato Sud. Tuttavia questa svolta non mi è piaciuta, penso che questo sia il meno belli dei tre libri che ho letto. Troppa carne al fuoco, perché si passa anche dall’analisi della sola Napoli ad un voler mescolare tutto, nel calderone dell’avanzare dei giorni e degli anni: economia, politica, carriera universitaria, nascita dell’informatica, terrorismo. Un romanzo non è (sempre) un calderone che contiene tutto. Basta alla sua esistenza che contenga anche una sola idea che ci coinvolga, che ci faccia pensare. Vorrei sempre leggere un libro, non una sintesi wikipediana del mondo. Vedremo, vedremo, vedremo.
“Ebbi la certezza che gli volevo bene, era una persona che sapeva il suo valore e tuttavia, se necessario, si dimenticava di sé con naturalezza.” (83)
Elena Ferrante “Storia della bambina perduta” E/O s.p. (Regalo di Bene&Fra)
[A: 07/05/2018 – I: 02/06/2018 – T: 12/06/2018] - && e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 451; anno 2014]
E con questo quarto volume si chiude la grande “saga” di Elena Ferrante intitolata “L’amica geniale”. Per i maniaci della precisione riporto in fondo l’elenco completo delle “puntate” così come risulta dallo scritto stesso dell’autrice. Intanto, riprendo, ribadisco ed approfondisco il giudizio, che questo libro mi è piaciuto ancora meno del precedente. Sarà che finalmente esce allo scoperto (ma lo dirà solo a pagina 438, e io non vi dico cosa dirà), sarà che abbraccia un arco di tempo lungo, troppo lungo, sarà che questo è il tempo (anche) mio, ma la lettura che ne dà Greco/Ferrante è troppo poco incisiva. Non che io abbia desiderato un libro politico, non è questo il luogo, ma se si danno pennellate sulla vita che ci ha visto presenti ed attivi, avrei bisogno di qualche scatto in più. Scatto morale, scatto politico. Invece, continuando l’equilibrismo tra pubblico e privato, non si dà luce né all’uno né all’altro. Continuiamo così a seguire le vicende delle due amiche. Come sappiamo Elena lascia il marito per Nino, che però non lascia la moglie. Nino è sempre stato un personaggio a me antipatico. E qui, pagina dopo pagina, scopriamo fino a che punto lo è. Non lascia la moglie, con cui fa un altro figlio. Fa una figlia con Lenù, che verrà chiamata Imma. Continua a tradirla senza che lei se ne accorga. Ci impiegherà una vita, ma alla fine lo caccia via. E di Nino seguiamo tutta la parabola personale e politica: barricadero in gioventù, poi comunista ma moderato, negli anni ’80 socialista ed onorevole, quindi travolto da “Mani pulite” (ma che la Ferrante non cita mai con il suo nome), poi riciclato in qualcosa tipo “Forza Italia” o giù di lì. Insopportabile. Soprattutto, nell’atteggiamento verso le donne. Non se ne lascia scappare una. E Lenù, occhi foderati d’amore, faticherà una vita a capirlo. Lenù che scrive di meno, affogata tra la cura di Dede, di Elsa, di Imma. Che è tornata a Napoli. Che ha ripreso le vecchie ragnatele di rapporti. Che si ritrova con Lila. Lila fa anche lei una carriera folgorante, ma nel ramo informatico. Si mette in proprio con Enzo, sfrutta per prima le molte possibilità dell’elettronica, continua a fare sgarbi ai Solara, a tutti e due i fratelli camorristi, ed alla fine con Enzo fa anche una figlia Tina. Qui la Ferrante mette il pezzo forte di questo ultimo libro: non si sa come, né forse esattamente perché, durante un momento convulso della vita di Lila, Lenù, Nino e le figlie, scompare Tina. E non sarà più ritrovata. Ormai la strada è in discesa, ed il libro non farà altro che percorrerla tutta, attorcigliandosi intorno ai rimpianti di cosa poteva essere e non è stato. Ma se Lila si “liquefà” intorno a questo avvenimento, non ne uscirà più (e con ragione), andando sempre più alla deriva, con mestizia, a volte, ed a volte con cattiveria. Sino alla conclusione che conosciamo sin dal primo libro. Perché è quella conclusione che ci viene presentata nel prologo, e che ora ci si ripresenta. Senza soluzioni, che la vita non sempre chiarisce tutto (non siamo certo in un romanzo giallo). D’altra parte invece, abbiamo Lenù, che si rimette a camminare con le proprie gambe, che non dipende (cerca di non dipendere) né da Pietro né da Nino. Ma trascura le figlie, che ben presto crescono ed avranno voglia di vedere altro nel mondo. In questo aiutate più da Pietro che da altri. Elena, in questo crescere tormentato, (ri-)scopre l’amore per la madre Immacolata e la assiste nella sofferenza e nel trapasso. Elena continua a combattere per continuare a scrivere, per essere sé stessa, anche se la colpa di non seguire le figlie da vicino la spezza interiormente. Ma lei ha bisogno di scrivere, di viaggiare, di girare l’Europa, e tanto altro. Ha bisogno di tempo per continuare a scoprire sé stessa, per continuare a sentirsi o ad essere indipendente. Lina e Lenù vivono l’approssimarsi della vecchiaia, della morte, in parallelo, vicine ma ognuna per proprio conto. Lila affoga le sue angosce nel tentativo di scoprire i misteri di Napoli, leggendone e scrivendone, ma solo per sé stessa. Ma quando Elena le chiede di ripensare a questi cinquanta, e poi sessanta anni, e poi quanti altri ancora, ecco che Lila esce fuori con una delle sue frasi che vanno dritte al cuore, al cuore dell’amica e dei problemi: “Stai invecchiando come si deve … hai smesso di essere figlia, sei diventata veramente madre.” Poi le figlie di Elena vanno a vivere all’estero, Elena scrive un’ultima storia sulla sua amicizia con l’amica. Con la speranza che Lila possa finalmente vivere una vita sua, secondo i suoi canoni, che i legacci della vita le avevano impedito di seguire. Speranza vera? Speranza folle? Speranza di due amiche che forse sono entrambi geniali, almeno in alcuni ambiti. Perché come sappiamo, è difficile, forse impossibile, essere geniali, essere intelligenti “a tutto tondo”. Ci saranno sempre per ognuno delle zone d’ombra. Ci sarà sempre qualche pagina di troppo scritta dalla Ferrante per questa storia, che, finalmente, dopo più di 1500 pagine giunge al suo termine. Come ho più volte ripetuto, la scrittrice è potente, è da leggere, è da seguire. Ma solo il secondo di questi quattro libri mi ha coinvolto e convinto. Il resto l’ho letto, e lo rileggerei se non lo avessi fatto. Ma lasciandomi tutte le perplessità del caso. Troppo lontano dalle mie sensazioni il primo libro sull’infanzia, troppo privo delle mie sensazioni questo che dovrebbe parlare degli avvenimenti a me contemporanei. Comunque, sono anche contento che questi libri mi siano stati regalati. Che un pensiero è trapelato tra tutte queste ombre e tutte queste luci. Un pensiero che è mio, e lì rimarrà. Buona fortuna, Ferrante, che in tutto il mondo ormai c’è la “Ferrante fever”.
“Quando la testa mi dice: è meglio che fai in questo modo, lo faccio e non ci penso più. Se ci torni sopra fai solo guai.” (233)
“Ogni rapporto intenso tra esseri umani è pieno di tagliole e se si vuole che duri bisogna imparare a schivarle.” (429)
Indice completo dell’opera “L’amica geniale” (1630 pagine)
PROLOGO                Cancellare le tracce
INFANZIA               Storia di don Achille
ADOLESCENZA         Storia delle scarpe
GIOVINEZZA            Storia del nuovo cognome
TEMPO DI MEZZO     Storia di chi fugge e di chi resta
MATURITÀ               Storia della bambina perduta
VECCHIAIA              Storia del cattivo sangue
EPILOGO                 Restituzione
Patricia Highsmith “Carol” Bompiani euro 10
[A: 25/03/2016 – I: 28/06/2018 – T: 02/07/2018] - &&&&
[tit. or.: Carol or The Price of Salt; ling. or.: inglese; pagine: 284; anno 1952]
Assolutamente da leggere, sia che si sia visto il film con Cate Blanchett, sia che lo si ignori completamenti. Anche se uno conosce la saga di mr. Ripley (soprattutto nella splendida trasposizione che ne fece Wim Wenders, e che vidi con il mio allora cognato al cinema Arlecchino vicino Piazzale Flaminio, ora scomparso) e conosce o meno Patricia, va letto. Anche se uno sa soltanto l’esistenza della splendida idea di “Sconosciuti in treno” che Hitchcock fece diventare il meraviglioso “Delitto per delitto”, va letto. Il secondo libro della scrittrice americana, dopo il precedente degli sconosciuti, invero ebbe difficoltà ad essere pubblicato, per la sua tematica “forte” per gli anni Cinquanta americani. Tanto che la scrittrice preferì utilizzare lo pseudonimo di Claire Morgan, al fine di non essere etichettata come spesso il mondo delle lettere americane fa. Perché dopo gli sconosciuti, era diventata una scrittrice di “gialli”; dopo Carol, sarebbe diventata una paladina LGBT; dopo la saga di Ripley, una scrittrice di “noir psicologici”. Insomma, nessuno avrebbe visto lei come una scrittrice e basta. Pesante, la cappa americana di censura sessuale, che costrinse, moralmente Patricia ad emigrare in Svizzera nel 1982, ed a riconoscersi autrice di questo libro solo nel 1989. Un libro, che come lei stessa dice nella breve post-fazione, riflette l’inizio di una sua personale vicenda: aver visto una splendida donna fare acquisti, mentre lei, Patricia, per guadagnarsi da vivere, faceva la commessa da Bloomingdale nel periodo natalizio in un reparto per bambini. A contatto con i “piccoli mostri”, Patricia prese la varicella, si mise a letto per un mese, e rielaborò la vicenda in questo libro. Che non ha una grande storia, non ha dei grandi passaggi, ma è pieno di amore, di descrizioni delle sensazioni che si provano durante il rapporto tra due persone (vicinanza, lontananza, attrazione, repulsione, ed anche un totale miscuglio di tutto ciò). Therese commessa, vicina a Richard “perché è buono”, ma senza esserne innamorata, viene folgorata da Carol. Che acquista una bambola per la figlia. Therese, essendo vicino il Natale, le manda un biglietto di auguri, e da lì comincia la storia. Da un lato c’è Therese con il mondo maschile: commessa per avere qualche dollaro, ma scenografa, anche con talento, di professione. Non riesce a trovare incarichi, si accompagna con Richard, un amico del quale gli procura un piccolo ingaggio. È abbastanza vicina, con la testa, a Dennie. Ma non è quello il “suo” universo. Certo, è una giovane anche colta, ha letto James Joyce e Gertrude Stein, cita Picasso e Mondrian e Cezanne. Insomma, non è lì per caso. Ma è il caso che le mette Carol davanti. Una donna sposata “per convenzione”, con una figlia che adora ed un ex-marito che vuole il divorzio perché Carol è un po’ “deviante”. Fin da bambina ha avuto, ha una storia con Abby, anche se è più nel ricordo infantile di loro due bambine sui dodici-quattordici anni, che sulla loro vita attuale di trentenni. Ma Abby, pur ormai ex, è sempre presente, la aiuta, la consiglia. Fa anche un esame, suo, alla giovane Therese, che ha 19 anni, è immigrata (quindi straniera), ha vissuto in un orfanotrofio perché abbandonata dalla madre. Ma Therese una volta vista Carol, non ha più altro in mente. Riesce a mandare a quel paese l’inutile Richard. Entra ed esce dagli appuntamenti con Carol, con tutta la leggerezza di una persona innamorata. Finché le due decidono di fare una scorribanda in macchina per le strade americane. Momenti di piena felicità, ma anche di angoscia. Che il marito cattivo le fa pedinare da un investigatore, al fine di usare la sessualità di Carol per toglierle la figlia. Non solo ma per arrivare ad una ordinanza di “completo allontanamento”. Assistiamo all’alternanza, sempre comunque con gli occhi di Therese, tra i suoi momenti soggettivi d’amore, e l’analisi del comportamento degli altri, ed in particolare di Carol. Che, colpita quasi a morte, torna a New York per la causa, lasciando Therese a girellare tra la Iowa ed il Missouri, prima di tornare anche lei A New York, via Illinois e Pennsylvania. Le ultime 40 pagine sono le più intense. Patricia scopre le carte sino in fondo: una lettera di Carol illuminante, i pensieri di Therese che sta maturando, la delusione che prova vedendo Carol “costretta” a scegliere tra lei e la figlia. Fino ad un finale che finalmente non vi svelo. Avete visto il film? Lo conoscete. Non lo conoscete? Leggete il libro. Una maestria di parole, a volte acerbe (l’autrice è anche lei under 30). Ma che svelano, e con il suo cuore in mano, tutta la vita di Patricia. Quella prima e quella futura fino alla morte più che settantenne in una Svizzera più tollerante dell’intollerante, ingiusta, impossibile America.
“Cosa fa di una commedia un classico? … Un classico è qualcosa che ha alla base una situazione umana.” (157)
Ancora alle prese con tutte le sistemazioni di case e cose, ancora alle prese con scuse che girano e che non riesco a far partire. Ancora alle prese con una programmazione prossima ventura che non mi dà serenità. Ma sempre con qualche amico da incontrare e salutare (vero Vito?). E tanti altri da abbracciare e salutare.