domenica 29 novembre 2020

Sellerio con omaggio - 29 novembre 2020

 Una settimana tutta dedicata all’editore siculo. L’omaggio del titolo è poi double face: ben tre libri mi sono stati regalati in occasioni diverse (compleanni, natali, amicizie) ed il quarto è un omaggio mio ad un autore da poco scomparso (quanto è lungo un anno?). Ribadendo anche che, mediamente, i libri usciti con l’immancabile copertina blu sono sempre da leggere. Possono piacere o no, ma è stimolante immergersi nelle pagine.

Davide Enia “Appunti per un naufragio” Sellerio s.p. (regalo di Rosa)

[A: 26/06/2019 – I: 09/06/2020 – T: 11/06/2020] &&& +

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 211; anno: 2017]

Un regalo impegnativo di un’amica, che ho aspettato a leggere per maturare un po’, la lettura e l’amicizia. Di Enia avevo letto un libro che mi aveva coinvolto su di un inventato calciatore e sulla sua scomparsa (compresa una bellissima e lunghissima playlist). Questo è tutto un altro tenore. Un libro di impegno civile e di coinvolgimenti familiari. E non so quale dei due aspetti mi ha colpito di più.

Di trama in sé non è che si possa parlare molto, che, come riporta il titolo, sono più che altro appunti che si affastellano durante diverse visite all’isola di Lampedusa, dove si vive, quotidianamente, il dramma dei migranti e della morte alle porte. Così Davide ci presenta diversi personaggi isolani, o diventati isolani, che, in modo differente sono coinvolti nel dramma degli sbarchi più o meno clandestini, e nelle tragedie in mare, compresa quella che, almeno mentalmente, fornisce il motore primo dello scritto: l’affondamento del 3 ottobre 2013, con quasi quattrocento morti.

Enia ha un’ottima scrittura, che rende agevole leggere anche pagine di una crudeltà sovraumana. Nella parte che ho chiamato civile, poi, c’è tutto un susseguirsi di sensazioni che non cadono mai in recriminazioni sterili od in poco utili (in questo contesto) suggerimenti su cosa fare e come. Si parla dei migranti, certo, ma soprattutto si guarda tutto con l’occhio da questa parte. Di chi cerca di salvarli in mare. Di chi cerca di curarli, aiutarli, proteggerli ed anche sostenerli. Economicamente, moralmente, sanitariamente.

Ci sono tanti personaggi che scorrono sotto la lente di Enia, e tutti, pur nella diversità, sempre con quel fondo di empatia che contraddistingue chi ha senso stia al mondo. Ci sono gli amici vicini, Paola, Melo, Simone. Ci sono i barcaioli, nel senso della gente che va in barca, in genere a pescare, ed ora si ritrova alla pesca di esseri umani, vivi o morti, purtroppo. Ci sono i sommozzatori, quelli che hanno i compiti più ingrati, quelli che vanno a recuperare i corpi in profondità. Dalle parole di uno di loro esce tanto orrore che qualsiasi persona dotata di un’infinitesima percentuale di umanità non può che sentirsi colpita, indignata, mossa a qualcosa. Certo, noi, da qui, da Roma, lontano dal mare e dalle isole, ci rendiamo conto che poco concretamente si può fare. Ma si può non passare in silenzio. Si può unire la nostra voce alle altre voci.

Poi c’è l’altra parte, che in maniera diversa ma altrettanto profonda mi ha colpito. Quella personale. Quella del rapporto con i congiunti più grandi. Con lo zio, malato di tumore, con la delicatezza di un rapporto che non invade, ma che tocca le corde di passati comuni e di inutili prospettive di futuri altrettanto comuni. Che l’unico futuro che Davide riuscirà a dare allo zio Beppe sarà proprio questo libro. Ma di questo taccio, che troppi sono i dolori che si potrebbero aprire. Mentre apro e consolido il giudizio, sul rapporto tra Davide ed il padre. Ahi, quanto avrei voluto, quanto vorrei anch’io ora, che mio padre non avesse vissuto gli ultimi lunghi anni del suo passaggio terreno chiuso in una malattia che poco riusciva a penetrare all’esterno. Certo, capiva e si faceva capire, ma era difficile, è stato difficile, istaurare un rapporto di scambio, una comunicazione, come quella che, con tutte le difficoltà, riesce in qualche modo ad essere descritta nel libro.

Ci vuole certo uno sforzo da tutte e due le parti, per potersi aprire, per poter comunicare. Questo è valido, sempre, in tutti i rapporti. Filiali, parentali, amicali. Enia riesce a sfondare una porta che vuole essere sfondata, e riesce a collegarsi con quella persona che è stata ed è un sé stesso prima di esserlo coscientemente. Ritornano, lì come altrove, i fatti caratterizzanti dei DNA che si ripropongono. Diversi, certo, ma con quel fondo di comunità che ci fa dire di essere rami della stessa radice. C’è anche un salto mentale che mi ha fatto fare la descrizione del rapporto del padre cardiologo con le strutture mediche cui stava a contatto. Una descrizione (pagine 143 e 144) che vi invito a leggere per poterla confrontare con gli sforzi odierni, attuali, di chi, medico, infermiere, lotta con l’attuale pandemia. E poi, c’è un lato personale sentimentale, doppio, che sottolineo quasi in chiusura.

Quando, dall’aereo, Davide sorvola il Belice.

Doppio, che ricordo l’andata familiare a pochi mesi dal terremoto, quando con mio padre si andò a trovare e solidarizzare con Danilo Dolci, suo amico e coevo. E poi ricordo la gita recente con Ale, quando finalmente siamo riusciti a vedere il Cretto di Burri sopra le rovine di Gibellina. Se non l’avete visto, è uno dei più alti esempi al mondo di “land art”. Chiudo, infine, augurando (come da citazione) tanti momenti polpo a tutti i miei amici che hanno una penna in mano.

“Spesso è questo ciò che accade, si cerca lontano quando invece è proprio da ciò che è vicino che andrebbe cominciata l’indagine.” (26)

“Il momento ‘polpo’ è quando una storia, se vuole, ti viene incontro, e non c’è bisogno di trafiggerla o di scagliarcisi contro. È necessario starle vicino, quello sì, rispettarne i tempi ed essere pronti ad accoglierla.” (72)

Alessandro Robecchi “I cerchi nell’acqua” Sellerio s.p. (regalo di Francesco)

[A: 07/05/2020 – I: 13/07/2020 – T: 15/07/2020] && e ½  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 394; anno: 2020]

Una valutazione data più per affetto, verso l’autore e verso il donatore, che per il valore in sé del libro. Che invece, mi ha sinceramente deluso. Non ha l’ironia dei primi sei libri dedicati alle storie di Carlo Monterossi. Cerca in qualche modo di cambiare passo e registro alla trama, dandoci un intreccio, a volte quasi più giallo che romanzesco, anche se non è decisamente un romanzo giallo.

Eravamo abituati (piacevolmente) alle storie strampalate delle avventure di Carlo, infarcite da sapienti citazioni di Bob Dylan (qui ne rimane solo una sapiente “per vivere da fuorilegge, devi essere onesto”), con al contorno la sua corte dei miracoli: la slava Katrina, portiera e tata tuttofare, il solutore di problemi Oscar e la sua partner nell’agenzia investigativa, l’ex-agente Agatina, per finire con la bella di turno che da un po’ di tempo è rimasta essere l’indaffarata e tuttavia simpatica Bianca.

Qui, al contrario, inframmezzato da un sorso di whiskey e da qualche nota di Nina Simone in sottofondo, assistiamo ad una serata di chiacchiere a casa Monterossi, dove il nostro vuole scusarsi di qualcosa che non è riuscito a fare nel romanzo precedente ed il buon Tarcisio, giustamente, lo manda a quel paese con le sue paturnie borghesi e con i suoi facili pentimenti. Così che Ghezzi si decide a raccontare una storia “vera”, rispetto alle paturnie che Carlo si inventa per le trasmissioni della sua tv spazzatura. Così che assistiamo al lungo racconto di momenti di vita che si intrecciano, incontrandosi come cerchi nell’acqua di un ruscello provocati da un sasso che, fermo lì sul greto, ne favorisce il formarsi, e l’allargarsi e lo scomparire all’orizzonte.

Abbiamo allora una storia dove si intrecciano momenti polizieschi degli Stursky ed Hutch de’ noantri. Cioè, anche se non sono così duri, né viaggiano rigidamente in coppia, dei sovraintendenti Ghezzi e Carella. Momento pre-feriale (cioè vicino all’estate) in questura, con solo un omicidio di un vecchio antiquario che non avrebbe nessun motivo per essere ucciso.

Carella si prende inaspettatamente giorni di ferie, che, come ci si aspetta da quel suo essere un mastino di cuore, rimasto colpito dalla vicenda di una signorina indicata con la sola iniziale, L, vuole effettuare una ricerca per suo conto. Elle ha assistito al massacro perpetrato da tal Vinciguerra sulla sua amica prostituta Eva. Quasi uccisa, che Vinciguerra è pappone e manesco. Piccola condanna, ma Elle, tossica e sensibile, prima che il tizio esca si spara un’overdose di paura e da paura. Carella decide allora di tenere sott’occhio Vinciguerra, magari incastrandolo. Lo cerca, lo segue, lo perde di vista. Per ritrovarlo, decide di seguire, ma alla lontana, le capacità mostrate nei primi libri da Ghezzi. Si trasforma in un malavitoso di bassa tacca, e si mette alla ricerca del cattivo. Tralasciando i pochi momenti ilari di questo travestimento, scopre passo dopo passo, che Vinciguerra diceva di avere un asso per rientrare nel giro, che si è fatto vivo con i calabresi (che controllano la droga) per mostrare l’asso, che subito dopo (come se l’asso fosse sparito) sparisce anche lui. Dopo varie vicissitudini, con Carella che viaggia anche al di là della linea degli onesti, lo trova e ne trova il coinvolgimento con l’omicidio cui tutti lavorano in Questura.

Tutti, meno Ghezzi, che invece era stato coinvolto da una prostituta, la Franca, per cercare di trovare il suo uomo, Pietro, che fu il primo caso risolto da Ghezzi trent’anni prima. Dopo tanti giri a vuoti, che vi lascio leggere se vi va, Ghezzi ritrova Pietro che era fuggito in quanto impauritosi da quello cui aveva involontariamente assistito. Pietro è il mago della messa fuori uso di sistemi d’allarme. Così aiuto un tizio ad entrare dall’antiquario di mattina all’alba. Mentre se ne va con qualche oggetto rimasto appiccicato alle sue mani, sente il tizio litigare con molta alterazione fonetica. Poi legge che l’antiquario è morto, ha paura che il tizio si rifaccia su di lui, e scappa. Ghezzi alla fine lo ritrova, e finalmente riunito al suo partner Carella, riesce a collegare (cosa che ci si aspettava senza tanti patemi fin dall’inizio) la sua storia, i suoi cerchi nell’acqua con quelli di Carella. Ci vorrà ancora tempo, ricerche e qualche stratagemma, ma alla fine tutto andrà al suo posto.

Tutto meno le coscienze dei nostri, che per incastrare i cattivi a volte sono stati costretti a viaggiare sul filo della legge, ed anche a passarlo abbondantemente. Su queste riflessioni, Robecchi chiude questa nuova avventura: domandandosi (e domandandoci) fino a dove si può andare? Fino a dove dobbiamo seguire Cerami ne “Il borghese piccolo piccolo”? Fino a dove, invece, non possiamo discostarci dal Voltaire integerrimo che tuona in aula dicendo di non essere in nessun punto d’accordo con l’interlocutore, ma che si batterà sino alla morte perché costui possa esprimersi, mostrando cioè il più alto punto di correttezza che io conosca? Tuttavia, non basta riconoscere questo tormento, per poter far salire il giudizio di un libro da cui ci si aspettava qualche momento più rilassante, qualche arguzia come ci si era abituati. Capisco la necessità di rinnovamento, ma qui il risultato complessivo non mi sembra all’altezza delle sue possibilità.

Andrea Camilleri “Riccardino” Sellerio euro 15 (in realtà, scontato a 13,75 euro)

[A: 16/07/2020 – I: 20/08/2020 – T: 21/08/2020] &&&&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 287; anno: 2020]

Un dovuto, sentito, commosso omaggio ad uno dei grandi degli ultimi tempi che, purtroppo, come molti ci ha lasciato. Ultimo libro dedicato a Montalbano, scritto da Camilleri nel 2005, rivisto ma non corretto nel 2016, ed espressamente richiesto fosse pubblicato postumo. Così che la casa editrice Sellerio decide di farlo uscire il 16 luglio, un anno esatto dalla morte dell’autore siciliano. Una degna e sentita commemorazione.

Ho deciso, inoltre, di comperare solo la versione definitiva, anche se Sellerio, per suo marketing, ha pubblicato anche un cofanetto con le due versioni (la ’05 e la ’16). Ma a me interessa il procedere dell’autore, ed il modo in cui decide di chiudere la vicenda. Ci sono autori che decidono di far uscire i propri eroi seriali con la loro morte (salvo poi, come Conan Doyle, costretti ad inventarsi una via d’uscita a fronte dello sconcerto dei lettori), e quelli che muoiono prima dei loro eroi seriali (così che qualcuno, tipo David Lagercrantz con Millenium di Larsson viene incaricato di proseguirne la scrittura). Camilleri, coscientemente e sapientemente, decide di tentare una terza via. Far uscire di scena il suo personaggio, insieme all’uscita del suo autore, cercando di trovare il modo che non sia possibile “resuscitarlo”.

Ecco, prima che sulla trama in sé è bene concentrarsi su questo gioco filologico e filosofico, con cui Camilleri sfida i lettori e l’editoria tutta. Intanto, cerca di giustificare la stanchezza di Montalbano non con l’avanzare dell’età, ma con il confronto con l’eponimo eroe televisivo. Entrando, come viene detto, in un gioco pirandelliano, cui prende parte anche l’autore. Anzi l’Autore con la maiuscola. Così che Camilleri ci disvela il fatto che stiamo leggendo un libro, che lui può decidere a suo piacimento come e dove far andare la trama. E che ci sarà sempre chi ne cercherà la trasformazione in episodio televisivo. Ma non sarà facile per Zingaretti parla da Salvo con Zingaretti. O con Camilleri.

Altro elemento che serve a chiudere il ciclo, è la riflessione filosofica, indotta dal vescovo di Montelusa, a margine degli avvenimenti. Dove, dietro a domande apparentemente solo pertinenti alla filosofia morale, spaziando da Socrate a Giovanni di Salisbury, da T. S. Eliot a Pascal, Camilleri fa fare un ragionamento personale suo proprio sul male e sull’omicidio. Dove, riassumendo, si può giustificare o trovare delle attenuanti a chi uccide, ma solo a livello dei giudici. Il poliziotto deve solo cercare la ricostruzione degli avvenimenti, ed assicurare alla giustizia chi commette un reato. Fatto salvo poi, se il reato è giustificato da elementi morali, mettersi alla testa di una campagna di liberazione.

La bravura di Camilleri, fin dall’inizio dei suoi scritti, sia quelli storici che quelli “di cassetta” come malamente dice Montalbano dei libri (che poi sono solo di grande diffusione), è quella, in ogni caso, di procedere con una storia, che ha tutti i crismi di un articolo di cronaca giornalistica. Poi ne sfrutta i rami per le sue elucubrazioni, che guarda caso ci trovano spesso convergenti. Facendo anche un ultimo sforzo per ritrarre e fermare l’azione dei comprimari. Così, Augello non compare, che già da tempo sembra allontanarsi dall’orizzonte di Camilleri. Fazio continua ad essere il braccio pensante di Salvo, portandogli a sostegno tutti gli elementi che consentono al nostro la soluzione del caso. Infine, Catarella rimane la macchietta comica di cui non possiamo fare a meno. Soprattutto per le sue entrate in scena, sempre d’effetto.

Di certo, abbiamo anche la storia. La morte di tal Riccardino, poco dopo aver sbagliatamente telefonato a Salvo. Morte che si contorna di molti elementi che ne arricchiscono la trama: Riccardino era alla testa di altri tre (moschettieri?) dediti a poco chiare trame. Ma tutte legate alle loro attività. Riccardo in quanto direttore di Banca ed elargitore discrezionale di prestiti più o meno ingenti. I suoi tre amici, impiegati nella Miniera di Sale a livello amministrativo, a coprire ammanchi di gasolio, ed entrate ed uscite di droga, magari per compiacere anche un boss mafioso amico dei padrini locali (che dai primi romanzi sappiamo essere i Sinagra e tutte le loro ramificazioni). Sodalizi strani, che Riccardo, per mantenere il controllo sui suoi sodali, decide di accoppiarsi a rotazione con le loro mogli, tutti essendo consenzienti. Tutti meno la tedesca moglie di Riccardo. Che tutto vede, tutto tace, anche il sodalizio del marito con il boss. Camilleri gira e rigira sull’evoluzione del racconto, che ci vuole portare ad una fine, della trama, del testo, di Salvo. Così che propone due diversi possibili finali (starà a voi decidere e capire quale che sia il migliore), così che possiamo dire, noi, da fuori, che stiamo leggendo un libro Sellerio e non “La Gazzetta di Sicilia”), nonché un modo interessante per Salvo di scomparire.

Con Pirandello, con la filosofia, con l’entrata ed uscita dell’Autore dalle pagine, con la bravura di Camilleri di farci vedere possibili scenari finali delle vicende narrate, è un modo interessante, dotto e definitivo di dire: io ho costruito un mito, io ora decido che sia il momento di fermarsi. Perché ormai io, Camilleri, non ci sono più. Vi lascio Montalbano, ma in modo che ne rimarrà, da ora in poi, solo il ricordo.

Ho gradito molto l’impegno di Camilleri a costruire una trama veramente finale. Forse manca un pizzico di “amor di pancia” per far salire ancora di più il gradimento. Perché, e qui si rimane aperti, Livia c’è e vorrebbe vacanziare in posti esotici. E Salvo lì non riesce a trovare vie d’uscita. Ma va bene anche così, dove io eponimo autore, continuerei la saga da Genova e non da Vigata. Staremo a vedere. Per ora godiamoci una bella prova di un compianto autore.

Hanya Yanagihara “Una vita come tante” Sellerio   s.p. (Regalo di Nico&Benny)

[A: 07/05/2019 – I: 11/09/2020 – T: 15/09/2020] - &&& --

[tit. or.: A Little Life; ling. or.: inglese; pagine: 1094; anno 2015]

Di certo un libro che per mole ricorda i classici russi dell’Ottocento. Purtroppo, non per contenuto, anche se la brava scrittrice hawaiana non perde colpi sino alla fine. Non diventa mai troppo pedante, parla e ci narra, magari alternando le voci (sempre però senza farci perdere il filo), ed alla fine ci fa scorrere qualcosa come una quarantina di anni, concentrandosi sulla vita e sulle amicizie di quattro tipici americani.

Ho detto hawaiana, ma Hanya è qualcosa in più: padre hawaiano con discendenza giapponese e madre coreana. Lei comincia come giornalista, per poi interessarsi ai problemi dei diseredati e dei disadattati, divenendone cantrice e scrittrice. E questo percorso ben si evidenzia nella scrittura, laddove si riescono a digerire le più di mille pagine in meno di una settimana. Cosa impossibile se la scrittura non fosse fluida.

Ma è ovvio che un tale libro non può che essere complesso. Talmente complesso (e lungo) che in America è uscito un libro che si intitola “Riassunto di ‘A Little Life’”, dove in un centinaio di pagine si riportano i personaggi, le loro azioni, le loro posizioni nel testo, ed un filo di trama, dove in effetti non è che sia una trama di per sé complicata, ma solo lunga, dovendo seguire i nostri eroi dall’adolescenza all’anzianità. Inciso ovvio: il titolo inglese è appunto “Una vita piccola”, intesa anche come corta, ma anche senza molta importanza, come tutte le piccole cose. Poco consono, al solito, il titolo italiano di una vita come tante. Anche perché la vita dei protagonisti non è proprio “come tante”. Ha una sua particolarità, una sua essenza, la sua e quella dei suoi personaggi.

Certo, il messaggio di fondo è di un pessimismo globale, anche se in linea con la poca fiducia nella bontà del mondo. Per quanto si cerchi di fare qualcosa di positivo, niente riesce bene, tutto va sempre a finire male.

Comunque noi attenti lettori, invece di leggere il compendio di cui sopra ci accontentiamo del sunto che viene fatto dei personaggi e delle loro manie a pagina 752. In effetti, i personaggi sono quattro, i quattro amici dei tempi del collage, che all’epoca condividevano alloggi e momenti di vita. E che poi sono cresciuti, hanno avuto il modo di esprimersi nel mondo, di allontanarsi magari, per poi convergere e tornare insieme.

In quattro, in modo diverso, hanno una modalità di conforto, quasi di “auto-conforto”, testo a “dominare” l’ansia del mondo: Malcom con le sue casette, Willem con le sue ragazze, JB con i suoi quadri e Jude con i rasoi. Ecco, così avete anche i nomi dei nostri eroi, anche se poi l’eroe eponimo, quello centrale in tutto il testo è Jude.

Facciamo però un passo indietro: i quattro come detto si incontrano al college e le loro piccole vite si intrecceranno per i tre decenni successivi. Tutti finiscono poi per vivere o abitare a New York, dove comunque come detto il protagonista (o il mistero da affrontare) è Jude.

Anche se nella prima parte Jude rimane un po’ defilato. Consociamo i suoi coinquilini; JB un artista brillante cresciuto da una famiglia di donne che cerca la sua identità mascherando con l’egoismo le sue ansie; Willem il più bello del gruppo, insicuro anche se da bel tenebroso si circonda di donne innamorate, mentre fa il cameriere sognando di diventare un attore; Malcom studia architettura, proviene da una famiglia benestante, adottando un basso profilo per schivare domande scomode sui suoi reali desideri.

Mentre Jude li osserva e … pulisce casa, cucina, studia legge e matematica. È intelligente, forse anche troppo, ma soffre di zoppia, per un imprecisato (all’inizio, poi tremendo) incidente avvenuto in un remoto passato. Che Jude ha attraversato molte zone d’ombra, di cui non parla, glissa sulle sue strane abitudini, non si fa mai vedere nudo. Perché come detto sopra, lui si aggrappa ai rasoi, si tagliuzza infliggendosi sofferenze al limite del sopportabile, per riuscire a sopportare la sua “piccola vita”.

Come detto, e come scoprirete, ogni pagina è sofferenza, ogni passo avanti ne prevede molti indietro. Anche quando sembra che tutto possa volgere al meglio. Anche quando, finalmente, Willem e Jude si dichiarano e vivono la loro storia omosessuale piena di amore. Un amore universale, inteso anche come un disperato tentativo di trovare pace, di amare per guarire ed essere guariti. Ma a Jude nessuna sfiga viene risparmiata. E tutti questi patimenti, come tutte le punizioni autoinflitte, vengono descritte con puntigliosa drammaticità, per renderci partecipi, anche noi, di questo dolore insopportabile che si chiama vita.

Che ben presto anche noi lettori ci si domanda a che scopo si può, si deve continuare a vivere, se il prezzo da pagare è questo? Alla fine, sapremo come andrà a finire per Jude, per Malcom, per Willem e per JB. Alla fine, vedremo l’impossibile felicità e la possibile tristezza. Alla fine, capiremo se ci è piaciuto o meno. Tanto che ora, sinceramente, non saprei se consigliarlo o meno, al contrario di Nico che me lo ha regalato. Sono contento del regalo. Non so se vorrei che anche altri stessero male.

Che io sono un inguaribile ottimista, sino alla fine. E mi aspetto sempre un finale felice. Sempre e ovunque. Ma forse non ci sarà.

“Sperimentò l’incomparabile gioia di vedere le persone che amava affezionarsi ad altre persone che amava.” (198)

“Stava iniziando a rendersi conto che un giorno le persone di cui aveva imparato a fidarsi avrebbero potuto tradirlo; che, per quanto fosse triste ammetterlo, non poteva farci niente e che la vita avrebbe continuato a spronarlo, perché per ogni persona che un domani lo avrebbe deluso ce n’era almeno un’altra che non lo avrebbe mai fatto.” (270)

“Chi non ama la matematica accusa sempre i matematici di fare di tutto per renderla complicata … Ma chiunque ami la matematica sa che è esattamente il contrario: la matematica premia la semplicità, e i matematici la apprezzano più di ogni altra cosa.” (433)

“La vita era qualcosa di spaventoso e inconoscibile.” (752)

“Provare a risolvere il mistero di una persona equivale sempre a ripararla.” (778)

Questo tormentato novembre avendo cinque domeniche, ritorno all’uso solito di allegarvi un recupero di libri curativi letti dopo aver passato la lettura della relativa malattia.

Malattie che speriamo si continui a tenere il più lontano possibile. Compatibilmente. Curandoci laddove serve, e dando un pensiero di conforto a chi, come il mio amico Emilio, non sa più dove sbattere la testa tra tanti e diversificati malati. Noi si può fare altro? Non so, io per alleviare possibili tristezze, continuo ad abbracciarvi .

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

Quasi IMMACOLATA 2020

Come sapete, se ci sono cinque domeniche, nell’ultima provo a recuperare cure passate o saltate.

RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE GIÀ DESCRITTE

Evasione, i dieci migliori romanzi

Quando avete bisogno di scordare la pena che avete nella testa, nel cuore o nel corpo; quando aspettate un autobus che non arriva mai; quando volete sganciarvi della routine quotidiana, svignatevela con uno di questi:

Roberto Bolano       “I detective selvaggi”

Raymond Chandler   “Il lungo addio”

Joseph Conrad         “I duellanti”

Julio Cortazar          “Il gioco del mondo”

Alexandre Dumas     “Il conte di Montecristo”

E. M. Forster           “Passaggio in India”

Graham Greene       “Il nostro agente all'Avana”

Jerome K. Jerome    “Tre uomini in barca. Per non parlare del cane”

Stephen King          “Stagioni diverse”

Nevil Shute             “Una città come Alice”

Novant’anni, avere

I dieci migliori romanzi per novantenni

Heinrich Böll                  “Opinioni di un clown”

Lewis Carroll                  “Alice oltre lo specchio”

Charles Dickens              “Casa desolata”

Ernest Hemingway          “Il vecchio e il mare”

Milan Kundera                “Il libro del riso e dell’oblio”

Primo Levi                     “Il sistema periodico”

Gabriel Garcia Marquez    “L’autunno del patriarca”

Salvatore Satta              “Il giorno del giudizio”

Mario Soldati                    “America primo amore”

P. G. Wodhouse              “La stagione degli amori”

RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE PASSATE

Cinquant’anni, i dieci migliori romanzi per cinquantenni

J. M. Coetzee              Vergogna

Joseph Conrad             Cuore di tenebra

Hermann Hesse           Il gioco delle perle di vetro

Elfriede Jelinek            La pianista

Doris Lessing                Il diario di Jane Somers

Javier Marias               Domani nella battaglia pensa a me

Philip Roth                  Lamento di Portnoy

Salman Rushdie           I versi satanici

José Saramago            La zattera di pietra

Anne Tyler                  Ristorante nostalgia

Bugiardino

Eccoci allora alle prese con elenchi di letture per persone di una certa età, ma anche di una certa maturità (90 e 50 anni), nonché una piccola puntata di evasione. Ve ne ripropongo quelli messi in grassetto in ordine di elenco.

Roberto Bolaño “I detective selvaggi” Adelphi s.p. (regalo de “I Floridi”: Mario, Ines e la signora Laura)

[tramato il 19 luglio 2020]

Un libro che impegna nella lettura pieno com’è di rimandi e di informazioni altre. Ma una delle prove migliori, per me, tra quelle del mio coevo Bolaño (che in effetti è nato dieci giorni prima di me) che ormai da troppo tempo ci ha lasciato. Il romanzo è veramente complesso, tanto che meriterebbe un libro a sé per poterne parlare, e decrittare tutte le sfaccettature. Di certo è il tentativo di uno scrittore con una testa meravigliosa di lanciare un peana, o meglio come direbbe uno dei suoi personaggi, Juan Garcia Madero, una trenodia ad una generazione centroamericana che uscirà con le ossa rotte dal calderone della storia.

Non solo è complesso nella storia, ma lo è anche nella struttura, tripartita e polifonica. Il nodo centrale è l’incontro di vari giovani latino-americani, scrittori, poeti o comunque vicini alla letteratura (anche giornalisti, grafici di riviste, ed altro) che convergono verso la creazione di un movimento letterario dal nome attraente “realismo viscerale”. Movimento che qualcuno di loro fa risalire ad un analogo, simile movimento degli anni ’20, che avrebbe avuto esponente di spicco una poetessa, Cesarea Tinajero, poi scomparsa senza lasciare traccia nel distretto di Sonora (una regione semi-desertica di confine tra Messico e Arizona).

Già da questo vediamo il mascheramento ed il tentativo dell’autore di descrivere un’epopea basata sui rimandi.

Infatti, si vede in trasparenza il movimento che intorno al 1974 fondarono lo stesso Bolaño ed il suo carissimo amico Mario Santiago con il nome “infrarrealismo”. L’idea dei due è di dare vita, in Messico ed in lingua spagnola, ad una “cosa” (e mi scuso ma non c’è un nome singolo per quello che volevano fare) che percorresse strade analoghe, letterarie e di vita, alla Generazione Beat americana degli anni ’50. Anche il movimento messicano aveva un antenato anteguerra mondiale, con lo stesso nome, legato però non ad uno scrittore ma al pittore cileno Roberto Matta, che lo avrebbe coniato quando fu espulso dal movimento surrealista da parte di André Breton. Anche il “realvisceralismo” di Cesarea aveva avuto a suo tempo un ombrello da cui fu espulso. Ero lo “stridentismo”, fondato nel 1921 in Messico dal poeta Manuel Maples Arce, anche qui un movimento interdisciplinare, legato al sociale, con radici nel futurismo, nel dadaismo, nel surrealismo, così denominato per il gran rumore che suscitò alla sua comparsa (stridente à rumore sgradevolmente acuto secondo il dizionario). Già da questa genesi vediamo la complessità dell’idea di base.

Ma anche la struttura, come detto polifonica, è magistrale.

Il libro è composto da tre parti.

La prima e la terza sono il diario scritto dal giovane Juan Garcia Madero, diciassettenne innamorato di poesia, che ci racconta gli avvenimenti da lui vissuti dal novembre 1975 al febbraio 1976. L’incontro con i fondatori del “realvisceralismo”, Arturo Belano e Ulises Lima. La sua entrata nel movimento. L’incontro con tutti i personaggi che gravitano intorno, in special modo le donne (di cui si innamora ed altro). La fuga con Arturo, Ulises e l’ex-prostituta Lupe sia per sfuggire al di lei magnaccia, sia per cercare tracce di Cesarea nello stato di Sonora. Di certo non vi dico cosa succede prima, durante e dopo questa ricerca, e se viene trovata Cesarea, ed altro.

La parte centrale, corposa e molto articolata, è invece basata su decine e decine di voci diverse, che raccontano cosa succede della vita di Arturo e Ulises dal 1976 al 1996. Questo coro, cui i due letterati centrali del romanzo non partecipano mai, ci farà seguire le loro gesta.

Arturo, il cileno, e le sue donne. I suoi amici omosessuali. La sua fuga in Europa, dove farà mille mestieri, dal commesso, al guardiano di campeggio. I suoi matrimoni, e forse uno o due figli. La voglia di non star mai fermo, come se avesse paura di qualcosa. La sua seconda ed ultima fuga in Africa, dove, come Rimbaud, pare (o riesce?) voler perdersi senza ritorno.

Ulises che invece rimane ancora in Messico all’inizio, ed è quasi ignorato. Ma che poi va anche lui in Europa, si incontra con Arturo, poi decide di andare a trovare una sua fiamma in Israele, dove trova che questa è sposata con un altro. Il ritorno in Messico. L’incontro con l’ormai anziano Octavio Paz, l’emblema contro cui i realvisceralisti avevano scagliato le prime pietre.

Ma queste sono solo piccole piume della ricchezza della scrittura. Perché ogni voce, ogni persona che interviene, fa nascere spesso un microracconto interno al romanzo. Un racconto che a volte si esaurisce, a volte si riprende più tardi. E da tutte queste voci, che di sicuro non riesco a riportare qui, alla fine esce fuori il monumento dolente di una generazione. Di un insieme di intellettuali che avrebbero voluto portare novità, che avevo iniziato a portarne, ma che, come di tutte le cose, alla fine rimane solo qualche elemento, qualche rovina, anche se delle rovine bellissime.

Qualcuno, meglio attrezzato di me, parla di una “educazione sentimentale” alla Flaubert legata a persone e a movimenti. Non so, non mi pronuncio. Quello che è certo, è che dietro ogni personaggio c’è sempre una persona. Non a caso i due di cui cerchiamo di capire le gesta e la vita, Arturo e Ulises, sono gli alter ego di Bolaño e di Mario Santiago. Come molti altri personaggi, per cui penso che dedicherò del tempo a ritrovarne voci e sentimenti nello spazio e nella memoria. Nel libro Arturo-Roberto sparisce e Ulises-Mario rimane a vagare in una Città del Messico che, ad ogni passo, mi torna alla memoria.

Nella realtà, in quel 1998 in cui finì la scrittura, Roberto stava ormai da tempo a Barcellona, cercando di curarsi per un male che ce lo porterà via cinque anni dopo. Mario stava sì in Messico, ma venne travolto in un incidente stradale e non riuscì mai a leggere di questi detective selvaggi. Di questi cercatori che le voci del bravissimo cileno utilizza per cercare di trovare, e di presentarci, l’anima di una generazione. Investigatori dell’anima e scopritori di sentimenti.

Un libro che a volte è troppo “messicano” per me profondamente occidentale. Ma che mi ha stimolato, mi ha preso, e mi ha fatto voglia di andare oltre. Di viaggiare, col corpo e con la mente. Di visitare il deserto di Sonora, e di trovare i segni del passaggio di Juan Garcia Madero, uno dei pochi al mondo che sapeva cosa fosse l’epanadiplosi.

“Tutti i libri del mondo stanno aspettando che io li legga.” (20)

“Peccato che il tempo passi, vero? peccato che si muoia e si invecchi e che le cose belle si allontanino da noi al galoppo.” (204)

“Le storie che si raccontano negli aeroporti si dimenticano in fretta, a meno che non siano storie d’amore.” (560)

Mario Soldati “America primo amore” Sellerio euro 12 (in realtà scontato a 10,20 euro)

[tramato il 5 agosto 2018]

Ricordo, nelle nebbie della memoria, di aver letto, venti anni fa almeno, “La giacca verde” di Soldati, forse perché entrò in qualche lettura paterna di campagna. Ma Soldati lo ricordavo e lo ricordo per l’immagine con il sigaro e la regia di “Piccolo Mondo Antico” (soprattutto per quella filastrocca “Ombretta sdegnosa…” che risuonava nella mia mente di bimbo intorno ai dieci anni). Così, ho accolto con interesse l’invito a leggere questo libro, che le mie “amiche” di libro sostengono essere utile a chi raggiunge i novanta anni. Cosa sulla quale fin da ora dissento. Anche perché il libro, o meglio la serie di articoli giornalistici scritti dall’autore nel suo primo soggiorno americano, sono interessanti, intensi, ed aiutano a scoprire (o riscoprire) quel mondo di là dell’oceano, che tanto è presente sia nel nostro immaginario che nel nostro reale. Soldati ha 23 anni, da poco laureato, vince una borsa di studio di un anno alla Columbia University, e, deluso dal clima italiano post Patti Lateranensi, va in America deciso, internamente, di emigrare. Vi passerà due anni (uno di borsa ed uno nel tentativo di restare laggiù), ma non trovando sbocchi, dovrà, amante deluso, tornare in Italia. Dove pubblica diversi articoli sulla sua esperienza americana. Articoli che nel 1935, assemblati e ripensati, decide di pubblicare in un libro. Un libro d’amore per la sua “idea America”, con le sue speranze, le sue scoperte, i suoi giudizi. Siamo nel pieno dell’ondata fascista degli anni Trenta, e non tutto quello che Soldati pensa riesce ad essere espresso. Fortunatamente riprenderà più volte il libro nel corso degli anni, e, come magistralmente ci mostra la post-fazione di Salvatore Silvano Nigro, lo renderà un insieme compatto e coeso. Riordinare gli articoli, limarli, raccordare i tempi, serve, a lui ed a noi, per fare un viaggio insieme al possibile emigrante. L’imbarco sul “Conte Biancamano”, la traversata, la conoscenza con i primi italo-americani (magistrale l’incontro con il fallito baritono), e tutte le traversie che il nostro passa sul suolo americano. È stato bellissimo, per me che avevo a trent’anni il mito americano, e che proprio sul limitare di quell’età, per la prima volta varcai l’oceano (con un improbabile volo Roma – Belgrado – New York), ripercorrere con i suoi occhi alcune delle tappe che mi hanno fatto amare – odiare quel mondo. L’arrivo nella Grande Mela, il passeggiare tra le “street” e le “avenue”, gustare Battery Park, entrare e rimanere, più e più volte, nel coacervo di suoni e di odori di Times Square. Ricordo ancora lo stupore di vedere, oltre il Greenwich e verso Tribeca, le scale antincendio esterne. Come nei film. Come se anche io fossi in un film americano. Soldati incontra la comunità italo-americana e non ha parole di elogio per questi immigrati che di italiano, ormai, hanno solo il cognome. Lo capisco. Come capisco, una volta che finiscono i soldi, il suo immergersi nel mondo dei poveri: fare lo sguattero in condizione miserrime, cercare di coniugare il pranzo con la colazione del giorno dopo (che la cena si può saltare). Come non stargli vicino quando viene rapinato a Chicago (ed io che ricordo quel ristorante vicino al Palazzo delle Nazioni Unite dove assistetti ad un inseguimento tra un ladruncolo ed un poliziotto). Quanta nostalgia leggere di pezzi di New York che erano già scomparsi quando ci sono andato la prima volta, cinquanta anni dopo Soldati, e che ancor di più sono spariti ora. Anzi più che ora, due anni fa quando ci sono andato per l’ultima volta (anche se spero di tornarci ancora). Le chiese, i cattolici americani, ma anche i gospel di Harlem, lassù, oltre la 105^ strada. Dopo il percorso, che le sue parole ricostruiscono (l’arrivo, New York, Chicago, i risentimenti, l’addio), due articoli sono rimasti impressi, fuori dagli schemi del girovagare diurno, delle parole, dei gangster, degli amori fugaci. La bellissima disamina dei film americani, con quell’affermazione che riporto e che condivido in pieno. La cattivissima sparata contro il mondo accademico americano. Certo viziata un poco dal fatto di essere stato rifiutato. Ma di un’esattezza scientifica: in un mondo basato sul mito del denaro, fare il professore risulta a volte un ripiego per chi si tira fuori dal mondo “di lotta” in stile americano. Tanto che spesso i professori sono falliti (o quasi) e tentano di perpetuare il mondo sulla falsariga del loro fallimento. Da un lato riecheggiano le distruttive parole berlusconiane (con la cultura non si mangia). Dall’altro, ricordo perfettamente lo scontro con i colleghi d’oltre oceano, ai tempi universitari, che sapevano perfettamente “come” funzionasse ad esempio un telefono, ma non si erano mai domandati “perché”. Ciliegina sulla torta americana, i due ricordi incrociati, di Soldati e del suo grande amico Carlo Levi, su come nacque la copertina della prima edizione, all’alba dell’arresto e dell’avvio al confino dello stesso Levi. Da leggere assolutamente. Come va letto il libro. Che mi riporta ad amare quell’America che non aveva ancora Trump, ma di cui ricordo lo spaesamento, un dì, in un caffè di Flagstaff, guardato con meraviglia da un locale, quando gli dissi che vivevo a Roma, vicino al papa. Esperienze che non si scordano.

“Dormire in una camera, mangiare ad una tavola per cui non debba pagare immediatamente mi dà il senso del gratuito. Alla fine … presentano il conto … Ma pagare un conto non è pagare per avere qualcosa … è fare un sacrificio misterioso … a ignote potenze organizzate.” (153)

“Meglio vere paure che orribili fantasie.” (207)

“Un film americano innanzi tutto e sempre è un film. Cioè non annoia.” (209)

Joseph Conrad “Cuore di tenebra” Feltrinelli s.p. (Natale di Giovanni&Clara)

[tramato il 21 luglio 2019]

Seppur ho letto abbastanza di Conrad (non tutto, non esaustivo, ma significativo) è sempre un autore cui mi avvicino con amore e timore. Questa volta l’approccio è stato guidato da un gradito Natale passato a casa di Giovanni, con un regalo inaspettato, gradito perché, in ogni caso, pensato. Allora torniamo ancora su Conrad, e su questo testo che forse, alla fine, mi riconcilia un po’ con l’autore anglo-polacco (ricordo che nasce in una cittadina ora ucraina ed al tempo polacca ma sotto la Russia zarista con il nome di Józef Teodor Nałęcz Konrad Korzeniowski). Ovvio che Conrad è troppo noto perché mi dilunghi sulle sue note biografiche, ricordo solo che, durante i suoi sedici anni sul mare, in uno dei viaggi risalì il fiume Congo a bordo di un battello battezzato “Roi des Belges”. Questo uno dei più profondi background dell’opera. Come, di sicuro, qualcosa dell’ultima parte della vita di Rimbaud influenzò alcune idee di scrittura. Il secondo elemento di grande attrazione che mi ha dato il libro, è la post-fazione di Alessandro Baricco, dal titolo “Andata e ritorno: destinazione l’orrore”, che è riuscita a mettere al proprio posto alcuni degli elementi sia basilari del testo, sia esemplari del mio odio-amore per l’autore. Inciso, ma anche invidia, quando trova, due anni prima della scrittura di questo che è solo il suo quarto romanzo, l’amore per la semplice Jessie, che lo sosterrà per tutto il resto della sua vita. Se vogliamo tronare al testo, o meglio, se vogliamo iniziare dal testo e dalla trama (come d’altronde suggerisce il titolo delle mie note), la struttura narrativa è semplice. È una “tale novel”, cioè un romanzo (“novel”) basato sul racconto di un personaggio (“tale”), tanto che, come dice Baricco, potrebbe essere descritto come virgolettato dalla prima all’ultima riga. Il racconto ci viene dalla bocca di Charles Marlow, uomo di mare dalle tante esperienze, ricalcato da qualcuno dei tanti capitani che Conrad incontrò nella sua vita, che aspettando l’alba in un momento di bonaccia sulla “yawl” Nellie navigante sul Tamigi (chiederei poi al mio amico Renato che tipo di imbarcazione sia e se risulta che da pescherecci nell’Ottocento divennero barche da regata in solitaria ai nostri giorni) parla di un’esperienza che gli ha segnato la vita. In un momento di scarsa attività marinara, infatti, Marlow ottiene l’ingaggio su di una barca che dovrebbe fare da raccordo per gli insediamenti commerciali stabilitisi lungo il fiume Congo. Dopo un lungo prologo, in cui cominciamo a temere che la tempra europea poco si adatti ai climi africani (e ben lo sappiamo), Marlow arriva alla base commerciale. Dove ne vede il degrado. Dove comincia a vedere lo sfruttamento dell’uomo bianco sui locali. Dove sente per la prima volta il nome di Kurtz. Un mitico rappresentante locale dell’uomo bianco, relegato in uno degli avamposti più sperduti, dedito al procacciamento di avorio. Tra malattie ed isolamenti, Kurtz sviluppa una sorta di pazzia paranoica, di sete di potere, facendo cadere ai suoi piedi i poveri negri con i mezzi altri, avanzati, non noti, che i bianchi portano con sé. Ma Kurtz è andato troppo in là, forse vuole fondare il suo impero d’avorio verso le sorgenti del Congo. Inoltre, si ammala, probabilmente di malaria o altro inguaribile male tropicale (soprattutto per il tempo). allora Marlow è deputato ad andarlo a prendere. Lo farà, con il direttore commerciale ed altri omuncoli bianchi. Parlerà con Kurtz, probabilmente ne riceverà confidenze di cui non riceviamo traccia. Ma soprattutto lo vedrà morire, pronunciando la terribile frase “The Horror!”. Frase che Marlow capisce nel contesto in cui viene pronunciata, e che tuttavia non riporta alla fidanzata di Kurtz. Cui tuttavia riporta le ultime lettere, di chissà quale contenuto, e l’illusione che l’ultimo pensiero sia per l’amata. In questo modo relegando all’oblio Kurtz, ma dando una speranza di vita nel ricordo alla fidanzata. Due elementi mi vengono dal testo: l’orrore per il colonialismo e la critica verso l’aberrazione del potere Il primo non tanto dalle parole di Marlow, che in effetti narra, descrive, ma prende posizione fino ad un certo punto. Quanto nell’io narrante che ascolta il racconto di Marlow, quell’io in cui mi identifico, rabbrividendo alle descrizioni partecipate ma non critiche di Marlow. Colonialismo ed atrocità commesse dall’uomo bianco che ben conosciamo anche al di là delle parole non di Conrad, ma di Marlow. Situazioni che hanno seminato quel terreno di tanti fraintendimenti, di cui tuttora portiamo tracce negative. Il secondo, invece, nella descrizione dell’ascesa e caduta di Kurtz, mediata, ora e qui, da quell’impagabile apologo che ne fece Coppola con il suo “Apocalypse Now”. Perché sappiamo, anche se solo in modo lato, che Kurtz non è un poco acculturato commerciale, ma ha un retroterra sostanzioso di cultura e familiarità con il benessere. La facilità con cui si riesce ad accrescere le proprie sostanze durante il periodo coloniale lo porta, ad un certo punto, al di là del lecito, verso una follia di dominio e potere, che sarà stroncata non dagli uomini (tutti, da Marlow al direttore commerciale, agli impiegati della compagnia, sono affascinati dall’uomo Kurtz e dal suo successo), ma dall’ambiente, che lo respingerà come elemento alieno, e da cui neanche Kurtz riuscirà a salvarsi. Il debito finale, che devo a Baricco, infine, è la ricostruzione delle modalità narrative di Conrad. Sia per l’uso di una lingua non sua (lui di madre lingua polacca, di gioventù francese, che impara l’inglese solo verso i venti anni) sia per il modo di pennellare il racconto, a volte in modo quasi caravaggesco, facendo risaltare elementi spuri per farci concentrare sui nodi narrativi che ci vuole proporre. L’inglese, come già dicevo ne “La locanda delle due streghe” è semplice, quindi con una propensione alla semplificazione del testo e ad una sua resa immediata verso i noccioli narrativi. Il secondo, ellittico, si dilunga a volte in descrizioni assolutamente marginali, saltando momenti che sarebbero salienti, ma che proprio la loro omissione fa risaltare di più. Come il colloquio tra Marlow e Kurtz, che noi si aspettava da tempo, e che viene liquidato come “Intenso ed interessante”, ma di cui non ne viene riportata alcuna frase. Qui, per stanchezza ed incapacità mi fermo, sperando che altro Conrad risalga meglio dal limbo delle mie memorie.

“Non era un tipico rappresentante della propria classe. Era un marinaio, ma era anche un girovago, mentre i marinai in genere conducono … una vita casalinga … la casa – la nave – se la portano sempre dietro; e con essa il loro paese – il mare.” (8) [dedicata al mio amico Renato]

Hermann Hesse “Il giuoco delle perle di vetro (Saggio biografico sul Magister Ludi Josef Knecht pubblicato insieme con i suoi scritti postumi)” Mondadori euro 12

[tramato il 4 dicembre 2016]

Un’opera ponderosa, complessa, che mi ha impegnato per quasi un mese di lettura non sempre agevole. Ma alla fine, mi ha lasciato con un po’ di delusione nel fondo del cervello. Meno, sicuramente, del precedente Narciso. Lontanissimo, tuttavia, dal mio ricordo di “Siddhartha”. Intanto, inizio subito trasversalmente, che comprai questo libro su indicazione della bibliografia delle libropeute che conoscete ormai bene. Collocandolo prima tra i libri che devono leggere i cinquantenni. Mistero, ma ci si tornerà sopra. poi tra i libri che gli amanti della fantascienza devono leggere per tornare sulla terra. È vero, come dice l’ottima introduzione di Hans Mayer, che l’azione dovrebbe svolgersi intorno al 2200, ma è tutt’altro il pregio ed il difetto di questo libro. Mi permetto di parlare di difetto in senso personale, che non sempre (anzi sempre più spesso) libri osannati e celebrati nell’universo mondo, ad un mio approccio diretto mi forniscono meno stimoli di quanto speravo. Così anche in questo caso, sebbene debba riconoscere che la scrittura, e le cose che Hesse riesce a dire durante tutta la storia di Josef Knecht, sono da leggere e soppesare ad una ad una. Intanto c’è l’impianto generale del libro, imperniato sul giuoco del titolo e su di un Magister dello stesso. Con quattro divisioni generali che ne fanno un’opera come sopra detto complessa. Una prima parte in cui, con parole oscure, si cerca di spiegare l’inspiegabile: cosa sia mai “il giuoco delle perle di vetro”. Una seconda ben ampia che percorre tutta la vita di Knecht. Una breve esposizione di alcune sue poesie (di cui riporto sotto due versi che mi hanno affascinato). Infine, un bellissimo gioco nel gioco. Gli studenti del mondo di Knecht, a varie riprese nella loro vita, sono invitati a scrivere una loro biografia fantastica. Un piccolo inciso: lo trovo un modo bellissimo di esporre la propria personale visione di sé stessi; dovrebbe essere presa come esempio in molte situazioni in cui bisogno presentare sé stessi. Per tornare al libro, Knecht scriverà tre finte autobiografie, e sono altrettanti momenti importanti per capire l’uomo, ma anche per capire Hesse, ed il suo grande tentativo. Quello non solo e non tanto di scagliarsi contro le brutture e le storture del mondo (non dimentichiamo che il libro vede la luce nel 1943 in piena Guerra Mondiale), contro la guerra, contro la febbre del denaro, contro i nazionalismi, ma con il tentativo di sostituirli con valori etici altri. Purtroppo, noi, oggi, siamo ancora lontani dalle utopie del tedesco premio Nobel bandito in patria (tanto che prenderà la cittadinanza svizzera); purtroppo i valori etici che ci descrive sono ancora di là da venire. E spero di non dover aspettare anche io il 2200! Per chi non conoscesse (ancora) il complicato incastro di Hesse, la sua finzione si basa su di una sorta di consorteria (Castalia) dove giovani dotati vengono educati al meglio (e non è un caso che nel meglio siano in primo piano la musica e la matematica). Ogni elemento di Castalia, eccellendo, cresce in qualche arte, e l’andrà insegnando ad altri. L’arte suprema è, poi, il giuoco delle perle di vetro (indescrivibile momento di vita) che governa Castalia e (forse) il mondo intero, e, come tutti i giuochi, deve essere guidato da un grande Maestro, il Magister Ludi. La Castalia è comunque inserita nel mondo (la Provincia), debole e fallace, dove vivono tutti gli altri umani. Ci sono i seminaristi castali che vivono solo per questi ideali e i seminaristi provinciali che torneranno a governare la Provincia (e il Mondo). Knecht, in base a circostanze descritte nel libro ma ininfluenti, viene scelto per far parte dei seminaristi castali. L’ignoto biografo futuro ci descrive tutto il suo percorso di crescita, da umile seminarista a grande (o forse ultimo dei grandi) Magister. Il suo percorso, così come il modo di Hesse di porci le sue idee, si imbatte sin dall’infanzia in una sorta di alter-ego provinciale, tal Designori, con il quale entra in discussione alta e forte, ognuno dei due cercando di portare avanti le giuste ragioni e di Castalia e della Provincia. Designori andrà nel mondo, e Knecht proseguirà nella sua ascesa. Fino a diventare uno dei più giovani e promettenti Magister Ludi. Finalmente, in questa veste, oltre ad insegnare, girerà per la Provincia, capendo che Castalia è un’isola forse felice, ma slegata dalla realtà del mondo. Incontrerà di nuovo Designori, la sua famiglia, la moglie ed il figlio. Perché, scordavo, ma lo avete ovviamente capito, i Castali sono dedicati allo studio, quindi niente sesso per favore. Riprende nella parte finale della sua vita il dibattito acerrimo con Designori, dove però le parti si sono smussate alquanto. Il provinciale, vivendo nel mondo, capisce la bellezza dell’isolamento castalio. Knecht, dalla “torre di vetro”, comprende la bellezza e la necessità della Provincia. La comprende talmente che capisce che solo un gesto estremo potrà dare una scossa alla cristallizzazione castalia. Decide allora di dimettersi dal suo ruolo e tornare nel mondo. Gesto che metterà in crisi tutto l’edificio delle perle di vetro, facendo capire come l’etica senza la pratica possa diventare un momento sterile di vita. Knecht decide di insegnare al figlio di Designori, ma deve, moralmente, pagare il fio del suo abbandono. Morirà quindi annegando in un lago che ha tutte le caratteristiche di un lago di montagna elvetico, e che ricorda, nel sacrifico, la morte di Empedocle (almeno quella leggendaria di una sua caduta nel fuoco etneo). Difficile, complicato ed irrappresentabile per me è tutto il percorso delle onerose pagine. Mi ha coinvolto, cerebralmente, il discorso etico. Ho cercato di seguirne i risvolti, i voli pindarici di Hesse scrittore. E di Hesse travestito in un “Faber Ludi” che vuole insegnarci questa via verso un’etica diversa, ma che, senile ma non invecchiato (in fondo pubblica questo ritenuto uno dei suoi capolavori a 66 anni; ho ancora speranza), non riesce a portarmici dentro fino in fondo. Ci vuole personale più filosofico, più erudito di me. Io mi accontento di sentire la mia testa (spesso) e la mia pancia (sempre). Ed è quest’ultima che non mi porta molto più in là di un apprezzamento formale. E di una sostanziale stanchezza verso tutta l’opera del grande svizzero. È giusto, quanto abbiamo lottato e lotteremo per avere davanti una vita che spazzi via (tanto per fare nomi alla rinfusa) i Berlusconi, i Trump, i Putin. Ma dobbiamo avere accanto, noi uomini e donne fallaci, i nostri amici, i nostri amori, i nostri sostegni reciproci. Insomma, mi mancano dei pezzi verso la felicità, e non riesco ad incollarli a me. Ed Hesse non riesce a farmeli sostituire con altro. Quindi, essendo confuso, finisco qui, facendo l’ipotesi di riuscire, un dì, a scrivere anche io una mia biografia fantastica, dove fare convergere in pace ed armonia tutti i pezzi del me stesso diverso e diviso.

“Studiare storia significa abbandonarsi al caos, ma nello stesso tempo conservare la fede nell’ordine e nel senno.” (172)

“Quanto più invecchiava, tanto più lo attirava la gioventù.” (246)

“Knecht, che in quei mesi si era sentito talvolta molto vecchio, si persuase di essere giovane e forte.” (251)

“Vide che l’altro … non ascoltava come si ascolta una chiacchierata o magari un racconto interessante, ma con quella dedizione assoluta con la quale ci si concentra nel meditare.” (307)

“Ogni inizio contiene una magia / che ci protegge e a vivere ci aiuta.” (465)

“Si racconta di santi e di esseri celesti che, affascinati da una donna deliziosa, la tennero abbracciata per giorni, mesi e anni fondendosi con lei, tutti compresi del piacere, dimentichi di ogni altra preoccupazione.” (556)

Doris Lessing “Il diario di Jane Somers” Feltrinelli s.p. (regalo di Sara & Giampaolo)

[tramato il 15 maggio 2016]

Lunga ma forse spiegabile la storia di questo libro e della mia lettura. Intanto, come vedete dal titolo, l’originale riporta “Diario di una Buona Vicina”, che con questo titolo uscì, con la firma “Jane Somers”. L’autrice, infatti, scrivendo un libro diverso dai suoi precedenti usò uno pseudonimo per sfidare, in un certo senso, il mondo delle lettere. Come sarebbe stato accolto un libro di una sconosciuta? Un libro che non rimandava subito ad una autrice nota ed affermata? L’accoglienza, pur se non entusiastica, fu buona, anche se non facile l’uscita, che i suoi editori storici lo rifiutarono, con un commento lapidario (“troppa angoscia”). Solo due anni dopo Doris svelò il mistero, ed il libro ebbe da allora una sua buona riuscita. Il secondo passo è la mia lettura, che alla fine degli Ottanta ero “innamorato” della scrittura della Lessing, e cominciai a leggerlo. L’ho abbandonato dopo 30 pagine, non riuscivo ad entrare. Ora, sotto altre spinte motivazionali, l’ho ripreso. E l’ho letto. Angosciato, ma l’ho letto. Ed è un buon libro. Con alti e bassi, ma con una scrittura potente, che ti lega non agli avvenimenti (che poco succede) ma al susseguirsi dei ragionamenti della Jane Somers che scrive un diario degli avvenimenti della sua vita intorno al suo cinquantesimo compleanno (Doris l’ha scritto a 65 anni). L’io narrante è una donna di successo, redattrice di una rivista alla moda. Da poco è morto il marito Freddie, di cancro, ma sarà per le paure della morte sarà per un legame lasco, sembra che Jane non sia partecipe in modo particolare. Come non lo è alla successiva morte della madre. Continua a fare la vita mondana, incontri, sfilate, serate di sesso senza importanza, lunghe ore di relax e meditazione nella vasca da bagno. Poi, improvvisamente, l’incontro con la novantenne Maudie. Malata (soprattutto di vecchiaia), antipatica, bisbetica, eppure tenacemente attaccata alla vita. È un incontro fulminante, dove la cinquantenne Jane, nel momento di riflessione sulla sua vita, si trova davanti una soluzione, difficile, inattesa. Diventare amica di Maudie. Non, come dice il titolo inglese, una “Buona Vicina”, che è una figura esistente nella gestione degli Affari Sociali a livello locale in Inghilterra. Che è una figura come dire di supporto, come i pensionati che aiutano gli alunni ad attraversare la strada vicino a casa mia. No, lei diventa proprio amica, ed è tutto il percorso del rapporto tra una specie di intellettuale, e la povertà di anziani soli, che pervade il libro. Lo rende pieno di interrogativi. Cosa fanno gli anziani che non hanno nessuno, e che i servizi sociali vorrebbero “rinchiudere” in strutture lontano dagli occhi? Il percorso comune di Maudie e Jane è duro ma pieno di folgorazioni. Quando Maudie se la fa sotto e Jane, vincendo repulsioni e paure, la lava, è uno dei momenti forti, che tanti echi, anche personali, riporta alla mente. E poi Maudie (ma anche altre vecchie intorno) “parlano di sé”, delle loro vite, giovinezze, amori, paure e desideri. Da qui, ogni tanto, si diparte la coralità dei romanzi di Doris Lessing, quelli poi pieni di critica sociale (e qui ce n’è, anche se stemperata dal bisogno personale di comprendere la propria vecchiaia). C’è la storia di Maudie, e poi di Anne, e poi di Elize, e poi di Bridget, e poi, e poi. In mezzo, sempre anche la storia di Jane, che riflettendo sul progredire lento e inesorabile del tempo, si accorge di poter dare cose diverse alla vita. Non solo essere la capo redattrice di una rivista. Così, dalle fantasie di Maudie, le nascono bisogni e realizzazioni di romanzi. Ed un avvicinamento alla famiglia (soprattutto alla nipote), un allentamento dei vincoli con il lavoro, l’accorgersi che anche lei è “senza amici”, dove l’unico rapporto era con Joyce, che ormai se n’è andata in America. Doris per mezzo di Jane ci fa ragionare sulla nostra vita che scorre, sul “preteso” intellettualismo della nostra vita, sulla frattura che si può creare tra l’idea di sé ed il sé di ogni giorno, quello che fatica a fare le scale, che ha un “colpo della strega”, che magari fuma troppo, che quando ha l’influenza sta in casa e non c’è nessuno che gli faccia un brodo caldo. Ed il rapporto con gli altri, non quello di carità ma quello di empatia. Insomma, ora ho apprezzato il libro. Forse, come dice il mio amico Roberto, c’è un tempo giusto per leggere ogni cosa. Ora che le persone che conosco invecchiano e muoiono (saluti Zap), ora Doris mi colpisce nel vivo con un pugno allo stomaco. Perché, ed è ovvio, Maudie a 94 anni muore anche lei. Lasciando Jane e noi a riflettere su cosa fare del resto del nostro tempo.

“Quanti errori sto commettendo nel tentativo di fare la cosa giusta,” (31)

“Noi facciamo le nostre scelte molto tempo prima di renderci conto di averle fatte!” (72)

“Io non sono mai stata capace di tirar via sul lavoro. Dovevo fare tutto per bene.” (100)

“I vecchi sono i peggiori nemici di sé stessi.” (135)

“Ormai lo so che è inutile dare consigli alla gente.” (217)

José Saramago “La zattera di pietra” Feltrinelli euro 9,50 (in realtà, scontato a 8,08 euro)

[tramato il 18 marzo 2017]

Non amo particolarmente la scrittura di Saramago, che trovo spesso difficile, almeno per il mio leggere, tant’è che, insieme a Nabokov, è uno dei pochi scrittori di cui a volte ho abbandonato la lettura. Eppur tuttavia continuo a leggerne, sotto spinte diverse. Curiosità, temi trattati o altro. E sempre ne ho ritorni buoni. Come fu in “Cecità”. Com’è stato in questo più che datato viaggio di sospensione della realtà. In cui qualcuno ha voluto leggere (le mie biblioterapeute, ad esempio) uno stimolo per cinquantenni vogliosi di letture. Altri, come me, si sono lasciati trasportare dal duplice binario dell’autore. Concedendogli credito, e seguendolo, con interesse e curiosità, sino alla fine. Ho parlato di doppio binario, che nelle pagine del Nobel portoghese si notano le due storie intrecciantesi, ma con scopi e finalità ben diverse. C’è la storia delle persone, le due donne, i tre uomini ed il cane, che sono toccate e coinvolte negli eventi, ma che, bene o male, seguono anche un loro percorso, una loro costruzione, un loro scopo. E su queste torneremo. C’è poi l’evento scatenante, quello per il quale Saramago ci chiede la sospensione delle domande, ci chiede di entrare nella favola e lasciarsi trasportare. Perché, senza motivi spiegabili, si crea una frattura lungo i Pirenei, e la Penisola Iberica si stacca dall’Europa. Frattura che si ripercuote a sud, staccando Gibilterra dalla penisola. E questa zattera di pietra, scivolando tettonicamente nell’Atlantico, evita miracolosamente le Azzorre, poi si dirige verso sud, sistemandosi in mezzo, tra America ed Africa. Questa finzione serve allo scrittore per tutta una serie di strali politici ed etici. L’idea che Hispania (così si potrebbe chiamare l’isola ispano-portoghese) si stacchi dall’Europa, letta in questi momenti di crisi identitaria, è meravigliosa. Una Brexit ante-litteram però fisica. Vediamo il comportamento dei governi, le invettive, la politica. I tentativi nordamericani di crearne un ponte a loro favorevole, il comportamento stesso delle popolazioni. I turisti, i giornalisti, i commentatori. Tutti che non faranno altro che prendere cantonate, meritandosi le invettive corrosive del Saramago polemista. Che però sfrutta anche l’idea folle per cercare di rinsaldare i legami tra i due popoli. Ed il fatto che poi tutto si fermi lì, sulla via delle conquiste che gli stessi popoli fecero in Sudamerica, magari sfruttando da negrieri gli africani, è molto bella, stimolante ed immaginifica. Ma altrettanto bella, e più interessante per me da seguire, è l’epopea delle persone. Di Joana che tracciando una riga per terra con un bastone ha dato il via alla nascita della zattera. Di Joaquim che lancia un masso pesantissimo nell’acqua del mare, quasi a segnare una via alla navigazione. Di Maria che tesse un calzino che non ha mai fine e la cui lana servirà ad unire i nostri viandanti. Di José che viene seguito da uno stormo di uccelli sino a che non trova il suo spazio tra i viandanti. Di Pedro che sente, unico al mondo, la terra tremare, e la sentirà fino alla fine del viaggio, della zattera e suo. E del Cane che raccoglie gli sparsi viandanti, dà loro modo di riunirsi, e li condurrà, silente ma attento, per le strade ex-peninsulari. Fino ad allontanarsi quando il suo compito sarà finito. Il viaggio di questi umani uniti dal caso è quello che personalmente mi ha più avvinto, anche al di là della difficoltà di seguire la contorta prosa di Saramago. La ricerca della loro identità, la realizzazione dei propri obiettivi attraverso l’amore e l’amicizia. Il ruolo della donna che in Saramago non è mai subalterna, non è mai marginale, ma paritaria, con tutta la forza delle proprie convinzioni politiche. È bello vedere l’avvicinarsi prima di Joana a José, poi di Joaquim a Maria. La forza con cui entrambe le donne poi rivendicano il loro ruolo, le loro scelte. Insomma, un bel libro, difficile, giocato sui due piani. Seguiamo sempre tutte le loro peripezie, sia degli uomini compatti nelle loro avventure politico-etiche-geografiche, sia dei nostri eroi, della loro macchina (la mitica Due Cavalli), delle loro scelte, e di tutto quello che combinano. Di cui non vi parlo, lasciando a voi la voglia di scoprirlo. Ripeto, un libro difficile come lo sono spesso quelli di Saramago, ma che lascia dentro un mondo pieno di cose, vecchie e nuove, come le frasi che mi hanno colpito, e voi capirete come e perché.

“Si trattava per lo più di persone dalla volontà debole, di quelle che continuavano a rimandare le decisioni, non fanno che dire domani, domani, ma questo non significa che i sogni e i desideri non ce li abbiano, il male è che muoiono prima di poterne e di saperne vivere almeno una piccola parte.” (37)

“Non è dopo il sogno, che il sogno lo si può vivere.” (74)

“Chiunque è in grado di capire la differenza fra un addio e un arrivederci.” (107)

“Se per amare una persona si dovesse aspettare di conoscerla, la vita intera non basterebbe.” (128)

“È così che io sono, osservami bene … se volessi potrei attirarti nel mio letto … ma bella non sarò mai, a meno che non sia tu a trasformarmi nella donna più attraente che sia esistita.” (153)

Conclusioni

Avere una certa età non è certo una malattia. Quindi vi lascio leggerne senza altri commenti

 

domenica 22 novembre 2020

Quasi ultima Smithologia - 22 novembre 2020

 

Dopo tanto leggere e commentare siamo arrivati (quasi) alle ultime avventure scritte da Wilbur Smith per celebrare la sua grande epopea africana. Un’epopea dove i primi libri (non in scrittura ma in cronologia) partono da avvenimenti inquadrabili nel lato Courteny fin dal 1565, con le gesta del capostipite Sir Charles Courtney. Mentre il lato Ballantyne compare solo nel 178, con la comparsa del medico Fuller Morris Ballantyne. Per poi convergere e proseguire (quasi) in parallelo verso il 1880, all’epoca dell’assedio di Khartum. Dove qui ci coinvolgiamo negli avvenimenti che vanno dal 1918 al 1966.

Wilbur Smith & David Churchill “Grido di guerra” TEA euro 13 (in realtà, scontato a 8 euro)

[A: 21/10/2019 – I: 04/07/2020 – T: 06/07/2020] - &&

[tit. or.: War Cry; ling. or.: inglese; pagine: 533; anno 2017]

(periodo: 1918 - 1941) (COURTNEY 14 & BALLANTYNE 06)

Uno degli ultimi romanzi usciti di Wilbur Smith, che tenta (devo dire con discreto successo) di raccordare varie fasi delle vicende dei suoi eroi durante lo scorso secolo. Due appunti devo fare al sito di Wikipedia dedicato ai libri di Smith: lì si dice che il libro si arresta al 1938, invece in realtà prosegue almeno sino al 1941. Inoltre, si parla di uno dei libri in cui sono presenti le due famiglie, quando concretamente, incontriamo solo il ramo Courtney, essendo presente un Rory Ballantyne in alcune pagine, con un suo piccolo ruolo, ma quasi da cammeo in un film d’autore. Inoltre, anche se di minor entità, il romanzo consente di migliorare la costruzione dell’albero genealogico delle famiglie.

Si sa che Smith ormai ha una certa età, e come l’ultimo Cussler, lavora ormai spesso insieme ad altri autori. Qui, è presente David Churchill, noto per alcuni romanzi storici su Guglielmo il Conquistatore, e la sua mano si sente nella parte più militare del libro, anche se non è di certo la più riuscita. Infatti, rispetto alle solite aspettative che abbiamo nei libri di Smith, la maggior parte della storia si svolge lontano dall’Africa cui siamo abituati. Certo, i Courtney ci sono, con le loro ricchezze, con le loro tenute, e con la grande empatia verso i nativi africani, a dispetto di molte inutili convenzioni. Qui, in particolare, siamo nel ramo che si è stabilito in Kenya, discendendo dalle storie che ebbero vita con l’assedio di Khartoum e l’incontro tra Ryder Courtney e Penrod Ballantyne.

Tralasciando i Ballantyne, ricordiamo che Ryder sposa Saffron Benbrook, come dalla fine del “Re dei Re”, tornando trionfale con due figli: Leon e Penelope. Credo che nel famoso libro mancante (l’undicesimo) ci sia la storia di Leon e di Eva, che tuttavia qui l’autore riprende per sommi capi. Sempre poi per tornare alla genealogia, nessuno di questo ramo muore nel 1918. Ma Ryder e Saffron avranno almeno altri tre figli maschi: Francis, David e Dorian. Leon sposa Eva e da loro nasce una figlia, chiamata Saffron come la nonna.

Tra l’altro, ad un certo punto della storia, si rincontrano quasi tutti: nonna Saffron, che vive in Egitto, e si avvia alla settantina, la genia dei Courtney, ed anche l’artista Penelope, tornata a Londra a fare la pittrice. Poiché l’idea di Smith è sempre quella di mettere insieme amori impossibili ed altre difficoltà, anche di incroci pseudo-familiari, qui assistiamo all’incontro-scontro tra Inglesi (o Africani) e Tedeschi. Scopriamo intanto che Eva faceva di cognome Barry, era inglese, ed era al servizio dello spionaggio. Motivo per cui si camuffa da tedesca, prende il nome di Eva von Wellberg, diventa l’amante di Otto von Meerbach, ed insieme a Leon, poco dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, uccide il magnate dell’industria dei motori.

I von Meerbach rimangono due: Konrad e Gerhard. Come nelle migliori tradizioni, Konrad è il cattivo, e diventerà ben presto nazista convinto e ordirà trame (non sempre a buon fine) per eliminare il fratello. Gerhard, pur non essendo convinto, viene accecato dal magnetismo di Hitler, e diventerà un asso dell’aereonautica militare. Fino a che capisce che la Germania, cui tiene, non è il nazismo, che è solo orrore, e vedremo probabilmente cosa ci riserverà il futuro. Tra l’altro, gli occhi gli si aprono vedendo il famoso massacro di Babji Jar in Ucraina nel 1941, quando vennero sterminati si dice centomila ebrei.

Dal lato Courtney, vediamo la crescita di Saffron jr., caparbia, volativa ed anche bella. Primeggia nelle scuole sudafricane, poi anche in quelle inglesi, anche se, prima di riuscire ad entrare ad Oxford scoppia la guerra. Una guerra che Leon aveva previsto, dato che da tempo iniziava a chiudere i contratti con le industrie tedesche. Ma prima della guerra, in una Svizzera neutrale, Gerhard va a trovare il suo amico ebreo Solomons, anche per chiedere in sposa una contessina tedesca. Peccato che la contessina abbia invitato la sua amica Saffron. Saffron e Gerhard si vedono e si amano all’istante. Ovvio che ci sarà tutto uno strascico di cuori infranti e di piccole vendette delle persone cui i due spezzano il cuore.

Quello che importa, per l’ossatura della storia, è invece la figura del secondogenito dei Courtney, Francis. Ferito nella Prima Guerra, sempre all’ombra del fratello maggiore, viene irretito dalle parole di Oswald Mosley, il fascista britannico (che abbiamo già incontrato negli scritti di Nancy Mittford, essendosi Oswald sposato in secondo nozze con Diana Mittford). Francis decide allora di sfruttare i filotedeschi (inclusi i Fratelli Mussulmani) per vendicarsi. Riesce a far uccidere il fratello David, ma pur facendo il delatore sulla missione di Leon e Saffron, i due si salvano.

Non entro nelle beghe di Churchill (David, ovvio) su tutte le questioni militari, che sono discretamente pallose. Fatto sta, che Saffron si vendica con lo zio, ed assistiamo ad un finale aperto, con una profezia della vecchia Lusima, che però non vi svelo. I meccanismi di Smith, comunque, sono ormai troppo scontati: fratelli che si odiano e che cercano di prevaricare l’uno sull’altro. Amori che nascono e che sono contrastati, nascostamente o palesemente. Abbiamo anche un cammeo di sfuggita, incontrando Centaine de Thiry e suo figlio Shasa.

Insomma, Smith cerca di non scordarsi di tutti i personaggi che ha introdotto. Cerca, in questi suoi ultimi scritti, di raccordare i pezzi mancanti, non sempre con successo. Come detto, l’apporto di altri scrittori per sostenere il quasi novantenne scrittore sono a volte un po’ ingombranti, come in questo dove la guerra in Europa ha una presenza un po’ troppo pesante nell’economia del discorso. Aspettiamo con ansia di tornare ai bei cieli africani. Sperando in miglioramenti necessari della consistenza delle trame. E chissà che un giorno, oltre alla biografia di Maigret, non si riesca anche a delineare la storia africane delle famiglie partorite dalla fantasia di Smith.

Wilbur Smith “Il potere della spada” Longanesi s.p. (Biblioteca di Proba Petronia)

[A: 19/03/2018 – I: 11/07/2020 – T: 13/07/2020] - &&&-

[tit. or.: Power of the Sword; ling. or.: inglese; pagine: 700; anno 1986]

(periodo: 1931 - 1948) (COURTNEY 15)

Pur andando avanti nel tempo, torniamo indietro nella scrittura, che qui siamo ad uno dei più antichi scritti di Wilbur. Che tuttavia la sua sapiente mente incasellatrice ha fatto incuneare tra le diverse avventure, scritte in tempi e modalità diverse. È anche uno dei più lunghi scritti del nostro autore, abbracciando diciassette anni in 700 pagine. Avrebbe inoltre meritato qualche considerazione in più, essendo riuscito in quel lavoro di incastro che dicevo, ed anche a rappresentare abbastanza consistentemente l’andamento politico sudafricano del periodo. L’unico scivolone, per me tuttavia abbastanza grave, è l’aver voluto inserire le Olimpiadi di Berlino nel contesto narrativo. Cosa di per sé degna in generale, che però scivola in errori di inserimento degli atleti nel contesto storico. Ritengo che, nel momento in cui una fiction si agganci alla realtà, o la stravolge in toto, o mantiene elementi di verità, che qui tuttavia spariscono. Per non tediare i lettori che vogliono invece venire subito all’andamento narrativo, di questi errori parlerò alla fine.

Dal punto di vista della scrittura, il libro segue “Gli eredi dell’Eden”, facendo un piccolo salto narrativo dalla fine di quello nel 1925 all’inizio di questo nel 1931. Il “buco” verrà colmato quarant’anni dopo con “Grido di guerra” che va dal ’18 al ’41, e che ci fa sapere, di sfuggita, che Centaine e famiglia ci sta e che stanno bene. Qui, riprende alla grande la storia dalle parti di Centaine, sviluppandone i risvolti incuneatesi con “La spiaggia infuocata”.

Abbiamo così Centaine divisa tra l’affetto verso il figlio avuto da Michael Courtney, il giovane Shasa, e l’amore-odio verso i de la Rey. Lothar che ha tradito la sua fiducia uccidendo i suoi amici boscimani e Manfred il figlio che hanno avuto insieme. La lotta tra i Courtney e i de La Rey è anche la lotta tra i filoinglesi ed i filogermanici all’interno del mondo sudafricano. All’inizio siamo all’epoca della Grande Depressione mondiale, e Centaine tenta in tutti i modi di salvare il suo mondo, magari pestando i piedi a tutti. E mandando in rovina Lothar e la sua impresa di pesca.

Lothar allora si vendica organizzando una rapina alla miniera di diamanti della famiglia Courtney. La rapina riesce, ma tutti ne subiranno conseguenze non benefiche. Lothar viene ferito, perde un braccio e viene arrestato. Manfred fugge con i diamanti dallo zio Trump, prelato della Chiesa Olandese, che però distrugge il maltolto, e tuttavia instrada Manfred allo studio ed alla boxe. Nel frattempo, nell’orizzonte dei Courtney compare Blaine Malcomess, gentiluomo e militare, che diventerà ben presto amante di Centaine, nonostante (o a causa) della moglie invalida.

Brian ha anche due figlie, Tara e Mitty. Già capiamo che tra Tara ed il giovane Shasa nascerà qualcosa. Mentre Mitty sarà presto attratta dal più caro amico di Shasa, l’ebreo David. Intanto tutti crescono, e Shasa si dedica anche al Polo, oltre che a conquiste amorose varie, anche se poi torna sempre da Tara. I diamanti portano male anche agli amici di colore di Lothar, che non riescono a sfruttarli. Ma il più in gamba, Moses Gama, comincia a tramare per cercare di liberare tutti i coloured dal giogo bianco.

Qui c’è anche un piccolo cameo sulla nascita dell’ANC con la comparsa in una riunione del giovane Nelson Mandela. Non mancano, ovvio, i collegamenti sia all’ascesa dei nazisti in Europa, che alle organizzazioni sovversive dei suprematisti bianchi i Sudafrica. Ovvio che i due giovani si troveranno su sponde opposte. Shasa, al seguito di Blaine, verso il Partito di Jan Smuts al potere. Manfred verso i tedeschi ed il movimento “Ossewabrandwag (OB)”, formato da Afrikaaner che vedono in Hitler un alleato, ed organizzeranno anche attentati con Smuts e soci. Un inciso, il motto degli OB era “Se indietreggio, uccidetemi, se muoio, vendicatemi, se avanzo, seguitemi”, erroneamente attribuito a Mussolini da molti para-storici, ma in realtà pronunciato da Henri du Vergier, conte de La Rochejaquelein nel 1793 (costui era un generale cattolico e devoto al re di Francia, morto l’anno seguente in Vandea).

Per inciso, durante tutti questi rivolgimenti, si svolgono anche le Olimpiadi di Berlino, con Shasa nella squadra di Polo, David bronzo nei 200 metri e Manfred oro nella Boxe. Ma di questo parlo più a lungo in fondo. Poi verrà la guerra. Shasa perde un occhio, ma poi si metterà agli ordini di Blaine, acquistando un suo ruolo ed alla fine sposando la ribelle Tara, anche saranno spesso politicamente divisi, lui lealista, lei vicina ai neri emarginati ed attratta dall’oratoria di Moses.

Manfred, dopo il periodo nazista, riesce a sfuggire alla polizia, si reintegra nella società civile, anche se sempre su posizioni oltranziste. Sposerà la tedesca Heidi e nascerà un piccolo Lothar. La moglie di Blaine finalmente muore, maledicendo Centaine ed invocando periodi nefasti per i Courtney. Arriviamo così al 1948, quando le destre Afrikaaner prendono il potere a scapito del Partito di Smuts, eleggendo Primo Ministro Daniel Malan che metterà le basi legali al regime segregazionista dell’apartheid.

Siamo così alla fine di uno dei più lunghi libri di Smith. Con l’impero dei Courtney ora gestito da Shasa (anche sotto la guida di Centaine) visto che anche Garrick, il secondo gemello, muore. Sull’altro lato, Manfred, ripulitosi dagli attentati filotedeschi, entra a far parte del governo Malan. Blaine e Centaine finalmente si sposano. Vedremo come porterà avanti la sua storia il nostro scrittore, ora che entriamo nel terreno minato della politica.

La scrittura di Smith è al solito ben congeniata in questi suoi primi decenni di scrittura. Purtroppo, ha lasciato i grandi spazi aperti delle prime storie, e mescola forse troppo finzione e realtà, una miscela che, se non dosata, rischia di esplodere. Vedremo come riuscirà a barcamenarsi tra storie alla Dynasty e mondo reale.

Per finire, veniamo come promesso, alle incongruenze sportive. Alle Olimpiadi di Berlino presero parte 32 atleti sudafricani: 27 maschi in sport ufficiali e 5 donne nella competizione dimostrativa denominata “Arte”, svoltasi fino al 1948 con gare di pittura, letteratura, scultura e musica. I maschi parteciparono alle gare di Atletica, Boxe, Ciclismo, Canottaggio e Lotta. Nessuna squadra sudafricana partecipò al Polo (primo errore). Nella Boxe l’unico atleta sudafricano a medaglia fu Charles Catterall, argento nei pesi piuma. Nei mediomassimi, dove doveva comparire Manfred, vinse un francese e l’atleta sudafricano arrivò quarto (errori due e tre). Infine, nelle corse parteciparono 3 atleti nei 200 metri (uno eliminato in batteria e due in semifinale). Il terzo in finale dopo Jesse Owens (citato giustamente) e Mack Robinson (spacciato come Carter Brown) fu invece l’olandese Tinus Osendarp (errore quattro). Nei 400 metri partecipò il solo Dennis Shore, eliminato nei quarti (quinto errore). Potrei continuare, ma forse vi siete rotti…

“Qualunque cosa si faccia troppo a lungo diventa noiosa … Il segreto è fare un po’ di tutto.” (114)

Wilbur Smith & David Churchill “La guerra dei Courtney” Harper Collins euro 22 (in realtà, scontato a 12,90 euro)

[A: 28/05/2020 – I: 04/08/2020 – T: 05/08/2020] - &&& -

[tit. or.: Courtney’s War; ling. or.: inglese; pagine: 537; anno 2018]

(periodo: 1939 - 1945) (COURTNEY 16)

Come ormai abbiamo ben capito dall’andamento della scrittura della “Smith’s factory”, il nostro esimio autore, ora avanti con gli anni, si accinge a ricucire i buchi delle storie scritte, iniziate e a volte interrotte durante i quaranta anni di lavoro.

Così, due anni fa, sempre con l’aiuto di David Churchill, riprende in mano le storie del ramo laterale dei Courtney, quello che discende da Ryder Courtney e che aveva dei punti di contatto con i Ballantyne. Ritroviamo quindi la nipote di Ryder, Saffron chiamata come la nonna, che avevamo lasciato in “Re dei Re”, innamorata di Gerhard von Meerbach, figlio del barone Otto, ucciso a suo tempo da Leon, il padre di Saffron, e da Eva, allora amante di Otto, poi sposa di Leon e madre di Saffron. La mano di Churchill si sente pesantemente, visto che le più di cinquecento pagine parlano di guerra e di Europa, lasciano un brevissimo scorcio africano. Giusto il tempo di salutare la zia Centaine, e il cugino Shasa con la giovane moglie Tara. Questi torneranno presto protagonisti nella prossima lettura, di un libro scritto ben trenta anni prima di questo. Vedremo allora come se la sia cavata con questi raccordi.

Qui, intanto, dopo accenni e brevi toccate su avvenimenti pregressi, tutta la storia si incentra nel periodo della Seconda Guerra mondiale. Saffron e Gerry si trovano, come ovvio, su fronti opposti, ognuno nella sua parte di guerra e di combattimenti. Ma anche se Gerry è “costretto” a fare il buon nazista dalle losche trame del fratello, vediamo subito, e lo verificheremo sino alla fine, che l’anelito di giustizia e libertà non lo lascerà mai, portandolo al fine a fare scelte al limite del suicidio, e che, forse, lo porteranno alla morte. O forse no, ma molto vicino.

Saffron viene reclutata dal SOE (Special Operation Executive) una struttura parallela ai Servizi Segreti dell’MI5, nati soprattutto per operazioni militari e di sostegno alla Resistenza antinazista. Seguiamo l’addestramento di Saffron, e poi il suo impiego in una azione di intelligence volta a scoprire se e dove ci siano falle nelle sacche di guerriglia contro l’invasore nelle regioni fiamminghe (nord del Belgio ed Olanda). Una falla che è ben documentata dagli storici, cioè non una invenzione dei nostri. Quello che Smith&co inventano è il lavoro sotto copertura di Saffron, il suo modo di infiltrarsi nei gruppuscoli filonazisti proliferanti in quel periodo. Tant’è che si ritrova in Sudafrica, dove comincia ad entrare sotto copertura nelle fila dell’OB, gruppo che avevamo visto all’opera con il sostegno attivo di Manfred de la Rey (il figlio naturale di Centaine). Ricordo che abbiamo visto all’opera questo gruppo ne “Il potere della spada”, scritto nel 1986. Da lì finisce sino in Olanda, dove risale le fila dei traditori, avendo la necessità, per carpire le informazioni e poi per salvarsi, prima di avvicinarsi (anche troppo) ad un gerarca delle SS, poi di ucciderlo, quindi di dover fuggire rocambolescamente dal continente.

In parallelo, e con la narrazione alternata, vediamo Gerhard coinvolto nella battaglia di Stalingrado, unico dei suoi aviatori a salvarsi, per poi cominciare ad essere insofferente di tutte le derive hitleriane. Aveva visto le prime camere a gas in Cecoslovacchia. Aveva assistito ai massacri ucraini di Babji Jar. Ora la corda si rompe. Il suo manifestarsi antiregime gli procura da un lato l’interessamento del gruppo di gerarchi che tenteranno di uccidere Hitler nella famosa operazione Valchiria del 20 luglio del 1944. Dall’altro, l’astio sempre maggiore del fratello Konrad. Tanto che alla fine non potrà che essere anche lui condannato ai campi di concentramento. Prima, ed a lungo, in quello di Sachsenhausen, poco distante da Berlino. Poi, quando ormai la guerra è agli sgoccioli, trasferito con altri prigionieri a Dachau.

Alla fine, sarà proprio a Dachau, che, a seguito di una serie di peripezie che non vi narro, Saffron riuscirà a ritrovarlo. In quel finale semi-aperto che lascia spazio ad una buona ridda di ipotesi. Ma che consente, a trent’anni di distanza, di far sì che si avveri la profezia di Lusima. Che se non vi ricordate chi sia, andate con pazienza a rileggere le mie trame passate.

Si sente che c’è molto David e poco Wilbur in tutto il libro. Anche con qualche punta ironica, laddove Saffron ha un lasciapassare del Primo Ministro inglese, Winston Churchill, che viene ispezionato ed accolto da un militare inglese, di nome Peter Churchill, che non è parente. Il tutto scritto da questo canadese omonimo (anche se l’omonimia pare derivi da uno pseudonimo utilizzato e non dal vero nome del co-autore). Infine, mentre il mix history and fiction, quando si parla dell’emisfero australe porta anche qualche interessante novità culturale, qui il buon David, sebbene si sforzi di mantenere il narrato molto prossimo alla realtà, la presenza di personaggi storici è poco significativa, anche se ben documentata. Unico punto di approfondimento, forse, è la lotta intestina tra i vari servizi segreti alleati. Laddove, e non solo qui, si perse di vista l’obiettivo comune, rispetto agli specifici passi avanti del proprio orticello.

Wilbur Smith “I fuochi dell’ira” TEA euro 9,90 (in realtà, scontato a 7,45 euro)

[A: 25/08/2018 – I: 15/08/2020 – T: 19/08/2020] - && e ½  

[tit. or.: Rage; ling. or.: inglese; pagine: 590; anno 1987]

(periodo: 1952 - 1966) (COURTNEY 17)

Più andiamo avanti con le storie della famiglia Courtney, più torniamo indietro nel tempo della scrittura, e più si resta leggermente perplessi sulle posizioni e le affermazioni dell’autore.

Questa “rabbia” impropriamente tradotta come “I fuochi dell’ira” si ricollega al quindicesimo capitolo della storia, quel “Il potere della spada”, scritto un anno prima di questo. Nella prima produzione della saga, c’era una certa coerenza filologica e cronologica, pur con qualche buco. Solo in questo secolo, Smith è stato preso dal sacro furore di ricollegare tutti i pezzi del puzzle, per farne una monumentale super serie. Qui siamo nel pieno del ramo principale della quercia, quello che discende da Waite Courtney, mentre il capitolo 16 era dedicato al ramo che discende da Ryder, e si conclude (per ora) con la storia d’amore tra Saffron (nipote della prima Saffron) e Gerhard. Del ramo “Waite”, lasciamo in ombra la progenie diretta del Generale Sean, quella che si concludeva (anche qui per ora) con il matrimonio di Storm con Mark Anders e la nascita del figlio “illegittimo” John Hunt.

Qui siamo nel pieno del ramo di Sir Garrick, quello morto al posto di Jan Smuts in un attentato nel 1942 durante la Seconda Guerra Mondiale. Per mano di Manfred, figlio illegittimo di Centaine e Lothar de La Rey. Centaine che aveva avuto il figlio Shasa da Michael, poco prima che questi morisse in guerra (ma anche prima che si riuscissero a sposare). Dal punto di vista delle parentele (cosa sempre complicata in Smith), all’inizio della storia abbiamo la matriarca Centaine, risposatasi con Blaine Malcomess. C’è il figlio di Centaine, Shasa, che sposa la figlia di primo letto di Blaine, l’irrequieta Tara. Tara e Shasa hanno quattro figli: Sean (1941), Garrick (1942), Michael (1943) e Isabella (1945). Sul versante “de la Rey”, c’è appunto Manfred, figlio di Centaine e Lothar; poi c’è Jacobus, figlio illegittimo di Manfred e Sarah e Lothar jr figlio legittimo di Manfred e Heidi. Spero che vi siate persi. Anche se tutto ciò serve a sottolineare che in Smith si figlia come ricci con chicchessia, ma soprattutto che Manfred e Shasa sono fratellastri, anche se il solo Shasa ancora non lo sa.

La storia si dipana su due versanti: il politico ed il personale con un peso molto sbilanciato verso il primo.

Infatti, sul piano personale vediamo la costante incapacità dei personaggi di gestire i rapporti con i figli. Shasa stravede per Sean, gliele passa tutte, ma non si accorge che sta diventando un teppistello, poi un teppista vero e proprio, tanto che lo deve esiliare prima in Mozambico e poi in Rhodesia. Dove è vero che maturerà, dandoci alcuni scorci di vita “da caccia grossa” come ci aspettiamo sempre meglio da Wilbur e non troviamo mai. Stravede e vizia Isabella, che, sul limitare dei suoi vent’anni, cercherà solo di spendere soldi, di trovare un bel fusto, ma quando ne troverà uno, che poi non è altro che Lothar jr, questi si divertirà con lei, ma poi sposerà, come dice lui, una “solida afrikaaner”. Sempre Shasa non capisce la vena poetica giornalistica di Michael, che preferirà allontanarsi dalla famiglia per seguire la sua indole libertaria, riuscendo a scrivere pezzi giornalistici di apertura verso i neri. Infine, Shasa sempre voler ignorare il brutto anatroccolo Garrick, che invece è il solo ad avere lo spirito dei Courtney (e dei Thiry). Sarà infatti Garry l’unico ad entrare nell’impero Courtney, dove introdurrà la bella Holly, più grande di lui, ma qui molto innamorata. E Shasa non capisce, non capirà e non perdonerà mai lo spirito di indipendenza di Tara, che sposerà in pieno la causa dei neri, facendo un sodalizio con il leader, poi anche terrorista, Moses, da cui avrà il figlio Benjamin.

Sul piano politico, seguiamo invece tutta la storia e l’evolversi del Sudafrica da mera colonia britannica fino a diventare una Repubblica indipendente e razzista. Nel capitolo 15 avevamo lasciato la regione alle prese con una elezione che aveva portato al potere il Partito Nazionalista, ed a primo ministro Daniel Malan. Qui, con un salto di 4 anni, vediamo Manfred convincere Shasa a “cambiare casacca”, e nella schiacciante vittoria dei nazionalisti, che porta al potere il teorico dell’apartheid Hendrik Frensch Verwoerd, anche Shasa viene inserito nella compagine governativa. Lo stesso Smith, in postfazione, confesserà di essersi preso delle libertà sulle date degli avvenimenti, per renderli convergenti alle necessità della trama. Comunque, a prescindere dalle cronologie fittizie, vediamo l’evolversi della situazione sudafricana. Il Partito Nazionalista al potere, l’emissione di leggi sempre più restrittive per i “coloured”, la famosa (o famigerata) rivolta (o massacro) di Sharpeville, il primo attentato a Verwoerd, l’inasprirsi successivo della politica segregazionista, le rivolte dei negri, moderate sul fronte dell’ANC di Nelson Mandela (vero), estremiste sul fronte del PNC di Moses Gama (fittizio), il distacco voluto dalla Gran Bretagna verso le politiche razziste dei bianchi boeri, il passaggio alla Repubblica, l’isolamento internazionale, sino ad arrivare alle svolte del 1966. Con l’assassinio di Verwoerd, l’arresto di tutti i leader negri (tra cui Mandela che rimase in carcere sino al 1990) e l’embargo economico verso il Sudafrica, cui viene anche tolta la sovranità della Namibia.

Spero che vi sia piaciuto anche questo piccolo ripasso storico, anche se ora dobbiamo tornare al testo. Smith cerca di passare indenne tra le varie asperità della politica locale, senza però riuscirvi pienamente. Si sente la sua avversione verso i boeri, ma la sua propensione verso gli inglesi non riesce a coprire i guasti che comunque i bianchi perpetrarono in loco. Anche sul versante nero sembra propendere troppo per una ingerenza massiccia della Russia con le sue spie a sostegno delle frange estremiste. Certo, cerca di non criticare troppo Mandela, anche a fronte (con ragionevole probabilità) di una revisione del testo ad anni di distanza. Infatti, durante la prima pubblicazione del testo nel 1987 Mandela era ancora in carcere, mentre la dedica presente nelle edizioni attuali è rivolta a Mokhiniso, la bella tagika che Smith sposerà solo nel 2000.

Per questo rimango un po’ al di sotto delle mie aspettative per le scritture di Smith: poca africa alla Hemingway, molta politica non sempre “corretta”, e ritorno alla fase “pruderie” con piccole scene di sesso, come spesso usava nelle prime scritture. Vedremo cosa succederà nelle prossime letture.

Siamo già alla quarta settimana di novembre, quarta settimana che gli attenti sanno essere priva di ulteriori commenti sulle letture, e su allegati vari.

Rimaniamo invece sulle nostre distanziate posizioni, sulle letture e sui libri, sulle poche novità, e sulle tante speranze. Non tanto in un Natale “free”, ma in un tempo in cui, forse lentamente, le nostre preoccupazioni andranno a diminuire. Questo è il mio augurio per queste ultime settimane di un anno forse il più complicato da me vissuto sino ad ora. Ma per non essere più tristi del dovuto, sorrido, vi abbraccio.