domenica 27 maggio 2018

Aver cura della pioggia - 27 maggio 2018

Speriamo proprio di no, che la pioggia è uno degli eventi atmosferici che più mi rendono storta la giornata. Ma se cominciamo da un medio “Gambellini” che non so quanto avrà cura di me, passiamo attraverso la prima Bridget Jones, ci imbattiamo in un interessante ma non coinvolgente libro di una ex-premio Pulitzer, come non terminare contenti leggendo un libro esordiente, anche se c’è di mezzo la pioggia? Difetti ce ne sono, che la perfezione è altra. Ma ci sono promesse, e qualche spunto non banale. Prosegui così, Beatrice.
Massimo Gramellini & Chiara Gamberale “Avrò cura di te” TEA euro 5
[A: 04/07/2017 – I: 21/12/2017 – T: 22/12/2017] - &&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 187; anno 2014]
Pur essendo un libro misto uomo-donna, lo collocherò nell’Universo femminile, che mi sembra l’impronta di Chiara maggiore, o di maggior spinta, rispetto a quella di Massimo. Gramellini che non mi dispiaceva leggere a volte su “La Stampa” (non invece nella nuova veste nel Corriere) o ascoltare da Fazio, ma non riesco ad entrare nella sua scrittura libraria. Ho letto “L’ultima riga delle favole” e non mi è piaciuto; ho provato ad interessarmi a “Fai bei sogni”, e niente anche qui. Confesso che in questa prova l’ho trovato più leggibile, anche se, a volte, un po’ troppo legato alla parola, all’effetto, al detto e mal interpretato. Eppur tuttavia, discretamente godibile, anche se facilmente decrittabile. Gamberale è, al solito, nel buio nero delle crisi esistenziali. Non sembra aver fatto un passo avanti dal precedente “Per dieci minuti”. È ancora lì, ad elaborare lutti e cercare di recuperare, a riempirsi di parole, quasi a sommergerci in modo da non darci diritto di replica. Per questo, lo ritengo un libro più femminile, per questa preponderanza, almeno emotiva, della parte “Chiara”. Il libro è costruito come una specie di epistolario tra la povera Gioconda-Chiara, con tutti i problemi, passati, presenti e probabilmente futuri, ed un nomato “Filèmone”, presentatosi come suo Angelo Custode. Senza entrare nel merito dell’angelicità, della vita al di là della morte (e magari della reincarnazione), sottolineiamo la scelta de nome che rimanda alla saga di Filèmone e Bauci, due dei più teneri amanti della mitologia greca, che per rimanere uniti per sempre vennero prima di morire trasformati da Zeus in una quercia e un tiglio uniti per il tronco. Ma non ci meraviglia inoltre, che Filèmone sia un personaggio centrale dell’opera psicologica di Jung. Perché, in realtà, volendo traslare l’angelicità, Filèmone-Massimo ha molto dello psicologo, con in più la capacità – volontà – dirazzamento di intervenire oltre che di ascoltare. La trama a due voci è discretamente lineare: Gioconda è stata lasciata dal marito Leonardo (certo invenzione poco felice), non riesce ad elaborare il suo (nuovo) lutto, ed ecco che interviene come suo contraltare Filèmone, che la striglia, la indirizza, fino alla catarsi finale cui arriveremo. Perché, nel progredire dello scritto vediamo delinearsi sempre più chiaramente le figure sia di Gioconda che di Filèmone. Gioconda, trasferitasi a casa della ormai defunta nonna Gioconda, ne mitizza la vita vissuta accanto al marito Antonino. Intanto, sotto la spinta dell’angelo, tira fuori la sua storia. Figlia di una coppia scoppiata quando lei aveva quattro anni, non si è mai sentita accudita – compresa – cresciuta né dal padre, esimio ofiologo, né dalla madre, pronta a partire per il Sud America in vista di un nuovo possibile amore “che dia un senso alla vita vissuta fin qui”. Cresciuta con i nonni, ribelle senza rivoluzione, fa (quasi) sempre scelte sbagliate accettando o rifiutando innamorati e amanti. A trentun anni, laureata ed insegnante di Italiano, incontra Leonardo. Ne nasce una storia d’amore forte, complessa, piena dei di lui silenzi e delle sue parole. Tuttavia, mai dare per scontato l’amore, che va rivisto e coccolato ogni giorno. Gioconda e Leonardo si raffreddano, si allontanano, fino a che lei, quasi senza esserne cosciente, va a letto con il padre di un suo alunno. Un tradimento? Si potrebbe discutere e parlarne. Certo Leonardo, scopertolo, intenta un processo via mail a Gioconda e la lascia. Gioconda cerca aiuto in Filèmone, anche dei suoi passi incerti, del voler tornare con l’Innominato, ma senza muovere un dito (commento mio). E l’Angelo la convince a guardarsi dentro, a non nascondere il proprio Io. Bellissime le poche righe che Gioconda si (e ci) concede per la sua fuga all’Isola di Pasqua. Ovvio che quando Gioconda finalmente comincia a camminare con le proprie gambe, Leonardo si ripresenta, rischiando di far crollare il fragile castello. Sarà la capacità di non chiudere gli occhi che consentirà (forse e se lo vorranno) l’inizio di una via nuova sulla vita vecchia. Il tutto ha per contraltare l’angelo, che ci racconta delle sue vite passate, ed intuiamo, da interventi fuori testo, che anche lui ha un grande amore, immutabile, immancabile, eterno. Per costringere Gioconda a guardarsi dentro senza altre maschere, Filèmone, alla fine, le fa capire che il suo grande amore era (è) proprio la nonna Gioconda. Ma allora Filèmone è nonno Antonino, o c’è una storia diversa che non conosciamo e che conosceremo? Come conosceremo l’idea (che però è chiara già da diverse pagine prima della fine) di come Filèmone e Gioconda senior potranno dare ancora una mano a Gioconda junior. A parte l’invenzione dell’Angelo, che mi lascia freddo, il libro si legge come un Fabio Volo al femminile, con qualche tocco di Federica Bosco. E molte frasi (anche se quelle sotto riportate sono condivisibili) più da Bacio Perugina che da libro di lettura. Leggerino, incomprensibilmente (o forse molto comprensibilmente) in testa a classifiche mensili di lettura. Dove ormai mi sembra chiaro che la popolarità raramente si accoppia ad una riuscita emotiva e cerebrale completa.
“Dov’è il confine che separa un segreto da una bugia?” (115)
“Si completa con gli altri solo chi sa bastare a sé stesso.” (134)
“L’amore perfetto non esiste: quello reale è la somma di tante imperfezioni. Ogni tradimento è il tentativo di colmare un vuoto.” (181)
Helen Fielding “Il diario di Bridget Jones” Rizzoli euro 12 (in realtà, scontato a 9,60 euro)
[A: 28/05/2016– I: 17/01/2018 – T: 21/01/2018] - && --
[tit. or.: Bridget Jones’s Diary; ling. or.: inglese; pagine: 313; anno 1996]
Certo riparleremo a lungo di questo libro nell’ambito delle terapie d’amore per essere felici. Intanto, l’ho ripreso in mano dopo tanti anni (credo di averlo letto, ma ne ricordavo poco, almeno nei dettagli, se non nella struttura). Ovviamente poi, il ricordo è stato corroborato dal fatto di averne in seguito visto il film. Che devo dire mi aveva anche fatto sorridere. Nonché incuriosire con quell’ottimo tris d’attori dei protagonisti. Ricordate certamente Renée Zellweger nella parte di Bridget Jones, Colin Firth in quella di Mark Darcy e Hugh Grant che interpretava Daniel Cleaver. Ma non è questo il luogo di critiche cinematografiche, bensì di parlare del testo. Che, spero sappiate, deriva dalla trasposizione in romanzo di una rubrica fissa che Helen Fielding teneva sul giornale “The Indipendent”, dove cercava ogni settimana di parlare di una donna trentenne single. Tutti questi elzeviri, dato il successo della rubrica, vennero quindi rimaneggiati, amalgamati e fatti diventare un diario, questo, in cui seguiamo la “povera” Bridget in un fondamentale anno della sua vita. Con tutti i passaggi ed i trabocchetti che le diverse esperienze di single avevano avuto nel giornale. Bridget diventa quindi una specie di summa di piccoli comportamenti, che, partendo da buone intenzioni, si rivelano disastri, più o meno grandi. A cominciare dal tentativo, sempre abortito, di controllare il peso (durante tutto l’anno oscilla tra i 55 ed i 59 e qualcosa), di smettere di fumare, di bere poco. E tanti altri buoni propositi che si perdono lungo la via. Da single incallita, cerca di trovare l’amore in ogni luogo, cerca di farsi voler bene (e gli amici gliene vogliono, anche se lei a volte non lo capisce), cerca di vestirsi appropriatamente, cerca di cucinare cene deliziose ed elaborate. Tutti tentativi miseramente falliti. Ricordo solo un inciso che mi ha fatto sorridere: il brodo fatto con ossa ed altri pezzi animali, legati da uno spago, che, non avendone altri, è uno spago blu. A cena gli amici si sorbiranno una minestra blu. Ottimo. Bridget lavora in una casa editrice, è perdutamente, ed erroneamente innamorata del suo capo Daniel, che invece pensa solo al sesso, con lei e con tutte le donne che gli capitano a tiro. Ha una corte di amici single (o quasi): Sharon, femminista sputa sentenze, Jude, che si prende e si lascia con il “Perfido Richard” ogni venti pagine, e Tom, omosessuale e pieno di attenzioni (e consigli) verso la sua più cara amica. Bridget ha anche una famiglia: una madre Pamela, che scopre di essere stata troppo legata al marito Colin, per cui se ne va di casa, comincia a fare l’intervistatrice per una TV, imperversa per tutto il libro con le sue pazzie (di vestiario, di comportamento), fugge con il suo amante portoghese, che si rivela essere uno sfruttatore, per poi finire, il Natale del redde rationem, nel tornare con l’opaco Colin. Dopo le delusioni con Daniel, Bridget decide anche di cambiare vita, si licenzia, passa anche lei in una televisione, dove viene strapazzata anche dal nuovo capo, ma ottiene, con la sua aria innocente con cui passa attraverso tutte le disgrazie, anche dei buoni successi, ed un’intervista clamorosa. In questo aiutata dal timido Mark. Che incontriamo già nelle prime pagine, al Natale che avvia il libro, con in dosso un terrificante maglione a rombi. Mark entra ed esce dalle scene, mettendo sempre qualche parola buona verso Bridget, che ovviamente non se ne accorge. Tipica la scena dell’appuntamento dove Bridget aspetta Mark e non lo sente suonare il campanello perché si sta asciugando i capelli con un phon super-galattico. Ma alla fine il timido Mark, così come il Darcy di “Orgoglio e Pregiudizio” da cui è venuta l’ispirazione, avrà la sua rivincita, nonché l’attenzione e le cure, e probabilmente l’amore di Bridget. Il seguito alla prossima puntata (ce ne sono almeno due). Il problema però con il libro è che i venti anni passati hanno lasciato molta polvere sull’ironia di Helen-Bridget. Se il tentativo era di concentrarsi sulle abitudini sessuali attraverso la narrazione dei conflitti (di coppia, di rivalità, di amicizia), ebbene il tempo è corso molto più veloce di quanto Bridget riesca a dimagrire. Certo sorridiamo alle intemperanze della madre Pam, ma è un sorriso un po’ forzato, per nascondere l’imbarazzo. Come sorridiamo ai tentativi di Bridget di autoregolarsi, di darsi un codice di comportamento che sappiamo già (noi e lei) che non seguirà. Come rimangano molto datati molti comportamenti “da buona società borghese”. Mi ha solo colpito quella frase che riporto, dove già allora, quando cellulari e social non avevano ancora stravolto molte nostre abitudini, come la cultura dell’attenzione fosse già in declino. Rilevo solo in finale, un piccolo cammeo letterario, a pagina 249, quando viene citato Nick Hornby come guru del football, ovviamente per quel suo magistrale “Febbre a 90°”. Che forse venti anni fa non avrei colto, e che ora suona quasi una presa in giro del ben altrimenti noto scrittore. Rimaniamo alla finestra a guardare, magari mangiando un gelato. Di certo non ingurgitando tutti gli intrugli alcolici di Bridget & soci.
“Siamo nella cultura dei tre minuti. Abbiamo tutti un’attenzione di durata limitata.” (192)
Jennifer Egan “Manhattan Beach” Mondadori s.p. (omaggio di Mondadori per recensione)
[A: 01/03/2018 – I: 03/03/2018 – T: 07/03/2018] - &&
[tit. or.: Manhattan Beach; ling. or.: inglese; pagine: 510; anno 2017]
Premessa: questo libro è entrato in modo strano nella mia libreria. Anobii mi manda un messaggio dicendo se ero interessato a recensirlo. Dovevo essere tra i primi 10 a rispondere, e credo di averlo fatto, che in pochi giorni il libro arriva. E come promesso, mi metto subito a leggerlo. Seconda premessa: quanto prima anche perché, oltre ad essere un anobiano di ferro, a suo tempo feci una recensione del libro Premio Pulitzer che suscitò qualche consenso. Terza ed ultima premessa: si “Il tempo è un bastardo” è un bel libro, e va assolutamente letto; con questo non farò ulteriori confronti tra quella scrittura e questa, che ogni libro è un mondo, anche se un mondo dipinto dalla stessa mano. Quindi concentriamoci su questo libro. Un libro che mi ha fatto piacere leggere, ma che non mi è piaciuto, tanto che dei miei 5/6 libri di gradimento ne riceve solo 2. La storia è intrigante, la capacità della Egan di seguire più storie che si intrecciano altrettanto gradevole, ma alla fine poco scatta dei meccanismi di empatia e di adesione ai personaggi. Che questa volta sono in realtà solo quattro: Anna, il padre Eddie, il gangster Dexter ed il mare. Certo, le pagine sono piene anche di comprimari, prima tra tutte la sfortunata disabile sorella Lydia, la madre, la zia Bessie, l’amica Nell, gli amici e i nemici della base navale, il nostromo, ed i malavitosi, di piccola o grande taglia. Ma sono le storie dei quattro che tengono banco, il loro intrecciarsi, dove da punti che sembrano all’inizio distanti vediamo convergere verso momenti di vita comune. Sempre con il mare che fa da collante. La spiaggia del titolo, dove si affaccia la villa di Dexter, e dove Eddie e Anna si ritrovano all’inizio della storia. Il mare del porto di New York, dove Anna fa le sue prime esperienze da palombaro, unica donna in un mondo maschile. Le onde oceaniche della nave di Eddie affondata dagli U-boot tedeschi. Il mare, caldo, californiano, dove finalmente Eddie e Anna, forse, troveranno un modo per incontrarsi e per chiarire tutte le cose non dette prima di allora. Con una scrittura sua tipica, l’autrice, pur seguendo uno svolgimento temporalmente lineare, dal 1937 al 1944, ogni tanto fa salti indietro in quello stesso flusso temporale, per rivelarci cose che al momento sembravano misteriose, ma che, tutte, hanno una loro spiegazione. Eddie che, colpito dalla depressione degli Anni Trenta, prima fa il galoppino per un sindacalista di mezza tacca. Poi, alla ricerca di soldi anche per curare la figlia Lydia, fa il salto nel mondo della criminalità. Rimanendo ai margini, divenendo gli occhi di Dexter nelle sue sale giochi, svelando trucchi, portando bustarelle. In questo salto, tuttavia, abbandona Anna, che nelle gite innocue dei primi tempi era il suo contraltare, ma che non può entrare nei giochi pesanti del malaffare. Ma Eddie ha comunque una coscienza, e di fronte alla brutalità di quel mondo, si ritrae, e misteriosamente scompare. Ucciso? Svanito nel nulla? Per più di metà libro lo perdiamo, per poi trovarlo reinventato sulle navi, lontano dal vecchio mondo, fino allo scontro che lo vede quasi perire in mare, per poi anche lui, ritirarsi convalescente nell’assolata California. Dove ritroverà la figlia che ha fatto tutto un suo percorso di affermazione personale: studentessa senza troppa voglia, lavoratrice in aiuto alla Marina, unica a capire i bisogni inespressi della sorella Lydia. Che riesce a portare al mare, proprio in quella spiaggia dell’inizio, proprio aiutata da Dexter, anche se questi non sa che Anna è la figlia di Eddie. Ma la sua affermazione è la voglia di mare, la voglia di entrarci dentro, di entrare nel mondo subacqueo dei palombari professionisti. In questo il femminismo non femminista della Egan ci descrive la lotta di una donna in un mondo maschile, riuscendo a farcene capire le mosse, le fatiche, le sconfitte, ma anche, alla fine, le vittorie. Amare forse, ma vere. Che Anna diventerà palombaro, che Anna sarà l’amante di una notte di Dexter, come sognava dalle prime righe del libro, che Anna uscirà vincente, anche se sola e da ragazza madre, da tutta la storia. Dove invece, nonostante tutte le premesse di conoscenze e di saper fare, non uscirà vincente Dexter. Che ha una bella casa, una moglie amata, ma che deve gestire locali e bische di alto e basso rango per un fantomatico signor Q. Un gangster di vecchio stampo (di certo già pluri-ottantenne) che fa brillare la stella di Dexter finché gli è utile, ma che lo lascerà cadere precipitosamente quando si accorge che Dexter comincia a cedere. Sia sul piano del lavoro poco pulito, sia sul piano privato (forse si stava innamorando di Anna?). Sarà la zia Bessie che prende alla fine Anna per mano, le rivela tutte le cose che lei sa e la nipote no, la porta in salvo in California, per poi… Non entro in tutti i personaggi minori, dove la sapiente scrittura della Egan ha buon gioco a farne, in pochi tratti, risaltare qualità e difetti. Entro solo nel ribadire che tutta questa bella storia, alla fine, non coinvolge gran che. Certo, sentiamo simpatia per Anna, vogliamo che abbia tutto il bene che i maschi antipatici le stanno negando. Certo capiamo la metamorfosi di un mondo che viene stravolto dalla guerra. Da dove, profeticamente come dalle parole del suocero di Dexter, l’America uscirà vincitrice e faro per le generazioni a venire. Ma tutto ciò smuove poco la voglia di conoscenza, la voglia di approfondimento. L’America è un mondo pieno (anche) di ladri? I soldati sono (anche) razzisti? Le donne sono (spesso) trattate male? Non hanno le stese opportunità e speranze di successo dei maschi? Di certo lo sapevamo già, e non è questo libro che ce ne fa scoprire lati nuovi o inaspettati. Sicuramente, e ne diamo atto, Jennifer Egan è capace di seguire una storia, di imbastirla e condirla, senza cadute di stile per tutte e 500 le pagine. E di certo non è poco, e non ci aspettiamo di meno da un’autrice che sappiamo sa scrivere. Personalmente rilevo alcune chicche, positive e negative, che mi hanno colpito. Come, in positivo, la citazione della storia di Evelyn Nesbit che tanto rimanda a Ragtime di Doctorow. Come, in negativo, il qualificare il cognato di Dexter, Henry, con l’aggettivo “prude”, forse vicino all’originale (immagino) ma che avrei reso con “pudico”. Infine, ritengo che l’edizione speciale non definitiva che ho sottomano non debba essere incolpata dei troppi (per un’edizione Mondadori) errori di stampa (almeno quattro, tra cui un “capishh” invece di “capisci”, e una ripetizione di parola del tipo “attraverso attraverso”). Ma non sono un linotipista, né un correttore. Sono un semplice lettore, che in ogni caso ha divorato il libro in pochi giorni. Questo almeno un segno della bontà del prodotto. Sperando in altri buoni libri, ed altre veloci recensioni, vero Anobii?
Beatrice Corradini “Io sono la pioggia” Centauria euro 9,90 (in realtà, scontato a 6,60 euro)
[A: 10/01/2018 – I: 02/04/2018 – T: 07/04/2018] - &&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 346; anno 2017]
Metto subito le mani avanti: non sarà facile parlare di questo libro, e non perché è troppo giovane per un anziano come me. Cercherò di mantenere neutrale, professionale ed un po’ antipatico il tono, perché, come in alcune poche altre recensioni, devo scontare il fatto non solo di conoscere l’autrice, ma anche di conoscere la madre della scrittrice ed il cane a cui è dedicato. Un fardello non da poco. E tuttavia non per questo ho dato un giudizio decisamente buono ad un libro che è interessante, scritto con capacità, e giustamente con qualche pecca di gioventù ampiamente comprensibile. Cominciamo allora come ben si usa con qualche nota positiva: la scrittura, scorrevole, efficace, che riesce a tenere legato il lettore al succedere degli eventi e che lega gli eventi stessi tra loro. I rimandi, non sempre facili nevvero, soprattutto quando si fa riferimento a musiche di nicchia (ma è comunque interessante poi capirne le origini e le sonorità), ma invece ben comprensibili se svariano sul pano letterario. Infine, un buon taglio per osservare, con gli occhi di chi è più vicino di me, un mondo giovanile ma non giovanilistico. Un mondo del disagio, ma anche della presa di coscienza. Sul versante opposto, probabilmente avrebbe inciso di più una riduzione della massa di avvenimenti, condensarli, o quanto meno dare un taglio a qualche episodio, di sicuro utile alla comprensione globale, ma che rende il volume un filo troppo denso e lungo. E si sa che in questi casi, un po’ si scivola o nella scrittura di routine, o nel dimenticarsi qualcosa. Ad esempio, non ho capito, o forse mi sono perso nelle pieghe del testo, che succede quando il cattivo Cesare spara a Satana. Lo uccide? Sembra di sì. Ma una morte così palese dovrebbe portare risvolti polizieschi che invece non sono presenti (o me li sono persi io?). L’ultimo cenno è al coraggio della scrittrice nell’affrontare un tema che si sarebbe prestato a facili scivolate nel melenso. Parlare di una studentessa che si innamora del giovane professore (e/o viceversa) rischiava di far cadere i toni del romanzo che invece riesce a svicolarne i facili “ismi” (sentimentalismi, romanticismi e via discorrendo), imbastendo una vicenda che, seppur alla fine avrà il suo sbocco naturale, ci arriva per vie traverse, sfociando in un finale non scontato di apertura. Di certo problematica, ma, come direbbe il grande Lucio, “lo scopriranno solo vivendo”. Il tutto nell’arco di un anno vissuto soggettivamente e pericolosamente dalla pur simpatica Andrea. Anno di liceo, con tutto quanto può succedere in una classe liceale composita: gelosie, amori e malumori, cricche che inglobano e che emarginano. Anno che si apre con l’arrivo di un giovane professore al primo anno di insegnamento, con una buona dose di volontà costruttiva, ma anche con qualche non sopito elemento (auto-)distruttivo. Seguiamo Andrea isolata nella sua classe perché non si omologa, scintillata da alcune uscite del professor Parisi, miracolata dall’arrivo dell’altra super-alternativa Dana. Andrea che scopre il lato segreto di Parisi che di notte suona e canta in una band punk-rock, seguendo, lei e lui il filo musicale di “Dancing with myself” di Billy Idol. Ci sono centri sociali alla “Casa Pound” che imperversano e taccheggiano i più deboli. Tentativi, più o meno riusciti, di stupri verso Dana e Andrea. Occupazioni “propositive” dei licei con tanto di lezioni alternative. E poi il grande mistero del “mondo di Primo Parisi”, quello con Jaco, quello con Cesare. Che ad un certo punto esce fuori. Ma io preferisco seguire Andrea sulla sua bicicletta Sally (che mi sa tanto di Vasco…), con le sue elucubrazioni, i suoi pensieri, la voglia di stare e comunicare, ma solo con… Tipico nei libri di formazione (e questo è un libro di formazione) ambientati in liceo, la gita all’estero, dove qui si sceglie Manchester (che trovo sempre una degna meta da raggiungere). Andrea si forma, Andrea si confronta con La Dolce, compagna di scuola prima snobetta, poi emarginata dalle bellone. Andrea si scontra con Dana ed il suo amore diverso. Andrea alla fine… Ma perché raccontarlo. È bello, infatti seguire Beatrice che ci racconta, anche con i suoi piccoli intoppi (in fondo se in un libro tutto fila liscio o si scrive senza criterio o si è già preso un Nobel). La scrittrice Corradini invece continua a percorrere le strade del suo romanzo, e noi che lo abbiamo letto, diciamo di averci trovato uno spunto per dare uno sguardo su quel mondo giovanile che sembra tanto lontano, ma che forse è solo perché si parla di meno. Ripeto e concludo, avrei asciugato qualche episodio, anche se mi rendo conto che poteva avere (che ha) senso nell’economia di spiegare tutti i passi che portano i protagonisti là dove arrivano. Aspettiamo altro, ma non di Andrea, bensì da Beatrice. Buona fortuna.
“Quando sei genitore non hai un manuale da seguire. Nessuno ti dice dove sbagli o in che modo devi muoverti.” (138)
“Sei … la persona migliore che abbia mai conosciuto, ma il tuo problema è che agli altri non ci pensi.” (210)
Vi confesso che non è certo un momento facile. Non si recupera facilmente un lutto forte, anche se tutti gli amici aiutano ad andare avanti, a fare cose, e ad intraprendere nuove avventure. Ma gli affetti, le amicizie, e le piccole e grandi imprese aiutano ad andare sempre avanti. 

domenica 20 maggio 2018

Tra Texas e Sudafrica - 20 maggio 2018


Oggi invece parliamo di avventure. Una isolata, del genere western, che tanto avevo amato al cinema e tanto poco riesco a seguire sulla carta. Forse soltanto Cocco Bill di Jacovitti potrebbe risollevarmi, non certo questo interessante ma un po’ palloso Grey. Poi, diamo il via alla grande saga sudafricana (ma anche rhodesiana ed altre terre affini) del long-seller Wilbur Smith. Che ho iniziato a leggere, che contiene spunti interessanti, ma che non riesce a coinvolgermi nelle sue trame a volte un po’ ripetitive.
Zane Grey “Il ranger del Texas” Corriere della Sera Western 1 euro 5,90
[A: 02/08/2016– I: 01/12/2017 – T: 03/12/2017] - && -
[tit. or.: The Lone Star Ranger; ling. or.: inglese; pagine: 276; anno 1915]
Stava scivolando discretamente in basso, questo volume, che credo rimarrà solitario, quando, cecando notizie sul web, ho scoperto (cosa che le note interne non riportavano) che ha cento anni di anzianità come scrittura. Beh, allora passiamo sopra su alcune ingenuità e su altri dettagli di minor conto, e teniamo a mente il libro, l’ambiente, e lui, Zane, considerato il più grande scrittore western dell’epoca d’oro, quando gli indiani erano cattivi e John Wayne buono. Tra l’altro, Zane in realtà è il cognome, che il nostro nasce Pearl Grey (Grey il padre, Pearl il colore dei vestiti della regina Vittoria che il padre ammirava), nella città di Zanesville, che potete capire fu fondata da un suo antenato (Ebenezer, patriota rivoluzionario ai tempi della rivolta contro gli inglesi, anche se la famiglia Zane veniva dal Vecchio Continente, ma erano quaccheri, quindi perseguitati in patria), ma quando comincia a scrivere, utilizza i due cognomi, materno e paterno, per differenziarsi dalla sua vita “normale”: aveva cominciato come dentista, per poi ad un certo punto dedicarsi completamente alla scrittura, tanto da diventare il primo scrittore miliardario. Dopo queste notizie storiche (d’altra parte Luciano docet, con tale nome, no?), veniamo al libro ed al resto della produzione dello scrittore. Zane Grey è per l’appunto considerato la pietra miliare della letteratura western (con più di 100 libri all’attivo). Ora, benché io legga di tutto, questo tipo di scritti non mi appassiona più di tanto, anche se, ma soprattutto da giovane, i film western erano pane quotidiano. Seguivo con passione prima “Le avventure di Rin Tin Tin” e poi “Bonanza”, non mi sarei mai perso una trasmissione televisiva di “Ombre rosse” o “Mezzogiorno di fuoco” o “I magnifici sette”. E via elencando, fino ad arrivare a “Piccolo grande uomo” e “Soldato blu”. Poi più nulla, fino all’epigono di Tarantino con “Django unchained”. Ma di leggerne, poco o nulla. Nella ricerca di informazioni e diversificazioni, anni fa presi in mano quello che viene considerato il rimodernatore del genere, quel Louis L’Amour di cui parlai un paio di anni fa. Interessante, sul profilo dell’evoluzione della scrittura, ma niente di più. Ora, una collana del Corriere mi aveva stimolato a leggere di questo capostipite assoluto. Di cui questo libro, anche se non è il suo capolavoro (o almeno quello che viene così considerato: “La valle delle sorprese” del 1912), ma viene subito dopo, come importanza e come tematiche. C’è il giovane Buck Duane, figlio di un pistolero morto in duello, anche lui super veloce nello sparare e super preciso nel colpire. Tanto che, sfidato obtorto collo da un tale, lo uccide. Inizia così la sua vita vagabonda, da fuorilegge in pratica, anche se né allora né in seguito, ucciderà per il gusto di uccidere (ed anche se di morti ammazzati il libro è cosparso a piene mani). Cerca comunque di raggiungere la Terra Promessa dei fuorilegge, il Texas, ed in particolare la zona intorno a Rio Grande. Siamo nella seconda metà, forse alla fine dell’Ottocento. Quindi, praterie, allevamenti di bestiame, i primi telegrafi, piccole città con grandi saloon, gente che vive ai confini della legge. E ci vive anche con dei propri codici d’onore: rispetto della parola, aiuto reciproco. Questo almeno nei cow-boy buoni, come Buck, come Luca, come Euchre. Poi ci sono i cattivi, come Bland, e i cattivissimi, come Cheseldine. Andando di città in città, coinvolto suo malgrado in azioni violente, Duane si ritrova prima nella città dove spadroneggia Bland. Dove, per liberare una giovane indifesa, escogita un piano complesso, anche se ben riuscito, alla fine del quale uccide Bland e libera Jennie. A questo punto la svolta: dopo altre peripezie di poco conto, viene raggiunto dalla pattuglia dei ranger guidati da McNelly. Un capitano che conosce il Texas ed i fuorilegge, che capisce Duane e la sua intrinseca bontà. Grande patto: Duane viene arruolato di nascosto con i ranger, a patto che trovi e faccia arrestare il terribile Cheseldine. Duane si mette in caccia, e non per poco tempo (direi che alla fine ne passano di mesi), fino a trovare la città del cattivo, fino a scoprire che questi si cela dietro la rispettabile faccia di un colonello, fino a cadere nelle trame amorose, perché si innamora, ovvio, della figlia del colonnello. Non vi sto a narrare le complicate vicende di sparatorie e di agnizioni, che spesso, purtroppo, sono accennate anche troppo in fretta. Fatto sta che tutto finisce in gloria: l’amore di Ray (la figlia) riscatta Duane, che rimette il colonnello sulla retta via (spedendolo in Louisiana) ed insieme a McNelly sbaraglia ed uccide tutta la banda. Un finale lacrimevole, ma tendente all’happy end, è comunque di prammatica. Lasciando appunto a Zane di sbizzarrirsi su tutti i caposaldi del genere: cow-boy costretti ad uccidere loro malgrado, ma in fondo buoni, cattivi che vogliono sempre mettere le mani addosso alle belle signorine, bevute, sparatorie, cavalcate, inseguimenti, e chi più ne ha più ne metta. Fortunatamente non ci sono indiani nel panorama descritto, solo qualche malcapitato messicano, che non lascia alcuna traccia. Le donne sono o buone (anche se in situazioni complicate) o lascive e calcolatrici. Ogni tanto salta qualche passaggio, come quando, ad un certo punto, di Jennie non si sente più parlare. Una scrittura ingenua, ma diretta, che non lascia ombre, che va diritta al punto. Lanciando sulla carta l’epopea dello stato della stella solitaria (questo il soprannome del Texas, e di conseguenza il titolo originale del libro; che se poi volete vi narrerò anche perché).
Wilbur Smith “Uccelli da preda” TEA euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,42 euro)
[A: 01/11/2015 – I: 18/02/2018 – T: 21/02/2018] - && -- 
[tit. or.: Birds of Prey; ling. or.: inglese; pagine: 674; anno 1997]
Con questo libro comincia la mia lunga immersione negli scritti “africani” di Wilbur Smith. Dell’autore dell’ex-colonia, che ormai ha raggiunto la veneranda età di 85 anni, ho letto due delle serie “minori”: quella dedicata all’antico Egitto e quella dedicata a mr. Cross. La prima ha qualche spunto di interesse, come risulta dalle mie vecchie trame. La seconda è al limite della scarsa leggibilità. Questo è il primo libro, in ordine cronologica, della saga dedicata alla famiglia (o meglio alla dinastia) Courtney. Dove si conferma il giudizio generale che ne avevo dato, un libro certo di avventure, ma con delle punte di “soft core”, quando Smith indulge nelle vicende amorose dei suoi protagonisti. Un misto quindi di sesso e avventura, ma che non ha vette in nessuno dei due elementi della vicenda. C’è del sesso, ma anche dell’amore (e quando spunta il secondo la penna di Smith si fa più leggera). C’è l’avventura, ma non c’è la capacità di sorprendere di Cussler, che io continua a considerare la migliore espressione di questo filone. Ma torniamo alla pagina. Seppur scritto una trentina d’anni dopo il primo libro di Smith, questo si colloca per l’appunto agli inizi delle vicende, collocandosi, temporalmente, intorno al 1660. Anzi, ad essere precisi, le vicende iniziano nell’agosto del 1667, in un braccio di mare nei dintorni del Capo di Buona Speranza. Anzi, per essere ancora più precisi, visto che ci sono stato e lo ricordo, intorno a Capo Agulhas, che in realtà è il punto più a sud del continente africano. Seguiamo quindi le avventure di quella che sarà il fondatore della dinastia africana, Henry Courtney detto Hal. Giovane under 20, viaggia sulla nave del padre, agli ordini della bandiera inglese, nell’ultimo periodo della seconda guerra anglo-olandese. La nave dei Courtney abborda e conquista un galeone olandese, che trasporta verso Città del Capo il nuovo governatore, l’anziano e grasso Van der Velde, e la sua giovane e ninfomane moglie Katrina. Scortati dal comandante della guarnigione, Schreuder. Vittoria facile, e scene di sesso tra Katrina e Hal. Andati al riparo in una cala nascosta, i Courtney vengono raggiunti dal cattivo di turno, un barone scozzese chiamato l’Avvoltoio, che ha un primo scontro con loro, senza successo. L’avvoltoio torna verso porti sicuri, scoprendo che la guerra è terminata, e stringendo un patto con Schreuder per salvare Van der Velde. Cosa che accade, in modo che gli olandesi prendono in prigionia Courtney ed i suoi. Il padre Francis viene torturato ed ucciso, mentre Hal e gli altri finiscono nelle galere. Dove fanno sodalizio con ribelli locali, e scoprono che la bella Sukeena, sorella di un ribelle, è anche diventata la cameriera di Katrina. Questa, ormai buttato Hal alle ortiche, si dedica al capitano, mentre Sukeena aiuta Hal e gli altri prigionieri ad una fuga avventurosa. Schreuder li insegue, ma li perde. Viene degradato, e fugge. Vorrebbe portar con sé l’amante Katrina, che lo sbeffeggia. E lui la uccide. Allora sì che deve fuggire, rifugiandosi su di una nave inglese. Che porta nell’approdo di Courtney, dove ritrova l’Avvoltoio alla ricerca del tesoro della famiglia. Hal e i suoi intanto attraverso la terraferma, raggiungono anche loro la cala. Dove l’Avvoltoio e Schreuder hanno sterminato gli inglesi. Hal riesce a rubare la nave inglese, ma deve subire la perdita di Sukeena, sua nuova donzella, uccisa con un pugnale avvelenato da un traditore. Con la nuova nave, Hal si dirige verso il Corno d’Africa, per soccorrere l’impero etiopico assalito dalle orde islamiche. Qui Smith inserisce la leggenda copto-africana dell’impero del Prete Gianni, di cui sarebbe interessante seguire gli sviluppi, se non fosse fuori dalle corde di questa trama. Fatto sta che ovviamente l’Avvoltoio si mette dalla parte dell’Islam, ed Hal da quella dei cristiani. Dove, alla corte dell’imperatore bambino conosce una specie di pulzella d‘Orleans nelle vesti del generale donna Judith Nazet. Anche qui, salto una serie di avvenimenti di contorno per arrivare al nocciolo. Tra Hal e Judith sboccia il grande amore. Ma prima, Hal uccide in duello Schreuder e fa saltare in aria il battello dell’Avvoltoio. Judith salva l’imperatore, nonché il Sacro Tabernacolo, per poi ricongiungersi con Hal, ed insieme la prima storia finisce con loro che veleggiano verso la cala dell’inizio per recuperare il tesoro dei Courtney. Insomma alla fine della storia, Hal, diventato ormai sir Henry Courtney, ha avuto il battesimo del sesso con la pessima Katrina, quello dell’amore con la bella Sukeena, e quello di un futuro matrimoniale con Judith. Possiede una nave formidabile, è aiutato come secondo dall’ex-schiavo Aboli. Ci sono stati duelli, massacri, uccisioni a non finire, anche truculente. Nonché belle battaglie tra navi sui mari dell’Oceano Indiano. Per ora, tuttavia, Hal è ancora “un capitano di navi” e non un possidente terriero. Ne vedremo gli sviluppi, anche se la lettura è poco più di un passatempo, e non riesce, almeno fino ad ora, a smuovere momenti di vero interesse.
Wilbur Smith & Giles Kristian “Il leone d’oro” TEA euro 13
[A: 04/12/2017 – I: 21/02/2018 – T: 24/02/2018] - & e ½ 
[tit. or.: Golden Lion; ling. or.: inglese; pagine: 493; anno 2015]
Se il primo libro arrivava scarsamente a 2 libri, questo neanche ci si avvicina! Intanto, veniamo a decifrare il modus operandi della “Smith’s factory”. Una volta che il vecchio Wilbur ha scritto decine di romanzi sui tre o quattro filoni che gli interessano (la saga dei Courtney, dei Ballantyne, degli Egizi, di Hector Cross, e così via), decide di riempire buchi temporali con altri scritti, magari (spesso) facendosi aiutare da onesti scribacchini. In questo caso, anche più che onesti, visto che Giles Kristian non solo è scrittore di fiction storiche (tra cui la saga di Raven), ma anche fu in gioventù, lui del 1975 e fino ai primi anni 2000, il leader vocalist della band pop “Upside Down”. Ma torniamo agli scritti. Nella cronologia delle avventure dei primi Courtney c’era un salto tra il sopra citato “Uccelli da preda” che si svolge intorno al 1667-68 (seguendo la datazione della pace della seconda guerra anglo-olandese) ed il seguente “Monsone”, che dovrebbe essere ambientato intorno al 1690. Per dare un raccordo allora, eccoci in questo libro di passaggio, che viene scritto 20 anni dopo (circa) rispetto ai due citati. Tra l’altro con un titolo che non so interpretare. In tutte le 500 pagine non ci sono leoni, c’è la nave di Hal, chiamata “Golden Bough” che significa “Ramo d’oro”; c’è un sacco d’oro che aspetta Hal nel nascondiglio dove il padre decise di occultare il tesoro delle sue “rapine” presso la “Elephant Lagoon” (cioè “Laguna dell’Elefante”); ci saranno iene che attaccano essere umani; cariche di rinoceronti; fianco avvistamenti di leoni. Ma d’oro? Qualcuno sostiene che si riferisca a titoli onorifici, anche se sappiamo che sir Henry (Hal) Courtney è “Mastro Navigatore dell’Ordine di San Giorgio e del Santo Graal”. Beh, lasciamo da parte questo mistero che spero qualcuno svelerà per concentrarci sullo svolgimento della trama. Dove si vede già la senescenza di un certo tipo di scrittura “smithiana”. Qui molti scontri, lotte, capovolgimenti di fronte. Ma poco, quasi nullo sesso. Amore si, che sir Hal e il generale Judith hanno un legame forte e profondo, che li fa stare vicini anche quando non lo sono. Il primo libro era finito con la loro vittoria su tutti i fronti. Ma l’Avvoltoio (come scopriamo nelle prime pagine di questa seconda puntata) benché mortalmente colpito, resiste e sopravvive. Viene preso e curato dallo Sceicco Jahan, quello di Zanzibar che Hal e Judith avevano sonoramente battuto. Bruciato nei polmoni, monco del braccio sinistro, l’Avvoltoio deve dedicarsi più che altro all’astuzia, all’inganno per adempiere il compito assegnatogli dallo Sceicco: uccidere sir Hal e Judith. In questo troverà un alleato nell’ex-console di Zanzibar, caduto in disgrazia, e più avanti in un oscuro e psicopatico impiegato della Compagnia delle Indie, tal William Pett. Anzi, all’inizio sarà proprio le avventure di Pett che seguiamo, la sua fuga dall’India, il suo imbarco sulla nave del comandante Goddings, che lui ha l’incarico di uccidere. Ci riesce, facendo anche saltare in aria la nave. Per poi salvarsi, ripescato in mare dal comandante Tromp (un olandese ambiguo come molti personaggi del mare all’epoca). Scarseggiando di viveri, Tromp ed i suoi tentano l’assalto alla nave di Hal, che sta viaggiando di ritorno dal mar Etiopico, dove finalmente il Prete Gianni e le altre reliquie cristiane sono state messe in salvo da Judith. Hanno la peggio, e Pett (incatenato da Tromp) ribalta la situazione. Da bravo psicopatico, sente le voci, che gli chiedono di uccidere Hal. Cosa che non gli riesce a bordo. Una volta arrivati a Zanzibar, come tappa verso la Laguna dell’Elefante e per far riposare Judith, che risulta incinta, i nostri vengono irretiti dalle trame dell’Avvoltoio e dei suoi amici. Prima viene rapita Judith, che si cerca di vendere come schiava. Hal ingaggia un perverso pirata, tal Jack Rivers, per liberarla. Ma lo stratagemma non riesce, anzi l’Avvoltoio rapisce Judith per portarla in dote ad un pirata portoghese che vive in Mozambico e potrebbe ambire al frutto della passione che cresce nel ventre della nostra eroina. Hal viene prima messo fuori combattimento, poi, dopo aver ucciso una serie di nemici (tra cui Pett sicuramente e forse Grey) ed una serie di neutri come Tromp (in un allucinante duello bendato), riesce a recuperare una nave e con Aboli si mette sulle piste di Judith. Vi risparmio pagine e pagine di inutili battaglie, di utili morti (finalmente vedremo il cadavere dell’Avvoltoio), di inseguimenti ed altro. Tutti sono sbaragliati, e Sir Hal, Judith (che tra l’altro, mi ero dimenticato di sottolineare sia etiope, quindi di pelle quanto meno ambrata), il loro figlio ed il tesoro recuperato veleggiano verso la natia Inghilterra. Prima di lasciare questo inutile capitolo, un secondo piccolo mistero sull’antagonista di questi primi due episodi. Soprannominato in italiano “Avvoltoio”, anche se in originale il suo nome è “Buzzard”, cioè “Poiana”, che ha un senso maggiore (anche se non di facile comprensione) perché: 1) la poiana è scarsamente abile come predatore, ma è un puro opportunista e si approfitta delle gesta altrui (come il nostro in questi libri); e 2) “Poiana” era il reale soprannome di un pirata vissuto una cinquantina d’anni dopo i fatti qui narrati. Tal Olivier Levasseur, che fu tra l’altro uno dei primi (o l’inventore) della famosa “Jolly Rogers” la bandiera dei pirati con il teschio. Continuando a trovare Smith inferiore ad altri “avventurieri”, spero che il ritorno a libri scritti di prima mano sia foriero di miglior coinvolgimento quanto meno a livello di riposo mentale. Che questo secondo libro, al contrario, mi ha fatto solo innervosire.
Wilbur Smith “Monsone” TEA euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,42 euro)
[A: 01/11/2015 – I: 24/02/2018 – T: 02/03/2018] - &&& -- 
[tit. or.: Monsoon; ling. or.: inglese; pagine: 860; anno 1999]
Dopo il salto temporale (inutile, come ho sopra detto, se non per riempire qualche vuoto ma che aggiunge poco), riprendiamo la sequenza primaria, che due anni dopo “Uccelli da preda”, Smith scrive questo voluminoso “Monsone”, dove si riprendono le avventure della prima ondata dei Courtney, con l’eroe delle prime mosse, Hal, che torna in Inghilterra. Nonostante la mole, si legge abbastanza scorrevolmente, ed ha un intreccio che è anch’esso ben orchestrato. Quasi una sufficienza piena, se non fosse che, proprio per la lunghezza del romanzo, se ne potevano costruire almeno due, se non tre, altrettanto avvincenti e probabilmente più stringati. Che qui, ogni tanto, si sbrodola, si perde il filo, e talvolta si saltano sequenze temporali che farebbero meglio apprezzare una scrittura compatta. Certo, è possibile che Smith non avesse in mente un racconto tanto ampio (ricordo che, ad ora, sono 16 i volumi che compongono la saga), e quindi tenesse in minor conto alcuni sfridi temporali. Come ad esempio l’inizio di questo romanzo che, se diamo conto della nascita del primogenito di Sir Hal dovrebbe svolgersi nel 1695, quando William ha appunto 24 anni. Ma dato che ci sono avvenimenti cruciali che si svolgono dopo la morte del protagonista dei primi due volumi, cui assistiamo e che viene detto essere avvenuta nel 1693, ci troviamo in un solido groviglio temporale. Facciamo finta di nulla, e facciamo anche finta che la maggior parte delle vicende si svolga negli anni ’90 del 1600. Allora, troviamo sir Hal nella sua magione inglese, dove vive il primogenito, avuto dall’amata Judith, il pluriantipatico Black Billy, poi ci sono i gemelli Tom e Guy, avuta da Margaret, sua seconda moglie morta in un naufragio, nonché Dorian, avuto dalla terza moglie Elizabeth, morta di parto. Come detto, tanto Judith era dolce, tanto William è una carogna, che tartassa i fratellastri minori, dove abbiamo Tom, intraprendente e già puttaniere, che va alla ricerca delle belle fanciulle della fattoria, Guy, che è il lato debole della gemellitudine (i gemelli dovrebbero avere 16-17 anni all’epoca, o forse 15), e Dorian, piccolo, spavaldo, ma per l’appunto piccolo, che non può avere più di 11-12 anni. In questo quadro, la Compagnia delle Indie chiede a Sir Hal di debellare un pirata nelle acque dell’Oceano Indiano, tra il Corno d’Africa e Zanzibar. Il nostro parte con tutta la famiglia (meno Bill, ovvio), dovendo anche dare un passaggio alla famiglia Beatty che si reca in India. Per farla breve, Tom e Caroline Beatty si danno alle grandi passioni puberali (tanto che nove mesi dopo nascerà Christopher), Courtney ed i suoi incontrano il cattivo al-Auf, lo debellano ma: Dorian viene preso dagli arabi, Hal ha le gambe troncate in battaglia, e Guy, che odia fare il marinaio, convince il sig. Beatty a portarlo i India. L’unico eroe, al momento, è Tom, che in poco tempo diventa lui l’eroe della saga. Riporta in patria il padre, che però poco dopo muore lasciando tutto (come da legge dell’epoca) al primogenito William. Che non vede l’ora di sbarazzarsi di Tom, anche in combutta con i capi della Compagnia. Tom, che ha ereditato dal padre anche il fido Aboli, riesce a scampare agli agguati, dove però, senza volerlo veramente, uccide William. Sarò così costretto a fuggire dall’Inghilterra senza più tornarvi. Rientrato in Africa, scopre a Zanzibar che Guy ha sposato Caroline, riconoscendo come suo il figlio Christopher e che Guy stesso cova un odio profondo verso di lui. Mentre riscopre che la piccola Beatty, Sarah, ora è cresciuta ed è sempre innamorata di lui. Ovvio il trionfo dell’amore, anche se dovranno fuggire, ed insediarsi nell’interno tra ex-Rhodesia e Tanzania, prosperando per anni con il commercio delle zanne d’avorio d’elefante. Nonché, nell’ultimo periodo, scoprendo anche le prime miniere d’oro. Nel frattempo, benché tutti lo credano morto, Dorian viene adottato dallo sceicco al-Malik, grazie ad una profezia riguardante un ragazzo dai capelli rossi (ovvio che Dorian è rossiccio, e si collega al fatto, che cercherò di acclarare, che Maometto stesso era rosso). Dorian ovvio che: è ben voluto da al-Malik, tanto che sembra essersi convertito, si mette in urto con il primogenito dello sceicco Zaid, si innamora a 14 anni di Yasmini, anche se poi la perde di vista. Passano gli anni (e non sappiamo quanti, questo è un altro dei punti oscuri di Smith) ed i fratelli lontani accumulano uno ricchezze e l’altro fama. Ma Tom viene ad un certo punto coinvolto nella lotta contro i negrieri, quando questi uccidono i figli piccoli di Aboli. Un commercio, quello degli schiavi, molto redditizio per gli arabi e quindi al-Malik chiede a Dorian di intervenire. Nelle more, Dorian ha ritrovato Yasmini, e l’ha liberata, tenendola sempre con sé, anche se travestita da ragazzo. Altrettanto banale che le armate di Dorian e di Tom si scontrino, con un verdetto di parità, che Tom si salva e Dorian viene ferito seriamente. Peccato che al-Malik nel frattempo sia morto, che le redini del trono dell’Elefante sono passate al perfido Zaid, che vuole la morte di Dorian. Scontro finale, Yasmini convince Tom che il fratello è vivo, Tom e Aboli lo liberano, ed il lungo capitolo finisce con la nave dei Courtney che veleggia verso Buona Speranza, con a bordo: Tom e la moglie Sarah (incinta), Dorian che finalmente può sposare Yasmini (incinta), Aboli ed i suoi due figli maschi adolescenti, un ricco carico di avorio ed oro. Il seguito alle prossime puntate. Come detto, un mega-polpettone, però leggibile, e moderatamente interessante. Seppur con i limiti delle piccole confusioni temporali, nonché di un qualche collegamento tra le varie zone d’influenza. Perché Tom sembra stare di base tra Mozambico, Tanzania e Kenya, Guy è in quel di Zanzibar, ma Dorian è affiliato alle orde di al-Malik detto califfo dell’Oman. Sulla cartina le zone sarebbero chiare, ma le distanze non coincidono con i tempi del romanzo. Aspettiamo le prossime vicende per capire meglio. Tuttavia, ripeto, questo romanzone, con poco sesso gratuito (c’è ma è funzionale alla trama), molte avventure ed una bella scrittura, risolleva il giudizio sul povero Wilbur.
“Che cosa proverai, quando, chissà dove, ti giungerà la notizia che tuo padre è morto?” (419)
“Ogni viaggio comincia con il primo passo.” (539)
Terza settimana di scritture di maggio, ed allora, visto che queste avventure non vi hanno coinvolto, vi lascio anche un allegato dedicato … all’adrenalina (che parla anche di cinema).
Per il resto, che vi devo dire, niente di nuovo sul fronte occidentale. Poco cinema, qualche cena, qualche ipotesi di viaggio, ma tanto, tantissimo lavoro alle case ed alle spese governative. Speriamo di finire le spese prima di finire i soldi… Ma siamo sempre contenti, noi che si parla del più e del meno, e se ne scrive e si abbracciano gli amici

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

MAGGIO 2018
Per questo aprile effervescente eccoci ad una serie di libri “scandalosi”.

GOCCE D'ADRENALINA

Libri citati

Stephen King                  “Shining”
Stephen King                  “Carrie”
Stephen King                  “It”
Stephen King                  “Misery”
Stephen King                  “Dottor Sleep”
Robert W. Chambers      “Il re giallo”
James M. Cain                “Il postino suona sempre due volte”
Se state vivendo un periodo di semi-letargo, se pensate di avete i riflessi di un bradipo con la pressione bassa, se una sensazione di torpore vi tiene compagnia dalla mattina alla sera, se il jet lag vi fa appisolare quando dovreste stare svegli e vi tiene svegli quando sarebbe ora di dormire, se volete darvi una svegliata, se credete che il vostro fisico e la vostra psiche avrebbero bisogno di una scarica di emozioni ma non avete la forza di schiodarvi dal comodissimo divano o dal letto, ricorrete smodatamente ad alcune gocce d’adrenalina, i cui eccipienti sono più o meno gli stessi brevettati con successo dall’esimio professore del brivido Edgar Allan Poe. Morirete di paura ma vi sentirete vivi.
Stephen King “Shining”
Se “Il crollo della casa Usher”, uno dei più famosi racconti di Poe, vi ha angosciato tanto da farvi ululare di goduria, entrare nell’inquietante Overlook Hotel di “Shining” sarà come fare un giro nella casa dei fantasmi al Luna Park: puro divertimento. In questo imponente e sinistro albergo, sperso tra le montagne del Colorado, si svolge il best seller di Stephen King, un cocktail di tensione e ansia che oscilla tra il thriller e l’horror. Le premesse della vicenda sono già inquietanti: Jack Torrance è uno scrittore fallito con problemi di alcol e comportamenti violenti. Per dare una svolta alla sua vita e rimettersi in carreggiata, ha la brillante idea di accettare un lavoro ameno: il guardiano invernale all’Overlook Hotel. Così si trasferisce con moglie e figlioletto di cinque anni nelle desolate montagne del Colorado, la cui desolazione aumenta quando arriva la neve e l'hotel chiude. Un grande albergo, vuoto e completamente isolato, presenta connotati sinistri per una persona normale, figuriamoci per uno come Jack che non sta tanto bene in partenza. A questo Martini esplosivo, aggiungiamo l’oliva: l’Overlook è stato teatro di macabri episodi, tra cui il suicidio di un precedente guardiano invernale che aveva fatto a pezzi moglie e figli. A questa notizia, una persona sana di mente sarebbe ridiscesa dai monti da un pezzo. Ma Jack tanto sano non è e decide di restare. Anche suo figlio Danny non è proprio normale, ma in un altro senso: il bambino ha il potere di vedere fatti già accaduti o che accadranno in futuro. Ma mentre il piccolo riesce a gestire e respingere le visioni di tutti i fatti sanguinosi e sovrannaturali avvenuti nell’albergo, Jack comincia a essere posseduto dalle forze maligne che infestano le stanze, scaricando la violenza sulla sua famiglia. Stephen King è un re nel miscelare con cura un crescendo esplosivo di tensione che può mettere a dura prova i cardiopatici, con la follia e il delirio provocato dalle oscure presenze che, mescolandosi all’indole violenta di Jack, causano l’inesorabile distruzione emotiva e psicologica dei protagonisti. “Shining” è una pillola che provoca ansia, tensione e scariche d’adrenalina, pertanto è consigliato per combattere apatia e sonnolenza. Può provocare palpitazioni e brividi di paura, aumentati da un paralizzante senso d’impotenza di fronte alla consapevolezza che niente è mai come sembra e il pericolo si annida in ogni riga. La lettura potrebbe indurre anche una certa reticenza a soggiornare in grandi alberghi di montagna poco frequentati. “Shining” è indicato anche se avete problemi con l’alcol o la gestione della rabbia: l’autodistruzione di Jack vi aprirà gli occhi, anzi ve li farà tenere sbarrati per giorni, prospettandovi la vostra potenziale fine. Gli unici cocktail che vorrete concedervi, a quel punto, saranno quelli a base di orrore e paura, suspense onirica e tensione agghiacciante preparati da Stephen King, uno dei più portentosi “mixologist” del genere thriller-horror. Per sbronze da paura sono tante le pillole del dottor King da mandare giù al bisogno, oltre a “Carrie”, “It” e “Misery”, la lista è lunga e quasi tutta corredata di film. Nel 2013 l’autore ha pubblicato “Dottor Sleep”, il seguito di “Shining”, in cui ritroviamo Danny ormai adulto alle prese con un'altra inquietante avventura. Danny è riuscito a rifarsi una vita, ora è il Doctor Sleep e, grazie ai suoi poteri, aiuta gli anziani di una casa di cura nel momento del sonno eterno. Ma presto la sua vita torna a essere fagocitata da una spaventosa guerra tra bene e male. Inquietante, ma anche commovente, non vi fate ingannare dal titolo: non c’è niente che vi farà dormire. Quasi tutti i romanzi di Stephen King sono passati automaticamente dalla pagina al grande schermo. Nel 1980 “Shining” è diventato, nelle mani esperte di Stanley Kubrick, un cult movie, uno dei migliori film horror di tutta la storia del cinema. Attraverso i movimenti di macchina e il montaggio, il regista è riuscito a ricreare la stessa tensione che l’autore ha disseminato nelle righe del romanzo. L’ambientazione e la folle interpretazione di Jack Nicholson fanno il resto in questo capolavoro assoluto del terrore le cui immagini si stampano nella mente dello spettatore per non andare più via. E chi se lo dimentica Jack con l’ascia in mano e il ghigno sulla bocca (non si sa cosa terrorizzi di più), mentre grida «sono il lupo cattivo». Se il vostro problema era la letargia, con “Shining” (libro e film) trascorrerete notti insonni con gli occhi sbarrati.
Robert W. Chambers “Il re giallo”
Se volete continuare a vagabondare nelle atmosfere inquietanti e spettrali che caratterizzano i racconti di Edgar Allan Poe, “Il re giallo” è perfetto. Non una ma dieci pillole, dieci racconti dell’orrore pregni di avvenimenti sovrannaturali, dettagli macabri e vicende spaventose. «Quest’opera raggiunge vertici straordinari di paura cosmica»: a dirlo è, agli inizi del Novecento, H.P. Lovecraft, uno che nella paura, nel terrore e nella tensione ci sguazzava (la sua opera completa è raccomandabile come coadiuvante nella cura da brividi). Sarebbe come se Dario Argento vi consigliasse un film horror. Quindi, se a reclamizzarla in questo modo è uno dei massimi rappresentanti della letteratura del terrore, possiamo fidarci della validità della medicina. Nonostante sia stato pubblicato nel 1895, “Il re giallo” è un farmaco privo di scadenza, i cui ingredienti principali non sono soggetti a deterioramento. Lo dimostra il fatto che una delle serie televisive americane di maggior successo degli ultimi anni è dichiaratamente ispirata alla raccolta di Robert W. Chambers. È “True Detective”, ideata da Nic Pizzolatto, che ha rivoluzionato il genere poliziesco trasformando la storia di due detective sulle tracce di un serial killer in una sorta di viaggio esistenziale condito con note horror e sovrannaturali. Una caccia all’uomo durata diciassette anni è il pretesto per scavare nelle menti dei due poliziotti (gli straordinari Matthew McConaughey e Woody Harrelson). Ambientata nelle desolanti paludi della Louisiana e girata con stile decisamente cinematografico, “True Detective” incentiva la produzione di brividi con l’inquietante presentimento che il male possa saltare fuori in ogni momento. Si può affiancare la lettura dei racconti con la somministrazione della prima stagione della serie, cercando le citazioni e i riferimenti al libro.
Tornando a “Il re giallo”, alcuni racconti sono legati dal filo rosso sangue di un misterioso libro che provoca la pazzia in chi lo legge (tema usato e abusato in seguito dal cinema). Mettiamola così: se vi piace l’horror, questo libro vi farà letterariamente impazzire.
James M. Cain “Il postino suona sempre due volte”
Con questo classico firmato dal padre putativo della scuola dell’hard-boiled la tensione è assicurata. Se il vostro organismo è troppo sensibile all’horror ma avete bisogno di riscuotervi da un’apatia fisica e mentale, “Il postino suona sempre due volte” è perfetto per una cura a base di letteratura noir, dove gli spasmi di tensione s’intrecciano a quelli di torbide passioni. A mettere in moto la storia è un pericoloso triangolo: Frank Chambers è un tipo poco raccomandabile, un delinquentello in cerca di avventure che vive di espedienti, Cora è la quintessenza della sensualità conturbante e travolgente, la seduzione fatta donna, mentre Nick Papadakis è l’immancabile marito da eliminare, squallido e ributtante. Sullo sfondo la provincia americana, la Grande Depressione e il vuoto lasciato dalla delusione del sogno americano, un mix di desolazione palpabile nel locale dove il misero marito della “femme fatale” offre un lavoro al disonesto Frank. Divampa subito un’attrazione irrefrenabile e devastante che spinge i diabolici amanti a pianificare l’eliminazione del marito tradito, trascinandoli in un vortice di amoralità e perdizione. A provocare scariche di adrenalina non ci sono oscure presenze, fantasmi o dettagli paranormali, ma una realistica passione che s’impadronisce come un’ossessione dei protagonisti, trasformandoli in marionette nelle mani di un destino beffardo che, presentando poi il conto delle loro malefatte, ne deciderà la tragica fine. Perché il destino, come il postino, suona sempre due volte. Con uno stile secco e crudo, una prosa rapida e incisiva, fin dalla prima riga James M. Cain mette in moto una catena di macchinazioni, tradimenti, incidenti, delitti e drammatiche casualità che tengono alta la tensione. Trattasi della catena di una bicicletta che costringe il lettore a pedalare dalla prima all’ultima pagina, in una corsa senza fiato verso l’epilogo. La prosa scattante e l’incalzare degli eventi rendono “Il postino suona sempre due volte” un'arma efficace per vincere noia e pigrizia senza alzarsi dal divano, stimolando la produzione di una salutare forma d’ansia. È utile anche per contrastare il pericolo di trasformare l’amore in una malattia ossessiva, con il conseguente rischio di perdere di vista il confine tra bene e male. Per via della rapidità con cui si legge e della sua durata che supera di poco le cento pagine, “Il postino suona sempre due volte” è da considerarsi una cura breve ma molto intensa.
Il mix di tensione e passione, ossessione e perversione non poteva lasciare indifferente il cinema e così il postino di James M. Cain ha bussato più di una volta al grande schermo. Tra le trasposizioni più famose, oltre a quella del 1946 diretta da Tay Garnett e interpretata da Lana Turner e John Garfield, c’è quella del 1981 di Bob Rafelson. Decisamente meno noir della precedente versione in bianco e nero, la cura risulta molto efficace grazie alla presenza di Jack Nicholson e Jessica Lange. Ma se volete mandar giù una vera pillola di tensione drammatica ed erotica d’autore, consiglio “Ossessione”. Nel film del 1943 liberamente ispirato a “Il postino suona sempre due volte”, Luchino Visconti ha spostato magistralmente la vicenda dall’America della Depressione all’Italia fascista, caricandola di implicazioni a livello tematico e visivo. Con la sua opera prima, il regista ha iniziato quella personale rivoluzione cinematografica che avrebbe contribuito alla nascita del Neorealismo. Superando i casti amori e i melodrammi melensi del cinema di regime, Visconti ha portato scompiglio e scandalo con il racconto realistico (straordinariamente interpretato da Carla Calamai e Massimo Girotti) di una passione carnale che si trasforma in ossessione. Il noir americano da noi è diventato Neorealismo, dove il nero, l’oscurità e il male incombono in maniera ancora più realistica. Da brivido.

Commenti

Credo di aver letto Chambers in gioventù, ma non ne ricordo quasi nulla, così che lo salto. Non salto King, ovvio, di cui parlerò per due libri. Né tanto meno Cain, che ho trovato stupendo.
Stephen King “Misery” Repubblica Giallo euro 5,90
[pubblicato il 6 novembre 2011]
Non avevo mai letto King. È un peccato? Una dimenticanza? Il fato? Fatto sta che ora che l’ho fatto, non è che abbia molta voglia di leggere altro. Ben fatto, ben scritto, riesce a reggere una (quasi) suspense per 400 pagine con due soli personaggi. Cerca anche di fare “il saputello” parlando di letteratura e di scrittura mentre procede il romanzo che abbiamo davanti. Indubbiamente, essendo stato (anche) professore di lettere ha materia per trattare, ma quelle parti sono un po’ appese (l’unica che rimane, come tecnica di scrittura è la tirata sui file di concordanze dei personaggi dei serial seller). Come appese, le citazioni qua e là di musica d’epoca, da Roger Miller a Paul Simon, fino a “Disco Inferno” di Leroy Green. Inoltre, in quest’opera summa dimostra di saper ben lavorare con gli ingredienti del suo mestiere, lì dove, di fronte all’abbacinata Annie le illustra come quello dello scrittore non sia un “dono di Dio”, ma un mestiere. Certo, c’è chi lo fa bene, chi svogliato, chi magistralmente. Ma è un mestiere, bisogna applicarsi, studiare, provare e limare. E con questo mestiere riesce a tenerci sulle 400 pagine con due soli personaggi, sperduti in una casa lontana, ma non irraggiungibile, dalla vicina cittadina. Due personaggi, che si evolvono, vivono, lottano, fanno, dicono, ogni tanto sembra che si sia raggiunto un momento di stasi, ma (ed è qui che esce fuori la genialità di King) trac, ecco là che se ne inventa un’altra, e la storia va avanti, si intrica, si complica. Pochi sarebbero riuscita a tirarla così per le lunghe senza uscire dal seminato. King ci riesce, e devo dire, ci riesce bene. La storia si regge bene sul filo dell’improbabile, ma che poi impariamo ad accettare come possibile. Lo scrittore di best-seller Paul Sheldon ha un incidente, ma viene salvato da Annie Wilkes, una fan della sua serie di successo basata sulle gesta dell’ottocentesca Misery. Peccato che nell’ultimo libro, stufo di Misery, Paul la faccia morire di parto. Peccato che Annie sia psicopatica e sequestra Paul per fargli scrivere un seguito alla storia. Da questo inizio improbabile, nascono le 400 pagine di segregazione di Paul, di sevizie della psicopatica, di agnizioni da parte di Paul che Annie, ex-infermiera, ha sulla coscienza decine di morti ospedaliere. Ma nasce anche la scrittura del nuovo romanzo, dove Paul trova (senza imbrogliare, come chiede Annie) il modo di far risuscitare Misery, e di farle vivere una nuova, complessa avventura. Che seguiamo anche noi, negli intarsi con scrittura a “macchina da scrivere” (bella anche la trovata della perdita della “n” per cui la pazza si trova a inserire le lettere mentre legge le bozze). È quindi un crescendo. Paul ha le gambe fratturate dall’incidente. Annie è un’ex-infermiera ed ha la casa piena di medicine. Ma Paul sa anche che, se e quando finirà il libro, Annie lo ucciderà. Si innesca così una lotta all’ultimo sangue, che sappiamo bene che qualcuno finirà male. E non vi dico chi. Ma pur avvincente, pur obbligandoti a non lasciare la pagina per sapere cosa succederà, alla fin fine non suscita sussulti emotivi particolari. Sono curioso, non emozionato. Quindi certo, un libro di buon livello, ma non da stella del firmamento. Un libro che segna una svolta nel quarantenne del Maine, fino ad allora scrittore pulp, e da ora in poi scrittore a tutto tondo. Ma, alla fine, rendono di più i suoi libri come idee. Ne vediamo meglio la trasposizione sullo schermo, dove, nel momento in cui incontrano registi di buona se non eccelsa fatta, ne escono capolavori. Vogliamo parlare di “Carrie”? O de “Il miglio verde”? Per arrivare su, su alle vette di “Shining”? E per tornare a Misery, come dimenticare il cupo film degli anni novanta, che ha visto Kathy Bates prendere un meritato Oscar per l’interpretazione della psicopatica Annie? Inciso cinematografico, perché in Italia il film, che si chiama, come il libro, semplicemente “Misery”, viene distribuito con il titolo “Misery non deve morire”? Chiusa letteraria, uno di quei libri “da leggere”, non “da non mancare”.
“Quando aveva dichiarato che moriva dalla voglia di sapere cosa sarebbe successo dopo, non stava scherzando. Perché si continua a vivere per scoprire che cosa succede dopo” (272)
Stephen King “Shining” Bompiani euro 13 (in realtà, scontato a 9,75 euro)
[pubblicato il 3 maggio 2015]
Non avrei certo letto un altro libro di Stephen King, autore che confesso non mi piace affatto, se non spinto dalla libropeutica di Berthoud & Elderkin. E mentre rimando a quel filone di discussione l’approfondimento su cosa possa curare omeopaticamente questo libro, per quanto riguardo il romanzo in sé, devo dire che mi sento di ripetere la risposta che Kubrick dette a King quando questi vide il film, e ne rimase contrariato, affermando che non era molto coerente con il suo romanzo. Per tutta risposta, Kubrick affermò che il libro «non era poi un gran capolavoro». Ed è proprio così. Non è un capolavoro. È un buon romanzo thriller, con un crescente di tensione, ma con una assoluta mancanza di spiegazioni, non dico razionali, ma convincenti su tutto quanto avviene nelle quasi 600 pagine del libro. Credo che la storia sia super-conosciuta, quindi ne parlo ma solo perché nel libro ci sono cose diverse dal film che tutti credo abbiano visto. La storia è la caduta verso la pazzia di Jack Torrence, trentenne scrittore fallito e alcolista non pentito. La storia è il rapporto tra Jack e sua moglie Wendy, dall’amore giovanile alle attuali paure. La storia è la vita di Danny, il figlio di Jack e Wendy, quello che ha dei poteri paranormali, che sente i pensieri, che, come dice il salvatore della patria Dick (poi vedremo perché e come), ha “l’aura” o meglio, in inglese “the shining”. Che il titolo (del libro e del film) è con l’articolo. E si riferisce al potere di Danny. Il libro poi è più complesso, che non parla solo dell’Overlook Hotel e delle vicende che vi avvengono quando Jack accetta il posto di guardiano invernale dell’albergo. Perché seguiamo i motivi che portano Jack ad accettare quel posto: il suo inizio come scrittore che vende alcuni racconti, ingaggiato come professore in una università privata, la difficoltà di scrivere una commedia, l’incontro con Al che lo porta ad amare la bottiglia ed il suo contenuto (soprattutto Martini Cocktail), l’incapacità di reagire alle sfortune, la violenza con il figlio di Danny (cui rompe un braccio in un accesso alcolico), il passaggio (misterioso, e non completamente spiegato) verso l’astinenza completa da alcolici, la rabbia che sale senza sfogo, il pestaggio che rivolge ad un suo studente con cui entra in conflitto, il licenziamento dall’università, e la necessità di trovare un lavoro. In parallelo, vediamo la crescita di Danny, che sente i pensieri, che ha un amico nascosto che gli dice cosa fare e cosa non fare, che si angoscia per il possibile divorzio dei genitori (contro di cui usa tutte le sue armi “paranormali”), la paura che gli prende quando si trova nell’albergo in montagna. Qui King usa tutte le sue armi, dopo aver fatto i suoi flashback per spiegarci (nelle prime 300 pagine) chi siano i nostri tre (anche se Wendy mi rimane sempre molto moscia). Si passa dall’inizio post-estivo dell’albergo che si svuota dei clienti prima dell’inverno, e le storie che il guardiano estivo Watson narra a Jack: le strane morti, i sucidi nella stanza 217, l’uccisione di un mafioso nell’appartamento presidenziale, sino alla strage effettuata dal precedente guardiano invernale verso la moglie e le due figlie gemelle. Vediamo il parco giochi. Vediamo le siepi a forma di animali (ed avranno un ruolo nell’angoscia di Jack, che sotto effetto dell’efedrina immagina questi animali muoversi per volerlo assalirlo), quelli che, erratamente, Kubrick trasforma nel famoso labirinto della morte. Vediamo il cuoco Dick, che ha un piccolo potere di “shine”, ma che lo riconosce in Danny e gli spiega come non averne paura. Poi si avvicina l’inverno. Poi comincia a nevicare, l’albergo viene ad isolarsi dal mondo, rimanendo l’unico compito di Jack quello di controllare che la caldaia non si surriscaldi troppo, per evitare catastrofi. Da qui in poi, è un crescendo di non-spiegazioni. Jack, probabilmente, in astinenza da eccitanti, e non riuscendo a scrivere la sua commedia, quella che gli darà la fama e gli onori, comincia a cadere in paranoia, pensa che ci siano forze che gli vogliono tarpare le ali (scusa che estremizza l’incapacità di accettare la propria mediocrità). Ed ecco, le foto si animano, ci sono balli notturni di fantasmi, ci sono incontri con il guardiano assassino. Ed anche Danny è preso da questo vortice di anormalità, si aggira per posti incongrui, ed apre la famosa stanza 217 dove trova il cadavere di una donna (quella suicida) e dopo una fuga Wendy lo trova con dei segni sul collo. Danny dice che è stata la morta, Wendy pensa sia stato Jack ormai incontrollabile. Con un messaggio super-potente del suo shine, Danny chiama Dick che intanto sta al caldo in Florida (e ricordo che l’Overlook sta in Colorado…). Dick si precipita, ma intanto Jack è ormai al di là di ogni ritorno. Ed usando un mazzuolo da “roque” (gioco derivato dal croquet inglese, dove si usa una mazza con una superficie di gomma dura ed una di ferro) cerca di sterminare tutti quanti. Ferisce seriamente Wendy, stordisce quasi a morte l’arrivato Dick, ed insegue Danny in soffitta. Qui, con uno sforzo enorme, Danny fa tornare per un attimo Jack in sé, mentre lo sta quasi uccidendo. E Danny gli dice che la caldaia sta per scoppiare. Jack deve decidere se uccidere Danny e pensare alla caldaia o fare l’inverso. Ma Jack, nel fondo, ama il figlio, corre in cantina e, capendo che se si salva, poi, ucciderà Danny, invece di abbassare la caldaia, la alza al massimo e salta in aria con l’albergo. E tutto finisce con Wendy in ospedale, che riprenderà una vita quasi normale con il piccolo, ma quanto traumatizzato, Danny. Mi sono dilungato molto sul libro, più di quanto pensassi. Anche perché mi dà modo di fare qualche tocco di confronto con il film (così faccio vedere quanto conosco il regista, come sa il mio amico Luciano). Intanto, nel film la stanza maledetta diventa la 237 (così l’albergo-modello non avrebbe avuto problemi per i suoi clienti). Poi, si salta molto su quanto succede prima dell’inverno, per cui nel film poco si capisce della pazzia di Jack. Ma si insiste molto sui poteri “assassini” dell’albergo, similmente al libro, ed in entrambi i casi non si capisce perché. Poi ci sono le siepi a forma di animali, che impauriscono prima Danny, poi Jack e che nel libro tentano di fermare la corsa verso il salvataggio di Dick. Nel film invece, molto simbolicamente, Kubrick mette un labirinto di una tipologia che però (questo l’errore) non poteva vivere ai 2000 metri di altitudine dell’albergo. Poi c’è la mazza da roque, che Kubrick sostituisce con la famosa accetta, quella che colpisce più e più volte la porta del bagno dove è nascosta Wendy. Accetta che nel film uccide Dick, e nel libro, mazza che invece lo stordisce soltanto. Infine, Jack non muore congelato nel labirinto, ingannato da Danny che, camminando sopra i passi, fa perdere l’orientamento al padre, ma salta in aria (volontariamente) come a volersi redimere in un ultimo barlume di coscienza. Quindi, mentre in Kubrick le “pazzie” sono accettate come simboliche rappresentazioni, nel libro molte cose vengono non dette e non spiegate, ed a me hanno lasciato un gusto poco partecipe. Non dico voglio capire tutto (in fondo sono molto limitato) ma gradirei che l’autore desse la sua spiegazione. Cui io posso aderire o meno. Mentre questo passaggio sotto silenzio mi lascia freddo verso l’autore. E precipita il libro verso i voti bassi. Colpa anche di una confezione poco accurata, di cui do solo due esempi. A pagina 149 troviamo la frase “una versione riveduta e corretta dell’interi maledetta commedia”. E, poco dopo, a pagina 171: “Nella luce della lampada … il taccino del piccolo appariva teso”. Le sottolineature sono mie: non è difficile fare una concordanza singolare femminile, o e neanche tanto immaginare che Danny abbia un “faccino” e non un “taccino”. Odio l’incuria! Ed alla fine, beh, se vi piace King, leggetelo, io ho fatto un po’ di fatica per le lunghe pagine un po’ prolisse e poco convincenti per i miei gusti.
James M. Cain “Il postino suona sempre due volte” Adelphi euro 9
[pubblicato il 7 febbraio 2016]
Confesso, preliminarmente ed a scanso di equivoci, che non ho visto né il film con Lana Turner e John Garfield del 1946 né quello del 1981 con Jessica Lang e Jack Nicholson. Anche se, come tutti, se n’è sempre sentito parlare. Come si sente parlare che questo libro avrebbe trasversalmente ispirato anche “Ossessione” di Luchino Visconti (con Clara Calamai e Massimo Girotti). Ma io parlo di libri, e di Cain ho letto con piacere quel bellissimo “Mildred Pierce”. Perciò, in questa estate caliente, ho deciso di portarmelo appresso, principalmente per la sua brevità, e quindi per la maneggevolezza dell’oggetto-libro. E nella tiepida estate baltica mi sono immerso nella torrida vicenda di Frank e Cora. Frank, sbandato giramondo, vivacchiando di qua e di là, si ritrova ad accettare un lavoro da aiutante presso Nick Pappadakis, un immigrato greco che gestisce la “taverna delle Due Querce”, insieme alla moglie Cora. Ovviamente, ed in poco tempo. Frank e Cora diventano amanti, pensano di costruirsi una vita insieme. E quale soluzione per avere un futuro libero davanti? Uccidere Nick senza esserne accusati. Il tentativo però è goffo, come tutto in Cora e in Frank. Lui aspetta in macchina che Cora dia una botta in testa a Nick che fa il bagno, così che questo possa essere preso per annegamento dopo malore. Ma mentre si sta svolgendo il misfatto, un poliziotto passa vicino alla Taverna guardando Frank con aria interrogativa, e subito dopo un gatto salta sui fili della luce scoperti, facendo saltare la corrente a tutta la zona. Cora è presa da rimorsi, porta Nick all’ospedale, e Frank se ne va per la sua strada, tornando a fare il vagabondo. Tuttavia a Frank manca la bella Cora. Torna, e la passione divampa nuovamente. Ed allora, ecco che proviamo un nuovo incidente. Questa volta di macchina, facendo ubriacare Nick, e simulando un’uscita di strada. Dove per poco anche Frank non ci lascia le penne. Qualcuno ha visto qualcosa, ma un astuto avvocato (ed è questa la parte migliore del libro), riesce ad imbastire una sottile linea di difesa, che porta la corte ad assolvere i due amanti dall’accusa di omicidio. Tuttavia, durante il processo, il loro rapporto è messo gravemente in crisi, ci sono momenti in cui dubitano reciprocamente delle rispettive correttezze e del rispettivo amore. Tornati alla taverna, Cora deve andare dalla madre ammalata, e Frank (si sa che l’uomo è cacciatore, ma Frank più che altro sembra succube della propria virilità) ha una storia con una signorina locale. Al ritorno, pur nel continuo comportamento cane-gatto, Frank & Cora sembrano ritrovare una prima dose di serenità. Minata però dai tentativi di ricatto di un losco figuro. Anche questo riescono a superare. Finalmente si sposano e Cora rimane incinta. Ci avviamo così a grandi passi verso l’epico finale. Cora ha le doglie, Frank prende la macchina per portarla in ospedale e… Ovviamente ha un incidente, ovviamente Cora muore, ovviamente Frank rimane ferito. E si riaprono i giochi che sembravano chiusi. Qui, inoltre, c’è la grande divaricazione tra libro e film, per cui non vi dirò come nel libro si evolverà la parte finale, che è tutta da seguire. Un mega-polpettone in meno di 150 pagine. Pensavo potesse essere più lungo, come sosteneva il grande Raymond Chandler, che, da Hollywood, aveva bollato il nostro Cain come un Proust dei poveri. Ma, tornando al libro, quello che rimane sempre un mistero, nonostante le spiegazioni che lo stesso Cain ha dato più volte (ed ogni volta diverse), è il titolo. Dato che nessun postino compare mai in tutto il libro. Personalmente, la versione cui do maggior credito è quella che fa riferimento alla vicenda di Ruth Snyder, che nel 1927, aiutata controvoglia dall’amante Judd, uccide il marito simulando un incidente. Ma la coppia viene smascherata, accusata, condannata e giustiziata. Tuttavia non è questa parte cui mi riferisco, anche se ci sono similitudini con il primo tentativo di uccidere Nick. Il collegamento è con il postino: Ruth aveva convinto il marito a stipulare un’assicurazione sulla vita, cambiandone poi le modalità, e convincendo altresì il postino che, nel caso arrivasse posta per lei, doveva suonare due volte. Forse, se avesse conosciuto il latino, poteva anche chiamarlo “Reptita non iuvant”, visto che a forza di ripetere azioni e situazioni, invece di migliorare, le cose peggiorano. Ripeto però che al fine, trovo leggibile e godibile lo scritto di Cain. Trovo la sua modalità interessante, per quella fine che dà un senso a tutta la storia. E per quest’amore tra Frank e Cora, un’attrazione sessuale che non si può frenare. Tipica dell’immagine che abbiamo dell’America degli Anni Trenta.

Finalino

Concordo con l’adrenalina che passa nelle vene, ma solo nei film. Forse il solo Cain regge bene la pagina. King, come ho ripetuto più volte, mi ha sempre abbastanza deluso. Mentre inviterei sempre tutti a vedere, rivedere e poi rivedere Kubrick e Visconti.

domenica 13 maggio 2018

Gli ultimi "svedesi" - 13 maggio 2018


Così, con queste quattro trame, termina la lunga lettura dei “Gialli Svezia”, una colonna interessante se riferita anche al mondo scandinavo. Visto ad esempio, che qui abbiamo un solo svedese, e poi due danesi, ed un francese innamorato della Lapponia. Una collana dall’esito altalenante, ma che mi è servita per accumulare info e notizie sui gialli del Nord.
Kjell Eriksson “La principessa del Burundi” Corriere della Sera GialloSvezia 6 euro 7,90
[A: 07/09/2015– I: 07/05/2017 – T: 10/05/2017] - &&--
[tit. or.: Prinsessan av Burundi; ling. or.: svedese; pagine: 334; anno 2002]
Che peccato! Un libro mal confezionato e mal presentato, che, in altro contesto e con altri contorni poteva (e potrebbe) meritare miglior considerazione e valutazione. Intanto per l’autore, mio coevo (ora non più coetanei, che essendo tutti “anziani” meglio parlare di ere…). Da sempre impegnato nella sinistra, anche estrema, con passato nei movimenti maoisti scandinavi. Poi sindacalista ed ora anche scrittore. Dove si sente sempre una attenzione non sopita ai bisogni popolari, agli emarginati, dato che con occhio attento non lesina critiche alla socialdemocrazia svedese ed al suo fino benessere. Ci sono emarginati, gente che vive ai margini, ma senza cattiverie (il morto ad esempio). Tuttavia questa critica non si eleva a momenti più intensi. Non riesce, cioè, ad arrivare alle punte di Sjöwall & Wahlöö tanto per dirne una. Quindi, anche se scrive, la sua scrittura non sembra essere meditata, forse di pancia. Ma non arriva a coinvolgere. Comunque, ad un certo punto decide di impegnarsi in una serie di libri con al centro una poliziotta, Ann Linden. Qui, i mercati editoriali fanno poi guasti infiniti, presentandolo come il primo che usa le donne poliziotto come centro di romanzi, scordandosi, ad esempio, Anne Holt che ben prima lo aveva fatto (ed Anne è norvegese, quindi ben nota ai popoli del Nord). Venendo poi a questo libro, è ben il quarto della serie, e né accenni editoriali, né parti della trama, ci fanno capire qualcosa dello sviluppo della serie stessa. Qui Ann è relegata ad un ruolo quasi marginale (sappiamo che ha partorito, che è in maternità quindi non al centro delle indagini, ma non sappiamo altro, che non ce ne vengono spiegati motivi, forse interessanti per illuminare meglio lo scritto), vediamo che a volte partecipa a qualcosa, ha anche delle intuizioni che altri non hanno. Ma non esce fuori come se fosse il centro dei libri di Eriksson. Facendo pendere molte parti del libro nel limbo delle incomprensioni. Allora, la trama principale è abbastanza lineare: un giovane, bravo saldatore, licenziato da un padrone tiranno ed egoista, vive di piccoli espedienti per non tornare a qualche attività poco lecita (cui è invece dedito il fratello maggiore). Lo aveva salvato dal “peccato” l’amore per Berit, la moglie, per il figlio, Justus, e la sua passione per i pesci tropicali. Facciamo subito qualche altro inciso: il morto veniva chiamato Little John, con un nomignolo che l’autore ci fa collegare immediatamente a Robin Hood (si parla infatti anche di Frate Tuck, ed a noi basta fare due più due). Ma la metafora non è portata avanti sino alla fine, che non si capisce che possa essere allora Robin. Forse lo stesso John? Altro punto, i pesci. L’autore spiega solo dopo trecento pagine che a) John chiama “principessa del Burundi” la moglie Berit, soprattutto quando era allegro e b) “principessa del Burundi” è il nome di un pesce tropicale, punta di diamante dell’acquario di John. Sinceramente, se non avessi fatto un giro in rete, sarei ancora qui a chiedermi che c…o c’entra il Burundi. Ed anche adesso, non è che sia chiaro. Perché John sembra aver avuto una grossa vincita prima di essere massacrato. Perché Lennart (il fratello “cattivo”) comincia una sua ricerca sentendosi in colpa. Perché la polizia avanza lentamente e senza troppa convinzione, a meno che, Ann ogni tanto non abbia dei lampi di genio. E poi si trova che il vecchio datore di John non solo è avaro, ma anche di molto ricco con traffici leciti e non leciti. Che aveva subito un furto poco dopo aver licenziato John. Ci sarà un collegamento? Ma i soldi che Justus trova in casa da dove provengono? Quanti sono poi i morti? E la squadra poliziesca si coordina o ognuno va per proprio conto? E perché Justus uccide la principessa del Burundi, ma non uccide la madre? Ci sono punti interrogativi che spuntano fuori come giganti giovanetti, bisbigliando verso il lettore (che citazione colta se qualcuno la coglie…). Comunque, anche se l’autore è parco di spiegazioni, capiamo abbastanza i meccanismi delle diverse morti. Capiamo anche che questi piccoli dropout, pur vivendo ai margini, mantengono grandi gradi di integrità e di rispetto. Questa sarà il retaggio del maoismo di Kjell, ma va bene così. Come va bene il fatto che la storia si svolga ad Uppsala, cittadina che ricordo con piacere. Pulita, accogliente, passeggiante, piena di giovani universitari, e di piccoli locali che ti coccolano, anche d’agosto, anche di pomeriggio. È un bene che non tutte le storie si svolgano a Stoccolma, che non è la sola città svedese, anzi… Anzi, pensando, mi viene in mente per associazioni voltanti il commissario Wallander, e comincio di nuovo a dispiacermi della morte di Mankell. Ma questa, realmente, è tutta un’altra storia.
“Pareva incredibile che fossero fratelli. Così diversi, sia nel comportamento sia nell’aspetto.” (11)
“La morte è l’unica certezza della vita.” (257)
Jussi Adler-Olsen “Battuta di caccia” Corriere della Sera GialloSvezia 18 euro 7,90 (in realtà, scontato a 3,95 euro)
[A: 01/12/2015 – I: 20/03/2018 – T: 22/03/2018] - &&&--
[tit. or.: Fasandræberne; ling. or.: danese; pagine: 494; anno 2008]
Ecco che quasi dopo un anno ci troviamo a parlare del secondo libro scritto dal danese Adler-Olsen ed imperniato sui casi della “Sezione Q” della polizia di Copenaghen. Come già scritto nella prima uscita, dispiace solo che questi gialli siano inseriti in una collana dal titolo “Giallo Svezia”, usata solo come specchietto per le allodole, visto appunto che, magari con più pertinenza, si sarebbe dovuta chiamare “Noir Scandinavo” (dato che la Scandinavia, in senso esteso, nella cultura popolare, dalla metà del XIX secolo, comprende Svezia, Finlandia, Norvegia, Islanda e Danimarca, e non solo i primi tre geograficamente assimilabili). Per andare con la seconda ed altrettanto ripetuta critica, ci si chiede perché Marsilio prima e il Corriere ora mantengano questo titolo sulla generica battuta di caccia, quando l’originale parla di “Caccia al fagiano”. Ma questo, ormai, sono critiche che ripeto puntualmente ogni volta (ma che non mi stanco mai di ripetere), mentre ora dovremmo guardare al romanzo in sé. Ed al suo essere il secondo capitolo delle avventure dell’ispettore Carl Mørck e della sezione sui “casi irrisolti”, cui venne messo a capo in quanto un po’ scomodo. Ritroviamo il suo strano aiutante, l’arabo Assad, e cominceremo a conoscere il nuovo elemento del gruppo, la segretaria tuttofare Rose Knudsen. Rimangono un po’ sullo sfondo, il sodale di Carl, Harry, tetraplegico in seguito alla sparatoria poco chiarita che diede il via all’emarginazione di Carl, la psicologa Mona Ibsen, verso cui Carl comincia a sentire qualcosa di più di un “affare ormonale”, nonché il figlio Jasper, sedicenne sconclusionato, l’inquilino-ospite-gay Morten e l’ex-moglie Vigga. Come caratteristica della serie, oltre alla riapertura di casi irrisolti, c’è la possibile deriva degli stessi casi nel presente, nonché la critica ad alcuni modi di vivere e di affrontare successo e denaro, molto presente nel “Nordic Noir”, e con temi sempre più accentuati nella scrittura di Adler-Olsen. Questo episodio, infatti, diventa un po’ emblematico della sua scrittura. Venti anni prima due ragazzi erano stati trucidati in una villa fuori città, con i principali indiziati dei “figli di papà” ricchi, viziati e tutti nello stesso complesso scolastico. Ma non si trovano le prove. Solo anni dopo, uno di loro si autoaccusa, dice di aver fatto tutto da solo, ed ora si trova in carcere. Degli altri, il più carismatico anni prima è morto all’alba di una battuta di caccia, con meccanismi non chiariti. La donna del gruppo, Kirsten-Marie detta Kimmie, è scomparsa, ma noi la ritroviamo che fa la barbona (o finge di farlo). Gli altri tre fanno ancora la bella vita. Capitano d’industria, rampanti della finanza, maghi della moda, sempre al vertice della carta stampata. Ma il controtesto di Jussi è abbastanza esplicito fin dall’inizio: sono loro i cattivi, i perversi, quelli che riempiono di botte indifesi personaggi. Poi, se questi tacciono, li riempiono di soldi. Altrimenti, li fanno fuori. Kimmie faceva parte, anzi era l’elemento “erotico” del gruppo, adescava giovani e meno giovani, che poi il branco puniva. Stava con Kristian il capo, ma ad un certo punto si allontana, studia in Svizzera, torna a fare lavori di basso profilo. E sembra trovare affetto, se non amore, nel più debole Bjarne, quello che poi finirà in carcere. Ma Kristian, da buon psicopatico, non ci sta, organizza uno stupro di gruppo su Kimmie, cui Bjarne non si oppone. Lì nasce la lotta solitaria di Kimmie. Che rimane incinta, che Kristian fa abortire, che fugge, si nasconde, ma ha una cassetta con le prove per incastrarli. Quindi quando Carl comincia le indagini seguiamo il doppio filone, anche con un buon ritmo: Carl indaga, scopre indizi, accumula prove, anche se i “cattivi” ben posizionati anche a livello politico cercano di esautorarlo. Dall’altra parte Kimmie sfugge all’accerchiamento dei suoi ex-sodali, che capiscono di essere in pericolo. Il tutto collasserà nel finale, un po’ convulso. I tre organizzano una battuta di caccia al fagiano e a belve strane (una volta struzzi, ora una volpe colpita da rabbia), con molto sadismo. Carl e Assad capiscono i meccanismi, trovano le prove di Kimmie, cercano di intervenire, ma sono messi fuori gioco. Sarà proprio Kimmie che invece avrà la sua vendetta, ed anche altro, che qui non dico. Alla fine scopriremo il ruolo di tutti i personaggi, la (parziale) riabilitazione di Carl, il possibile inizio della storia con Mona. Ed anche altro. Ribadendo quanto detto prima: Jussi ci fa vedere i cattivi che sono al top delle loro attività, e che usano il loro potere per continuare a fare le loro attività sadico-erotiche. Non siamo certo noi in Italia che scopriamo come il potere possa essere usato in modo distorto senza essere punito. Ma è interessante vederne la denuncia anche in Danimarca. Nonostante qualche momento meno attraente, una lettura di livello, che mantiene il buon spessore del nero del Nord.
Olivier Truc “Lo stretto del lupo” Corriere della Sera Svezia 22 euro 7,90
[A: 04/01/2016 – I: 03/04/2018 – T: 09/04/2018] - &&&--
[tit. or.: Le détroit du Loup; ling. or.: francese; pagine: 429; anno 2014]
Non meravigliatevi ancora una volta che un libro della collana “Giallo Svezia” non sia scritto in svedese. Avevamo già incontrato Truc, un giornalista francese vissuto a lungo in Scandinavia, ed ora residente a Stoccolma. Soprattutto un grande conoscitore ed estimatore della cultura “sami”, cioè del popolo lappone, la cui regione di appartenenza si estende al Nord della Scandinavia, coinvolgendo tutti e tre i paesi. Continuiamo allora a seguire le vicende della “polizia delle renne”, in un volumone di storie intricate, che si dipanano con difficoltà. E con altrettanta difficoltà noi poveri lettori cerchiamo di seguire. Perché se da un lato il libro e l’autore sono apprezzabile per lo sforzo che mettono nel cercare di farci entrare nella cultura “sami”, dall’altro quello che accade non sempre è chiaro. E non sempre viene spiegato in modo comprensibile. Intanto, estrapolando dal flusso temporale, il perno (morale) della vicenda è il modo di affrontare la civiltà che avanza. Ci sono i “sami” tradizionalisti, legati alla cultura della terra e degli animali. Anche se poi al loro interno ci sono anche dei tradizionalisti innovativi che, alla stregua di neofiti della purezza, cercano comunque di aggiornare i loro modi di vivere. In questo calderone spiccano gli allevatori di renne. Inciso: qui Truc ci spiega, anche se non sempre linearmente, la cultura della renna, uno dei cardini fondanti della cultura “sami”. Le renne che danno vita, per la carne, per le pelli, che sono animali paurosi ed abitudinari. Che tornano ogni anno sui propri passi, proprio nella stagione della riproduzione, per far nascere i piccoli in zone che conoscono, anche dal punto di vista della presenza del cibo. Ma se l’inverno, come capita, si è fatto più duro, le renne possono decidere di anticipare i tempi, con il rischio di trovarsi nel luogo sbagliato in un momento di clima non adatto. Così come succede alle mandrie che stanno rientrando nel pascolo estivo, e che devono attraversare un braccio di mare. Dove nelle concitate vicende del guado qualcuno le spaventa, si mettono paura, sbandano, affogano e trascinano con loro il povero Erik, un “sami” nuovo, sposato da poco con la bella Anneli, insieme tra le punte del nuovo tradizionalismo sami. Dall’altro, ci sono coloro che si allontanano dalla terra e dagli animali, come Nils, che decide di diventare sommozzatore, perché lì, prima nel Mare del Nord poi nel mare di Barents, i Norge hanno trovato il petrolio. Serve gente per esplorare i fondali, prima che si riesca ad impiantare le piattaforme estrattive che tanta ricchezza hanno portato alla Norvegia negli anni 2000. E le società petrolifere coprono d’oro i sommozzatori, così che Nils può fare una bella vita. Tra questi due corni della vita locale, si inserisce il perfido Tikkanen, agente immobiliare e maneggione che cerca di vendere pezzi di terreni e fattorie connesse, truffando la gente. Ma anche manipolandola, avendo con sé uno schedario con i dati che gli consentono di ricattare chiunque nella zona. Poi ci sono i dirigenti stessi delle compagnie petrolifere, sia locali che estere. In mezzo a tutto ciò si muovono i nostri due eroi della polizia, il “sami” Klemet Nango e la “cittadina” Nina Nansen. Che si trovano coinvolti in tutte le problematiche relative alla transumanza delle renne, che lì ad Hammerfest, teatro dell’azione, si legano ben presto ad omicidi vari. Prima quello di Erik, come abbiamo visto sopra. Poi del sindaco della città, uno dei più ostili alla presenza delle renne in loco. Quindi muoiono in una camera iperbarica usata come “stimolatore di energie sessuali”, due dirigenti del petrolio. Infine, trovano nelle acque dello stretto, lì dove morì Erik, un pulmino con tre persone a bordo. Morte, ovvio. Vi risparmio tutti i giri di storie, che l’autore, per darci il senso di queste vicende, ci fa seguire, e che francamente non è facile seguire. Il tutto alla fine si collega alle prime esplorazioni sottomarine, dove venivano usati sommozzatori quasi come cavie, che i mezzi negli anni settanta non sono certo quelli attuali. E le immersioni, reiterate e poco sicure, porteranno tutti loro ad avere problemi fisici. Come anche il padre di Nina, nell’inciso personale che ha la poliziotta, dove consociamo anche l’orrenda madre, e che serve ai nostri per dare la spinta finale alle ricerche. Perché si scopre che i tre morti nel pulmino sono tutti legati a quel periodo, e che qualcuno di loro stava cercando una vendetta eclatante, sentendo arrivare la fine della propria vita. Qualcun altro lo aiutava ma si accorgeva anche della pericolosità sociale di tutto ciò. Nils rischia di morire anche lui sott’acqua e tocca con mano l’insensibilità anche odierna delle grandi ditte. Con l’aiuto di un allevatore che, traviato da Tikkanen, aveva incidentalmente provocato la morte di Erik, ruba l’archivio dell’oriundo finlandese, consentendo ai nostri di arrestarlo e fermarne i loschi traffici. Ma queste sono le conclusioni epifenomeniche della vicenda, con altre e poco chiare complicazioni che qui tralascio. Che l’ossatura del libro è tutta sulla diatriba psicologica di come affrontare il mondo nuovo, con le sfide date dalle nuove tecnologie, con le ricchezze che modificano gli stili di vita sino a stravolgerli. Come faranno i “sami” a mantenere le loro tradizioni e la loro cultura, che non aveva confini, ma che era legata solo al nomadismo delle renne? Facciamo anche un bagno in alcune usanze locali, come la tenda piantata nel giardino di casa ed usata come alcova per incontri distensivo-erotici, ed altre piccole cose. Quindi, anche se apprezzo tutto ciò, tanto che me ne viene una sufficienza per il contesto del romanzo, lo specifico giallo ed il modo a volte un po’ troppo ingarbugliato di raccontarlo mi costringe ad aggiungervi una serie molto elevata di “-”. Ma prima o poi si tornerà al Nord.
Anna Grue “Il bacio del traditore” Corriere della Sera GialloSvezia 24 euro 7,90
[A: 19/01/2016 – I: 10/04/2018 – T: 15/04/2018] - &&&
[tit. or.: Judaskysset; ling. or.: danese; pagine: 411; anno 2007]
E con questo siamo all’ultimo volume della collana del Corriere della Sera intitolata a “Giallo Svezia”. E come per il primo volume, anche l’ultimo non è svedese, ma danese. Ambientato, come accennavo nella prima trama, in una cittadina poco distante dalla capitale e che vede la seconda puntata delle inchieste di Dan Sommerdahl, ex pubblicitario che abbiamo visto all’opera in “Nessuno conosce il mio nome”, dove si improvvisa detective risolvendo il caso e meritandosi il soprannome di “Detective Calvo” (e magari capite anche perché). Pur continuando con la scrittura di buon livello e con una trama decente, il libro perde un po’ il ritmo. Soprattutto quando Dan continua a fare il geloso verso il suo amico commissario Flemming, un tempo fidanzato con sua moglie Marianne. Il via si collega idealmente al precedente, che nel collegio dove studia la figlia di Dan, un’insegnante è turlupinata da un bellimbusto gigolò che vive alle spalle delle signore di mezza età, depredandole dei loro averi. Contemporaneamente c’è anche un omicidio di un ragazzo, efferato ed inspiegabile. La storia procede per un po’ su tre binari, la vita di Dan, le imprese di J.H. (lo indico con le inziali che il gigolò cambia ogni volta nome) e le indagini sulla morte di Mikail. La parte meno coinvolgente è sempre quella di Dan, con le sue idiosincrasie, le sue manie, ed il suo voler tornare in pista, in azione. Cioè sentirsi al centro della vita, così come faceva da pubblicitario. Ma lì abbandonò il campo non reggendo lo stress (sottile critica alla vita lavorativa danese ed alla difficoltà di assumersi responsabilità). Meglio seguire J.H., di cui a pezzi ed a flashback ricostruiamo la vita. Figlio con madre che, vedova, si risposa con un fervente religioso, e con lui entra in una specie di setta molto “Testimoni di Geova” (lettura della Bibbia, divieto di trasfusioni ed altre “amenità”). In rotta con il patrigno, si consola con un buon rapporto con il fratellino. Ma per una sua disattenzione, il fratello perde tre dita della mano sinistra e lui va via di casa, lasciando madre, fratello e fidanzata. Da qui comincia una vita da mantenuto, tra belle donne e spinelli. Con spesso un salto in India, ed in particolare a Goa, suo buon rifugio. Dove però viene sorpreso con uno spinello (vietatissimo) e condannato a tre anni di carcere. Ed il carcere indiano non è roba da mammolette. Ne esce alla fine, aiutato dall’amico Sanjay. Da qui cerca di ricostruirsi la vita, investendo i suoi risparmi, dolosamente percepiti, in una scuola di recupero per bambini indiani. Torna spesso in Danimarca e trova modo di far fruttare il suo lavoro. Scopre il punto debole di un commercialista legato ad una Lotteria Europea. Con ricatti ed altro, si fa indicare signore single che vincono milioni di corone. E le circuisce, asciugandone il conto in banca. C’è però una che era di difficile circuizione, e si inventa tutto un meccanismo che non spiego ma che ha bisogno di un hacker per falsificare dei dati. Hacker che il suo socio Osten, trova in Mikail, il fratello di J.H., anche se all’insaputa del bellimbusto. Intanto fortunatamente avevamo abbandonato le indagini sull’omicidio che la scrittrice non riesce a sviluppare degnamente. Ma ora trova il modo di far quadrare tutti i cerchi: Osten è un anziano della setta da dove J.H. fu scomunicato, e che Mikail e la madre frequentano. Così come Kamma, trentenne zitella, sostegno della madre di Mikail, tuttofare di Osten nonché ex-fidanzata di J.H. con una serie di stratagemmi, mettendo in mezzo anche la sorella Bente, Dan riesce quasi a mettere le mani su J.H., ma questi riesce a fuggire all’ultimo minuto. Non così Osten, da cui sappiamo tutte le cose che ho narrato. Ma Dan, pervicace e senza un grano di giudizio, anticipa J.H. a Goa, dove i due hanno un chiarimento finale. Insieme trovano la soluzione per consegnare J.H. alla giustizia salvando nel contempo la colonia dei bambini abbandonati. Inoltre, Dan svela che il morto è proprio il fratello di J.H., e ricostruendo con lui la scena dell’assassino fa in modo che questi capisca chi sia l’assassino di Mikail. Tutto bene, tutto in gloria, anche Flemming che trova una nuova fiamma (e non vi dico chi è, ma non è Marianne), così che Dan può mettersi il cuore in pace. Un piccolo inciso sulle manie dei traduttori, che il titolo originale recita “Il bacio di Giuda” che senza dubbio viene storicamente annoverato tra i traditori, ma che aveva una pertinenza più stretta alla trama, laddove J.H. diceva sempre a Kamma di sentirsi lui Giuda. Indizio che permetterà ai miei attenti lettori di capire tutto. Anna Grue riempie di molto il libro, forse anche un po’ troppo, che sarebbe stato meglio asciugarlo un pochino. Pur sempre, tuttavia, alla stregua del filone distintivo dello “Scandinavian Noir”, con una buona dose di critiche sociali: sul lavoro, sulle manie religiose, sulla tolleranza, ed altro che vi lascio scoprire. Che in fin dei conti, anche se non sono il mio massimo, le avventure di Dan sono leggibili. Per un tuffo, solito ma diverso, nel mondo del Nord che tanto stiamo seguendo in questi anni.
“Quanto ci si può sbagliare nel dare credito ai pregiudizi e nel cercare di immaginare una situazione in ogni dettaglio prima di viverla davvero.” (57)
Seconda trama, e quindi il solito allegato terapeutico, anche questa volta dedicato alla paternità, o meglio alla sua mancanza.
L’ho detto la settimana scorsa, e lo ripeto: ora si lavora alle case, alla messa in opera di grandi lavori estivi ed alla sistemazione di quanto è possibile mettere in ordine al fine di ritrovarsi, spero, alla ripresa autunnale, con una situazione serena e piacevole.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
MAGGIO 2018
Ed inopinatamente, ecco un secondo mese dedicato al tema della paternità, anche se qui sul versante opposto, di chi la tema, di la vuole evitare, consciamente o meno.

PATERNITÀ, EVITARE LA

Sebastian Faulks            “Il canto del cielo”
Basta bere la sera tardi. Basta poltrire la domenica con giornale e caffè fino a mezzogiorno. I rapporti esclusivi con fidanzata/moglie/compagno/cane/madre sono finiti. Non potrete più dire, senza sensi di colpa: «È solo un weekend coi ragazzi. Ci vediamo domenica sera».
Per le donne è più facile. Fin dall’inizio della gravidanza, la nuova vita che cresce dentro di loro già le cambia, non solo fisicamente ma anche emotivamente. Questo è quello che succede a Isabelle ne “Il canto del cielo”, il romanzo strappalacrime di Sebastian Faulks ambientato durante la prima guerra mondiale. Appena fugge insieme a Stephen dal proprio matrimonio infelice, Isabelle si rende conto di aspettare un figlio da lui, e quasi subito scopre anche un inedito, ossessivo desiderio di maternità. Ma nella sua confusione (forse ormonale) decide non solo di non informare Stephen, ma anche di lasciarlo e correre invece dalla sorella Jeanne.
Stephen ne rimane emotivamente segnato. Quando lo rivediamo, non tocca una donna da sette anni ed è al comando di un plotone nelle trincee della Somme. Mentre cercano di sopravvivere giorno per giorno a orrori inimmaginabili e all’assurdità di poter morire in qualsiasi momento, gli uomini inviano e ricevono lettere da casa. Siamo subito consapevoli di chi, tra loro, ha figli e chi no, perché a torto o a ragione Faulks utilizza l’esistenza dei bambini nella vita di questi uomini per suscitare in noi maggiore simpatia. Per esempio, c’è Wilkinson, appena sposato e con un figlio in arrivo, che muore di una morte spaventosa in prima linea. C’è Jack Firebrace, sempre di buon umore, che viene a sapere dalla moglie del figlio John in ospedale con la difterite e chiede al suo tenente - che sta per decidere se farlo fucilare per essersi addormentato in servizio - se ha dei figli anche lui. Il tenente è Stephen. La risposta è no, ma noi ovviamente sappiamo che probabilmente non è così.
Possiamo anche non essere d’accordo col fatto che Faulks utilizzi i figli come criterio selettivo; nel mondo di questo romanzo, tuttavia, chi ha figli è diverso da chi non li ha - e non possiamo fare a meno di pensare che Stephen, che è padre senza saperlo, viene danneggiato dalla sua ignoranza. Se fosse stato consapevole di essere un padre, si sarebbe comportato diversamente? E come? Alla fine decide di non fucilare Jack, ma nei giorni bui della guerra non trova nessuna consolazione come capita agli altri. Il romanzo si conclude con una nascita e con l’esplosione di gioia di un padre che si precipita fuori e lancia in aria delle castagne.
Se siete in attesa di diventare padri e non provate altro che smarrimento e un vago timore per l’apocalisse che vi aspetta, questo romanzo è per voi. Se vi aggirate con circospezione, un passo avanti e uno indietro, intorno alla questione dell’impegno e del matrimonio, questo romanzo vale anche per voi. Conosciamo molti uomini che, finché l’embrione che hanno contribuito a generare è nascosto nel grembo della madre, non provano un briciolo di istinto paterno ma poi, appena il loro bambino viene al mondo, se ne innamorano perdutamente. Guardate Stephen, e decidete: l’ha scampata bella o ha perso l’occasione di vivere una vita più ricca?

Bugiardino

Letto tre anni fa, un libro che mi aveva ben incuriosito, e che mi aveva dato spunti interessanti che non mi aspettavo all’inizio. Rivediamolo insieme.
Sebastian Faulks “Il canto del cielo” Beat euro 13,90
[tramata il 19 luglio 2015]
Ecco un altro libro che, senza le mie libropeute, difficilmente avrebbe trovato spazio tra le mie letture. Un libro che basicamente si svolge in Francia tra il 1910 ed il 1918, ed è pieno, stracolmo direi, di Prima Guerra Mondiale. Che non è (nonostante i centenari e le celebrazioni) tra le priorità dei miei interessi. Eppur sono onnivoro, ed alla fine mangio anche questo, che, tra alti e bassi, ha comunque un suo interesse ed un suo spazio. Certo a volte sembra ripetere altre trame ed altri filoni, già letti o sentiti. Ma (a parte una personale critica sulle ultime 100 pagine di cui dirò) è stata una lettura interessante, con qualche domanda che affiora alla testa. La prima, di carattere solo filologico, è la trasmigrazione del titolo da Birdsong (il canto egli uccelli) a “Il canto del cielo”. L’originale ha una duplice attinenza al testo, dove è vero che gli uccelli volano nel cielo dove, durante la maggior parte del libro, volano granate ed altre bombe, così che si collega il loro canto alla morte (e questo rimane nella traduzione italiana). Ma è anche vero che gli uccelli venivano portati nelle gallerie che si scavavano sottoterra per piazzare mine ed altri ordigni (servivano a controllare che ci fosse ancora aria con il loro canto), e questa parte (che poi è uno dei cardini del libro) si perde e viene ignorata. Seconda domanda è la mistificazione palese della quarta di copertina, dove viene indicato come “Romanzo nominato Best British Book of the Last 25 years”. Purtroppo in italiano nominato ha un significato molteplice, ma tutti convergeranno subito su quello più evidente (tipo “Renzi era un sindaco nominato Primo Ministro”) Ma il libro non ha vinto la tenzone, ha solo avuto una “nomination”, cioè è tra quelli indicati come “interessanti” dopo i primi 10. Ed il primo fu “Vergogna” di J. M. Coetzee. Ciò premesso, il libro scorre con interesse, mentre iniziamo a seguire le vicende della vita di Stephen Wraysford, un inglese mandato nel 1910 in Francia, ad Amiens, per indagare su un possibile investimento inglese in una fabbrica tessile francese. Si installa quindi nella casa del proprietario della filanda, René Azaire. Ne seguiamo il percorso cognitivo della vita lavorativa francese, ma soprattutto il continuo avvicinarsi alla giovane moglie di Azaire, Isabelle. ovviamente scoppia l’amore, i due, creando scandalo, fuggono insieme. Vivono del tempo nella cittadina di St. Rémy grazie al lavoro di lui. Poi Isabelle, incinta, sparisce. E Stephen non la cerca. Passano 6 anni, e troviamo il nostro impegnato nella Prima Guerra Mondiale. In tutta questa parte c’è un tentativo molteplice: far vedere la follia della guerra, farci percepire gli orrori della stessa (con tutte le scene cruente, le morti violente ed insensate), farcene percepire l’intensa umanità negli uomini che la combattono. Stephen sprofonda sempre più nel suo orrore interno, dove, una volta senza Isabelle, comincia a sentirsi cadere addosso l’inutilità della vita. Ma è un tipo strano, Stephen, per cui fa comunque il suo dovere, e, spesso, i suoi uomini si salvano mentre intorno fioccano i morti. Certo, a ben vedere la scrittura e le descrizioni di Faulks sono debitrici di grandi lasciati, primi fra tutti gli scritti di Remarque sul lato della riflessione intorno alla guerra e quelli di Hemingway sulle azioni e sugli ospedali militari. E come non vederci, in controluce, un riflesso di “Orizzonti di gloria” di Kubrick? Non ve ne dico però il motivo (fate lo sforzo di vedere il film, stupendo, e di leggere questo libro). C’è in tutta la parte militare il contro-altare proletario di Stephen nella figura di Jack, quello che scava sottoterra, capitato per soldi nella guerra, dove anche lui rimane in trappola. E come per Stephen, anche a lui muoiono tutti gli amici intorno (e muore di difterite il figlio di otto anni dell’amico che Jack, rimasto con la madre a Londra). La casualità della guerra porta Stephen ancora ad Amiens, dove ricerca Isabelle, colà tornata, e mutilata da una scheggia di granata, nonché innamorata di un tenente tedesco, ora tornato in patria. Trova anche Jeanne, la sorella di Isabelle. Capisce che la storia con il suo primo amore ormai è sepolta, e questo aggiunge altra amarezza alla già notevole sua. Tuttavia, trova (o comincia a trovare) un aiuto in Jeanne (mentre non sa che, oltre la porta, c’è Françoise, figlia sua e di Isabelle). Poi c’è tutta la scena madre, che io avrei tagliato di decine di pagine, dove Jack e Stephen, agli sgoccioli della guerra, rimangono intrappolati sottoterra. Ci sono grandi parole, proclami, amicizie, rinvangamenti. Ma c’è anche la morte di Jack, ed il salvataggio di Stephen da parte di un plotone tedesco. E quando esce al sole (per sentire di nuovo il canto degli uccelli) sa che la guerra è finita. Noi tutto ciò lo sappiamo anche in retrospettiva, perché una grossa parte del racconto si svolge anche nel 1978, dove Elizabeth, la nipote di Stephen, attraversando anche lei una storia d’amore tormentata, comincia a chiedersi chi sia suo nonno. Elizabeth è inglese, ma sappiamo che la madre è francese e si chiama Françoise. La nipote scoprirà i diari del nonno, ed in un colloquio rivelatore con la madre saprà tutta la storia, della rinascita, dopo due anni dalla fine della guerra, di una scintilla di vita in Stephen, del suo matrimonio con la nonna, e di tutto il resto. Non vi svelo però se la nonna sia Isabelle o Jeanne. Ma vi dico che, al piccolo che nasce (in una nascita che fa rabbrividire per quanto poco realistica sia), la nostra Elizabeth vorrà dare il nome di John, il figlio morto del minatore Jack. Finisce qui questo pur bello e interessante libro contro la guerra. Ma anche con quel sentimento sotterraneo di indecisione tra paternità e sua assenza e sua presenza coatta. Che vediamo in Stephen che non sa di aver una figlia, in Isabelle che scappa senza dirglielo, in Robert (l’amante sposato di Elizabeth) che non sa se accettarlo, in Jack che perde il figlio e da quel momento ne parla con tutto l’amore possibile. Insomma, un elemento di discussione bello ed intrigante su biologia e natura.
“Quando c’è vero amore fra le persone, come ce n’era fra noi, i dettagli non contano.” (479)

Conclusioni

Ottima scelta, quella delle libroterapuete, di utilizzare un libro pieno di guerra per parlare di paternità, sua voglia e sua mancanza. Completamente in sintonia, vi auguro di leggerne.