domenica 27 giugno 2021

Un pae'saggio' di luglio - 27 giugno 2021

Titolo un po’ tirato per i capelli, ma dedicato al libro bello e regalato sui luoghi inaspettati, che aspetteremo, ma non tanto, per visitare. Unito a un ricordo commosso e di rimpianto per lo scomparso Proietti, ad un ricordo cinematografico che unisce Zap e Sciascia, fino ad un po’ di filosofia spicciola. Che forse non ci cambia la vita, ma se ci fa ragionare, aiuta.

Gigi Proietti “Mandrake a Roma” Repubblica 14 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 15/11/2020 – I: 05/01/2021 – T: 07/01/2021] &&--

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 138; anno: 2020]

In realtà, di Gigi ci sono poche pagine, seppur con spunti e pensamenti. È un cosiddetto instant book, nato dalla necessità e dalla voglia di rendere omaggio al grande attore scomparso pochi giorni prima. Tant’è che a fronte della sua dipartita il 2 novembre, solo due settimane dopo esce questo collage di impressioni, interviste e testi. Ovvio che data l’urgenza, il prodotto sia non sempre bilanciato, a volte ripetitivo, a volte quasi monco.

Ma a me fa piacere celebrare, o meglio ricordare, l’attore romano, anche con tutte queste piccole carenze. Con un libro tripartito: prima nelle parole di chi ha lavorato con lui (“Gigi che spettacolo”), poi con interviste ad alcuni suoi amici (“Chiedici chi era Proietti”), finendo con alcune estratti dai suoi libri (“Parole sue”).

La parte più debole è la centrale, dove nelle interviste si cerca quasi solo di celebrare l’amico, ma non si entra, o si entra poco, nella vita reale (teatrale e personale) di Proietti.

Di sicuro interessante l’ultima parte in cui, tra interviste e brani vari, sentiamo venirci incontro proprio lui, Gigi, con la sua profonda umanità. E con la sua cultura, quella che lo portò, nel 1976, a mettere in scena quel gran calderone di idee e di espressività teatrale che fu “A me gli occhi, please”. Dove Proietti spaziava dal sacro al profano, da Shakespeare a Trilussa, magari passando per un altro suo cavallo di battaglia: il Belli (da non perdere il piccolo brano dedicato al romanesco di Belli contrapposto al milanese di Porta). Certo, si poteva scegliere altro, non dico meglio, ma maggiormente significativo, tuttavia, l’urgenza della scrittura ha imposto di trovare il più reperibile a breve.

Per fortuna, la personalità di Proietti è talmente forte, che esce comunque fuori, come in quel bellissimo accenno alla nascita del cinema di periferia in quel del Tufello e dal passaggio dalle pellicole censurate della parrocchia alle pellicole senza inibizioni di Rita Hayworth.

Capite subito, che personalmente, ho privilegiato la prima parte, dove ci sono dei ricordi vivi di Proietti, e del suo modo di essere, fuori o dentro il palcoscenico. Da bravo espositore, bello è iniziare con Augias, che con Proietti lavorò al mitico “Teatro 101” di via Euclide Turba a Roma (ripeto mitico perché era teatro d’avanguardia, ma anche popolare per quello che poteva esserlo nei primi anni Sessanta, con quel nome derivato dal numero dei posti in sala, 100, più uno, che era il gabinetto). Ed Augias ci parla della voce. Infatti “tra le doti caratteristiche di un attore, Proietti aveva, prima ancora di un’eccezionale capacità espressiva, la padronanza della voce. Proietti usava una voce per il Belli, una diversa per il Maresciallo Rocca, una ancora diversa quando recitava Shakespeare o Molière. Perché sapeva usare una perfetta dizione nei canoni della vecchia accademia d’arte drammatica; oppure assaporare la grevità del dialetto, con la c dolce che diventa “sc”: non ‘cinquecento’ ma ‘scinquescento’”.

Per fortuna poi che Silvia Fumarola ce ne fa anche un excursus di vita, della sua carriera di attore, iniziata che aveva quasi la laurea in Giurisprudenza, e sbocciata quando viene chiamato a sostituire Domenico Modugno nella prima rappresentazione di “Alleluia, brava gente”, attraverso le molte tappe che lo portarono da una parte a “A me gli occhi”, dall’altra alla direzione del teatro shakespeariano a Villa Borghese.

Tra gli altri poi, non dimentico la presenza dei suoi allievi, da Pino Quartullo, uno dei primi partecipanti ai suoi Laboratori Teatrali, a Paola Minaccioni che lo affiancò ne “Una pallottola nel cuore”.

A me, alla fine, rimane il senso della sua Roma, sia nei sonetti, suoi, di Belli o di Trilussa, ma anche nelle sue passeggiate, quando parla del suo peregrinare tra i locali, ma anche tra le zone di Roma (anche se poi finì sulla Cassia, che a me non pare più Roma). Soprattutto in quel piccolo cammeo dedicato ai “fagottari”. Per chi non lo sapesse, fino agli anni Settanta, la domenica si poteva andare in trattoria, portarsi da mangiare (il “fagotto”) ordinare da bere e passare una mezza giornata in compagnia. Io mi ricordo che andavo con mio padre ed i suoi amici da Zi’ Cannella a via di Tor Millina, vicino a Piazza Navona.

Sarebbe bello continuare anche a parlare del suo cinema, da “Brancaleone alle crociate” nella parte del gran peccatore Pattume a “Febbre da cavallo” nella parte che gli donò gloria imperitura: il truffatore Mandrake.

Ma io invece finisco qui, con una citazione della mia amica Paola “A te gli occhi, Gigi”.

Travis Elborough “Atlante dei luoghi inaspettati – Scoperte inattese, città misteriose e leggendarie, mete improbabili” Rizzoli s.p. (Regalo di Natale di Mario & Ines)

[A: 25/12/2020 – I: 23/01/2021 – T: 25/01/2021] - &&& 

[tit. or.: Atlas of the Unexpected; ling. or.: inglese; pagine: 207; anno 2018]

Un regalo veramente gradito anche se ambivalente. È stato fare un viaggio da fermo, ed in questo momento di impossibilità devo sentitamente ringraziare Mario e Ines, che sanno, anche sulla loro pelle, quanto io sia legato ai viaggi. D’altra parte, proprio perché ora non si può viaggiare, mi ha rinnovato un profondo dolore.

Nello specifico, Elborough confeziona un prodotto interessante, corredato da ottime e ben disegnate mappe dovute alla matita di Martin Brown. Poteva tuttavia essere migliore e raggiungere posizioni più avanzate se non fosse affetto da una propensione troppo anglosassone centrica e da qualche spiegazione che svolazza qua e là, centrando solo in modo marginale il luogo inaspettato che si sta descrivendo. Con l’aggravante, se vogliamo, che le pur belle foto a corredo sono tutte in bianco e nero, laddove dei colori ne avrebbero meglio reso la bellezza.

Sommando tuttavia il piacere del regalo e detraendo le piccole manchevolezze, un risultato dignitoso e piacevole da scorrere. Anche velocemente, nonostante i 45 siti da “visitare”.

A proposito, ne ho già visitati 8 e di 4 sono stato nelle vicinanze, traguardandoli senza realmente arrivarci. In particolare, oltre all’unico sito italiano (Pompei), ho visto da vicino la Cappadocia, Qumran sul Mar Morto, i geyser del Nevada, l’immondezzaio a cielo aperto del Cairo, la fortezza di Jaisalmer, le isole del lago Titicaca e la falesia di Bandiagara nel Mali. E sono stato a pochi passi da Chemainus nell’isola di Vancouver (ci sono passato davanti in gommone cercando le orche marine), ho visto da lontano la zona di Leith a Edimburgo e Nowa Huta a Cracovia. Oltre ad essere nella zona Argentina dal lato atlantico della Patagonia rispetto a Caleta Tortel.

Dal punto di vista didattico, le descrizioni migliori (a parte Pompei che non mi è sembrata centrata) sono quella della prima parte, dedicate alle scoperte accidentali, laddove zone o elementi di interesse vengono trovati (o ritrovati) grazie a momenti dedicato ad altro. Come l’isola di Madera, scoperta per rifugio a tempeste atlantiche, o le Galapagos, assurte alla gloria solo dopo la pubblicazione dei libri di Darwin.

Abbastanza coinvolgenti le descrizioni della nascita di luoghi poi abbandonati o destinati ad altro, come la città dedicata agli scacchi costruita (in parte e non finita) nella Repubblica di Calmucchia, o Fordlandia voluta dalla famiglia Ford in Brasile o il distretto delle acciaierie di Nowa Huta a Cracovia.

Alcune mancanze, ma anche alcune scoperte, portano al capitolo sulle destinazioni eccentriche. Dove non credo si possa parlare di eccentricità, o di destinazione insolita, parlando delle isole galleggianti del lago Titicaca, che personalmente o già visitato quattro volte. Ed avrei dedicato qualche parola in più alla città di Monemvasia in Grecia, anche perché ora si chiama Malvasia, e penso capirete perché. Sono invece da prendere in considerazione la “Just enough room island” nel fiume San Lorenzo, un’isola dove è stata costruita una casa, ed è finita lì (l’isola ovviamente). Oppure la bottega Spieglhalter che costringe ad un’insolita architettura i magazzini Wickham.

Un po’ scontate le grotte di Lascaux tra i siti sotterranei, o il villaggio di Matmata in Tunisia, ora visitato solo in quanto set del primo “Guerre stellari”. Avrebbero infine meritato più spazio i “posti incredibili”, come la spiaggia vetro in California, sorta in quanto discarica di finestre e bottiglie di vetro e pezzi di automobili, nata nel 1906 dopo il grande terremoto di San Francisco e resa tale dall’azione levigante del mare. O lo strano Lago Hillier piccola riserva d’acqua colorato nelle Middle Island dell’Australia Occidentale.

Mentre non capisco se, inserendo il parco geologico di Zhangye (con montagne a stupende fasce colorate), non si abbia avuto l’idea di inserire la catena montuosa di Hornocal in Argentina con le sue famosissime montagne arcobaleno (che ho visitato). A tal proposito, se ne avessi curato l’uscita, avrei inserito anche altri luoghi poco usuali: l’edificio del memoriale della pace di Hiroshima, le gallerie vietcong vicino a Saigon (ora Ho Chi Minh City), la grotta dei cento Buddha vicino a Luang Prabang nel Laos, le grotte di Ajanta ad Aurangâbâd in India, i Thirthankara giganti di Gwalior sempre in India, la cappella di San Giovanni Battista dentro la Grande Moschea degli Omayyadi a Damasco, la Chiesa Etiope Ortodossa nella piazzetta del Santo Sepolcro a Gerusalemme, la fioritura del deserto nell’Akakus libico, il Parco Nazionale “Los Glaciares” in Argentina (con il Perito Moreno e lo Spegazzini), finendo il giro del mondo con l’Antelope Canyon in Arizona. E mi scuso di tutti quelli che non ho citato, vuoi per vuoti di memoria, vuoi perché ho citato qui solo quelli che, con un piccolo punto d’orgoglio, ho visitato durante i miei lunghi anni di viaggi.

Leonardo Sciascia “‘Questo non è un racconto’” Adelphi euro 13 (in realtà, scontato a 12,35 euro) (consigliato da Robinson)

[A: 18/01/2021 – I: 27/01/2021 – T: 28/01/2021] &&&&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 170; anno: 2021]

Ovviamente l’anno si riferisce alla compilazione di questi testi dispersi di Sciascia dedicati al cinema. Meritoriamente segnalati da “Robinson” il supplemento di Repubblica dedicato ai libri, e giustamente inserito in biblioteca prima dell’arrivo di alcuni libri di Sciascia che saranno editi il mese prossimo da Gedi.

Fatte queste premesse, e rivolti i dovuti omaggi, veniamo a questa antologia di brevi pezzi dedicati al cinema, pubblicati anche come omaggio ai cento anni della nascita dello scrittore siciliano. Sono tutti pezzi che girano intorno alla settima arte, anche se non firmati ma provenienti dal “Fondo” e segnalati dal nipote Vito. Sono divisi in tre parti, prima della postfazione che ne sistema provenienza e sistemazione a cura di Paolo Squillacioti, e precisamente son pezzi per il cinema, sul cinema e dal cinema.

Sicuramente il brano più interessante è il primo, dove Sciascia butta giù una bozza di sceneggiatura per un film con Carlo Lizzani. Un soggetto sulla storia di Serafina Battaglia, la quale dopo che la mafia uccide prima il marito poi il figlio decide di rompere il muro di omertà. È uno script articolato, dove, pur vedendo la mano di Sciascia, si intuisce il referente Lizzani, dove il nostro inserisce scene “violente” funzionali, ma anche tipiche del Lizzani di quegli anni.

Il secondo pezzo è meno interessante, sia perché un po’ volatile (una testimone di un delitto che viene fatta passare per pazza al fine di non coinvolgere la famiglia) sia perché il referente dovrebbe essere Lina Wertmuller. Che certo aveva incontrato Sciascia, ma il testo sembra lontano dal modo realizzativo della regista.

Diverso ancora il pezzo pensato o scritto per Sergio Leone. Era nata un’idea di collaborazione al futuro “C’era una volta in America”, e Sciascia butta giù un ipotetico dialogo tra un autore ed un suo aiutante, che ha due pezzi di bravura. Uno è l’incipit, che vi riporto per la sua stringata bellezza:

"Questo non è un racconto"; "L'incipit è di Diderot'. "Lo so. Volevo dire: questo non è un racconto, ma un soggetto per un film". "Ah, un soggetto". "A pensarci bene, non è nemmeno un soggetto".

Per i meno attenti, ricordo che realmente Diderot scrisse un pezzo intitolato “Questo non è un racconto”. Potete cercarlo in rete, volendo.

L’altro è una certa aria “leoniana”, di atmosfere, di mafiosi che cercano di allontanarsi, del vecchio mafioso che torna sulla scena. Se a “mafia” sostituiamo “gangster” abbiamo brani del sopracitato film.

Bella anche la testimonianza dello scontro tra il compassato scrittore e l’esuberante regista. Invitato da Leone a Villa Igea, a metà pranzo lo scrittore si alzò e se ne andò dicendo che la collaborazione non gli interessava. Fine della storia.

Quindi, pur avendo molto visto in gioventù, sempre difficile il rapporto tra Sciascia ed il grande schermo. Con tante collaborazioni mancate, ma anche con tanti film tratti dai suoi libri, che spesso lui non andava neanche a vedere. Ricordo a braccio 'Il giorno della civetta' di Damiano Damiani, 'Cadaveri eccellenti' di Francesco Rosi, 'A ciascuno il suo' e 'Todo modo' di Elio Petri.

Ma l’amore giovanile esce fuori, prepotente, in tutti quei piccoli cammei dedicati ad alcuni eventi particolari: i 100 anni di Eric von Stroheim (1985), la morte dell'amatissimo Renè Clair (1981) o di Buster Keaton (1966), l'uscita del film 'Il bell'Antonio' di Mauro Bolognini nel 1960 (che stroncò con la seguente frase: "Non ci è mai capitato di essere d'accordo con la censura, e di rimpiangere anzi che la censura sia così imprevedibilmente di manica larga").

Da tutto il breve volume emerge comunque il grande scrittore: la passione civile, l’attenzione al territorio, l’amore per i libri ma anche per le persone che esprimono grandi emozioni. Di certo, non è un libro facile, che, essendo spesso brani non rivisti, mai pubblicati, ci sono passaggi a vuoto, frasi ricostruibili. E qui, dobbiamo ringraziare il paziente nonché ottimo lavoro di Squillacioti.

Finisco, ricordando quello che per Sciascia era stato il più bel film da lui visto: “Il milione” di René Clair.

“Sono arrivato alla convinzione che non c’è film, per quanto buono, che valga un libro anche mediocre. E io, a … anni, ho ancora tanti grandi libri da leggere.” (85)

Edith Hall “Il metodo Aristotele – Come la saggezza degli antichi può cambiare la vita” Repubblica Filosofia Viva 2 euro 9,90

[A: 08/02/2020 – I: 15/02/2021 – T: 19/02/2021] &&&

[titolo: Aristotle’s Way. How Ancient Wisdom Can Change Your Life; lingua: inglese; pagine: 290; anno: 2018]

Una bella scoperta, la sessantina inglese Edith Hall, super esperta di letteratura greca e di “storia culturale” (cioè quella branca della storia che pone l’attenzione sulla mentalità, le credenze, le pratiche e le usanze dei popoli antichi). Mi dicono le fonti in rete che è anche relatrice di molte conferenze, tenute ed impolpate, nell’ambito dei suoi interessi, anche con umorismo.

Tutti elementi che risaltano discretamente in questa seconda lettura dei libri filosofici che possono aiutarti a capire te stesso ed il mondo. Ed in effetti, è risultata una lettura gradevole, pur dovendo riconoscere che non sempre era agile.

Prima di entrare nel merito aristotelico, solo una piccola osservazione banale. Sono sempre curioso di capire perché dal sottotitolo inglese dove la saggezza “cambia la tua vita”, si passi in italiano ad un più generico ed onnicomprensivo “cambiare la vita” (sottintesi quindi di tutti). Spero che menti eccelse mi illuminino.

La Hall, intanto, ci illumina sul concetto di felicità soggettiva che ci viene dal pensiero di Aristotele. Non quindi parametri esterni, misurazioni asettiche, ma, tu, io, soggettivamente cosa facciamo per essere felici? Ed ancora prima, cos’è l felicità per me? Intanto, l’autrice ci consiglia che il primo passo è decidere di essere felici. La ricetta di Aristotele per la felicità prevede infatti il legame tra felicità e azioni virtuose; ma non per ottenere fama, onori e riconoscimento bensì per diventare brave persone. Perché, secondo Aristotele, il buono è semplice, è il male a essere contorto e complicato (cfr. Anna Karenina).

Con la sua scrittura “felice”, l’autrice ci porta poi a passeggio su diverse tematiche del nostro filosofo, anche con facilità descrittiva. Penso di aver capito (almeno in parte) concetti altrimenti ostici come il potenziale (una facile digressione sulla capacità di rendere (o far diventare) reale il sé rispetto al proprio scopo nella vita. Poi ci sono i capitoli diciamo etico-filosofici dedicati alle decisioni, alla conoscenza di sé, alle intenzioni, all’amore, al piacere ed alla mortalità. Terminando poi con due capitoli dedicati ai concetti filosofico-etico-politici di comunicazione e di comunità.

Soprattutto il primo sorprende per la sua modernità, quando ad esempio parla della capacità di concentrazione di fronte a platee di persone. La concentrazione si affievolisce tra i 5 e i 25 minuti, così che Aristotele suggeriva di inserire un diversivo, una battuta intorno al 17° minuto (ed al 35° nel caso di una lezione che si avvii verso l’ora di esposizione).

Un altro concetto che ritrovo e di cui mi apparento, è quando Aristotele dice che “lodiamo e biasimiamo tutti gli uomini guardando alla scelta più che alle opere”. Con il suo anti Machiavellismo non ci si concentra sul fine che giustifica i mezzi, ma sulle intenzioni di un’azione piuttosto che sul suo esito positivo o meno. Se volete una risposta andata a Hiroshima.

Infine, c’è un punto finale che di sicuro merita una discussione. Aristotele (e con lui Cicerone e sovranisti vari) sostiene che negare l’aiuto ad un fratello è più grave che negarlo ad uno sconosciuto. Noi, più universalisti, si pensa che far affogare uno sconosciuto senza aiutarlo sia altrettanto grave di far affogare chicchessia.

Certo, e la Hall lo dice fin all’inizio del suo libro, ma noi lo riprendiamo in finale, non è facile essere aristotelici per una donna, laddove il filosofo esternava belle sentenze sul debole cervello femminile. La soluzione, e noi concordiamo, è che essendo Aristotele pienamente dubitativo, immesso nella cultura odierna avrebbe modo e facilità di cambiare opinione (come dice la prima frase che riporto).

Io non so se sono o meno aristotelico, ma penso che ci sia un doppio binario della felicità. Certo perseguo, da quando l’ho individuato, il mio bersaglio di felicità, e sarò felice se vi riuscirò. Ma sarei ancora più appagato se anche altri (tutti?) facciano lo stesso percorso.

E se li posso aiutare, sono in prima fila.

“Aristotele argomenta che tutte le opinioni devono sempre essere passibili di revisione.” (31)

“È assurdo cercare di cambiare qualcosa che esula dal nostro controllo. È ovvio, ad esempio, che il giorno delle nozze può piovere. Ma è possibile usare il ragionamento morale per decidere cosa fare in caso di pioggia.” (101)

“Non è mai troppo tardi per cambiare idea.” (154)

“Sul letto di morte non saranno le cose fatte a indurci il rammarico. A farci rammaricare saranno le cose che non abbiamo fatto.” (164)

“L’intera nostra esistenza trae giovamento dalle persone che ci vogliono bene.” (187)

“Aristotele è stato il primo filosofo ad affermare che l’arte poteva essere uno straordinario strumento pedagogico … gli autori teatrali … [dovevano essere stipendiati dal pubblico … e avere] la precedenza anche sugli ambasciatori.” (236)

“Una buona opera d’arte … deve essere tutte e due le cose [piacevole e utile].” (239)

Prima trama del mese di luglio, inizio del terzo trimestre dell’anno. Quindi ripensiamo alle letture del mese d’aprile, tutte di un livello dignitoso, con tre piccoli acuti: Fabio Stassi e le sue letture giallo-terapeutiche, l’ispettore Morse di Colin Dexter ed un piccolo gioiellino di Dürrenmatt.

 

#

Autore

Titolo

Editore

Euro

J

1

Carmen Barbieri

Cercando il mio nome

Feltrinelli

16,50

2

2

Donato Carrisi

L’uomo del labirinto

Longanesi

s.p.

2

3

Wilbur Smith

La notte del leopardo

TEA

6,90

2,5

4

Alessandro Robecchi

Flora

Sellerio

15

2,5

5

Colum McCann

Questo bacio vada al mondo intero

Repubblica NewYork

9,90

3,5

6

(Ramona Lofton) Sapphire

Precious

Repubblica NewYork

9,90

3

7

Fabio Stassi

La lettrice scomparsa

Sellerio

14

4

8

Adam Foulds

Ai margini del sogno

Bollati Boringhieri

16

2

9

Ingrid Seyman

La piccola conformista

Sellerio

15

2,5

10

Wilbur Smith & Tom Harper

Il fuoco della vendetta

HarperCollins

12,90

2,5

11

Chiara Mezzalama

Dopo la pioggia

E/O

16,50

3

12

Atticus Lish

Preparativi per la prossima vita

Repubblica NewYork

9,90

2

13

Tom Stoppard

L’invenzione dell’amore

Sellerio

14

3

14

Friedrich Dürrenmatt

Minotauro

Adelphi

10

4

15

Colin Dexter

L’ispettore Morse. Volume II

Sellerio

22

4

16

Siri Ranva Hjelm Jacobsen

Isola

Repubblica Mondo

9,90

3

17

Autori Vari

Roma Noir

Repubblica

s.p.

2

 

Capovolgendo l’Eulibide dello scorso mese, io non sto certo mentendo, quando aderisco in pieno ad una frase di Mordecai Richler che, sebbene letta quasi quindici anni fa, è ancora (o forse meglio, è ora) vera più che mai. Ne “La versione di Barney” lo scrittore canadese diceva: “Non credo di averglielo mai detto, ma avrei potuto passare la vita a guardarla”.

Io pure. E vi sto scrivendo anche da una postazione novella, non comoda, ma neanche fuori luogo, che potrebbe accompagnarmi per del tempo estivo. Non c’è troppo caldo, c’è una vista decente, con anche del verde. C’è la speranza di prendere quel primo aereo che passa. 

domenica 20 giugno 2021

Confusione natalizia - 20 giugno 2021

Dedichiamo questa settimana alla “pessima” collana dedicata ai gialli natalizi in omaggio con Repubblica. Pessima non tanto per l’idea ma per la realizzazione e la scelta dei testi. Poteva essere meglio leggendo gli autori sia quelli stranoti (Camilleri, de Giovanni, la Gimenez-Bartlett) che quelli “normali” (la Aykol, Piazzese). Insomma, racconti e collana da cestinare.

Andrea Camilleri “Capodanno” Repubblica “Natale in giallo” 1 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 08/12/2020 – I: 16/01/2021 – T: 16/01/2021] &&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 46; anno: 1998-1999]

Primo volumetto dedicato al Natale, spinto in maniera fortissima dal marketing editoriale di GEDI, la società che pubblica “La Repubblica”, eccoci alla lettura anche se sono passati sia Natale che Capodanno.

Sì, perché anche questo (ed è il quarto di cui scrivo) pur nella collana del Natale, parla di Capodanno. Non solo, ma visto che ci si trovano, i curatori, poiché il racconto non arriva alle canoniche 45-47 pagine, pensano bene di unirne due, entrambi incentrati sull’ultimo giorno dell’anno.

Ora tutti sanno la benevolenza profonda che ho verso il sempre compianto “marinise” (ricordo ai meno attenti che Porto Empedocle, in siciliano, si chiama “’A Marina”), tuttavia nei racconti non sempre si esprime all’altezza di prove più lunghe. Talvolta, solo l’unione della lettura di diversi racconti consente di far tornare Camilleri e Montalbano a livelli quanto meno accettabili.

Cosa che qui non riesce. I racconti sono brevi, slegati, un po’ di atmosfera, ma senza le solite caratteristiche forti dei romanzi del nostro.

Il primo, “Capodanno” (5-29), è tratto dalla raccolta “Un mese con Montalbano” (1998), raccolta di 30 brevi racconti con il nostro commissario, che appunto nella massa di trenta ambienti ha un suo perché. Qui ne rimane uno, con il nostro che è costretto a letto la sera di Capodanno per una febbre alta (curata con il brodino di Adelina). Ma quando apprende da Catarella che c’è “un morto di passaggio” pur di non lasciare le indagini al suo vice Mimì si imbottisce di whiskey e si presenta sul luogo del delitto. Il morto non era di passaggio, ovvio, ma solo dormiva nell’albergo di proprietà della moglie. Mentre Mimì ricostruisce la storia di vita di Rosina Liotta, venendo anche a scoprire che il morto è Saverio, il marito di Rosina, che dopo tre anni di lavoro a Mosca, aveva appena deciso di tornare a Vigata, Salvo unisce i puntini del rompicapo, e con grande scorno di Augello, risolve il caso e si rimette a letto.

Il secondo, “Gli arancini di Montalbano” (31-47), è tratto dalla raccolta di cui prende il nome (1999). Anche qui siamo a Capodanno, e dopo la solita litigata con Livia, Salvo decide di rimanere a Vigata per festeggiare la fine dell’anno con i mitici arancini di Adelina (se ne volete la ricetta, potete sempre tornare all’altro volume che ho da poco tramato “La caponatina di Adelina”). Ma alla cena saranno presenti i figli di Adelina, ed in particolare Pasquale, sospettato si rapina. Certo che il nostro non può cenare con un pregiudicato. Tuttavia, Salvo non si dà per vinto, e tra colloqui un po’ forzati, qualche telefonata, ed un po’ di intuito, riesce sia a scagionare Pasquale, sia, e questo era il suo scopo principe, a salvare la cena e gli arancini.

Come avete capito, sono storie ben datate, non dico agli albori di Vigata, ma quasi: ricordo, infatti, che il primo romanzo di Camilleri con Montalbano è di soli cinque anni prima. Quindi, certo ci sono quelli che diventeranno caratteristi e protagonisti, con ancora qualche “rozzezza”. Salvo e Livia litigano, e questo sarà un ventennale costante. Catarella inventa circonlocuzioni espressive improbabili. Ma Fazio non è ancora il “re dei pizzini”, e Augello è ancora un po’ in competizione con Salvo, prima di diventare una solida spalla.

Ma se fosse solo per i racconti, qualcosa in più avrebbero meritato. Quello che non ho gradito è la scelta editoriale, di presentare il testo come eponimo per un “Natale in giallo”, e magari ipotizzando qualche racconto più recente. Potevano forse con più acume presentate “Una cena speciale” da “Capodanno in giallo” del 2012, che sarebbe stato di certo meno datato.

Comincio a pensare seriamente che tutti i cambi editoriali del “gruppo Repubblica” intacchino anche solide tradizioni editoriali di contorno.

Maurizio de Giovanni “Un giorno di Settembre a Natale” Repubblica “Natale in giallo” 5 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 20/12/2020 – I: 17/01/2021 – T: 17/01/2021] &&& 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 47; anno: 2013]

Mi sono discretamente stufato di commentare e chiosare questa serie di racconti di cui Repubblica negli ultimi tre mesi del 2020 ha fatto omaggio i suoi lettori. Non torno sulla prima serie, ma vengo a questa seconda, di sole otto uscite, di cui questa è la quinta in ordine di lettura. Anticipata rispetto ai programmi, per tenere il passo della contemporanea uscita della fiction televisiva. Non solo, ma facendo anche un primo cenno d’intesa con i curatori, che questa, finalmente, si colloca nel Natale e non nel Capodanno.

Per me è la prima lettura di questa ulteriore sortita di de Giovanni nel variegato mondo dei personaggi probabilmente seriali. Non torno a sottolineare la mancanza personale del primo commissario Ricciardi. Né alcune buone prove dei bastardi di Pizzofalcone. Ritengo che “I guardiani” siano stati una sortita senza speranza, mentre le storie di Sara continuano ad uscire, anche se non sono nelle mie corde.

Qui abbiamo un personaggio più leggero, e, come vorrebbe l’autore in sue uscite varie, attuale e non solo poliziesco. Soprattutto, un personaggio molto napoletano, inserito nella città e nelle sue contraddizioni. Gelsomina “Mina” Settembre ha 42 anni, e fa l’assistente sociale in un consultorio nei Quartieri Spagnoli. Da due anni ha lasciato il marito Claudio, triste magistrato, dopo una sua, di Mina, ininfluente storia di sesso, a valle della quale si accorge della scialba prospettiva di continuare la storia con lui. Si è trasferita a casa della madre, dispotica e di una indisponenza macchiettistica molto napoletana. Il tranquillo andazzo del consultorio è sconvolto dall’arrivo di un nuovo ginecologo, Domenico “Mimmo” Gambardella, molisano, piacente e probabilmente coevo.

La storia è velocemente tratteggiata, e pur nella brevità del testo, risulta ben orchestrata. Una sua ex-protetta, Nanninella, si fa viva dopo una decina d’anni. Ora fa la escort, ha un figlio di due anni che le è stato rapito per costringerla a commettere gesti malavitosi ad un suo procacciato cliente da parte dei suoi protettori, la potente famiglia Longo.

Mina, non trovando sbocchi istituzionali con il marito magistrato, decide di agire in prima persona. Con l’aiuto di Mimmo, sequestra un ambulanza, trova il nascondiglio del piccolo, lo rapisce ai rapitori, e si precipita al molo Beverello per fermare Nanninella. Dove però trova che Claudio ha già operato al meglio, fermando la triste avventura prima di un irreparabile finale.

Il tutto tratteggiato con leggerezza, e con l’ironia che finalmente esce bene dalle corde dell’autore.

Vorrei solo finire con un piccolo memento rispetto a quanto della storia è stato riportato nella fiction televisiva. Mina è stata ringiovanita di cinque anni, Mimmo non è più molisano, ma anche lui napoletano, ma soprattutto si capovolge la storia con il marito. È Claudio che la tradisce, motivo per cui lei si allontana (giustamente, anche se altrettanto giustamente si era allontanata sulle pagine scritte). La storia inoltre è di solo tre mesi prima e non due anni. Per contorno, poi, il figlio rapito ha quattro e non due anni, e Nanninella non è una semplice escort, ma la donna del boss.

Non faccio commenti, che probabilmente le scelte sono funzionali alla resa televisiva.

Vedremo meglio in altre letture, e probabilmente in altre uscite sul piccolo schermo.

Alicia Giménez-Bartlett “Un Natale di Petra” Repubblica “Natale in giallo” 3 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 12/12/2020 – I: 24/01/2021 – T: 24/01/2021] - &

[tit. or.: Parecido razonable; ling. or.: spagnolo; pagine: 47; anno 2014]

[tit. vero: Petra en Nadividad; ling. or.: spagnolo; pagine: 47; anno 2011]

Sono discretamente (e credo giustamente) imbufalito contro le scemenze editoriali che Repubblica ed il suo staff è riuscita ad accumulare in un solo racconto lungo. Tra l’altro il primo, dedicato al Natale, che si svolge proprio il giorno di Natale, anzi più esattamente, nella Notte Santa.

Allora, il risvolto editoriale che dovrebbe dare indicazioni su come, dove e quando è stato pubblicato il libro, o il romanzo o il racconto, riporta che è un testo dal titolo originale “Parecido razonable”, pubblicato in Italia nella raccolta “Vacanze in giallo” del 2014.

Come dicono quelli che sanno parlar bene: ne avessero azzeccata una!

Il testo originale ha invece il titolo “Petra en Nadividad”, è del 2011 ed è stato pubblicato in Italia nella raccolta “Sei casi per Petra Delicado”, sempre di Sellerio come il precedente. Questo, unito al fatto che negli ultimi tre mesi le iniziative editoriali di repubblica, sotto l’egida del marchio “Gedi” hanno fatto acqua da tutte le parti ci pone seriamente il problema di capire cosa stia succedendo in quelle redazioni.

Un ulteriore punto di dolenza è la post-fazione non firmata, quindi redazionale ed imputabile sempre a Gedi. Che, se potesse avere un senso, andrebbe messe ante e non post. In effetti, parla di Petra e del suo vice Fermín, ne spiega (anche se un po’ in modo manicheo) nascita e sviluppo, ne adombra i caratteri (ma chi l’ha scritto forse ha pensato più alla Petra di Paola Cortellesi ed al suo aiuto Antonio Pennacchi) con quel tanto di precisa imprecisione che lascia il sapore del vero a chi poco ne conosce. Finendo, infine, con una chiosa su dove siano e cosa facciano i due la sera di Natale, che letto a pagina 47 ha veramente un senso nullo.

Peccato, che il testo, che avevo letto quattro anni fa, pur nella sua stringatezza e vaghezza, aveva una sua valenza. Non a caso, dissi allora che dei sei racconti della raccolta, era senz’altro il migliore. Poiché odio ripetermi, e spero che dopo alcuni anni i miei commenti siano ancora sensati, lo riporto integralmente:

“L’unico che sale leggermente sopra la media è il primo [sto parlando dei sei testi del volume, ndr], “Un Natale di Petra” dove i nostri due “eroi” [Petra e Fermín, ndr] sono impegnati nella disamina di due testimoni di un omicidio avvenuto in un ospedale la Vigilia di Natale. C’è il morto mafioso russo. C’è un tizio che doveva sollevare il morale dei bimbi malati di cancro vestito da Babbo Natale. C’è la sua ragazza che aveva organizzato la rappresentazione. C’è la parrocchia da loro frequentata e con loro da molti immigrati, dall’est dall’ovest e dal sud (dal nord no, che vedo difficile un giovane norvegese immigrare senza mezzi verso la Spagna). Con la sua solita abilità di porre domande giuste in modo che l’interrogato sia, prima o poi, stretto all’angolo, Petra risolve anche questo caso. Lasciando molto amaro in bocca, che nessuno è quello che sembra (a parte il morto, ovvio). Purtroppo, quello che risalta … è poco l’aspetto noir che aveva colorato, pur con le sue sfumature femminili e femministe, le prime avventure. Risalta soltanto un certo aspetto umano. I rapporti tra Petra e Fermín, sempre amici e collaborativi, soprattutto davanti ad una pinta di birra [o parlando della cena di Natale, ndr]. L’aspetto casalingo di Petra, verso il terzo marito, ed i suoi tre figli (soprattutto verso la più grande, Marina, anche in quanto femmina). In parte i rapporti di lavoro, con il sempre teso modo di rapportarsi con il suo capo, il commissario Coronas. Ma non c’è respiro. Appena si prende un po’ di spazio, il racconto si tronca e finisce.”

Alla fine, ho dato un voto bassissimo non per il romanzo in sé, ma per tutto il contorno che lo avviluppa.

Esmahan Aykol “Rubacuori a Capodanno” Repubblica “Natale in giallo” 6 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 20/12/2020 – I: 01/02/2021 – T: 01/02/2021] &--  

[tit. or.: Yılbaşı Çapkını; ling. or.: turco; pagine: 46; anno 2012]

Una delle più insulse scelte di questa sciagurata mini-collana di Repubblica. Una collana che ha sbagliato (quasi) tutte le uscite di quest’ultimo dicembre in quarantena. Un racconto sbagliato per collana, per confezione e, purtroppo, per scrittura. Questo porta il testo ad uno dei gradimenti più bassi degli ultimi tempi.

Andiamo allora con ordine. La collana parla di gialli natalizi. A prescindere che quasi tutti, ed anche questo, sono ambientati a Capodanno, si sarebbe dovuto specificare meglio intento e scopi della collana stessa. Che, in fondo, come ho detto anche altrove, serve solo a far vendere qualche copia in più del giornale cartaceo in un momento dove l’editoria giornalistica sta in sofferenza.

C’è inoltre da ricordare che ben quattro degli otto testi omaggiati da Repubblica vengono dalla raccolta di Sellerio intitolata “Capodanno in giallo”. Capito cara Repubblica, “Capodanno” non “Natale”.

Ma a parte questo, si dovrebbe parlare di gialli. O di tensione. Qui, l’unico giallo è scoprire se Lale verrà a passare il Capodanno con la sua amica Kati. Amica che è l’eroina dei diversi libri che la simpatica Aykol ha scritto nel corso degli anni (in particolare dal 2001 al 2014, per poi dedicarsi di più al giornalismo ed alla critica sociale). Beh, abbastanza poco per creare suspense.

Poi c’è la confezione, le scelte editoriali. Come si può pensare di scrivere nella quarta “un’indagine di Kati Hirschel”? Tutto quello che fa Kati è aspettare che Lale si faccia viva. Poi, non facendosi viva, di cercare di capire dov’è andata a finire. Intanto avanza il Capodanno istanbuliota, con il traffico, la gente che cerca allegria, financo la neve. E ben ricordo il Capodanno del 2007, quando con Rosa e Emilio eravamo proprio lì, ad Istanbul, sotto la neve. Un Capodanno pazzo, strano, bello, che ha fatto nascere tante piccole cose, una ad una maturate, con tanta pazienza.

Ma torniamo alla confezione. Quindi, un’indagine non c’è. Poi, l’editore pensa bene di stampare in caratteri più grandi, che altrimenti neanche le canoniche quarantasei pagine raggiungeva il testo.

Infine, la scrittura. Si accenna, si dice qualcosa, tornano, insieme a Kati, i suoi amici: Fofo l’omosessuale e Pelin l’amica aiutante in libreria. E la misteriosa Lale, con il marito a Cipro dalla madre malata. I tre aspettano Lale, poi l’aspetta solo Kati che voleva fare una serata pazza con lei nella serata dell’ultimo dell’anno. Ma Lale scompare, Kati aspetta un po’ guardando la CNN turca che annuncia neve, un po’ chiamando in giro, un po’ ricevendo notizie che forse la sua amica ha deciso di passare la serata in altro modo.

Finisce quindi che Fofo, Pelin e Kati faranno il Capodanno in un’altra libreria, da un’altra amica, in una situazione diversa, e, forse, inaspettatamente dolorosa.

E il giallo, direte voi?

Insomma, una delle più inutili letture degli ultimi quindici anni. E fortuna che erano meno di cinquanta pagine a caratteri grossi.

Spero che Esmahan torni ancora alla sua Kati, ma dopo sette anni mi sembra quanto meno arduo.

Un appunto finale. Pare che Çapkını stia per svolazzante, imbroglio o qualcosa di simile, mentre “Rubacuori” vada tradotto con “kalp kırıcı”. Chi sa di turco mi faccia sapere.

Santo Piazzese “Come fu che cambiai marca di whisky” Repubblica “Natale in giallo” 8 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 20/12/2020 – I: 02/02/2021 – T: 02/02/2021] &&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 46; anno: 2012]

E per fortuna siamo all’ultimo di questi poco invitanti racconti su “I gialli di Natale” o “Natale in giallo”. Risale un po’ dalla lettura turca, ma non si svolta. Rimane una serie gestita male, con poco da salvare. Qui, inoltre, i curatori hanno pensato bene, come nelle opere di autori poco noti, di chiosare il testo con due inutili pagine rievocative.

Perché, ed è vero, Piazzese non è certo tra gli scrittori gialli italiani in pole position, avendo scritto in tutto quattro libri. E soprattutto, avendo scritto i  migliori tra il 1996 ed il 2002 (come mi ricordava la mia amica Otto, che me li fece conoscere). Poi decenni di silenzio e riposo.

Quindi è ovvio che qualcuno pensi che sia meglio rinfrescare la mente dello sparuto lettore. Anche perché, il testo in sé, è denso di riferimenti all’universo letterario di Piazzese che altrimenti poco se ne capirebbe. D’altronde, ci si domanda anche il motivo per cui si dovrebbe capire di più da una storia che, inserita in una collana di gialli natalizi, ha una collocazione temporale corretta, ma di giallo forse ha solo l’etichetta di qualche superalcolico.

I protagonisti della vicenda sono i due emblemi principi del mondo di Piazzese. Da un lato, il suo alter ego, Lorenzo La Marca, biologo come Santo, e coinvolto in alcuni casi polizieschi suo malgrado. In uno di questi, indaga sulla strana vita di Monsieur Laurent, il padre della sua collega Michelle, che fa l’anatomopatologa. Un’indagine talmente serrata che alla fine Lorenzo e Michelle non mancheranno di avere una storia insieme, e quindi, qui, di convolare in giusta convivenza. Sancita non da uno scambio di anelli, ma da un bel più impegnativo scambio di chiavi di casa.

Dall’altro, il commissario Vincenzo Spotorno, un poliziotto un po’ sulle sue, non particolarmente espansivo, che si spalleggia con La Marca la scena da protagonista dei libri di Piazzese. Anche con una reciproca stima, se vogliamo, che i due non entrano in competizione ma si spalleggiano e, in fondo, si stimano.

Un altro e notevole punto di scarsa attenzione editoriale lo troviamo nella quarta, dove i curatori pensano bene di apporre il sigillo: “un’indagine di Lorenzo La Marca”. Ora, fatto salvo che non ci sono indagini, se anche si potesse ipotizzare la presenza di un germe di ricerca poliziesca, la potremmo trovare nel racconto di Spotorno. Quindi, poteva avere un senso la scritta “un’indagine di Vincenzo Spotorno”. Ma La Marca sembra più noto, quindi, via con le mistificazioni.

Perché, infine, non certo di indagini si tratta. Ma di una visita prenatalizia di Lorenzo e Michelle alla famiglia Spotorno. Soprattutto, del pomeriggio inoltrato, dove Lorenzo e Vincenzo si ritirano nello studio del commissario. E lì, sorseggiano un Lagavulin, il commissario racconta una storia. Una storia di amicizia e malavita varia, che si svolge a Marsiglia, dove Spotorno incontra un poliziotto, lo aiuta e scolta le sue vicende. Poi succedono altre cose, che magari vorrete leggere. Quello che risulta chiaro è che Piazzese sta facendo un sentito omaggio a Jean-Claude Izzo ed il suo personaggio principe, Fabio Montale. Per non togliervi qualche barlume di curiosità, non dico altro.

Torno invece all’assunto principale. Che non è una storia, che ripercorre storie di altri, che non è un’indagine, né tanto meno un’indagine di Lorenzo La Marca.

Meglio lasciar perdere, se non si è capaci di portare avanti un discorso coerente. Ed in questo, i curatori della serie si sono dimostrati quanto più lontani da conoscitori del giallo, italiano e no.

Siamo alla terza settimana, ed in attesa che torni qualche “libro felice”, vi sommergo di citazioni e ricordi.

Per bonus track, valle di un fine settimana passato nel caldo fucecchiese a trovare storici amici toscani, vi riporto una citazione di citazione, laddove Piergiorgio Odifreddi nel bello e da leggere libro “Le menzogne di Ulisse”, riporta le parole di Eubulide: “In questo momento, sto mentendo”. Una frase che apre un mondo di discussioni.

Quindi, detto delle fatiche settimanali, diciamo anche che tra due ore andrò a fare la seconda dose, sperando a valle che insieme ai pass digitali, si riesca ad aprire la frontiera del mondo. Diciamo infine che lancio anche un pensiero a Francesco per le prossime quattro settimane, e lui sa il perché. A tutti gli altri, porgo umilmente un abbraccio. 

Citazioni dagli appunti di Giovanni

Citazioni di giugno

Eccoci ancora con le mie bolle di memoria, dove ci mettiamo a guardare appunti e pensieri riferite al periodo giugno – settembre 2007.

Era un periodo in cui stavo decidendo del mio futuro lavorativo, ed una mia cara amica mi spalancò le porte di un autore che forse non è sempre a quelle altezze. Ma Maxence Fermine soprattutto ne “L’apicoltore” mi diede molto da riflettere. E subito ne trassi questa frase: “ebbe l’intuizione che si ha in punto di morte: la vita è appesa a un filo. Un filo d’oro tessuto dai giorni, in cui si capisce che il bisogno di placare la propria sete sarà sempre più forte del piacere di bere.” Maxence Fermine scrisse una trilogia su quella falsariga, una trilogia d’amore. Ma il racconto giapponese non mi diede nulla da riflettere. Non come “Il violino nero” dove sottolineò una sensazione che avevo sempre avuto: “era un grande musicista: sapeva ascoltare e sapeva sentire”.

Sempre in quel di giugno, leggendo dell’ottima regista i suoi ricordi di famiglia, da Cristina Comencini nel suo “Passione di famiglia” ricavavo due frasi: “Qualcun altro aveva deciso al suo posto. Era stata un’invitata anche alla sua vita” (ricordando a tutti e tutte che, forse, c’è bisogno di presenza e positività nella vita), e “Per amore si deve mentire agli altri. L’unica cosa che conta è non mentire a sé stessi”. Un principio, questo, che io ho sempre interpretato in modo molto esteso, dato che ho una difficoltà patologica a mentire.

Pochi giorni dopo, terminavo il libro che sempre mi ricorda la mia amica Nico, che mi ha ogni volta confessato che, dopo i suoi russi, è il suo libro-cult. E da “Possessione” di Antonia S. Byatt cito: “Spesso è così nella vita: diventiamo coerenti e metodici troppo tardi, su basi insufficienti e forse nella direzione sbagliata” (una frase che dopo quindici anni è ancora mia). Oppure: “Quando ti vedo, mi sembra che solo tu sia viva e tutto il resto scompare”, una frase che ora dedico al mio amore.

Nel mese di luglio, passai di nuovo del tempo sui miei amori psicanalitici post giovanili e pre-anziani. Antonio Alberto Semi ne “Il narcisismo” mi ricorda i guasti di non avere un ragionato atteggiamento verso i figli: “La famiglia può incentivare il fatto per cui un suo membro si senta inesistente come persona”. Mentre Olivier de Ladoucette in “Restar giovani è questione di testa” (libro che già dal titolo è tutta una citazione), riporta un’affermazione fondamentale: “Mentre ai bambini si insegna a crescere, non viene fatto nulla per insegnare agli adulti ad invecchiare”.

Solo un piccolo passaggio di una scrittrice di cui ho letto poi altro, anche se non sempre bene, è stato il mese di agosto. Perché Zadie Smith, ricordandomi i miei tanti viaggi in India, in “Denti bianchi” rilascia una affermazione fondamentale nei miei rapporti con il mio amore: “Sono le lettere, più ancora dei baci, ad unire le anime”. Anche se, lo dico qui così nessuno ne legge, ancora non lo avevo conosciuto. Ci vorranno anni, ma saranno ben speso.

Invece settembre, con l’avvicinarsi del pendolo pensionistico, fu un mese di saggi e pensieri di viaggi. Si cominciò con le meta citazioni tratte da “Di nessuna Chiesa. La libertà del laico” di Giulio Giorello. Che riporta Pierce: “Tre cose non possiamo mai sperare di raggiungere: la certezza assoluta, l’esattezza assoluta, l’universalità assoluta”. Riporta Einaudi: “è preferibile l’equilibrio attraverso discussioni e lotte a quello imposto da forze esteriori”. Nonché, pensando a mio cugino Cesare, Gilgamesh “Se tu aiuti me, io aiuto te. Chi può prevalere su di noi?”.

Si continuò con “I Vangeli gnostici” a cura di Luigi Moraldi. Vengono citazioni dai vari vangeli citati, e dai commenti del curatore: “nessuno può dare senza l’amore… giacché se uno non dà per amore non trae profitto da ciò che dà”, Una frase fondamentale, che ripeto a tutti, giovani e non, “l’ignoranza è la madre di ogni male”. Ed una mini-parabola che mi spinge a camminare ancora, che sono sempre arrivato da qualche altra parte: “l’asino girando intorno alla mola percorse 100 miglia; quando fu sciolto si trovò ancora nello stesso posto. Alcuni camminano molto, ma non arrivano mai da nessuna parte”.

A quest’ultima frase si collegò la lettura di un allievo di Don Milani, Francesco Gesualdi, che nel suo “Sobrietà”, oltre a sollecitarmi proprio alla sobrietà come etica di vita, ricordava: “dai ricordi di un capo indiano: quando l’ultimo albero sarà abbattuto, l’ultimo fiume avvelenato, l’ultimo pesce pescato, vi accorgerete che non si può mangiare il denaro”. Come riportato nel titolo, poi “è possibile vivere bene più sobriamente? Si con 4 rivoluzioni: lo stile di vita, la produzione, il lavoro, l’economia pubblica”. Forse in un’etica molto comunista, ma cattolicamente condivisa, diceva: “la funzione del lavoro non è guadagnare un salario, ma soddisfare i nostri bisogni”. Infine, la sua, e spero anche la nostra, sobrietà, si può sintetizzar con “cinque parole: ridurre, riutilizzare, riparare, riciclare, rallentare”.

Rimanendo in tema di viaggi, leggevo un autore che ho sempre amato Ryszard Kapuscinski. Nel bellissimo “Ebano” riportava delle sensazioni che ho provato anch’io in viaggio: “per la maggior parte delle persone che vi abitano il mondo finisce sulla soglia di casa” oppure “il nostro mondo … non è che un pianeta di migliaia di province che non si incontrano mai”. nonché una frase che mi ha riportato immediatamente in Libia, con Emilio e Rosa: “l’acqua è tutto. Il deserto ti insegna una verità: esiste qualcosa che si può desiderare più di una donna: l’acqua”.

Finivo il mese con due letture di autori sconosciuti, sia allora che ora. Da Roberto Varese traggo dal suo “La piccola dea” una citazione personale e molto pertinente al tempo della lettura: “hai voluto sapere, perciò non lamentarti… nessuno ti può aiutare. Sei solo. Auguri”. Da Alessandro Scotti estrapolo da “Tempo”, quella che al tempo era solo una speranza ed ora una certezza: “non credo di conoscerti. Tu sei l’immagine sulla mia retina. Sei il calore che provo. Sei la pelle che mi sfiora. Sei un mio colore e una mia forma. Sei parte della mia memoria e mio sogno. Sei mia. Sei la mia tu. Non conosco una te diversa. Tu sei quello che sei per me”.

Con tutto ciò, con tutti i bagagli di ricordi, con tutte le speranze che si concretizzeranno da lì a pochi mesi, anche da qui vi saluto con tutto l’affetto del mondo.