domenica 30 aprile 2023

Amici, parenti, lavoratori - 30 aprile/1 maggio 2023

Una trama a cavallo di due mesi, essendo oggi domenica e domani 1° maggio, rendendo quindi omaggio a tutti coloro che lavorano, che hanno lavorato, che lavoreranno. Una trama dedicata a libri di varia estrazione. Rimembranze, riflessioni sul presente, idee sulla scrittura, sulle forme dell’arte, sulla gioia di vivere (con un autore assonante alla mia cara nipote). Una trama fatta con molto cuore, ed anche con molto tempo di scrittura, che non è stato facile venire a capo dei sentimenti e delle emozioni. Una trama che, in linea con il periodo, è per 4/5 di libri regalati. Una trama con una coda che spero non vi dispiaccia troppo.

Adriano Ossicini jr. “Gli esami non finiscono mai... ma chi l'ha detto! I ragazzi del '49” Youcanprint s.p. (Regalo dell’autore)

[A: 18/05/2022 – I: 18/06/2022 – T: 18/06/2022] &&&& ---- 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 85; anno: 2020]

Ho dovuto aggiungere uno “junior” al nome che avrebbe causato confusione (oppure avrei potuto usare il nome completo “Adriano Giorgio”). In ogni caso, ora ne scrivo.

Non è mi facile, come ho spesso sottolineato, parlare di un libro scritto da una persona che conosco. Qui, le difficoltà personali aumentano, essendo l’autore, anche, uno dei miei 28 cugini materni. Certo, essendo una grande tribù, è facili ci siano scrittori. Ce ne sono che scrivono di cose scientifiche, ecologiche, architettoniche ed altro. Qui, ancora più difficile, si parla di memorie, quindi con risvolti che toccano anche ricordi personali.

E come ricordi, non posso che dare un altissimo sostegno ad Adriano, che parlando di sé ha risvegliato in me molte sopite corde. Ma anche, parlando dello stile e della struttura del testo, non posso che mitigarlo con una lunga serie di meno.

L’idea primaria del testo è senz’altro vincente ed avvincente. I ragazzi del ’49, nel loro percorso scolastico, sono stati ogni volta gli ultimi a dover intraprendere un percorso diverso. Come facevano una prova, un esame, gli istituti scolastici decidevano di modificarlo. Fin dall’asilo, al tempo diviso in “asilo dei piccoli” e “asilo dei grandi”. Poi nell’esame di terza elementare, immediatamente abolito, per essere sostituito da scrutini semplici. Quindi l’esame di “Avviamento”, che consentiva a chi passava la licenza di quinta elementare, di accedere alla Scuola Media. Infine, è fu lo scoglio maggiore, quando nel luglio del ’68, Adriano sostenne la maturità su tutte le materie. Nell’estate di quell’anno venne deciso di modificarlo, riducendolo a due scritti e due orali (e quella fu la mia maturità qualche anno dopo).

Un excursus che giustifica quel titolo sull’infinità degli esami, che poi, oltre a quelli “fisici” dei momenti scolastici (cui aggiungiamo anche l’Università), ci sono stati, ci saranno sempre, tutti i momenti di vita che abbiamo affrontato (e superato). Esami infiniti, che l’autore porta fino all’estremo limite, avendone affrontati anche ora che è un arzillo over ’70 (e non vi dico quali, perché è meglio leggerne).

Il testo si muove sul filo dei ricordi, quindi. C’è tutto il percorso scolastico. Ma ci sono gli altri momenti salienti che vengono alla mente dello scrittore. Le estati a Tortoreto Lido (con le immancabili partite di pallone). Gli anni dell’impegno (con un dovuto ricordo del cugino Zap). Gli anni del militare in Sardegna, con alcuni siparietti degni di nota e molto legati al personaggio-scrittore (da rileggere il passo su “Padre Padrone”).

Ma anche, e forse per me assai cari, quei passaggi privati. I ricordi degli zii, delle feste aventiniane, delle passeggiate romane con il padre, il rapporto, bello e vivido, tra i suoi genitori. Ed anche dei fratelli, pur se con accenni che sarebbe stato utile approfondire.

Il tutto condito da tante spigolature, sull’Aventino teatro dei primi tredici anni, con le puntate ai Cavalieri di Malta e a Sant’Alessio. Sulle scuole, la mitica scuola all’aperto “Gian Giacomo Bandini”, ma soprattutto il Liceo Augusto Righi (che ho frequentato anch’io, nella sede di via Sicilia, e nella sezione B, come Adriano).

I punti dolenti sono dovuti ad una difficoltosa cronologizzazione del testo. Si passa, in particolare nella prima parte, dalla scuola al militare, poi si ritorna indietro. Insomma, ogni tanto un lampo di memoria fa apparire immagini ed avvenimenti, che avrebbero guadagnato da una riorganizzazione temporale.

Poi, ovvio, ci sono io che mi inserisco nel contesto, puntando alcuni momenti che mi videro vicino all’autore, da lui giustamente dimenticati. La memoria non è sempre onnicomprensiva, e questo ben lo spiega nell’introduzione. Io ricordo le domeniche al Villaggio Olimpico, dove la famiglia di Adriano si trasferì nel ’62. In molti si convergeva lì, piena di spazi per giocare.

Ricordo una lunga domenica, dove i maschi della famiglia, con alcuni cugini di Ostia, ed io stesso, passammo ore a cantare e registrare su di un geloso (mitico registratore a nastri) una canzone di Don Backy (“L’immensità”, era il ’67). E ricordo anche la prima finale del Campionato Europeo allo stadio Olimpico. Con Adriano e gli altri c’ero anch’io, sistemati in curva, dietro la porta che vide il goal del pareggio di Domenghini su punizione.

Infine, non entro nel merito del tempo della scrittura, nelle parole sul COVID ed altro, che poco aggiungono al commento generale.

Comunque, devo ringraziare lo sforzo dell’autore che, pur non essendo aduso a scrivere a testo libero, si è cimentato in un’impresa non facile, uscendone con tutti gli onori. Se la parola stimola non tanto ricordi personali, ma voglia di ricercare luoghi, situazioni e sensazioni, è sempre una parola ben spesa.

Paolo Zani “Il corpo e lo spettro” Donzelli s.p. (Regalo dell’autore)

[A: 01/08/2022 – I: 25/08/2022 – T: 26/08/2022] &&&&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 144; anno: 2022]

Non è facile parlare di uno scritto firmato da una persona che hai visto nascere. Non in quanto filosofo, compositore, scrittore o altro. No, che hai visto nascere perché suo padre è il mio massimo amico e sua madre è stata una matricola quando si volava alto all’università. Quindi, ben venga Paolo nell’esercito delle mie scritture, sperando che l’affetto non intacchi la serenità. Anche se, e questa è una mia cattiveria, poco parlerò dei punti positivi del libro, che sono pur tanti. Perché lo scritto ha un suo interesse, per i problemi che pone e per come li pone. Cioè, e questo credo per me il suo punto forte, per come, logicamente, faccia discendere le sue tesi. Scendiamo così, girone dopo girone, in una enunciazione che sa di teorema matematico, dal corpo per arrivare allo spettro.

Se fossi un “logico” forse avrei potuto costruire una catena:

Corpo à sparizione/negazione del corpo à corpo/spirito à sparizione dello spirito à spettro

Il bello della catena su esposta, e del firmatario del libro, nonché di tutte le persone citate nel prologo come partecipanti, per lunghi mesi, alle discussioni che hanno portato al libro, è non solo la consequenzialità sopra esposta, ma la capacità di illustrare e chiarire i vari passaggi. Non sempre condivisi da tutti, non sempre condivisi da me (certo, c’è un’adesione di fondo, con alcune domande e distinguo che spero di riuscire ad enunciare), ma di certo spiegati e, quindi, sono una buona materia di discussione. E poiché non ho la capacità degli autori, vi rimando alla lettura per averne la comprensione nella concatenazione.

Preferisco parlare a ruota libera di punti che, come bolle di memoria, mi vengono in mente.

Forse il punto di minor concordia è in un certo senso il punto mancante. Mi ricorda discussioni in merito ai libri di Baumann, dove mi innervosivo al quanto nel momento in cui, a valle di un’analisi condivisa in pieno, il grande pensatore non faceva scendere nessuna azione. Non per diventare guida di chissà che, ma per consentire un dibattito. Io ti descrivo le storture del mondo in questo modo, e per superarle ti propongo questo e quello. Così che, io sono d’accordo con le descrizioni, ma posso discutere le azioni. Anche qui, non trovo questo spunto. Quindi ci sono elementi sostanziali ed elementi formali che andrebbero discussi.

Un elemento su cui divergo è la conclusione della nota di pagina 62, dove si afferma che “il desiderio è … la spinta che l’altro sia”. Personalmente penso che in ogni situazione umana, pensare, ipotizzare, “desiderare” che l’altro “sia” è una forzatura dei rapporti. L’altro è (ricordo un bel libro di Adriano Sofri sul prossimo), a noi sta l’accettazione di quel sé, che unito al nostro sé (che è l’unico che possiamo desiderare e lavorare affinché sia) ci può portare a quello stadio finale descritto nelle ultime pagine con le bellissime parole di san Francesco.

Devo comunque concordare con l’autore che la conclusione in sé non è sbagliata, ma che avrebbe avuto necessità di qualche spiegazione in più.

Due punti in cui in generale convergo, ma che hanno bisogno di altro sono la nascita della tecnologia e l’evoluzione della musica occidentale. Mi sembra troppo veloce parlare dello sviluppo della tecnologia legandola all’uso e la comprensione dell’esistenza del corpo. Ritengo che, anche laddove c’è una comprensione altra del corpo e dello spirito si possa parlare di sviluppo tecnologico. Basta non pensare “solo” in termini di sviluppo tecnologico occidentale, come poi si cerca di rispondere con le considerazioni di pagina 85 (“a queste considerazioni si potrebbe obiettare che…”). Così come nella musica, non possiamo, non dobbiamo parlare solo di evoluzione della musica, così come viene esposto a pagina 101.

Che è giusto, corretto, comprensibile, ma forse “limitante”. C’è sempre, e Paolo lo sa, un orizzonte musicale altro, che si sviluppa secondo linee foniche diverse, ma che, e questo può essere il bello della musica e della vita, nelle linee interne rimane analogo a quanto descritto. Forse, a volte, unendo anche in maniera più forte, musica e movimento. Altre volte, separandone completamente il senso. Penso alle melodie giapponesi da un lato ed a John Cage dall’altro (capisco che sto divagando e che forse sarebbe il caso di tornare al testo, ma, altro punto forte, un testo capace di creare spunti anche diversi dall’intento primario non può che essere un punto a suo favore).

Infine, a pagina 133 e 134, c’è una disamina della felicità, tra azione e passività. Io non vedo una contraddizione di fondo tra le due visioni proposte, solo poi se si riesce a sintetizzarne il senso nella seguente “Preghiera della serenità”:

“Concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare,

il coraggio di cambiare le cose che posso,

e la saggezza per conoscere la differenza”.

Veniamo allora ai punti, piccoli o grandi che avrei affrontato magari in modo diverso, forse anche solo grafico. Il primo spunto mi viene dalla nota a pagina 12, intorno al concetto di “stato di eccezione” introdotto dal filosofo tedesco Carl Schmitt. Se si segue lo scritto sembra che Carl Schmitt ne abbia scritto nel 2013 e l’idea sia stata ripresa dal suo “allievo” Agamben nel 2003. Non è a tutti noto che invece Schmitt muore nel 1985, che la categoria su esposta viene espressa compiutamente in un saggio del 1932 “Der Begriff des Politischen”. Questo e per molte altre note, dove capisco l’utilità di indicare l’ultima edizione degli scritti menzionati, ma anche la loro cronologia storica sarebbe rilevante per la comprensione.

C’è un'altra frase che mi ha dato filo da torcere, avendola dovuta leggere varie volte per capirne il senso finale. Parlo di “preferisci che a restare a casa due mesi sia tu soltanto oppure siate sia tu che tuo nipote?” (28). Alla fine, io avrei inserito un “che” tra oppure e siate. Questo per dire che, a volte, un fraseggiare troppo compresso impedisce una sua fruizione. Come l’uso del termine “sacertà” (44) a metà tra una punizione per chi commette un delitto contro il divino ed il concetto di “sacro”.

Infine, dal punto di vista formale, l’elegia di Pindaro a pagina 48, che viene così riportata:

Volteggiano ovunque cori di fanciulle,

60 suoni di lire e strepiti d’auli;

l’avrei graficamente scritta nel modo seguente (penso si capisca il motivo)

        Volteggiano ovunque cori di fanciulle,

60    suoni di lire e strepiti d’auli

Penso di aver anche indugiato troppo prima di avviarmi al finale, dove la mia critica, analisi, discussione a ruota libera, viene a chiudersi sulla digitalizzazione, elemento che per Zani & co. era stato il momento di partenza. È la tecnologia spinta al suo estremo che porta il testo ad estremizzarne le conseguenze. Arriviamo quindi al punto. Poiché credo che gli autori non siano luddisti illuminati, ma neanche sostenitori dell’universo di Matrix, dovremmo capire l’uso non distorto dei mezzi.

Vedo intorno a me, e sono d’accordo con l’autore, gente che usa tecnologie spersonalizzando l’umano che è in sé. Tanto che a volte mi domando se l’aumento di fatti violenti non sia anche legato alla sensazione che il virtuale induce: in fondo, se muori in “Call of Duty” poi rinasci e fai una nuova “vita”. Ma vedo anche chi, ignorando il nuovo, riesce ad essere altrettanto spersonalizzato. Non so dove sia, se ci sia, uno spartiacque tra tutto ciò. Spero, con tutto il mio ottimismo, che questo equilibrio sopra la follia (citazione di Vasco Rossi) si riesca a trovare. Insieme.

“San Francesco: Vera letizia [è] la capacità di attraversare i più grandi dolori avendo pazienza e senza turbarsi” (133)

“Virgilio: Felice è colui che basta sempre a sé stesso, accetta a ogni istante sé stesso e il mondo, con tutta la gioia che ciò comporta.” (134)

Frédéric Lenoir “La forza della gioia” Repubblica Filosofia Viva 5 euro 9,90

[A: 06/05/2020 – I: 23/12/2022 – T: 25/12/2022] - &&

[tit. or.: La puissance de la joie; ling. or.: francese; pagine: 137; anno 2015]

Riprendo, dopo veramente tanto tempo, la lettura di una dei (pochi) volumi di questa collana uscita un paio di anni fa. Come dissi allora, non mi sembrava una collana omogenea, ed anche questo testo conferma il su e giù dei testi e delle loro riuscite.

In realtà, la cosa migliore è il cognome dell’autore, in quanto mio quasi omonimo. Per il resto, più che di filosofia, e su questa parte forse dice cose che ci aiutano a riflettere, sembra uno dei tanti, anche se scritti bene, manuali di auto aiuto. Tutti aspiriamo alla gioia, quindi bisogna fare un percorso, fare questo e quello, e poi, forse, arriviamo in uno stato che potrebbe essere chiamato gioia.

Quello che sento stonato nel discorso del pensatore francese sono i troppi intarsi personali. Fa piacere conoscere episodi della sua vita, ma usarli a paradigma di passaggi da effettuare per raggiungere una sensazione di gioia, mi sembra troppo autoreferenziale.

Anche se, e questa è una delle maggiori note positive dello scritto, si comincia proprio dai filosofi, da quelli che per l’autore hanno posto la gioia al centro della loro riflessione: Spinoza, Nietzsche e Bergson. Sul tedesco non intervengo, che mi è sempre sfuggito. Bergson ha una visione molto puntuale: la vita è creazione, raggiungere un obiettivo permette di realizzare una dimensione gioiosa. Rimango allora su Baruch Spinoza, che forse mi convince di più, che nei suoi pur complessi scritti, parla direttamente della gioia. Uno stato che permette di accrescere sé stessi, liberandosi dalle passioni. Ma non nel senso della falsa quiete delle filosofie orientali, del nirvana buddhista. Perché noi, e Spinoza ce lo sottolinea ad ogni istante, dobbiamo vivere “nel” mondo. Ma dobbiamo fare due percorsi: accettarlo e capire quali sia il nostro “noi stessi”. Anche nei momenti non felici. Capire il nostro bene permette di sviluppare una gioia attiva, che per Spinoza è il fine ultimo dell’individuo.

Per introdurre poi questi termini filosofici, l’autore fa un piccolo percorso di discussione aristotelica. Si comincia con il piacere che per ognuno deriva dall’aver soddisfatto un bisogno. Tuttavia, il piacere, dopo la soddisfazione, svanisce. La felicità si colloca sul piano in cui il continuo raggiungimento del piacere porta ad un altipiano di serenità. Proprio per questo, deve essere contenuto, domato. La gioia è invece il contrario, cioè l’esplosione di un sentimento, che porta anche a gesti non controllati. La sua forza potrebbe essere quella di averne uno stato interno continuo, che permette di “gioire” di ogni momento della propria vita, siano essi positivi o negativi. E non è sempre detto che momenti poco felici non possano essere fonti di gioia. Leggendone ripenso alla gioia che ho scorto nello sguardo di una suora nel lebbrosario di Madre Teresa a Calcutta.

Tuttavia, dopo questo interessante percorso, Lenoir passa ai consigli. Cosa si deve fare per arrivare alla gioia? Quali sono le tappe, gli scogli, i pensieri, da raggiungere, superare, elaborare?

Ecco, quindi, che entriamo nell’aiuto e non nella discussione collettiva.

Dobbiamo prestare attenzione a tutto quello che ci circonda, essere presenti a noi stessi e al mondo, ritagliarci momenti di meditazione, avere fiducia, essere benevoli (che l’invidia è uno dei potenti antidoti alla gioia), accettare i momenti gratuiti, quelli dove non c’è guadagno (ributtando alle ortiche quello che propugnava qualcuno, che la remissione è certa), ringrazia la vita per tutti i momenti che ci dona, perseverare nella ricerca, nella creazione, anche, e soprattutto, quando lo sforzo per raggiungerla è faticosa. Ma poi anche, mollare, non contrastare, accettare quello che la vita ci offre. Ed ascoltarci. Il nostro corpo è il primo maestro verso la gioia. Ho cercato di fare una sintesi del percorso gioioso di Lenoir, anche se non tutti i passaggi mi convincono.

Non so come e se ci si possa definire in uno stato di gioia, anche se, a livello di definizione, non posso che concordare con una delle affermazioni di Lenoir, che la gioia è duratura e autosufficiente pur essendo gratuita.

Io ritornerei e rimarrei a Seneca (torniamo ai filosofi, suvvia), dove, pur non essendo sempre chiaro quali sia, cosa descriva il termine “saggezza”, sottolineiamo che il suo effetto, l’effetto dello stato individuale di saggezza, porta ad una gioia continua. Come, per me, il poter continuare a leggere libri, ed a parlarne con voi.

“La felicità è continuare a desiderare ciò che già si possiede (attribuita a Sant’Agostino)” (18)

“Io … quando visito un posto, ho deciso da molto tempo di non fare più fotografie” (41)

José Saramago “L’autore si spiega” Feltrinelli s.p. (Natale degli arabini)

[A: 25/12/2022 – I: 13/01/2023 – T: 14/01/2023] - &&& e ½  

[tit. or.: Da Estátua à Pedra; ling. or.: portoghese; pagine: 124; anno 2021]

Una bella prosa sostenuta dalla grande lucidità di Saramago, coinvolgente anche perché è una prosa che, in diverse occasioni, è stata letta, cioè deriva da discorsi di diversa ma univoca tipologia che il grande portoghese pronunciò in alcune memorabili occasioni.

Ma prima di addentrarci nelle parole, è bene dire (e dire male) del contesto del libro. Nel testo sono contenuti un discorso conclusivo tenuto da Saramago nell’aprile del ’98 in occasione di un convegno sulla sua scrittura, il discorso di accettazione del Nobel e quello tenuto dall’autore al banchetto celebrativo del Nobel stesso, nel dicembre dello stesso anno. Racchiudono il testo una “Autobiografia” di Saramago, anch’essa prodotta per il Nobel (se ne trova la versione inglese sul sito del premio), leggermente ampliata per tener conto degli anni successivi al Nobel, una esegesi di Fernando Gómez Aguilera, uno dei maggiori conoscitori dell’opera di Saramago (forse la parte meno utile), ed una breve ma sentita presentazione del libro da parte di Maria del Pilar del Río Sánchez, l’ultima moglie dello scrittore.

Orbene, di tutti questi testi, solo del primo sappiamo titolo originale, come sopra riportato. Gli altri, pur ovviamente in diverse lingue, non hanno riferimenti. Tanto che alla fine direi che il libro è una collazione di testi edita dall’editore italiano in omaggio a Saramago, probabilmente per sfruttare il centenario della nascita, essendo l’autore nato nel 1922.

Non entro nello scritto di Gómez Aguilera che ripercorre i testi di Saramago, aggiungendo poco a quanto lo stesso dice con le sue parole. Uno scritto utile, forse, ma non essenziale.

Sono invece interessanti le parole dirette del grande portoghese, in particolare il primo, un discorso meditato dopo le analisi che altri studiosi avevano fatto dei suoi scritti nel convegno di Torino. Laddove lui stesso divide in due grossi momenti la sua opera. I primi sette libri, dal “Manuale di pittura e calligrafia” a “Il Vangelo secondo Gesù Cristo”, come lavori che prendono il marmo della creazione e ne creano statue. Di questi, ne ho letti cinque, ed amati due. Capisco comunque la sua analisi. Affronta momenti, imbastisce situazioni e porta a compimento una interessante figura a tutto tondo.

In particolare, ricordo lo stravolgimento del senso della storia in quella “Storia dell’assedio di Lisbona”, dove un revisore solerte e ribelle, inserisce un “non” alla storia dell’aiuto dei crociati alla riconquista di Lisbona, scatenando una riflessione non sulla storia ma sul modo in cui la storia stessa viene raccontata. Oppure l’umanizzazione della figura del Cristo ne “Il vangelo”, anche se la visione atea e razionalista di Saramago lo spinge su territori non canonici e non sempre condivisibili. Ma è, dal suo punto di vista, un tentativo di umanizzare e contestualizzare una figura storica, con i suoi dubbi e le sue pulsioni.

Proprio questo scritto segna uno spartiacque nella vita e nell’opera di Saramago. Osteggiato dal potere lusitano per la sua ereticità, Saramago decide di trasferirsi a Lanzarote, dove dimora per il resto della sua vita, e dove, invece, nello scrivere, cerca di penetrare dal di dentro del marmo. Non tanto per farne una statua, ma per arrivare alla pietra.

Produce così altri sette romanzi, da “Cecità” a “Il viaggio dell’elefante”, di cui ne ho letti due. Il mirabolante primo con quel baratro in cui cade l’umanità in cui la gente comincia a perdere la vista. Un’allegoria potente, che Saramago sorregge sino all’ultima pagina. E come “Le intermittenze della morte”, anche qui con quell’idea di partenza, stravolgente la realtà, dove la gente non muore più. Ed ecco che lo scrittore ne analizza tutti i guasti e le perversione. Senza la morte, senza il dolore, è l’umanità stessa che perde la sua natura.

Rimane a sé stante, e non ne parla in questo testo Saramago avendolo scritto posteriormente, l’eccellente “Caino”, dove l’autore percorre tutta una sua parabola, sempre a corredo della Bibbia cristiana, sulla figura del primo omicida della storia. Poiché non se ne parla qui, anch’io ne tralascio il percorso, anche se ritengo, pur con i distinguo presenti tra il mio pensiero e quello di Saramago, uno scritto da leggere e commentare con interesse.

Ci sono poi i discorsi del Nobel e l’autobiografia che per il Nobel lui stesso ha scritto. Qui vien fuori il terzo polo, tra la statua e la pietra, che sorregge il mondo di Saramago. Il ricordo grato ed imprescindibili verso i nonni analfabeti che lo hanno allevato, e che gli hanno insegnato la meraviglia del narrare.

Mirabile, infine, è la chiosa che dà al suo discorso e che riporto come ultima citazione.

Un libro agile, che consente a chi poco conosce l’autore di chiederne una lettura, ed a chi lo ha praticato di domandarsi perché non ha letto altro. Io sono in questa seconda schiera, e ci ragionerò, ricordando come, nelle mie prime letture, sia stato sempre scoraggiato dal modo in cui il portoghese riempie le sue pagine. Quello scritto continuo, quasi a riprendere le affabulazioni dei nonni, che forse in questo modo va preso e riletto.

“Arriviamo sempre nel posto in cui ci aspettano.” (71) [epigrafe a “Il viaggio dell’elefante”]

“Nella vita non c’è niente di più importante del chiedere.” (99)

“Perdonatemi se vi è parso poco questo che per me è tutto.” (99)

Officina Saggiatore “Piccolo galateo illustrato per il corretto utilizzo dei libri” Il Saggiatore s.p. (Regalo di Flavio)

[A: 25/12/2022 – I: 25/01/2023 – T: 27/01/2023] &&&& --- 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 157; anno: 2022]

Un inaspettato e gradito regalo di Flavio, che, anche se molto velocemente, fa un giro intorno ai punti fondamentali dell’uso dei libri, tra lettura, conservazione ed altre amenità.

Seppur sembra un testo frutto di un lavoro di gruppo, motivo per cui come “autore” si legge nel frontespizio “Officina il Saggiatore”, è bene ricordare, come nella prima pagina, che i testi sono di Marco Didimo Marino e le illustrazioni di Marco Maldonato (perché le scarne pagine sono anche corredate da simpatici esempi disegnati).

Fatte queste premesse, il testo si avventura in una serie di considerazioni sui vari aspetti del libro, forse con l’unica limitazione che non sempre prende una posizione ferma. Una volta riconosciuto che il libro è un essere vivente, che cioè ha un rapporto con te lettore, e solo con te. Io ne ricavo qualcosa, esempi, spunti, riflessioni, che sono e saranno mie. Posso condividerle con altri, ma gli altri, a loro volta, ne avranno immagini proprie, non sempre concordanti con le mie. Ed è proprio nel confronto, anche, di posizioni discordanti che è bello avere un rapporto con la carta stampata.

Ripeto, con la carta stampata. Che, personalmente, e qui mi espongo, il libro è un oggetto che si sfoglia, si compulsa, si usa, in modo diretto. Non sarà mai, per me, un oggetto elettronico, un “kindle” tanto per dire. Certo, quando saremo molto avanti negli anni non nego che ci possa essere una svolta in questo pensiero. Ma fino ad ora, rimango su Gutenberg ed i suoi epigoni.

Tra i punti che si affrontano, il primo è quello delle orecchiette. Secondo il galateo, ci sono volte in cui si possono usare ed altre no. Io non li uso come segnali di arrivo della lettura, che uso sempre e comunque un segnalibro (spesso lo stesso, antico che mi regalo il mio amico Maurizio quando gestiva la libreria “L’asterisco” in via Silla), ma servono a segnare pagine in cui un pensiero, una riflessione che mi hanno colpito. Certo, se fossi più attento, dovrei comprare i piccoli post-it colorati, come la mia amica Rosa. Forse un giorno lo farò.

C’è poi la discussione sulle librerie. Il galateo suggerisce alcune installazioni interessanti, dove a me intriga soltanto quella chiamata “Gratitude” fabbricata da Molteni & Co., mentre altre, e soprattutto la “bookworm” mi sembrano inutili oggetti, che poco hanno a che fare con i libri. Inoltre, sono del parere che, nella maggior parte, le mie librerie debbono essere usate per i libri, e non per altri oggetti di rimembranze (foto, porcellane o altre cose che hanno un senso per sé, ma non per i libri).

Legate alle librerie, c’è anche, ed è un forte dilemma, la scelta dell’ordinamento dei libri stessi. Per autore? Per argomento? Per forma e colore? E ci sarebbero tante altre scelte (una, intrigante, tra autori che prediligiamo ed il resto). La mia scelta è plurima. Prima di tutto, separare i libri letti da quelli da leggere. I primi, li suddivido per editore (d’altra parte, avendo circa 5000 volumi, mi è sembrata l’unica scelta razionale). I secondi, se fanno parte di collane specifiche, li metto insieme, mentre il resto lo suddivido ancora per editore.

Queste affermazioni si collegano poi alla natura dei libri stessi. Il Galateo si allinea con Mark Forsyth che divide i libri in libri che abbiamo letto, libri che non abbiamo letto e libri che non sappiamo di non aver letto. Collegandoci cioè con l’universo dei libri. Io, anche se seguo, per quanto possibile, le uscite e frequento le librerie, sono assolutamente d’accordo che esiste tutto un universo di libri di cui non so l’esistenza e, saputolo, li avrei letti. Vertigine.

Vorrei toccare tre ultimi punti. L’ergonomia: ognuno legge come e dove può. Io prediligo una comoda poltrona, anche se poi ho sempre un libro a portata di mano ovunque mi sposti (ed ovviamente non leggo quando guido la macchina). Le liste: i più avveduti stilano liste su liste intorno ai libri, come insegnava il buon Eco ne “La vertigine delle liste”. Io spesso ne ho fatte ed a volte ne faccio ancora. Ma ormai gli acquisti seguono il volere del momento.

Infine, la circolazione dei libri. Sono d’accordo che non dovrebbero essere statici, in questo mi è maestro il mio amico Roberto che ha il coraggio di alienare volumi che non ritiene siano utili restare nella sua non infinita magione. Io, venendo da un passato di perdite dolorose, ho poca voglia di far uscire qualcosa dalle mie mura. Paura che vinco solo per pochi e selezionati amici, di cui conosco la cura che hanno per l’oggetto. Collegato alla circolazione è l’annoso problema del libro da regalare. Sempre, sempre, fare dono di libri che conosco. Un dono al buio è rischioso, per chi lo fa e per chi lo riceve.

Un'unica mancanza ho trovato grave. Nel capitolo relativo agli strappi dei libri, al dividere grossi tomi in sotto libri maneggevoli (citando Fruttero e Lucentini) o alla deturpazione delle ultime pagine di libri gialli (come da scellerata ragazza bergamasca), il libro si scorda di citare uno strappo famoso tra i cultori del genere. Mi riferisco a Pepe Carvalho, il personaggio centrale dell’epopea del fu Manuel Vazquez Montalban, che usa le pagine dei libri (in particolare quelli che non gli erano piaciuti) per accendere il fuoco del suo camino. Erano una citazione dovuta.

Insomma, un divertente e veloce excursus, scritto anche in modo gradevole, e corredato da una breve ma per me utilissima bibliografia.

Scrivere di libri è sempre un modo di averli accanto, ed io ne scrivo.

“Dei libri letti bisogna scrivere.” (80)

“Il lettore sa che … è inumano pensare di poter leggere tutto quello che vorrebbe leggere nell’unica vita che gli è data a disposizione.” (115)

Come detto è una scrittura a cavallo del festivo di una fine del mese, quindi, con poco anticipo, vi elenco le letture del mese di febbraio, che hanno visto un calo per ragioni complesse ma legate all’organizzazione dei mesi seguenti. Abbiamo comunque tre libri che si staccano dagli altri. Il solito Colin Dexter, il libro fondante della fama di Annie Ernaux, nonché un ottimo giapponese, Keigo Higashino giusto in linea per fare da apripista al viaggio che ho fatto in marzo nel paese del Sol Levante. Per il resto una navigazione di medio raggio, con il solito thriller del corriere in fondo, ma proprio in fondo alla lista.

 

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Autore

Titolo

Editore

Euro

J

1

Pif

La disperata ricerca d’amore di un povero idiota

Feltrinelli

s.p.

2

2

Davide Longo

Il caso Bramard

Einaudi

14

3

3

Colin Dexter

La fanciulla è morta

Sellerio

14

4

4

Jorge Luis Borges

Il libro di sabbia

Repubblica Latino-americana

9,90

3,5

5

Belinda Bauer

Negli occhi dell’assassino

Corriere Thriller

7,90

1,5

6

Annie Ernaux

Les années

Folio

s.p.

4

7

Colin Dexter

Il gioiello che era nostro

Sellerio

14

3,5

8

John Gillard

Quaderno di scrittura creativa

Repubblica

9,90

2

9

Ilaria Tuti

Fiori sopra l’inferno

Corriere Profondo Nero

7,90

3

10

Guillaume Musso

L’istante presente

La nave di Teseo

18

2

11

Paolo Giordano

Tasmania

Einaudi

s.p.

2

12

Ilaria Tuti

Ninfa dormiente

TEA

9,90

3

13

Colin Dexter

La strada nel bosco

Sellerio

15

3,5

14

Keigo Higashino

Sotto il sole di mezzanotte

Corriere Giappone

8,90

4

15

Shannon Kirk

Il metodo 15/33

Corriere Profondo Nero

7,90

2,5

 

Visto che si parla di libri “non fiction” come direbbero gli inglesi, ci sta bene un florilegio di citazioni che vengono dal libro dell’antropologo francese Marc Augé ed intitolato (che ci sta molto bene qui) “Les formes de l’oubli”. Ve ne riporta direttamente la mia traduzione dal francese. Ce ne sono per tutti i gusti. Quelli legati alla memoria: “Dimenticare è la linfa vitale della memoria e ricordare ne è il prodotto.” (30); “[Noi viviamo in storie che sono] il frutto della memoria e dell’oblio, un lavoro di composizione e ricomposizione che riflette la tensione esercitata dalla speranza del futuro sull'interpretazione del passato.” (55); “Bisogna essere almeno in due per dimenticare.” (81) Quelli legati all’età: “Io sono un uomo di mezza età ma ignoro quale sia quella intera.” (29) e “Gli individui, a mano a mano che invecchiano, presentano caratteristiche di famiglia, che fino ad allora erano rimaste invisibile sui loro volti.” (106) [questa è una di quelle che preferisco]. Si parla di scrittura: “La letteratura è sempre virtualmente sovversiva.” (114). Ma soprattutto, per me, si parla di viaggio: “I viaggiatori sanno ... che passando da un continente all'altro, non smetteranno di invecchiare ... ma questo è loro sufficiente per ... avere l'illusione di scongiurare lo scorrere del tempo spostandosi nello spazio.” (83)

Dicevo in alto che ci sarà una coda che spero non vi dispiaccia. Poiché in molti sanno (e chi non lo sa lo saprà ora) che per me quest’inizio di maggio è molto importante. Tra le altre cose sarà dedicato ad un cambio delle mie attrezzature informatiche. Cosa che comporta uno stop alle mie esternazioni letterarie almeno per una decina di giorni, se non di più. E quindi con maggior forza che vi mando un caloroso abbraccio.