domenica 30 giugno 2013

Grandi città - 30 giugno 2013

Ma non è una trama dedicata ai viaggi, ma grandi città come teatro di azioni più o meno violente, portate con mano abbastanza ferma da quattro autori italiani, nuovi e vecchi. C’è la Milano di Colaprico, anche se poi ci si muove per tutta la penisola, e c’è la Firenze di Vichi. Ma c’è anche la Roma di Foschi e l’interessante puntata a Parigi di Pandiani. Storie violente, come detto, ma anche storie di vita, e storie di persone.
Enrico Pandiani “Les Italiens” Instar euro 9
[A: 04/10/2012 – I: 01/03/2013 – T: 02/03/2013]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 301; anno: 2012]
Un esordio (nella mia libreria) interessante e da incoraggiare. Dopo un tedesco che scrive di poliziotti italiani a Trieste, ecco nascere un italiano che parla di una brigata di gendarmi italo-francesi a Parigi. Spero che venga (o sia stato) tradotto in francese, che lo merita. Perché unisce un tocco di francesità a molto hard-boiled americano. Un Luc Besson alla Nikita, risciacquato con un Tarantino doc. Narrato in prima persona dal responsabile della brigata detta “Les Italiens”, dato che è composta tutta da oriundi (di diverse generazioni), la narrazione e l’azione entra subito nel vivo, sin dalle prime righe. Una sparatoria che colpisce il Quai des Orfevres, decima la brigata, facendo fuori 2 gendarmi e mandando all’ospedale un terzo, nonché una donna innocente. Si entra subito nel vivo, e con un bel ritmo. E si rimane su questo filo senza fiato, quando il suddetto narratore viene incaricato dal capo della polizia di indagare su un probabile tentativo di furto a carico di una persona che (guarda caso) assomiglia alla donna morta per caso. E tuttavia non è una donna, ma un trans. Questo è un bel colpo di genio dell’autore, che infila anche tematiche sociali e personali nel bel mezzo di questa corsa verso (ancora) non si sa cosa. La bella Moët (o il bel Thomas a seconda di quale parte si privilegia) si dedica alla pittura, ed ha un discreto successo con tutti i generi (maschili e femminili). Lo studio è devastato, e così anche la casa, che si trova in periferia (bella la gita in auto verso gli stagni di Saint – Claude). Non solo, ma lì i nostri due eroi in fuga si trovano assaliti da una banda, tra cui c’è anche un poliziotto. Il mistero si infittisce, non si sa chi è amico e chi no. Il nostro decide di potersi fidare di due persone soltanto: la ricca Ocèane, dal cui attico partirono i colpi che hanno dato origine alla vicenda, ed il resto della sua brigata, con a capo ora André Serandoni (rigorosamente con l’accento sulla i). Continuano a fioccare morti e sangue. Muore l’avvocatessa di Moët. E si passa una serata hard tutti a casa di Ocèane. Intanto cominciano a diradarsi alcune nebbie: il nostro trans è stato adottata (difficile utilizzare desinenze maschili e femminili in questo caso…), ed il suo amante – amica – avvocato (appena dal trans mollato) per tornare alla carica aveva deciso di scoprire i veri genitori di Moët. Che però avevano chiesto il segreto, che l’avvocato riesce comunque a sapere che siano, che sono in una posizione pericolosa per Moët e per “les Italiens”. Nonostante tutto, i nostri italiani decidono di procedere a spron battuto, aiutati dalla tribù di immigrati: il padre ed i parenti di Serandoni, dalla brigata fluviale, alla brigata motorizzata. Che i cattivi hanno una bella struttura delinquenziale a loro supporto (e si capirà alla fine i veri motivi di tutto ciò), ramificata in molte strutture della Pubblica Amministrazione francese, polizia in primis. Ed allora proseguiamo con gli inseguimenti, le agnizioni, le morti violente (alla fine credo di averne contate una ventina), i tentativi di incastrare il nostro narratore (di cui però fino alla fine non veniamo a conoscenza del nome) uccidendo persone a destra e a manca con il suo coltello o le sue pistole. Il nostro comincia inoltre non solo a capire Moët, ma ad esserne attratto, ed è interessante il percorso di denudamento dei sentimenti dei personaggi principali. Alla fine, si chiariranno i misteri: l’origine di Moët – Thomas, la rabbia del narratore, il suo pencolare verso Ocèane, ed il chiarimento finale (che non vi anticipo) tra tutti i protagonisti, che metterà ognuno ad un posto congruo, ma che apre (credo) le porte ad una successiva puntata. Insomma, una scrittura interessante, degna erede di Chandler, forse con qualche ingenuità, ma, in definitiva, uno dei prodotti più interessanti dell’ultimo periodo. Bravo Enrico! E grazie del piccolo ricordo – cammeo con il gelato da Berthillon nell’Ile-Saint-Louis!
Paolo Foschi “Il castigo di Attila” E/O euro 13 (in realtà, scontato 11,18 euro)
[A: 14/03/2013 – I: 25/03/2013 – T: 27/03/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 167; anno 2012]
Secondo episodio delle indagini del commissario Igor Attila, ex-pugile e capo della squadra speciale della polizia dedicata ai crimini sportivi. Foschi (anche lui del Corriere della Sera, come il da poco letto Ruggeri sul versante asiatico dei viaggi) migliora la scrittura rispetto al primo libro. Almeno per quanto riguarda la storia e l’intreccio. Forse non tanto per i personaggi in sé, sui quali ritornerò. Nel delitto alle Olimpiadi, probabilmente anche nell’ansia della presentazione dei personaggi e delle situazioni, la storia “gialla” rimane un po’ risibile rispetto al resto, nonché con quella forzatura di prevedere due atleti bianchi sul podio in una finale degli 800 metri piani (cosa che non succede alle Olimpiadi dal lontano 1980 con gli inglesi Ovett e Coe). Qui invece ha un suo spessore autonomo. Anche perché si passa a parlare di calcio. E quando si parla di calcio, ovvio il collegamento al calcio scommesse ed alla malavita organizzata. Con un po’ di cattiveria (o masochismo) il romano Foschi fa perno della vicenda il portiere della Roma, Rocco Graziano, che dopo essere diventato l’idolo delle folle per aver parato il rigore decisivo della finale di Champions tra Roma e Liverpool (e ben ricordiamo la “vera” partita tra le due squadre, quella del maggio del 1984, quando molto venne deciso dall’errore dal dischetto di Ciccio Graziani, qualche rimando, Foschi?) viene ucciso a colpi di pistola. Attila viene subito attivato e non impiega molto a scoprire tutti gli altarini del portierone, che da ragazzo di provincia assurge alle prime pagine, alla gloria, agli onori. E scopre le sue molteplici vite: il denaro, e quindi i collegamenti con gente poco raccomandabile, le scommesse, le partite truccate o pilotate (Foschi sfondi porte aperte su questo terreno, anche se dolorose) e le donne, tante, e soprattutto tutte molto ingannate. Che il buon Rocco pensava (solo?) a sesso facile e senza pensieri. Ma le sue donne? Ovvio il rapporto ufficiale con la velina di turno. Ma ovvi anche i passaggi per altre e meno conclamate belle ragazze. Il nostro commissario segue così la doppia pista: vendetta di malavitosi che hanno perso soldi per la parata finale di Rocco o vendetta di una qualche fidanzata (troppo) ingannata. La verità, o meglio, il vero andamento della vicenda lo lascio scoprire a chi avrà voglia di leggere le veloci pagine del nostro giornalista. Quello che piace e che Attila ha una coscienza, e farà in modo, in ogni caso, che i cattivi, ovunque essi siano ricevano una più o meno giusta punizione. Quello che convince meno  è l’insistere su alcune tematiche dei personaggi. Soprattutto, il tormentone di Attila per la perdita di Titta. Ogni due pagine il buon poliziotto si lamenta, si rammarica, si fa percorsi mentali assurdi, che alla lunga stancano. Anche perché noi già sappiamo una parte della storia, avendo letto il primo romanzo, e queste lungaggini sono veramente troppo reiterate. Come troppo insistito il ritorno all’incontro di boxe con il quale Attila perse la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Seoul per una combine degli arbitri a favore di un coreano (e di cui ho già parlato tramando il primo libro del commissario). Insomma ci sarebbe bisogno di un po’ di freschezza in queste parti. Che potrebbe venire dai sottoposti di Attila alla squadra speciale, ma non quagliano. Come non arriva dall’agente speciale Celeste Quinteri, di cui io personalmente faccio il tifo ma che il nostro autore non fa sbocciare come potrebbe. In definitiva, un libro discreto che ben ha accompagnato le giornate al sole delle isole thailandesi (come avrebbe fatto anche in altro sole). Insomma, un libro da spiaggia e non molto di più, anche se scorrevole.
Piero Colaprico “La donna del campione” Repubblica – Noir euro 7,90
[A: 27/08/2012– I: 15/05/2013 – T: 17/05/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 395; anno 2007]
In attesa di leggere i gialli a quattro mani di Colaprico e Valpreda, che finalmente sono entrati nella mia libreria, finalmente ho tra le mani un romanzo intero del giornalista di Repubblica. Di lui, oltre agli articoli sul giornale, ho letto racconti, brevi o lunghi, ma è la prima volta che mi imbarco in un romanzo completo. Ed anche discretamente complesso. Ma che, da bravo utilizzatore della penna, riesce a gestire sufficientemente bene, anche se, complessivamente, forse mi aspettavo qualcosa in più. Se non altro sul lato del coinvolgimento, della suspense, insomma di quelle caratteristiche che, negli articoli giornalistici sono presenti in dosi diverse, ma che, nel tempo mi hanno fatto apprezzare il suo modo di scrivere. Qui siamo in una vicenda pienamente italiana, pienamente attuale, con la dovuta attenzione a tutti quei personaggi “in margine” che riempiono continuamente la vita di tutti i giorni. Colaprico, per darci uno spaccato della vita milanese (che quella è la cifra costante di tutti i suoi romanzi, per quanto non so), decide di affrontare la vicenda centrale (il rapimento di un ricco e giovane affarista sportivo, legato al mondo della Formula1) utilizzando tre punti di vista (anche se sempre in oggettiva). Come li battezza lui: il consulente, il poliziotto e il killer. Il consulente è un ex-poliziotto, uscito ricco ed indenne da storie ai limiti della legge, e riciclatosi con successo come investigatore. Viene assunto dalla super bonazza moglie del rapito per liberarlo prima del Gran Premio d’Italia del 18 settembre. E Corrado, saputo chi tiene l’ostaggio in custodia, organizza un contro-rapimento ricatto. Rapisce i parenti dei rapitori, e propone uno scambio, con un bonus di qualche milione di euro. Il poliziotto è invece un amico di Corrado che rimane al di qua della legge, e, sebbene con modalità a volte al limite, è uno che ragiona (e molto) e soprattutto entra in empatia con i casi che affronta. Ora ha per le mani una ragazza trovata bruciata, ma morta prima di botte. Con l’osservazione ed il ragionamento, riesce a ricostruire la vita di Valentina, da quando fugge di casa sino alla sua entrata in un centro massaggi, altro nome (come da cronache attuali) di un centro di prostituzione di alto livello. Il killer è invece un ex-bandito alla Vallanzasca, ritiratosi da Milano nella Puglia natia, ma che non può tirarsi indietro se “gli amici” gli chiedono qualche lavoro. Che gli frutta fior di quattrini. Peccato che ora venga ingaggiato dai siciliani per eliminare Iole la Santa, sua ex compagna di rapine, passata a collaboratrice di giustizia. Le tre storie si dipanano, fortunatamente non a capitoli alterni, come da malcostume di scrittori di thriller di secondo piano. Ogni storia ha un suo respiro, prende tempo, a volte forse Colaprico si dilunga un po’. Ci inzeppa scopate a destra e sinistra, tra Corrado e Maretta la moglie del rapito, tra Francesco il poliziotto ed il sostituto procuratore, benché Iva sia sposata e lui fidanzato, tra il killer e la sua fidanzata alle soglie della laurea. L’abilità di Colaprico consiste invece nel portarci, passo dopo passo, alla convergenza di tutte le storie. Che Corrado e Francesco sono amici. Così arriviamo a scoprire che il rapito è sparito nel centro massaggi dove lavora Valentina, che forse il capo di Valentina è in accordo con i rapitori, e sicuramente ha messo lo zampino nella morte della ragazza, che Corrado utilizza Iole per il contro-rapimento di cui sopra, che Iole organizza una sua esposizione per far finta di cadere in trappola e prendere in trappola il killer, che il porta valori (quello che procura i soldi del riscatto) è padre di una ragazza che si è uccisa qualche mese prima, e che ha uno strano rapporto con Maretta. Che la fidanzata del killer è meno stupida di quanto sembra. Che il rapito non è proprio una pasta d’uomo, anzi è un gran … Colaprico cerca in questo modo di fare un bel castello, dove alla fine tutti i pezzi vanno al loro posto. Molti cattivi (ma non vi dico quali) pagano il fio delle loro colpe. Ma anche molti buoni ci vanno di mezzo. Insomma, l’autore ci vuole mostrare la vita com’è, un gran casino, dove non sempre tutto riesce. Anzi, qui sembra che non riesca proprio nulla. Dopo aver messo tanta carne al fuoco, il finale si fa un po’ affettato, che stiamo già vicino alle 400 pagine, ed il lettore non riesce a tenere più il filo di tutto. E purtroppo, questo il vero punto negativo, anche Colaprico non ci accompagna per mano verso una spiegazione globale, così come ci avevano insegnato i Nero Wolfe o i Maigret. Ed è un peccato per un noir italiano di fattura decisamente migliore di analoghe prove. Un’ultima nota personale. Quando Maretta scappa, Corrado la va a ritrovare in un luogo che Colaprico non menziona, indicando solo la presenza del “Giardino dei Tarocchi”: cioè per noi, Capalbio e Niki de Saint-Phalle.
“Era una coppia che restava insieme perché era troppo difficile ricominciare da qualche altra parte.” (42)
“Ci sono amicizie finite che si trascinano nel tempo per una serie di obblighi.” (150)
Marco Vichi “Morte a Firenze” TEA euro 9
[A: 15/07/2012– I: 23/05/2013 – T: 24/05/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 359; anno 2009]
Come sua modalità di scrittura che abbiamo ormai imparato a conoscere, Vichi mescola insieme una serie di storie, a volte quasi non legate le une alle altre, se non per il vincolo temporale. E come riconosce il commentatore di TTL de La Stampa, questo è il meno noir dei romanzi imperniati sul commissario Bordelli. Certo, il nucleo centrale è la scomparsa e poi l’uccisione di un ragazzo di 13 anni (e questa è una delle parti che nei noir degli ultimi anni mi mette più a disagio, che non riesco a seguire bene, talmente mi fa orrore l’idea; le tre cose che più mi colpiscono, infatti, sono la violenza sulle donne, la violenza sui ragazzi e la pedofilia in generale). L’indagine di Bordelli percorre tutto il romanzo, ma non si sviluppa in modo lineare, non aggredisce, non propone piste anche a noi lettori. Riprende quel filone da “procedural thriller” che avevo illustrato parlando dell’opera di Ed McBain, ma non si riesce ad entrare in sintonia con la questura di Firenze. Sarà forse perché viene praticamente emarginato l’alter-ego di Bordelli, quel giovane Piras che nelle altre prove serviva da rimbalzo ed approfondimento dei ragionamenti del commissario. Intanto, il romanzo si riempie d’altro: in maniera totale, dell’alluvione di Firenze del ’66, che, infatti, la storia si svolge proprio tra ottobre e novembre di quell’anno. Da un punto di vista filologico e di rievocazione storica, l’alluvione è ben rappresentata: la pioggia, gli argini, le comunicazioni interrotte, l’acqua che sale, travolge e uccide, le autorità in parata (mi sembra di vedere un lungo filo che la unisce a L’Aquila). Ed i ricordi personali di aver lavorato, allora tredicenne, alla pulizia dei manoscritti dal fango (e dovrei ancora avere un attestato del Ministro Taviani). Ma non riesce a dare né un senso al romanzo, né a costituire quel sottofondo che penso volesse dargli l’autore. L’altro tessuto di connessione è l’ossessione di Bordelli per le donne, le sue paturnie da quasi sessantenne sia per gli amori passati, sia per quelli a venire, con un’insistenza che, a mio avviso, è particolarmente ridondante. Ne bastava meno, per darne un’idea. Invece lì che insiste, e rimugina, e poi si innamora di una che potrebbe essere sua nipote, piuttosto che sua figlia. E le ossessioni del commissario, questa, e quella più insistente ed altrettanto inutile sul fumo, quasi ripercorresse dei passi di Zeno, ma senza la loro profondità. Come sempre ci sono atre parti, slegate dal filo della trama, che invece comunque piace leggere, soprattutto quando poi l’autore, nella postfazione, ne spiega la nascita. Tutti quei ricordi sulla guerra, sui partigiani e sulle battaglie tra i monti, vengono dai ricordi del padre dell’autore, che trova così un modo per lasciarne una traccia, per non farli cadere nell’oblio. Tra tutto questo la trama va avanti, legata ad una bolletta della SIP trovata non lontano dal cadavere. E scava che ti scava, collega che ti collega, accumulando notevoli dosi di colpi fortunati, Bordelli comincia ad intravedere una trama. Un gruppo di pervertiti, di diversa natura, i cui giochi osceni questa volta hanno passato il limite. Ma non riesce a trovare prove per sostanziare queste intuizioni. Prove concrete non miseri indizi. Allora fa quello che farebbe un eroe d’oltreoceano, ma di cui Bordelli non sembra avere le caratteristiche. Non dico che cerca la giustizia personale, questo andrebbe fuori le righe del personaggio. Cerca tuttavia, come una squadra in difficoltà, di indurre l’avversario ad un errore. Che faccia un fallo, che faccia una mossa falsa. Allora lui potrebbe… Ma non ha le giuste intuizioni. Ed il potere corrotto che lo circonda è sicuramente più forte di lui. Chissà perché alla fine mi viene in mente il re dell’Epiro? Lettura quindi scorrevole, ma troppo intervallata da letture altre, che ne rallentano il filone principale. Non mi ha soddisfatto. Alla fine mi torvo davanti il libro chiuso con quel sentimento ambivalente che dicevo prima, ed un bilancio finale più sul meno che sul più. Un ultimo punto, ho controllato, le canzoni dei Rokes di Shapiro che sono citate sono entrambe del ’66, quindi in linea con la trama. Anche se “E la pioggia che va” (tra l’altro un mio vecchio cavallo di battaglia) è proprio di Ottobre di quell’anno. Forse un po’ troppo fresca per essere cantata quasi a sottolinearne i punti salienti (“e noi che stiamo correndo, avanzeremo di più”…). Ma sono canzoni che adoro e quindi va bene anche così.
“Non voleva pensare alle donne che aveva perso, ma a quelle che dovevano ancora arrivare.” (64)
E visto che si parla di grandi città, non possiamo che chiudere citando l’assenza (praticamente) di città cui vado incontro nel mio prossimo e confermato viaggio per l’Islanda. Curioso di questa terra di ghiacci, parto tra pochi giorni, lasciandovi probabilmente con qualche trama in meno per questo luglio autunnale. 

domenica 23 giugno 2013

Edimburgo (prima o poi) - 23 giugno 2013

Visto che non siamo ancora partiti per la Scozia (ma sappiamo che ci si andrà, più prima che poi, vero?), ed a valle di una segnalazione trasversale (come segnalo nella prima trama), eccoci ad occupare di questo scrittore scozzese e delle sue lunghe storie che hanno per protagonista John Rebus, poliziotto di Edimburgo. Ho recuperato la prima, grazie alle decisioni editoriali di TEA, ed alcune intorno alla decima storia, dove peraltro si sono svolte già molte avventure del nostro commissario, passato tra divorzi, amori e dolori. Rimane da citare una scrittura onesta, ed una buona resa (soprattutto da un certo punto delle storie in poi) delle atmosfere scozzesi (forse a volte si indugia un po’ troppo sull’alcool, ma credo sia connaturato al luogo dei romanzi).
Ian Rankin “Cerchi e croci” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 30/09/2012– I: 26/02/2013 – T: 01/03/2013]
[tit. or.: Knots & Crosses; ling. or.: inglese; pagine: 255; anno 1987]
E siamo finalmente giunti alla lettura del primo romanzo dello scrittore scozzese dedicato all’ispettore John Rebus. Ricordo, più che altro per me, il percorso che mi ha avvicinato a Rankin. Pur avendolo visto negli scaffali delle librerie romane, non lo avevo preso in considerazione, fino a che il suo nome non è uscito fuori in un romanzo di un altro scrittore scozzese, Alexander McCall Smith, nel corso di una delle storie dedicate ad Isabelle la filosofa - investigatrice. E compare citato come un grande scrittore delle atmosfere di Edimburgo. Messo sull’avviso mi è capitato un suo romanzo (credo il decimo) della serie di Rebus. L’ho trovato giusto (come ne scrissi), belle atmosfere, bella descrizione ed interessante intreccio. Con la mia solita maniacale passione, ho quindi cercato nel tempo di ricostruirne la bibliografia. E con piacere ho notato questa riproposizione, da parte della serie TEA Mystery, del primo libro della serie. Quindi preso e, con i dovuti tempi, letto. Il libro non parte subito, e forse, come un diesel, si muove per le 200 e passa pagine con un piglio interessante ma non (scusate il bisticcio) spigliato. Certo, dobbiamo fare la conoscenza dei personaggi, collocarli nel loro punto storico e personale. E questo richiede tempo. Mentre cominciamo tutto ciò, muoiono delle ragazzine intorno ai dodici anni. Muoiono strangolate, ma su di loro non viene commesso nessun abuso sessuale, cosa alquanto atipica, se ci si trovasse davanti ad un serial killer. Tutto pian pianino scorre, anche lungo il fiume e tra i pub. Rebus si impegna ma non riesce a trovare connessioni. Scopriamo che è divorziato, che ha una figlia, dodicenne anche lei, di nome Samantha, e che sta iniziando una storia con una poliziotta addetta alle relazioni pubbliche, la bella Gill. Scopriamo anche che riceve lettere anonime. E ben presto noi, onniscienti lettori, capiamo che ci sono forti connessioni con le morti. Un altro killer che lascia indizi al poliziotto perché possa essere scoperto? Una sfida? E mentre andiamo scoprendo i personaggi, ci si rivela anche il passato di John. Che viene dall’esercito, risultando uno dei migliori del suo corso. Che viene scelto, con un numero sempre ristretto di altri, per entrare nelle forze speciali. Che subisce un addestramento duro, specifico, e che spezza la volontà a tutti, forse riducendone qualcuno alla follia. Follia che John e Gordon, il suo amico rivale, cercano di cavalcare giocando a mente al gioco che in inglese si chiama “Knots & crosses” (che appunto, come dice il titolo italiano, sono cerchi e croci) ed in italiano “Tris”. Un gioco che ricordiamo bene, sia dall’infanzia, che dal bellissimo film “War Games”, dove viene usato per “impallare” un computer, che alla fine sputa quella bellissima sentenza pacifista: "l'unico modo per vincere una guerra è... non farla!" E John Rebus, quando scopre la brutalità di tutto ciò, decide di lasciare l’esercito, e di fare il poliziotto “per riparare qualche torto della vita”. Il primo spiraglio per avvicinarci alla soluzione è fornito da un matematico inglese che telefona a Rebus dicendogli che la soluzione deriva da un acrostico che sembra essere l’unico legame tra le vittime. Illuminazione. Ma anche paura, che a questo punto Rebus capisce di essere al centro esatto della storia. Con tutti che gli danno addosso, e con Gill che pensa anche alla possibilità che John sia uno schizofrenico con una doppia personalità. Quale sarà la verità? Riuscirà Rebus a dimostrare la sua innocenza ed a salvare l’unica persona a cui tiene realmente? Ai lettori l’ardua sentenza, noi ci accontentiamo di questo inizio di assaggio scozzese, tra nebbie, alcolici e pub, non ancora in quelle atmosfere alla Cronin che trovo in scritti successivi di Rankin, ma sicuramente con la posa di una base interessante per una serie (vero cari amici di Fox-Crime?).
“John faceva collezione di libri che poi non leggeva. In passato no, aveva sempre letto tutto quello che comprava, ma ormai … era diventato più critico, non era più disposto a sorbirsi sino alla fine un tomo che non gli piacesse veramente: la sua pazienza durava al massimo dieci pagine.” (49)
“- Quanti anni ha tua figlia? … - Va per i dodici. – Un’età difficile. – Perché, ce n’è una facile?” (82)
Ian Rankin “Fine partita” TEA euro 9
[A: 15/04/2012– I: 18/04/2013 – T: 21/04/2013]
[tit. or.: The Falls; ling. or.: inglese; pagine: 509; anno 2001]
Sono passati quattordici anni dal primo libro sull’ispettore Rebus, e questa è la 12^ inchiesta che ci propone l’autore. Delle dieci che intercorrono, credo di averne letta una tempo fa, e molte, invece, non sono neanche state tradotte. Ma Rankin sa maneggiare le sue storie, e non ci dà il tempo di rimpiangere le puntate perse. L’ispettore John Rebus è lì, al centro della scena. E intorno si dipanano storie e soprattutto, come già detto, Edimburgo, la sua geografia, la sua aria scozzese, ed i suoi pub. E la geografia di Rebus stesso: la vita privata, con l’idea dell’ex-moglie ormai scomparsa da tempo dalle storie, e quella della figlia, vittima nei libri di mezzo di un qualche incidente ma che non compare qui, e quella pubblica, il lavoro, il nuovo capo, ora una donna (non facile essere donna a capo di un dipartimento…), la sua squadra, con Eileen (sua partner in precedenti storie) pian piano che scende in secondo piano, e Siobhan (che si pronuncia “scivaun”) che invece sale quasi a suo alter ego, con le stesse manie di John (a parte l’alcool) e la stessa determinazione. Compare inoltre una simpatica Jean che sembra entrare un po’ negli affetti del tenebroso ispettore. La storia prende le mosse dalla scomparsa di una ragazza di venticinque anni, di buona famiglia (padre banchiere, molto più interessato ai soldi che al resto, moglie “da tappezzeria” e patrigno socio del padre e forse qualcosa in più) e di buon fidanzato (David, di famiglia irlandese, una volta violento, ma in seguito ad avvenimenti che non sappiamo, redento). Compare anche un anatomopatologo in pensione, vicino di cassa della scomparsa Flip che forse sa più di quanto sembra. La storia si fa densa quando da un lato scopriamo che Flip era appassionata di giochi di ruolo via internet e dall’altro compare una piccola bara intagliata con dentro una bambola. Del primo filone si incarica Siobhan, e qui i traduttori devono fare miracoli di spiegazioni. Che il role-play va avanti a forza di enigmi, ovviamente intraducibili, che costringono il traduttore ad usare l’inglese, con lunghe spiegazioni in italiano. Come per uno degli ultimi indizi che in inglese inizia con “Add Camus to ME Smith…” per collegare un libro di Camus (“La caduta” in inglese “The fall”) con Mark E. Smith il cantante di un gruppo scozzese che si chiamava “The fall”, per ottenere “the falls” (le cascate) che è: 1. il titolo originale del libro, 2. il posto dove viene ritrovata la piccola bara e 3. un luogo vicino alla casa natale di Flip. Intraducibile, direi. Intanto la bara trovata alla cascata viene collegata con altre bare trovate su luoghi o vicino a luoghi di misteriose scomparse o misteriosi delitti. Ed il tutto, a sua volta collegato ad una serie di altrettanto piccole bare, trovate in un luogo di Edimburgo detto “Arthur’s Seat” (e guarda caso si riferisce a Re Artù, ci saranno cose da vedere in città…). E queste bare sembrano essere collegate alle attività criminali ottocentesche di una celebre coppia di furfanti edimburghesi: i famigerati Burke ed Hare, fornitori di cadaveri ai medici per i loro studi. E quando i cadaveri scarseggiano decidono di procurarsene direttamente attraverso omicidi. Beh, un bel calderone di informazioni, dove si intrecciano enigmi (d’altra parte, come tirarsi indietro quando uno fa Rebus di cognome), ricerche storiche sul passato di Edimburgo ed altre amenità scozzesi, whiskey e birra a fiumi. Non ultima, e forse anche questa per me interessante, la passione di John per la musica, con la casa dove manca da mangiare ma c’è sempre qualcosa sul CD. Possono essere classici del pop, nuove leve, REM, Clash, folk singer, Jimi Hendrix, fino ad arrivare a sconosciute glorie locali. Ma questa è una parte che mi intriga molto (forse qualcuno ricorda che sono anche appassionato di musica?...). Intreccio dopo intreccio, dopo aver continuato a farmi girare per la città, John e Siobhan arrivano alle loro conclusioni. Che coincidono, anche se quella di Rebus è più completa, includendo una risposta a tutte le bare, a tutte le morti, ed anche a quella di Flip (che nel frattempo è stata ritrovata strangolata). Continuo a dire che, se non l’ha fatto, Fox-Crime avrebbe da guadagnare a crearne un serial. Intanto io me ne godo la lettura, l’anima scozzese e la voglia di arrivarci. Vero?
“- Con tutte le domande che ti porti in giro … perché non lasci che qualcuno ti offra delle risposte? – Forse perché preferisco le domande?” (161)
“Si era allontanato da così tante amicizie, nella vita, preferendo l’unica compagnia di se stesso nelle serate in poltrona accanto alla finestra del soggiorno in penombra.” (173)
“Se fare carriera significa perdere una parte di sé, a S., la cosa non interessava.” (472)
Ian Rankin “Casi sepolti” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 01/01/2013– I: 22/04/2013 – T: 24/04/2013]
[tit. or.: Resurrection Men; ling. or.: inglese; pagine: 468; anno 2002]
L’appetito vien mangiando, e quindi, come le ciliegie, un Rebus tira l’altro. Prima piccola critica, anche se veniale, ai titolatori della TEA. L’originale inglese parla di “uomini resuscitati”, intesi come poliziotti che, dopo aver fatto errori o altre stupidità, vengono inviati ad una scuola di rieducazione, dove o verranno reintegrati o mandati in pensione anticipata. Certo, i suddetti, per rinverdire il lavoro di squadra, si occupano di vecchi casi, come dice il titolo. Ma non è quello il nocciolo della vicenda. L’impianto generale, al solito, si basa su di un doppio binario. L’ispettore Rebus è mandato in missione segreta alla scuola, perché si sospetta che due o tre elementi lì per rieducarsi abbiano fatto un colpo cinque anni prima e stiano per goderne i frutti. Per mandarlo lì, Rebus viene sollevato dal caso che sta seguendo, che diventa quindi di proprietà del sergente Siobhan (appena promossa): un gallerista ucciso vicino alla sua casa senza apparenti motivi. Questa volta c’è poca atmosfera cittadina, poca Edimburgo. Anche se, in compenso, c’è un po’ di Glasgow e qualche accenno di Dundee. Sempre ben accetti per tenere viva l’idea di partire verso la Scozia. Ma ora Rankin sembra avere più voglia di criticare polizia e poliziotti (sia corrotti che incapaci). E criticare anche i metodi dei suddetti, spesso gratuitamente violenti. Come sono violenti i rieducandi: l’ispettore Gray che non perde occasione di menare le mani, sia con i delinquenti sia con John verso cui nutre un atavico risentimento, o i sergenti Jazz e Alan, spesso in comunella con Gray. Per complicare la vicenda della rieducazione, il tenente che li deve educare (viene costretto?) decide di usare un caso di alcuni anni prima che, guarda la combinazione, aveva visto l’ispettore Rebus in uno dei suoi momenti peggiori. Rebus che per invogliare i tre ad uscire allo scoperto decide di svelare una partita segreta di coca che transita dall’antidroga. Peccato che della notizia ne venga a conoscenza del boss della zona, il cattivo Big Ger. Ci si inserirà? Intanto Big Ger deve anche guardarsi da Siobhan che cerca di coinvolgerlo nella morte del gallerista (che non era certo uno stinco di santo). Ed il gallerista per il suo ultimo viaggio sale su un taxi di una compagnia privata, gestita da un’ex-prostituta (forse del giro di Big Ger) che certamente conosceva Jazz dai tempi di Dundee. Ma il giro delle ex-prostitute è completato da Laura, l’ultima passione del gallerista, che lavora in un locale “privè”, dove viene uccisa dall’ex-marito geloso, che guarda caso è anche l’autista di Big Ger. Intanto il caso sepolto, rivela l’allora comportamento poco ortodosso di Rebus, che, in mancanza di prove cercava di farsi vendetta da solo su un tizio che aveva stuprato la moglie di un canonico, cieca e poi suicida. In questo aiutato dalla feccia di Glasgow. Sembrano tante storie separate ma magicamente Rankin le fa confluire in un disegno univoco. Siobhan e John riusciranno a dimostrare i tratti comuni e ad assicurare una parte dei cattivi alla giustizia. Qualche poliziotto corrotto o poco onesto avrà il giusto guiderdone (come quelli dell’Antidroga, che sembravano controfigure dei soliti Stanlio e Ollio). Verranno risolti tutti i casi, magari intorno ad una pinta di birra, ad un whiskey, ad un blood mary, ad un gin tonic e valanghe di IPA per chi guida (certo i traduttori dovrebbe fare un piccolo sforzo in favore di noi poveri lettori; IPA sta per “India Pale Ale”, una birra di tipo leggero che però in Inghilterra è usata come sinonimo di bitter, per preservare dall’alcool i guidatori della serata). Questa volta rimane un  po’ in ombra il capo dipartimento Gill. Ed ha interventi marginali la bella Jean, che nel romanzo precedente sembrava aver conquistato il cuore di John. Stanno ancora insieme, ma sembrano come allentarsi i legami precedenti. D’altra parte non è facile conviver con uno come John; probabilmente anche lui stesso lo fa a fatica. A consuntivo, una prova decente, una buona critica sociale, anche se poca Scozia e poca atmosfera fuori dai commissariati di polizia. Comunque continua ad essere pregevole la continua citazione di colonne sonore poco frequentate, ma sicuramente affascinanti, per noi musicofili (tipo Dirt degli Stooges dall’album Fun House cantata da Iggy Pop: un mito!).
“[allo Zombie bar] si ascoltava roba tipo trance o ambient, e la lavagna del menu offriva huevos rancheros … e per snack attack niente di meno che blini russi e baba ghanoush.” (182) [imperdibile!]
Ian Rankin “Una questione di sangue” TEA euro 8,90
[A: 13/06/2012– I: 28/04/2013 – T: 30/04/2013]
[tit. or.: A Question of Blood; ling. or.: inglese; pagine: 450; anno 2003]
Continuiamo quindi a muoverci verso la Scozia, anche se solo con la fantasia. E seguiamo ancora il nostro John Rebus, ispettore sempre più solitario e sempre più “piccolo piccolo”, sembrerebbe per citare un film di Alberto Sordi. Protegge i suoi come una leonessa al pascolo. Così fa con l’agente Siobhan Clarke, ormai stabilmente alter-ego e Rebus in minore della serie. D’altra parte siamo al quattordicesimo episodio. Ormai molti caratteri sono stabili. Rebus, ovviamente, solitario, spesso con una birra in mano (quando non qualcosa di più; ma quanto bevono gli scozzesi?), che conosce tutti, che ormai è stanco, ma che non smette mai di ragionare e di mettersi di traverso sulla strada dei cattivi. Siobhan, con le sue paure, le sue fobie (ora ha anche attacchi di panico), con la sua dedizione totale a John (ma nascerà mai qualcosa tra i due?). Gli altri della “Lothian and Borders” (la polizia territoriale scozzese): il capo Gill (ormai presa nelle alte sfere), l’ispettore Bobby (sempre pronto a dare una mano), quelli della narcotici e quelli della disciplinare (sempre presenti se c’è di mezzo Rebus, che deraglia spesso e volentieri). Come ci abitua da alcuni episodi a questa parte, Rankin mescola un po’ le carte, presenta diversi scenari criminali o criminosi, facendo poi sempre (o quasi) convergere tutto in uno scenario univoco. In questa questione di sangue (una volta tanto si lascia il titolo originale ed a ragione, che uno dei morti è nipote a Rebus, uno dei feriti è in conflitto con il padre, la sorella di un morto collude con il suddetto, e una dark-baby intrallazza un po’ con tutti) c’è una strage in una scuola: due alunni uccisi ed un ferito con l’assalitore suicida. L’altro fatto di sangue è la morte in un rogo di Martin, uno stalker di Siobhan, visto per l’ultima volta in compagnia di John, che per metà libro avrà le mani ustionate (qualcuno collegherà gli episodi, ma può essersi John fatto giustizia da solo?). Bobby guida le indagini sulla scuola, e visto l’inabilità di John, questi gli viene assegnato come aiuto, con Siobhan come autista. Inoltre il suicida faceva parte della SAS, la squadra speciale che ricordiamo bene dal primo libro della serie, come fosse un mito per John, ma che non riuscì ad entrarci. Hardman (questo l’assalitore) era anche patito delle armi e delle barche. Aveva amici, ma soprattutto David, provetto aviatore. Ed organizzava bevute a casa sua, dove partecipava James, lo studente ferito ma non ucciso. James che ha un padre politico ed imbecille, ed ha una cotta per Teri, ragazza goth (in Italia spesso tradotto con dark, anche se è più “gotico” appunto). Teri che va a letto con Hardman ed ha un sito web frequentato da Davis e Alan, i due ragazzi morti. Teri che è anche la sorella di un giovane morto in un incidente di macchina dove fu coinvolto Davis. Poi si scopre che Hardman conosceva un certo Jackson, malandrino procuratore di armi a tutta la contea. Jackson che ha una storia con Roxane. Che guarda caso era invece la donna fissa di Martin, lo stalker morto. Un calderone che la metà basta. Complicato dal fatto che due spioni della SAS mettono a tutti i bastoni tra le ruote. Che John si innervosisce sempre più, soprattutto quando sa o immagina Siobhan in pericolo (vuoi vedere…). Ma al solito, colpo di scena dopo colpo di scena, anche se non eclatanti come in altre scritture (c’è sempre quell’aria scozzese che ottunde un po’ tutto), i nostri buoni riescono a scoprire molti altarini. Che James non è così buono come sembra e che Hardman non è così cattivo. Che la droga forse non c’entra con i viaggi in motoscafo tra la Scozia e l’Olanda. Ma forse c’entra il diamantino al collo di Teri. E qualcosa anche c’entra con un disastro aereo in un’isola a metà tra Scozia e Irlanda, avvenuta qualche giorno dopo il cessate le ostilità con l’IRA. Cosa nascondeva quell’elicottero? Perché Hardman, dopo aver partecipato alle operazioni di recupero si dimette dalla SAS? Come fa ad avere tanta disponibilità di denaro? Perché conosce Jackson? Quale sarà l’anello debole della catena? E Davis degli aerei che ruolo ha? E John è coinvolto o meno nell’omicidio di Martin? John troverà la piccola leva che gli permetterà di far partire la valanga, che, più o meno, travolgerà i cattivi, cercando di non far troppo male ai buoni. Al solito, buona scrittura, forse qui un filino più lenta del solito; buona introduzione alla Scozia e ad Edimburgo (ma non credo che riuscirei a bere tanti alcolici). E la domanda che sorge spontanea a pagina 44: ma che cos’è la festa del Burryman? Che sappiamo solo, dopo lunghe ricerche in rete, derivare da una pianta in italiano chiamata Arctium, dalle inflorescenze artigliate che si attaccano ai vestiti? Qualcuno ne sa?
“Il fatto è che quello che hai nella testa non è sempre la stessa cosa di quello che fai.” (72)
Come si immaginava, niente vacanze cubane che non si è raggiunto il minimo sindacale. In compenso (sic) un’assegnazione per un giro veloce in Islanda tra due settimane (un parallelo, come dice il gergo tecnico di AnM, che c’è già un viaggio con 18 persone completo, e questo che per ora ne ha 3, ma …). Vediamo se si riesce ad organizzare, nonostante la stanchezza.

domenica 16 giugno 2013

Almost Bosch - 16 giugno 2013

In omaggio all’uscita dell’ultimo libro di Lucarelli (di cui no ci occupiamo), ne faccio un omaggio al grande giallista americano, visto, infatti, che ci occupiamo di un “full” Connelly con ben 3 episodi incentrati su Hieronymous Bosch, ed un romanzo isolato, puro giallo anche se, come confesso tra poco, non è tra le cose top che ho letto, né in generale, né dell’autore. E cominciamo pure dall’unico non Bosch.  
Michael Connelly “Utente sconosciuto” Piemme euro 11 (in realtà, scontato 8,25 euro)
[A: 01/09/2012 – I: 03/02/2013 – T: 06/02/2013]
[tit. or.: Chasing the Dime; ling. or.: inglese; pagine: 364; anno 2002]
Perché ancora una volta il vizio di tradurre “a muzzo” i titoli originali? Forse l’autore aveva intenzione di dare qualche segnale, e se questo si perde nella traduzione ne diamo, ora e ancora, colpa alle scellerate politiche editoriali. Passando dall’originale “Alla caccia del centesimo”, che fa allusione al lavoro di ricerca del protagonista, Henry Pierce, chimico molecolare, alle prese con una ricerca di connettori molecolari capaci, in un futuro, di creare computer della grandezza di un centesimo, al motore che da origine agli avvenimenti che si concatenano nel libro, quando appunto a Pierce, dovendo cambiare casa per rottura di rapporto, viene assegnato un numero di telefono corrispondente ad una prostituta che lavora “in rete”. Capirete senza dubbio che l’ottica si sposta, anche se è pur vero che il romanzo lavora su questi due binari paralleli. Da un lato il progetto Proteus, fiore all’occhiello di Pierce, che per questa ricerca sacrifica la sua vita privata (tanto che rompe con la bella Nicole). Progetto teso alla costruzione delle basi di connettori molecolari, in grado di aggregarsi (in un prossimo futuro) in computer tendenzialmente piccolissimi, e che potrebbero essere innestati anche in modo sottocutaneo, interagendo direttamente con gli organi della persona senza bisogno di porte e di cavi. Un’idea che, spinta ai suoi estremi limiti, potrebbe anche consentire di diagnosticare e curare mali della persona (del tipo un sensore diabetico interno che rilascia, una volta raggiunti i livelli di guardia, le giuste dosi di insulina). Progetto in via di traguardo, ma anche costoso ed alla ricerca di soldi. Motore primo di Proteus è appunto Pierce, che, stressato e pieno anche di problemi che nelle prime pagine non riusciamo ad immaginare, si lascia coinvolgere in questa strana vicenda delle telefonate misteriose al presunto vero utente del numero, l’escort di lusso Lilly. Scopriremo ad un certo punto che Henry aveva una sorella più grande che fece il percorso di Lilly, ma che finì male (con un colpo di collegamento che a Connelly è congeniale, veniamo a sapere che Isabelle, la sorella, è una delle donne uccise dal serial killer soprannominato “Fabbricante di bambole” che Bosch, eroe principe di Connelly, scopre in uno dei romanzi che lo vedono protagonista; questo sempre per cercare un’unità di visione intorno alle attività, poliziesche e criminali, che si svolgono in quel di Los Angeles). Henry si sente quindi in dovere di cercare Lilly. E comincia questa indagine, aiutato dall’amico di gioventù Cody, scoprendo una sodale di Lilly, poi degli appartamenti, ed alla fine, un letto insanguinato. Si rivolge alla polizia, ma tutti gli indizi (che per andare avanti nella ricerca non ha certo usato guanti di velluto) sembrano portare a lui come possibile colpevole di una possibile morte. Connelly ben maneggia la tensione, facendo progredire le indagini da un lato, e la preparazione dello show alla ricerca dei soldi dall’altro. Peccato che il mondo delle escort online sia veramente “duro”, e Pierce viene pestato alla grande. Ciò non gli impedisce di fare un figurone con i finanziatori. Ma subito dopo (e finalmente) si ferma a riflettere. Perché casualmente scopre un box a suo nome (come i box della “Bionda di cemento”, caro il mio scrittore, qualche invenzione in più, please), con dentro il corpo di Lilly; ed è un box affittato da sei mesi, ben prima dello scatenarsi del telefono. Allora, forse, c’è qualcuno che lo vuole incastrare. Chi sarà? Le industrie farmaceutiche in subbuglio? Nicole (unica a conoscere la storia di Isabelle) che si è venduta al nemico? Cody, hacker informatico, ma con troppi collegamenti strani? Dopo una prima parte un po’ in sordina e che trascina un po’ troppo per le lunghe il lettore, si arriva così alla parte “adrenalinica”, che finalmente coinvolge, che comincia a fare intravedere soluzioni diverse, e prospettive diverse su tutto quanto è successo nelle prime 260 pagine. Facendo quindi risalire il libro ad una dignitosa posizione di giusta lettura: niente di travolgente, ma neanche niente di troppo scontato e sciocco. Certo, Connelly ci ha abituato a romanzi di tono migliore e di maggiori complicazioni. Pur tuttavia, ci accontentiamo e ce lo teniamo, in attesa di tornare ai principali eroi dei suoi romanzi, Harry Bosch in testa.
Michael Connelly “La città delle ossa” Piemme euro 11 (in realtà, scontato 8,25 euro)
[A: 01/09/2012 – I: 23/02/2013 – T: 24/02/2013]
[tit. or.: City of Bones; ling. or.: inglese; pagine: 393; anno 2002]
Buono, anche se sono d’accordo con un poliziotto che ad un certo punto urla al nostro amato Bosch: “Ma tu porti veramente sfiga!”. Siamo ad un nuovo episodio incentrato con il nostro poliziotto preferito di L.A., l’inconfondibile Harry Bosch. Qui, il maestro del thriller si misura con una struttura abbastanza usata in televisione, quella del “cold case”: in un boschetto, nel Laurel Canyon che ci riporta alle musiche di John Mayall, viene trovato uno scheletro di un bambino, vecchio di almeno venti anni. Un impianto classico, direi, che Bosch affronta secondo i parametri usuali: ricerca delle date delle ossa, segni particolari, ricerche in archivio e via discorrendo. Ma non sarebbe Connelly se non ci mettesse tutto l’impianto dei suoi procedural thriller. Nelle indagini viene coinvolta una recluta del Distretto, Julia Brasher. Carina ed interessante, tanto che Bosch (ormai dimenticata Eleanor e le belle dei precedenti episodi) non può fare a meno di filarla un po’. Nasce così un interessante rapporto (lo scambio tra i due delle rispettive parentesi di vita che li hanno portati a questo punto) è interessante, sia per le luci che getta sulla psicologia del nostro paladino, sia sulle motivazioni che trova un brillante avvocato di lasciare tutto e di dedicarsi a fare la poliziotta. Ovviamente, il tutto complicato che Bosch è un superiore di Julia, e queste tipologie di rapporti non sono ben viste presso la polizia americana. Bosch ed il suo fido compagno Edgar intanto procedono nelle indagini. Trovano un pedofilo pentito che sembra essere coinvolto, ma della vicenda se ne impadroniscono i media, ed il tizio pensa bene di impiccarsi. Finalmente, ma casualmente, trovano una traccia a seguito di una segnalazione di una donna, che dice potrebbe essere il fratello scomparso appunto in quegli anni. Indagini ed interrogatori si susseguono, ed anche qui, pagina dopo pagina (ma con un po’ di fatica, che la prima parte non riesce a decollare), Bosch comincia a farsi una fotografia dei possibili avvenimenti. Trovando prima la conferma dell’identità, poi trovando il padre, ormai alcolizzato che vive in una roulotte (ed è uno stile di vita comune in America, vedi il bellissimo film di Altman …), ed identificando anche un ragazzo che conosceva lo scomparso, ma che ora è ai limiti della legge, tra droga e furtarelli. Proprio il ritrovamento di Stokes fa precipitare gli avvenimenti, accelerare il ritmo e rende l’ultima parte del libro meglio congeniata ed appassionante. Nel tentativo di fermare Stokes, Julia spara accidentalmente ed il proiettile di rimbalzo la uccide (da cui l’urlo delle prime righe). Il padre alcolizzato allora si autodenuncia come autore dell’omicidio, perché pensa che sia stata la figlia Sheila; la quale sa che non è stato il padre, il cui unico scopo (all’epoca dei fatti) era insidiare lei (e forse qualcosa in più). A questo punto, Bosch si ferma, che tutto sta andando a carte quarantotto. Quanti sono gli indiziati, quindi? C’è il padre, ovviamente, ma c’è anche Sheila (che confessa essere lei ad aver maltrattato il fratello, anche se non per ucciderlo), c’è Stokes, che forse sa più di quanto sembra, e c’è il pedofilo morto, presso cui trovano lo skate del morto. La maestria di Connelly è la solita di presentare tutti i finali possibili, e poi imboccarne uno. Che porterà alla soluzione del caso, anche se (costante che ritroviamo) il colpevole non è detto che possa avere la punizione che si merita (lo lascio dubitativo, così potete scoprirlo da voi). Certo, la fine è dolente, con il nostro Hieronymous che pensa a tutte le brutture che ha visto in questi anni, a tutte le persone care che ha visto morire. E non basteranno i dischi di Bill Evans a calmarlo. E noi ci domandiamo con lui: sarà la fine delle storie di Bosch? Speriamo di no, che, con tutti i suoi alti e bassi, la qualità media della scrittura di Connelly è comunque alta ed a me gradita.
“Sapeva che era sempre facile prendersela con qualcuno, ma non era giusto. In fondo, tutti erano padroni di scegliere la propria strada. Ogni individuo poteva essere influenzato dagli altri, ma la scelta finale era sempre sua.” (259)
“Immagino che sia impossibile conoscere a fondo un’altra persona, vero? Forse uno si illude di sapere come è fatta, le si avvicina al punto di fare l’amore, ma anche quando si raggiunge quest’intimità, non si sa mai quello che l’altro di porta dentro.” (262)
Michael Connelly “Lame di luce” Piemme euro 10
[A: 25/04/2012 – I: 25/04/2013 – T: 26/04/2013]
[tit. or.: Lost light; ling. or.: inglese; pagine: 346; anno 2003]
Appena ci si adagio sugli allori, pensando di aver capito Connelly ed il suo modo di scrivere, ed appena si inizia a leggere un nuovo romanzo, pensando di entrare in modo tranquillo nel mondo californiano di Harry Bosch … ecco che ci ritroviamo in una dimensione diversa da quella che ci si aspettava. Mi aspettavo di tornare alla Divisione Rapine e Omicidi di Hollywood, con la squadra di Bosch, soprattutto la simpatica Kiz, e di addentrarci in un nuovo caso che avrebbe messo alla frusta Harry e la piramide poliziesca. Invece… cominciamo che Connelly ci comunica che Bosch si è dimesso. Fuori dalla polizia, dopo 28 anni di lotte. Fuori senza quasi salutare, tanto che i “vecchi” amici non se lo filano più. Ma Bosch ha sempre qualcosa dentro, quel senso verso la giustizia che lo aveva sorretto in tutte le traversie. E, cosa per me fondamentale, uno sviscerato amore per la musica (imperdibili le prime pagine con Art Pepper al clarinetto), tanto che si mette anche a studiare il sassofono. Tutto poi gli serve per tornare a pensare a quanto non è riuscito a concludere. Ed è la morte di una certa Angela Benton che gli rimane nella testa. Con tutto il contorno che non si era riuscito a “dirimere”. La Benton è assistente di produzione in uno studio di cinema. Uccisa forse per motivi sessuali. Bosch va sul set, dove assiste ad una rapina con sparatoria. Era un film thriller, ed il regista voleva soldi veri per una rapina. Ovvio che la rapina c’è davvero. Muore il responsabile della sicurezza della banca, e viene ferito l’assistente bancario. Ed i soldi spariscono. L’inchiesta sulla rapina viene affidata a due poliziotti, che dieci mesi dopo vengono falciati durante una rapina. Uno muore l’altro rimane paraplegico. Bosch comincia a studiare il caso. E subito i suoi ex cercano di bloccarlo con le buone. Va dal paraplegico, che gli fornisce informazioni a pezzi. Ma scopre che un’agente della sezione informatica, Lily Gessler, li aveva avvertiti di anomalie nei numeri di serie delle banconote rubate. Bosch cerca la Gessler, e scopre che è scomparsa, pochi giorni prima che i due poliziotti venissero falcidiati. E scopre che la Gessler era la donna di Roy Lindell (un FBI che avevamo trovato quattro storie fa, rimasto in amicizia con Bosch). Per soprammercato, una delle banconote viene rinvenuta in una valigia che un terrorista filo-arabo cerca di trafugare in Messico. D’altra parte siamo nel post-2001, ed il terrorismo ci sguazza bene. Quindi, benché non più poliziotto, e solo con una licenza da detective, ed avendo sempre tutti contro (d’altronde c’è abituato), il nostro continua ad indagare. E visto che siamo in clima di revival, prima ritrova Janis, un tempo pubblico ministero con cui aveva risolto un caso, ed ora avvocato, che lo “protegge”. Poi ritrova addirittura la mitica Eleanor, l’unica donna che lui ha amato, il suo unico proiettile (vedi la citazione sotto). Sta ancora a Las Vegas, si guadagna la vita giocando a carte, e si comporta in modo misterioso, un po’ sfuggendo, un po’ cercando Harry. Ma questa è una storia diversa, una storia d’amore che (forse) vedremo sviluppata in altre storie (questa è la nona storia di Bosch e mi risulta sia arrivato alla 18^). Invece, con tutti contro (polizia, FBI, amici, e chi più ne ha…), Bosch si spulcia tutti gli incartamenti. E trova un bandolo. Trova un filo che lega la morte della Benton, la rapina sul set, la scomparsa della Gessler, la sparatoria contro i due poliziotti. Nel solito finale un po’ troppo “catartico” tutti (o molti) nodi vengono al pettine. I cattivi trovano il fio delle loro colpe. Bosch dovrà accettare dei compromessi (in fondo, ormai è solo un detective protetto solo da un avvocato). Ma la costruzione è degna, le forze dell’ordine fanno la loro solita cattiva figura (non a caso, Connelly cita spesso anche il caso Rodney King), e Bosch prende un volo per il Nevada… Insomma, bella storia, bel ritmo, e buona l’idea di complicarci la vita. Vedremo che cosa ti inventerai d’altro, caro Connelly.
“Era una donna sola, in cerca di affetto. Per me andava bene. Siamo tutti così” (75)
“Avevo dato a qualcuno delle speranze che dentro di me sapevo benissimo di non poter mantenere. Era un errore, anche se si basava su delle buone intenzioni.” (77)
“Io credo nella teoria dell’unico proiettile. Ci si può innamorare molte volte, ma c’è un unico proiettile con inciso un nome. E se sei abbastanza fortunato da venire colpito da quell’unico proiettile, puoi star certo che la ferita non guarirà più. … Nel cuore le cose non finiscono mai.” (119)
Michael Connelly “Il poeta è tornato” Piemme euro 11,50 (in realtà scontato a 8,65 euro con Feltrinelli+)
[A: 01/09/2012 – I: 10/06/2013 – T: 12/06/2013]
[tit. or.: The Narrows; ling. or.: inglese; pagine: 392; anno 2004]
Un libro in un buono stile Connelly, ma abbiamo letto di meglio del nostro. Buono anche il tentativo di doppio registro alternando soggettiva di Bosch e oggettiva, senza uno schema fisso (tanto che a volte le scritture si avvicendano all’interno di uno stesso capitolo). Intanto, credo che nella mente dello scrittore questo sia stato concepito come un libro di passaggio, un libro che cerca di chiudere alcune delle tante parentesi che Connelly apre nel mondo della polizia e della pattuglia investigativa FBI di Los Angeles e dintorni. Prima di entrare nel vivo, cerchiamo di riassumere lo stato dell’arte delle vicende: Bosch da un paio di libri si è dimesso dalla polizia, lavora come investigatore privato (con successi alterni), ha ritrovato il suo grande amore Eleanor che è tornata a vivere di poker a Las Vegas (e non è più il suo grande amore) ed ha scoperto di avere con lei una figlia. Degli altri avevamo lasciato Terry McCaleb sempre attento ai profili di killer e compagnia, ma sempre più in crisi con la salute; Rachel Willing, dopo i successi delle avventure per incastrare Backus il Poeta, a causa di alcuni errori, inviata per punizione nel Dakota (e dov’è?); e Backus scomparso ma (probabilmente) non morto come si credeva. Nel solito stile di Connelly, vediamo quindi nascere alcuni filoni di vicende: muore Terry, ma la vedova Graciela non è convinta ed incarica l’amico ed ex-poliziotto Harry di indagare. E Bosch scopre tracce strane: il furto di un GPS dalla barca, una ricerca su alcune persone scomparse nell’area di Las Vegas, fotografie che ritraggono un losco figuro con cappello da baseball ed una foto di un posto che si chiama Zzyzx (piccola parentesi per dare atto a Connelly scrupolo e verità; il posto esiste, si trova a 160 chilometri a sud di Las Vegas, ed è famoso per due motivi: la strada che vi arriva poi prosegue e si perde nel deserto ed il nome è stato ufficializzato come l’ultimo nome dell’alfabeto lessicografico americano). Mentre Harry procede con le sue ricerche, scopriamo che un GPS è stato recapito all’FBI, indirizzandolo a Rachel Willing e con le coordinate di Zzyzx. Rachel era stata, come detto, allontanata, ma viene richiamata come osservatrice e conoscitrice di Backus (che sul GPS ci sono le sue impronte). Ed a Zzyzx si scoprano 11 cadaveri! Ovviamente, Harry converge su Zzyzx, si scontra con l’FBI, si allea con Rachel (visto che anche lei viene usata). E mentre continua a ragionare, va a trovare la figlia a Los Angeles, incontra una misteriosa Jane che presto scompare (ma nello stile di Connelly sono sicuro riapparirà in qualche altra storia), e comincia a vedere un barlume di filo conduttore. Perché (e noi lettori onniscienti lo sappiamo) è veramente il Poeta che muove le fila. Che sembra aver ucciso Terry. Che vuole uccidere qualche altra persona, probabilmente Rachel (sua allieva quando era in FBI, e poi l’unica che ne capì la pericolosità). Harry interpreta gli appunti di Terry (che sembrava, in effetti, aver capito tutto), e trova la base nel deserto di Backus. Ma tutto salta per aria, sembrando che sia morto anche il Poeta. Finale non verosimile. Ed allora seguiamo Harry e Rachel fare un ultimo sforzo mentale, risalire ad una trama complessa che Backus aveva ipotizzato anni prima e che aveva perseguito, mettendo insieme, con intelligenza malefica, indizi, contro-indizi, prove e smascheramenti. E capiscono che Backus ha messo in moto tutto ciò per uccidere l’unico poliziotto che nel precedente romanzo era sfuggito alla sua vendetta. In un finale caotico, ma molto hollywoodiano, tutto va al suo posto, con una feroce lotta tra Bosch e Backus nei canali laterali del fiume di Los Angeles. Veniamo quindi qui alle lamentele per la scarsa considerazione dei marketing italici che preferiscono far abboccare i pesci gialli all’amo del ritorno dell’efferato poeta, mentre il titolo inglese allude agli stretti canali (“Narrows” in inglese) degli affluenti del fiume di Los Angeles, dove appunto si svolge la parte finale e decisiva della storia. Infatti, per i patiti di storie poco note, la città di L.A. fu fondata il 4 settembre 1781, da 44 persone, chiamate “Los Pobladores” che costituirono un insediamento vicino proprio al fiume, battezzandolo (essendo all’epoca tutti spagnoli o di discendenza spagnola) “El Pueblo de Nuestra Señora La Reina de los Ángeles sobre el Río Porciúncula”, facendone in pratica un gemellaggio teorico con Assisi. C’è anche un ultimo sussulto in cui, mentre speravamo che Harry e Rachel potessero avere una storia, addivengono ad una rottura (e non vi dirò il perché). Ma nel frattempo il LAPD (per i non patiti di FoxCrime, il Los Angeles Police Departement), a corto di menti lucide, chiede ad Harry di rientrare in servizio ed Harry … Non ve lo dico, lo vedremo nei prossimi libri. Comunque, gradevoli, leggibili, e (quasi sempre) con qualche spunto per me.
“Mi domandai perché, quando una persona ti dice quello che vorresti sentirti dire, [lo accogli] … sempre con qualche sospetto e riserva.” (309)
Purtroppo comunico al colto ed all’inclita, che il viaggio a Cuba è saltato per mancanza di numero legale. Io continuo ad organizzare altri viaggi, che quest’anno è molto dedicato al muoversi. Sicuramente si parte in Agosto, e con ragionevoli possibilità anche a luglio. Ma vediamo e vi terrò informati. 

domenica 9 giugno 2013

Una scrittura femminile? - 09 giugno 2013

Probabilmente no, anche se qui abbiamo quattro scrittrici. Per una scrittura piena, a tutto tondo, di qualità migliore delle ultime letture. Anche e soprattutto dove ci sono donne che descrivono donne (o ragazze) come nella Liebrecht o nella Gamberale. Ma anche sentimenti diversi e conflittuali  come nella Dische o nella Lahiri. Insomma, una buona settimana, di letture con più alti che bassi e tutte da consigliare.
Irene Dische “Le lettere del sabato” Feltrinelli euro 5,50 (in realtà, scontato a 4,40 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 11/01/2013 – T: 11/01/2013]
[tit. or.: Zwischen zwei Scheiben Glück; ling. or.: tedesco; pagine: 93; anno 1997] qui nella versione inglese [tit. or.: Between Two Seasons of Happiness; anno 1999]
Quest’anno di numeri diversi (e tra l’altro i primi, anche se in ordine sparso) è caratterizzato dalla lettura di molti suggerimenti ripresi dalle pagine “librarie” di Repubblica. Questo viene da una “Terza dei Libri”, dove in genere si affrontano argomenti “seri”. Ed anche se la forma ha più dell’apologo ed è rivolta ai giovani, questa favola triste-allegra ha una sua dignità ed un suo spazio reale. Non serve a riempire vuoti, né a fare melense storie come quella (a me veramente non piaciuta) del “Bambino a righe”. Siamo più sul versante di Schmitt, con il “Bambino di Noè" e in sottofondo la musica di Piovani. L’autrice, americana di origine tedesca, ormai risiede quasi stabilmente a Berlino. E scrive nella lingua degli avi, come ci dice il titolo originale del testo, che qui però Feltrinelli ci propone nella traduzione dall’inglese. Inoltre, benché i due titoli originali siano similari, il nostro editore decide di intitolarlo “Le lettere del sabato”, che sono una costante del libro, un asse portante, ma altrettanto portante è la stagione che vive il piccolo Peter, una stagione appunto a metà tra due momenti di felicità. Per rendere più completo questo “nazismo spiegato ai miei figli”, l’autrice fa agire da protagonisti una famiglia ungherese, il vecchio dottor Nagel, il figlio Laszlo ed il nipote Peter. Noi vediamo (quasi) tutto con gli occhi di Peter, salvo alcune parti narrate in terza persona “onnisciente” che però servono a completare quanto Peter non vede o non capisce. Laszlo è una persona dal carattere esuberante, che non si abbatte per la morte della moglie, e, intrapresa la carriera diplomatica, viene inviato a Berlino dove si trasferisce con Peter, il quale vi vive una stagione meravigliosa. Piena di scoperte, e piena del padre, che lo porta ovunque, che lo fa partecipe di tutte le sue imprese. Ed è anche protetto dalla tata Thea, che lo porta a scuola, gli insegna il tedesco. Peccato che ben presto si arrivi al 9 novembre 1938, la Notte dei Cristalli, il primo pogrom contro gli ebrei. Peter non capisce molto, salvo la scomparsa del droghiere Herr Braum. Laszlo invece capisce e lo rispedisce dal nonno, promettendogli una lettera ad ogni sabato che saranno lontani. Comincia così la seconda parte della vita di Peter, nella casa avita, con il burbero nonno ormai in pensione, e con le incombenze quotidiane. Lo studio, con una Fraulein appositamente scelta, i pochi giochi, il tè delle cinque con il nonno. E l’attesa del sabato, quando arrivano le lettere di Laszlo. Scritte con una calligrafia impossibile, tanto che il nonno è costretto a leggerle lui. E Laszlo racconta di tutto, meno quello che sembra realmente succedere. Sempre affrontando la vita come “un ragazzo nato con la camicia”. Peter ha poco da raccontare, perché poco succede lì in campagna. Ed allora comincia ad inventare una sua vita parallela, fatta di corse, di amici, di biciclette. Gli anni passano, le lettere ormai vengono scritte a macchina così Peter le leggerà da solo. Laszlo non si vede. La guerra non si sente, ma c’è. Il Dottor Nagel invecchia. Peter cresce e… Forse basta così, per ora. Alla fine, non è che sia un “grande” apprezzatore di libri dedicati ai ragazzi, anche a motivo della mia richiesta personale a tutti gli adulti: non esistono lingue diverse per parlare alle diverse età. Esiste solo chiarezza ed onestà, con le quali si può dire tutto a tutti. Ovvio, che ci possono essere passaggi delicati, ma questi vanno forse diluiti, non narrati con false voci chiocce. Irene questo fa, non demordendo mai da un narrare, in forma semplice, ma mai in forma elusiva. Peter alla fine comprenderà meglio (e noi con lui) la bontà del rude nonno Nagel, l’irreale felicità del padre Laszlo, la dolcezza della governante Thea. Ci vorrà forse un momento di sospensione della felicità per comprendere tutto ciò, ma il titolo ci porta già altrove. Ci fa già salire sul secondo versante della stagione della felicità. Un libro agile, quindi, non al massimo delle mie corde, letto un po’ per sbaglio (sì, va bene il suggerimento, ma l’avevo messo in un appunto diverso, e pensavo di aver comprato altro), ma, al fine, sicuramente degno. Come sempre saranno tutti quei libri che si occupano di momenti tragici della storia (vicini o lontani) per non farli dimenticare. E per narrarne le mille possibili sfaccettature.
“Il mondo si divide in quelli che adorano la cioccolata e quelli che adorano la liquirizia.” (34)
Savyon Liebrecht “Prove d’amore” E/O euro 7,75 (in realtà, scontato 6,20 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 14/02/2013 – T: 20/02/2013]
[titolo: Ish veishà veish; lingua: ebraico; pagine: 237; anno: 1998]
Ancora un sentito ringraziamento alle note de “Il libraio di Repubblica” che mi ha suggerito questo tiolo che non credo altrimenti avrei preso in esame. Una prima considerazione riguarda gli ambiti letterari in cui si muove. Credo che ci sia un’alta densità di scritti interessanti che ci vengono dalla terra d’Israele. Sarà forse perché, come sostiene Amos Oz in una recente intervista, la lingua ebraica è ricca di possibilità, e permette di esprimere e rappresentare situazioni dando loro molti colori che (forse, ma non sono in grado di giudicare) non verrebbero fuori in altre lingue. Sicuramente ho approfondito solo quanto deriva dal titolo originale e dalla sua (indegna) traduzione. Ora queste prove d’amore hanno sì un bell’essere possibilmente rappresentate come richieste di amore (prove) o come tracce di un amore che c’è o c’era tra i vari protagonisti della storia (prove quasi in senso poliziesco). L’originale invece è molto scarno e fa riferimento a un lui (maschio), una lei (donna) e un diverso lui (di nuovo maschio). Ed è proprio intorno a questa lei, centrale nel titolo, che si sviluppa il libro. Una lei, centrale anche nello sviluppo. È con i suoi occhi che vediamo svolgersi una trama, che è intensa, dolorosa, piena di momenti di riflessione, a volte buttati lì quasi per caso, ma che (per me) denotano un’intensità nel pensare e nell’osservare. Lei è Hamutal, nome biblico che (purtroppo) non so tradurre ma che fu madre di due degli ultimi re del Regno di Giuda (la cui fine fu decisa quando Nabuccodonosor distrusse il primo tempio del re Salomone). Ed un’attenta lettura porta a vedere tutti i riferimenti biblici sempre molto presenti nella letteratura ebraica. Hamutal qui è madre di due figlie, e c’è tra loro una grossa tensione, scarsamente alleviata dal marito Aron (che nella Bibbia è il fratello di Mosè). Quindi la vita familiare di Hamutal è sull’orlo di una grossa crisi. Che si accentua con il ricovero della di lei madre in un ospedale geriatrico per malati terminali. Assistiamo così alla scissione di Hamutal tra le lotte (appena accennate, ma si intuisce dirompenti) in famiglia e la battaglia per recuperare un rapporto con la madre, che, sicuramente malata di Alzheimer, esce a tratti dal buio della malattia, ma non ha (come non ha mai avuto) una parola di gentilezza verso la figlia. In questa situazione critica si inserisce Shaul (in italiano Saul, anche lui forte personaggio biblico, prima inneggiato poi osteggiato dalle tribù di Israele, che spinsero poi sul suo trono il giovane David vincitore di Golia). Figlio di un altro malato terminale. Tra i due, miracolosamente, scoppia una scintilla. Un sentimento di reciproco sostentamento, nel momento del dolore. Nel recupero del rapporto con i genitori. Con quella sensazione (reciproca) di aver trovato qualcuno che comprende le parole che vengono dette (ed anche quelle che vengono taciute). Shaul è tornato lì, a Tel Aviv, per accudire il padre, lasciando moglie e figli a Chicago, dove si è trasferito da anni. La storia è tutta giocata tra questi personaggi che si muovono con difficoltà, che spesso fanno passi falsi, ognuno perseguendo in realtà un proprio gioco, un proprio disegno. Che scoppierà (ma non dico come) alla morte del padre di Shaul. Da contrappunto, inoltre, come spesso in questa letteratura, i discorsi della guerra, delle deportazioni, di Auschwitz. Shifra (che in ebraico significa amorevole) è una madre che ha subito grossi danni durante la Shoah, e questo riaffiora anche nei più alti momenti di obnubilazione mentale. Non è un libro consolatorio, anche se ognuno uscirà più maturo alla fine del romanzo (e continuerò a non dirvi in quale direzione). È un libro di pensieri: come può avere un’infanzia serena una figlia di deportati che non hanno superato quel trauma? Come fa una ragazza a diventare una madre consapevole se non ha mai avuto la sensazione di essere amata? Quali sono i modi per interagire tra adulti e ragazzi, quando entrambi hanno momenti problematici? Come fanno i lui a capire cosa vuole lei? Fortunatamente, ed è questa un’altra delle bellezze del romanzo, Savyon è donna e si cala in Hamutal, e ce ne fa seguire i ragionamenti, le deduzioni, le paure, le gioie. Per me è stata una cartina di tornasole su cui vedere dei ragionamenti che anche io (come tanti) abbiamo fatto nella nostra vita, ma dal punto di vista femminile e non maschile. Non sono uscito allegro dal libro, troppe frecce lanciate, ma pieno della speranza che c’è sempre un modo per andare avanti: continuare ad essere se stessi.
“Tutto è predestinato, ma ognuno è libero di decidere.” (101)
“Quando l’uomo è un ragazzo, canta; quando è adulto, racconta parabole; quando è vecchio, dice cose vane.” (126)
“Penso che preferirei dimenticare la maggior parte delle cose che ricordo.” (135)
Jhumpa Lahiri “L’omonimo” Guanda euro 9 (in realtà, scontato a 6,84 euro)
[A: 07/08/2012– I: 09/05/2013 – T: 10/05/2013]
[tit. or.: The Namesake; ling. or.: inglese; pagine: 342; anno 2003]
Mi avevano incuriosito alcune circostanze temporalmente coincidenti con la scoperta di questo libro negli scaffali della ex-libreria MEL in via Nazionale. Avevo da poco finito il libro dell’indiano Ghosh sull’epopea indiana dell’emigrazione dall’India alle Maldive. Avevo visto uscire un film tratto da questo libro. E mi colpiva il titolo, questa volta fedelmente riprodotto dall’originale. Omonimo? Ma a chi? A cosa? E chi è questa Jhumpa, vincitrice di un Pulitzer nel 2000? Date queste premesse, si acquista, e poi si lascia riposare fino a quando non è stato il suo turno. La scrittura, venendo da un Pulitzer, non poteva che essere gradevole. E la storia anche, mantiene le promesse, anche se non si accosta alle grandi saghe dell’a me più consono Amitav. Perché alla fine, il risultato è dignitoso, tant’è che l’ho letto in un paio di giorni (anzi di notti), ma mi aspettavo qualcosa di più. Certo, ritrae, e credo fedelmente vista la storia personale della scrittrice, il mondo degli indiani espatriati. Dei loro problemi nei mondi di arrivo. E di quello che lasciano nei mondi di partenza. La storia segue grosso modo la tempistica di una generazione. Seguiamo, infatti, lo sposalizio di Ashima e Ashoke. La nascita del figlio, e la sua crescita fino ad un intorno dei suoi trenta anni. E le evoluzioni, che in una generazione di espatriati, avvengono nei modi di vivere dei personaggi. Ashoke, da giovane grande lettore soprattutto di letteratura russa, si salva miracolosamente da un disastro ferroviario mentre legge “Il cappotto” di Gogol. Abbandona allora la letteratura, si trasferisce a studiare al MIT di Boston, e, avviato sulla trentina, acconsente ad un matrimonio combinato con Ashima, che non ha mai visto. Anche Ashima si trasferisce a Boston, e viviamo con loro la prima parte del loro espatrio. Non sono certo clandestini, anzi direi quasi benestanti. Ma vivono nel mondo chiuso dei bengalesi all’estero, frequentandosi solo tra di loro. E quando nasce il loro figlio scopriamo la bellezza del nome. Che nel Bengala (forse in tutta l’India) uno è il nome anagrafico, ma altro e più vicino alle persone è il nome familiare. Ma il nome anagrafico deve essere dato dal parente più anziano, la nonna indiana, la cui lettera con il nome mai arriverà. In America, come in tutti i paesi occidentali, non si esce dall’ospedale senza un nome. Viene allora dato al bimbo il primo nome che sorge nella mente di Ashoke: quello dell’autore che gli salvò la vita. Ed ecco l’omonimia. Ecco aggirarsi per Boston il piccolo Gogol Ganguli. Tutta la storia di Gogol sarà permeata da questo dualismo di un nome che non dovrebbe essere il suo, ma che, allo stesso tempo, è quello di un grande personaggio. Questo da modo alla scrittrice di scavare nei meandri dei modi di vivere e di essere degli espatriati benestanti. Dei loro figli (dopo Gogol nascerà la bella Senali, che ben presto verrà chiamata semplicemente Sonia). E Gogol cresce combattuto, amando – odiando il nome e le sue origini. Cercando di allontanarsi, appena può, dall’ambiente bengalese. Dopo la giovinezza che viviamo insieme alle sue frustrazioni, si libera, va a vivere da solo. Fa esperienza. Ha una prima storia d’amore che finisce presto. Poi una grande storia, negli anni universitari e da poco laureato, con l’emancipata Maxine. Intanto, si è anche cambiato il nome in Nikhil, proprio per allontanarsi dall’India. Ma anche la convivenza con Maxine regge fino alla morte di Ashoke. Quando Gogol – Nikhil verrà risucchiato, consenziente, nel mondo degli espatriati. Con i riti funebri. Con la scoperta dell’amore con l’intelligente Moshumi. Il matrimonio, con tutti i rituali indiani, trasportati nella provincia americana. Ma il libro non è un libro di formazione allegro, non intende consolarci, che Gogol sarà sempre sconfitto finché non accetterà l’origine del suo nome. Per riavvicinarsi definitivamente, anche se solitario, al mondo della madre mesta e della sorella allegra. Anche se è e sarà americano e non indiano (vogliamo parlare dello ius soli?). Le parti migliori sono quelle delle contrapposizioni tra usanze americane ed abitudini indiane, e quando di quest’ultime viene dato spiegazione ed approfondimento. È certo un libro dolente, che l’emigrazione sempre lo è. Ma utile per chi l’espatrio lo ha vissuto sulla propria pelle (Jhumpa nasce, infatti, a Londra da genitori indiani e presto si trasferisce in America). A me, tra le altre, lascia il segno il rapporto tra Ashoke e Gogol, soprattutto quando quest’ultimo segue la propria indole di architetto e non fa facoltà scientifiche come voleva il padre. Tuttavia mi aspettavo uno scatto di qualità, che, alla fine, non ho trovato. Anche se ne consiglio la lettura. In ultimo consiglio allo sprovveduto traduttore di Kathy Reichs (di cui ho ampiamente parlato male) di fare un corso di inglese con Claudia Tarolo, che ben traduce il libro, portandoci in tavola, a pagina 242, un’insalata di rucola e pere!
“Non riesce a liberarsi dall’idea che metà delle persone presenti in quella stanza siano andate a letto insieme.” (281)
“Fissando il mare sterminato di novità [in libreria] si rende conto che non ha letto nessuno di questi libri, e che senso ha regalarle qualcosa che non ha letto?” (320)
Chiara Gamberale “Le luci nelle case degli altri” Mondadori euro 13 (in realtà, scontato 9,75 euro)
[A: 01/11/2012– I: 25/05/2013 – T: 26/05/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 392; anno 2010]
Una bella e gradevole lettura, per cui devo ringraziare l’amica Paola N del suggerimento. Già altro ho letto della Gamberale, e già ricordai come mi colpì la fulminazione iniziale di quel “La zona cieca”, libro costruito sul quadrato di Johari, che spero ricordino i miei amici psicologi (e che se qualcuno vuole, altrove ricorderò). Anche qui c’è una bella idea “scatenante”, ed un susseguirsi di narrati (in soggettiva) e flashback (in oggettiva e corsivo) dove bisogna un po’ entrare nel meccanismo, ma poi scorre veloce, anche se non lieve, verso l’attesa spasmodica (per me lettore a volte ansioso) del disvelamento finale. E come tutti i libri che mi appassionano, anche qui, alla fine, abbandonato il capo sul cuscino, mi sono posto ad immaginare il dopo. Cosa avrebbero fatto Mandorla, e Matteo, e Lidia, Giulia, Lorenzo, e tutti gli altri coinvolti nella trama. E quale è questa volta l’idea da cui parte la scrittrice? Il nucleo della trama è imperniata sulla vita di un condominio romano, sito in via di Grotta Perfetta a Roma, stretto tra la Cristoforo Colombo ed il Parco dell’Appia. Cinque piani, cinque nuclei familiari. L’amministratrice del condominio (“le sue riunioni condominiali sembravano più che altro sedute di autocoscienza”), muore lasciando la figlioletta, Mandorla, di 6 anni, ed una lettera dove indica come l’abbia concepita nel lavatoio del condominio, a valle di una riunione. I maschi del condominio si sentono parte in causa, ma per il quieto vivere di tutti (forse meno che della piccola Mandorla), decidono di non approfondire la questione, ma di “adottare” come condominio la piccola che vivrà due anni, più o meno, in ogni famiglia. Su questo assunto strampalato, si dipana quindi la storia. Che intreccia la crescita di Mandorla, con l’interazione tra lei e le varie famiglie. E la storia delle famiglie stesse. La signorina Tina, maestra in persona, sarà la prima (è quella del primo piano). E poi salendo, con gli anni e le scale, passa al secondo piano con la famiglia Sgrò, dove c’è l’avvocato Caterina e lo sconclusionato cinefilo Samuele ed il loro figlio Lars (chiamato così in onore di Lars Von Tier). E dove seguiamo la “lucida follia” di Samuele che gira un film alla maniera di Heimat (ad essere buoni) o al Wharol del sonno, riprendendo 24 ore di sonno del figlio. Questo, e il tradimento di Samuele con … (non ve lo dico), porteranno alla rottura della famiglia, ed al trasferimento anzi tempo al terzo piano. Dove invece vivono Paolo e Michelangelo, la coppia gay. Che, nonostante gli attriti tra Paolo e Mandorla, si rivela pieno di dolcezze reciproche. Mandorla sta crescendo, diventa sempre più “difficile”, perché non si adatta agli ADME (come li definisce lei: gli Altri Della Mia Età), e non servirà, anche se la farà maturare, il passaggio al quarto piano, da Lidia e Lorenzo. Maturare che Lorenzo è un intellettuale sconclusionato, ma capace di seguire un ragionamento. E Lidia cura un programma “amorevole” alla radio (come del resto la nostra scrittrice). Ma la crisi vera arriverà all’ultimo piano, dalla famiglia Barilla. Che più famiglia non si può: lui, padre, dirigente d’industria, assolutamente privo di qualsiasi traccia di umanità, lei, madre, che fa la madre “classica” che non chiede ma fa. Ed i due figli: Giulia, che ben presto se ne va in Inghilterra, e Matteo. Che ha la stessa età di Mandorla, che vanno nella stessa classe. E di cui (ovvio) Mandorla si innamora. Ma Matteo non pare recepire i messaggi e si mette con Eva, l’unica amica di Mandorla. Che per ripicca si invaghisce di uno spostato, Palomo, che millanta una madre messicana ed ha la sola capacità di inventarsi storie. Strampalate, ma talmente belle che sono quello di cui Mandorla ha bisogno. E per Palomo, Mandorla farà sciocchezze grandi e piccole. Costringendo il condominio a ripensare tutti i gli atteggiamenti tenuti. Ed a prometterle il test del DNA per scoprire chi sia il padre. Mandorla, in una lunga notte in prigione (e non vi dirò perché) ripercorre tutta la sua vita condominiale. Ed una volta uscita, ci sarà una nuova riunione condominiale, per decidere i tempi del test, e per ascoltare cosa vorrà dire Mandorla, e cosa Matteo. Non vi svelo l’ultima parte, significativa e che da anche senso al tutto. È un bel modo, per la Gamberale, di sciogliere i dilemmi, e di portare avanti i problemi dei rapporti interpersonali. Una madre è sempre una madre, ma un padre lo si può diventare, anche non essendolo, o non sapendo di esserlo, come dimostrano in vario modo i condomini di Poggio Ameno. Insomma, un bel flash di situazioni varie, possibili e reali. Che toccano tanti temi: la solitudine della vecchiaia, i gay, i rapporti nati su di una base comune, ma che non si evolvono nel tempo e necessariamente si logorano, paternità biologica o naturale, amori giovanili e giovanili ribellioni. Questo solo per toccarne alcuni. E per ribadire che a me è piaciuto, e ne consiglio la lettura. Magari estiva, davanti ad un mare blu, con una Coca fresca vicino.
“Incredibile… come la vita ci cambia mentre noi siamo tutti concentrati a cambiare lei.” (117)
“Comincio a credere che si possa essere davvero genitori o figli solo dentro di noi, al di là del ruolo che la vita ci assegna e che, giusto accidentalmente, può corrispondere a quello che siamo più adatti a fare.” (255)
“Possiamo mettercela tutta per cambiare le cose che non ci piacciono. Ma ce ne sono certe che dobbiamo solo accettare così come sono. Il gioco sta nel riconoscere quali sono quelle e quali sono queste.” (373)
“L’unico perdono possibile che possiamo concedere alle nostre mamme e ai nostri papà è lasciarli andare, a un certo punto. Continuare a volergli bene … ma smetterla di far dipendere il nostro destino dal loro. Altrimenti avremo solo una buona scusa per non combinarci mai niente, con quel destino.” (385)
Ancora nessuna notizia certa su Cuba, qualche schiarita sul Portogallo, e andiamo a votare con un po’ di tremore ed il passaporto in mano (sperando che si voli anche lì). 

domenica 2 giugno 2013

Isolani/isolati - 02 giugno 2013

Domenica da Festa della Repubblica, e come festeggiarla al meglio, al meglio darle un senso celebrando scrittori isolani, da quella Sardegna dove sarebbe sceso il nome del Re d’Italia verso il resto del continente alla Sicilia delle conquiste garibaldine. Ed ecco quindi il sardo Atzeni e la sicula Agnello, inframmezzati da un’entrata nuova (per ora isolata) di un libro che mi ha piacevolmente sorpreso di Paolo Di Paolo.
Sergio Atzeni “Passavamo sulla terra leggeri” Ilisso euro 7 (in realtà, scontato 5,95 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 05/02/2013 – T: 10/02/2013]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 163; anno: 1996]
Grazie alle indicazioni de “Il libraio” di Repubblica, avevo inserito questo libro tra quelli da cercare, prima o poi. Anche perché non sembrava (ed, in effetti, non lo è stato) di facile reperibilità. Sicuramente, poi, è un libro che avrei comunque messo nelle mie infinite liste, per via del ricordo dell’autore. Sergio Atzeni era un prima promettente poi maturo scrittore, mio coevo, di cui lessi dei racconti che mi lasciarono freddo, ma poi un romanzo “alla Kurosawa” su una figura di bandito anarchico che invece mi aveva coinvolto ed incuriosito (l’ottimo “Figlio di Bakunin” di cui ho parlato un paio di anni fa). Purtroppo Atzeni, messo il punto finale a questo romanzo di cui oggi parlo, viene travolto da onde impetuose mentre fa il bagno in quel di Carloforte, lasciandoci poco meno di venti anni fa. E lasciandoci soprattutto come memento e sintesi della sua opera questo testo, che non è un romanzo, ma migliaia di micro - romanzi partecipi di una cavalcata onirica che ci porta dalla Sardegna pre-istorica sino alla fine dell’indipendenza sarda. Cioè a quel 1409, pochi anni dopo la morte di una delle regnanti più interessanti della storia isolana, la giudicessa Eleonora d’Arborea, quando, nella piana di Sanluri, gli Aragonesi sconfiggono definitivamente le forze libere della Sardegna, condannando l’isola ad un futuro di sottomissione, non ancora terminato. L’idea, bella e coinvolgente, di Atzeni, è quella di istituire una categoria di persone, nominate “custodi del tempo”, che si tramandano oralmente la storia dell’isola, appunto dagli albori al 1409. Ogni trenta anni un custode nomina un suo successore e gli narra la storia. Nei tempi antichi, la narrava sino al momento che stavano vivendo. Poi, ovviamente, sino al momento che si pone a fine della libertà. L’autore immagina di essere partecipe di questo rito trentennale, ma che, allo scadere dei suoi trentanni decida di volger in scritto questa oralità, consegnandocela per l’eternità. La bravura dello scrittore è di mantenere il ritmo orale anche alla parola scritta, di fare degli intarsi per spiegare la genesi di quanto Antonio Setzu sta narrando al giovane. Ma soprattutto, con una documentazione che deve essere stata lunga, difficoltosa, e tuttavia fruttuosa, Atzeni lega e collega le vicende isolane, narrando con nomi, fatti, luoghi e avvenimenti quanto sia successo sulla terra barbaricina. Dall’arrivo di gente sull’isola, gente che non sapeva navigare e si arroccò nell’entroterra. Gente che rispondeva a nomi monosillabici (Rg, Ug, Tze, e così via). Che nomina un luogo segreto all’interno di un monte cavo. E da quella, sempre, prenderà il potere non colui che regnerà sulle terre, ma un giudice. In realtà i cosiddetti “regni di Sardegna” sono meglio noti come “Giudicati” (ed erano quattro, come le grandi ripartizione sarde dovrebbero rispettare: Logudoro, Gallura, Arborea e Calari, cioè Sassari, Olbia, Oristano e Cagliari). Ed il giudice non comanda, ma dirime i problemi della gente, che rispetta le sue sentenze. Ogni epoca ha i suoi piccoli o grandi momenti. Scoperta delle prossimità. Riti di fertilità. La fondazione di Bosa. Il grande e centrale giudicato di Arbaré (che noi conosciamo come Arborea). Il Sud con Keral (oggi Cagliari) sempre più vicina delle altre alla terra ferma. Un vangelo aramaico miracolosamente arrivato dalla Terrasanta. Le vicende personale e pubbliche di Barisone, uno dei più stimati, e dei più in difficoltà, che vede per primo la sua terra contesa ed attaccata sia dalle potenze marinare italiche, sia dagli aragonesi. Per terminare con le vicende di Eleonora, con la sua saggezza, con la promulgazione di una “Carta de Logu” che sarà il codice civile e penale dell’isola sino al cedimento ai piemontesi nel 1827. Detto così sembra un trattato di storia. Ebbene, non lo è, perché tutti i mini-racconti che Atzeni utilizza in modo auto-contenentesi, per far sì di descrivere il momento dell’accadimento, e concatenantesi, in modo che, uniti in una lunga ghirlanda, ci fanno vedere in controluce non solo la storia di un popolo, ma la genesi del suo essere. La genesi delle sue peculiarità, delle sue bontà e delle sue cattiverie. Sempre con questa scrittura che anch’essa è parafrasi del titolo: anch’essa, come il popolo sardo, passa sulla terra leggera. Utilizzando poi, con capacità e coinvolgimento, questa prima persona plurale: come se, o forse proprio perché, il popolo sardo è un collettivo di cui è bello far parte. Un popolo di cui Atzeni cerca di reinventarsi anche una lingua, dove la gente si chiamava tra loro s’ard, che vuol dire danzatori delle stelle. Bisogna proprio leggerlo!
Simonetta Agnello Hornby “Il veleno dell’oleandro” Feltrinelli s.p. (regalo di Alessandra)
[A: 16/03/2013 – I: 20/03/2013 – T: 25/03/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 216; anno 2013]
Un libro entrato nella mia libreria per l’ostinazione (benefica e che spero non cessi mai) di chi continua a regalarmi un libro ogni volta che parto. E partendo spesso, si capisce l’incremento di libri non pianificati. D’altra parte l’Agnello non mi dispiace nella lettura (e prima o poi riuscirò a trovare il tempo di leggerne le ricette) anche se in questa opera mi è sembrata con una scrittura in calando rispetto ad altre. Non dispiace l’alternarsi dei capitoli tra le due visioni degli avvenimenti: quella di Mara, la figliastra della protagonista-ombra del libro, e quella di Benedetto detto Bede, l’ambiguo poli-sessuale su cui fa perno la vicenda della tenuta di Pedrara, lì dalle parti del catanese, nei dintorni del fiammante vulcano. Ma è proprio la vicenda in sé, che, uscita dai frammenti delle narrazioni lascia un po’ distanti, non coinvolge. O forse non riesce ad uscire con potenza, come sarebbe forse da una narrazione più diretta, meno a flash-back. Perché tutta la narrazione, tutte le presentazioni dei personaggi (che sono tanti e che a volte ci si perde un po’, almeno all’inizio) mira alla costruzione della vicenda di una grande famiglia siciliana, del suo apogeo e del suo perdersi, mattone dopo mattone, come una casa vecchia cui nessuno provvede alla manutenzione. Alla fine, la ricostruiamo la vicenda. Quella del capostipite Tommaso, ricco e console in terre arabe, dove apprende piaceri della vita e gusti sessuali ambivalenti. La morte della prima moglie. Lo sposarsi con la sorella di lei, che si prende cura dei figli piccoli di lui, tra cui la narrante Mara. E che si innamora, ricambiata, di Bede, pur essendo questi l’amante del marito. Muore il patriarca, i figli crescono e si spargono per la penisola italica. Fanno le loro vite: Mara si sposa, genera Viola, si separa e si danna della possibile anoressia della figlia; Giulia si dedica al possessivo ed ambiguo Pasquale; Luigi è ossessionato dalla possibile omosessualità del figlio Thomas. E Anna, invecchia, si ammala e torna a Pedrara. Dove viene accudita con amore e rispetto dall’invecchiante Bede. Ma la tenuta sta andando in rovina. E per trovare i soldi per tirare avanti, la cricca dei fratelli di Bede, coadiuvata dal notaio e dal dottore, mette in piedi un traffico di clandestini che transitano per Pedrara, prima di essere smistati altrove. L’aggravarsi di Anna fa precipitare la situazione. I figli tornano a Pedrara. Giulia per cercare dei fantomatici gioielli scomparsi. Mara per affetto. Luigi per dovere. Ma tutta questa confusione mette i bastoni tra le ruote della cricca del malaffare. Che prima tenta con le buone. Poi, Bede nolente, si comincia a fare sul serio. Minacciando. E poi provocando (accidentalmente? intenzionalmente?) la morte della vecchia Anna. E come aveva detto sin da quando era giovane, Bede morirà insieme ad Anna. Per questo si getterà d’alta rupe prospiciente il mare. Tutto questo, ed altro ancora, lo scopriremo pagina dopo pagina, che le prime si aprono proprio sul funerale congiunto di Anna e Bede, come entrambi avevano scritto nelle loro ultime volontà. Ma tutte le scoperte, le agnizioni, le buone e le cattive azioni che riempiono le altre 200 pagine del libro non provocano sentimenti di partecipazione. Leggo la storia, la ricostruisco. Ma non mi emoziona, non mi coinvolge. Una grande storia della decadenza di un’isola e della sua gente. Dispiace. Mette tristezza. Ma non c’è mai un passo positivo, un senso di volontà verso e non sudditanza a. Ho bisogno di personaggi positivi. E qui non ce ne sono. Mi si dice che così è la vita. Le mie letture vogliono forse anche altro. E forse lo vogliono ora. Non discuto di altri tempi ed altri sentimenti. Per questo, alla fine, il libro non mi è piaciuto come mi aspettavo. Mi ha fatto compagnia in alcune serate solitarie thailandesi. Non molto di più. Aspetto scritture più coinvolgenti, amici scrittori.
“I figli si creano per piacere e con egoismo; si allevano per necessità. … La grande beffa della vita è proprio questa: i genitori continuano ad essere il sostegno dei figli, ma alla fine muoiono soli come sono nati.” (21)
“L’amore capita, non si pianifica. E quando si ama si dimentica il passato e il futuro. … Si ama nel presente. Mai per gratitudine di un passato felice, e nemmeno nell’aspettativa di un bene futuro.” (181)
Paolo Di Paolo “Dove eravate tutti” Feltrinelli euro 8 (in realtà, scontato a 5,20 euro)
[A: 01/02/2013 – I: 27/03/2013 – T: 31/03/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 319; anno 2011]
Passando in libreria, durante il forzato e dorato esilio dovuto ai lavori di casa, ho visto questo libro. Ignoto l’autore (almeno a me), ma potente il titolo. Portato a zonzo anche lui per la Thailandia, e letto durante il lungo ritorno a casa, devo dire che … sono contento. Bella scrittura, scorrevole, piacevole. Non direi bella trama, che in realtà la trama c’è e on c’è. Non mi azzardo a dire, come fece il mai troppo compianto Tabucchi, che siamo di fronte ad una rivisitazione italiana del giovane Holden. Certo, l’autore divaga, girella, ci fa vedere una storia. Ma è anche LA (maiuscola) storia di noi tutti, dei nostri giorni. Non è un caso, che, ogni tanto, ci siano inserti, disegni, fogli di giornale. È la storia di una persona normale, nel nostro mondo normale. Di fronte ai problemi di tutti e di nessuno. Volendo, poi, scavare la storia, una storia, c’è. È quella del protagonista, io-narrante, che si trova ad affrontare l’ultimo scoglio da studioso, una laurea di cui nessun relatore vuole prendersi carico, e che lui, ostinatamente, cerca di portare avanti. Intanto il padre, professore di liceo, va in pensione. E cosa fa, il primo giorno della non-scuola? Investe con la macchina il Thomas Marangoni, suo ex-alunno che lo ha tormentato nell’ultimo anno. Non solo, ma che ha anche una storiella con la figlia del professore, nonché sorella del protagonista. Thomas, per vendicarsi, manda una lettera ipotizzando una strana serata durante l’ultima gita scolastica tra il professore ed una supplente. Su questo plot ricorrente ed insistente, il narratore comincia ad interrogarsi sul suo mondo. Sui suoi rapporti con il padre (ed ogni tanto immagina scene di discussioni, litigi ed agnizioni). Sui suoi rapporti con la madre. Sui rapporti tra i suoi genitori, dato che la madre decide di andarsene da una zia a Berlino per “rifiatare”. Sarà vero quello che dice Thomas? Insomma si interroga sui suoi rapporti con il  mondo, con gli altri. Ed anche con le altre. Pensando che una sua amica di infanzia, da lui soprannominata Scirocco (e non vi dirò perché) sia a Berlino, ci va anche lui. Non la trova, ma ha un bel colloquio con la madre. Capisce meglio il padre. Scava in sé stesso. Torna. Ritrova Scirocco. Spero (tutti speriamo) che nasca qualcosa, anche se, giustamente, il narratore non ci dice tutto. Trova la sorella cresciuta, ed in allontanamento dal Thomas di cui sopra. E torna, ritorna, e rimugina su questa tesi dei tempi moderni. Perché lui la vuole incentrare su Berlusconi e su come abbia cambiato il modo di essere italiano. Troppo politica, gli dicono. Troppo attuale, per chi vuole laurearsi in storia. Meglio una bella tesi sul fascismo (mi fa pensare…). Ma lui non demorde, con quel grido di dolore del titolo, che sempre si porta appresso. Dove eravate quando nascevano le TV private. Dove eravate quando l’unto scendeva in campo. Perché avete nascosto la testa da un’altra parte. Non c’era modo di vedere oltre? Non c’era modo per il padre professore di accorgersi che anche gli alunni crescevano. Dove siete, ora che cade la neve a Roma? E ben ricordo che quella neve mi accompagnò poco dopo la fine del libro in un ospedale, dove tutto è finito bene. Ma noi c’eravamo, quando succedevano tutte queste cose. E cose facevamo? Non ci chiediamo dove vadano i cigni come Holden. Ma ci chiediamo dove andiamo noi. Anche ora, in questi altrettanto terribili tempi, con l’economia allo sbando, la politica ai minimi termini. Noi che facilmente diciamo di andarcene altrove. Forse dovremmo prendere per mano il giovane Paolo (felicemente trentenne) e dirgli che ci siamo. Cercando con lui di farci trasportare verso lidi felici da un soffio di scirocco. Insomma, mi è proprio piaciuto. Con tanti rimandi, che giustamente spiega nell’epilogo, ma soprattutto uno di cui lo ringrazio, quando imbastisce un capitolo sull’onda dell’amore liquido di Baumann. Grande! In alcuni punti poteva essere più leggero, in altri più positivo. Va bene così. Mi sa che ne terremo da conto per altre letture.
“Avevo mai guardato negli occhi mio padre per un tempo superiore ai venti secondi?” (44)
“Dove sta la verità su qualcuno? … Ogni giorno ci troviamo a parlare di persone che abbiamo intorno, come se fossimo al corrente di tutto ciò che le riguarda. È la zona minima di quelli che chiamiamo i Conosciuti. Si allarga lentamente, anno dopo anno, acquista nuovi membri, mentre perde quelli meno affiatati… Ma il mondo è soprattutto, o soltanto, questo: gente che non conosciamo.” (159)
“Stranezza di viaggiare da soli! Ci sediamo nei caffè dopo aver camminato per ore, senza una ragione precisa e senza aver contato i chilometri. … Sarebbe bello mimetizzarsi, non essere stranieri mai a niente.” (174)
Simonetta Agnello Hornby “Un filo d’olio” Sellerio euro 14
[A: 30/09/2012 – I: 25/04/2013 – T: 29/04/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 266; anno 2012]
Pensavo di incasellarlo tra i saggi, visto che (leggendone in giro) si parlava di un libro di ricette. Ma dopo averlo letto, penso bene che sia comunque da mettere qui, tra i romanzi italiani. Anzi tra i ricordi autobiografici di una grande famiglia siciliana, quella del barone Agnello. E dell’infanzia delle due bimbe, Simonetta, ora scrittrice ma anche avvocato in difesa di minori, e Chiara, che fa rinascere la campagna di Mosè e rinverdisce le ricette di nonna Maria. Il libro è, infatti, bipartito (cioè diviso in due, non dedito a due parti politiche come degenera a volte il nome): la parte narrativa di Simonetta e le ricette descritte e commentate da Chiara. Entrambe mi hanno preso, per motivi diversi. La narrazione della Agnello Hornby qui ritorna ai passi dei primi libri che lessi, si fa più intima, e quindi più sentita e partecipata. Facciamo una piccola corsa tra il ’50 ed il ’57, gli anni delle estati a Mosè, nella campagna agrigentina. Nella casa avita, che viene ogni anno aperta da maggio a settembre. E dove gli Agnello si trasferiscono. Dove non succedono grandi cose, se non lo scorrere degli anni, il crescere dei bimbi, che da infanti si affacciano alla giovinezza. Contornati da tutte le figure famigliari e di contorno: i massari, le contadine che raccolgono le mandorle (le mennulare di buona memoria), la tata Giuliana, il factotum Paolo, la cuoca, ma anche, e soprattutto, le persone di sangue. La mamma Elena e la zia Teresa, il cugino Silvano, la sorella Chiara (anche se, essendo la più piccola rimane sempre un po’ defilata a giocare con le bambole), la nonna, il nonno, gli altri zii che transitano, per tanto o per poco, nella casa ospitale. E tutti i misteri della crescita: le chiacchiere dei grandi, le ammucchiate in cucina a vedere cucinare i dolci, le gite tra i campi, le sbucciature ai ginocchi. I grandi giochi che impegnano tutta l’estate: la ricerca dei cocci greci e fenici, le automobili da far correre per la discesa. E con il crescere, anche il distacco verso l’infanzia, il passaggio alla lettura, il mistero dei rapporti umani, la nascita delle domande sul sesso. Ma i grandi lo fanno? E quando? Perché litiga lo zio Nicola? E verso la fine, le grandi scoperte, l’irruzione del frigorifero che sostituisce il ghiaccio ed allunga la vita del cibo, la televisione che irrompe nelle case (e come capisco la piccola Simonetta incantata davanti alle pecore dell’intervallo, anch’io le guardavo, prefigurandomi quello che veniva dopo, magari la TV dei ragazzi, essendo io passato davanti alla scatola a transistor qualche anno dopo). Per finire con il distacco, le vacanze che si spostano in Svizzera, ad imparar le lingue. E la vita che si sposta da Agrigento a Palermo. Insomma una bella cavalcata, contrappuntata sempre e comunque dal cibo. Dal cibo della campagna, che poca carne si mangiava, e molto si prendeva stagionalmente e di verdura. Zucchine, melanzane, e tanti pomodori (ma solo per fare la salsa). La frutta, fresca, cotta, messa nel pan di spagna. Le mele cotogne, le marmellate, l’amarena. Un contrappunto che, cessando il ricordo di Simonetta, dona il là alle ricette rivisitate da Chiara. Sempre quelle scritte con la bella calligrafia da nonna Maria (ed anche qui ricordo chi scrive e conserva ricette, tirandone fuori anche sapori antichi). Ripercorse mese dopo mese, con quella stagionalità che dava un ritmo allo scandir dei giorni. Le cotolette di melanzane, le frittatine in trippa (questo si che me le ricordo, frittate tagliate in strisce e ripassate al pomodoro), le polpette fritte (buonissime da mangiare appena fatte, bollenti). Non posso nascondere che il tutto mi fa riandare ai dieci anni (dai cinque ai quindici) passati nelle estati tortoretane. Quando a giugno zia Vittoria apriva le case del mare (certo in affitto, che non s’era possidenti), in quel luogo sperduto scovato da mio padre nella riva adriatica, allora praticamente deserto (ed ora ahi quanto frequentato). E dove a raffica ci spostavamo noi cugini (la nostra tribù), la libertà del mese di luglio senza i genitori, il cambiamento di ritmo ad agosto, quando vengono tutti i grandi, i dolori dei primi giorni si settembre, quando si comincia a tornare a Roma. I giochi dell’estate, le mitiche olimpiadi estive in spiaggia, le gite alle fonti del Salinello. E perché no, le passeggiate verso il centro, con le teglie di pomodori al riso da portare all’unico forno cittadino, l’apertura del cinema all’aperto. Ma queste sono altre storie, sono le mie. Torniamo agli Agnello, e ringraziamole per la scrittura, per le foto d’epoca che ci fanno fare mirabili salti di pensiero, e ringraziamo con loro anche Elena e Giovanna (così come vengono giustamente ricordate) per aver fatto da cavia alle ricette, sperando di poter ancora a lungo provarle insieme. Due micro appunti, uno per autrice. Simonetta citando le canzoni di Lina (che credo si situi intorno al ’53) parla di Grazie dei fior (prima canzone vincitrice del Festival nel ’51), di Vola, colomba bianca, vola (del ’52) ma anche de Il bosco innamorato che è solo del ’56. E Chiara parlando della ricetta del Gelo di melone d’acqua dice “in italiano anguria”, quando più correttamente dovrebbe dire “in italiano cocomero”, che anguria è regionale (vedi Devoto-Oli).
“Passeggiate che avevano un’unica meta: il bar [dove] il gelataio Don Giovannino … offriva ai clienti due soli gusti: limone e cioccolato.” (93) [i miei preferiti, da ragazzo prendevo sempre lo stesso cono: limone, cioccolato e panna; lo adoravo!]
Come i miei più fedeli lettori sanno, alla prima trama del mese riporto elenco e giudizi dei libri letti in precedenza, cioè nel mese di marzo (come vogliono i tempi tecnici di inserimento). Marzo di letture normali, dovute anche al viaggio thailandese, ma di buona resa, con due libri su tutti: quello di Di Paolo (di cui avete appena letto le trame) ed il noir italo-francese di Pandiani.

#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Ian Rankin
Cerchi e croci
TEA
9
3
2
Enrico Pandiani
Les Italiens
Instar
9
4
3
Alexander McCall Smith
Pratiche applicazioni di un dilemma filosofico
TEA
8,60
3
4
Elizabeth Peters
Il segreto della tomba d’oro
TEA
8,60
3
5
Marco Vichi
Il nuovo venuto
TEA
9
3
6
P. D. James
Scuola per infermiere
Mondadori
9
3
7
Kathy Reichs
Ceneri
BUR
9,90
3
8
Corrado Ruggeri
Farfalle sul Mekong
Feltrinelli
7,50
3
9
Simonetta Agnello Hornby
Il veleno dell’oleandro
Feltrinelli
s.p.
2
10
Paolo Foschi
Il castigo di Attila
E/O
13
3
11
Paolo Di Paolo
Dove eravate tutti
Feltrinelli
8
4
Intanto siamo qui ad aspettare notizie dei viaggi, in attesa se (come spero ardentemente) si riesca a partire per Cuba. Anche su gli altri viaggi si lavora, per i prossimi mesi.