domenica 30 ottobre 2022

Ancora Simenon - 30 ottobre 2022

Non ci rilassiamo invece con questa settimana nuovamente dedicata al grande scrittore belga. Abbiamo qui cinque romanzi pubblicati tra il ’38 ed il ’41, tutti, eccetto uno, ben al di sopra della sufficienza, con vere punte di eccellenza. Il non ancora quarantenne autore era nel periodo fecondo, in cui cercava di affrancarsi dal romanzo-Maigret, affrontando le sue altre scritture con piglio fiero. Solo “Il sorcio” rimane un po’ al di sotto degli altri, ma nel complesso è una buona trama francofona che vi aspetta.

Georges Simenon “Senza via di scampo” Repubblica Simenon 13 euro 9,90

[A: 20/12/2019 – I: 10/05/2022 – T: 11/05/2022] - &&&& 

[tit. or.: Chemin sans issue; ling. or.: francese; pagine: 171; anno 1938]

Continuando nella ricerca di mettere ordine tra la scrittura e la pubblicazione delle opere di Simenon, qui torniamo ancora una volta indietro. Infatti, questo romanzo vede la luce, in manoscritto, prima de “Il testamento Donadieu”, risultando scritto nella famosa villa “di passaggio” prima del ritorno verso Parigi. Siamo infatti nella Villa La Lézardière, ad Anthéor, avvicinandoci alla Costa Azzurra, e siamo nel marzo del 1936 (inciso: marzo risulterebbe, secondo i bibliomani, uno dei mesi più prolifici per Simenon). Peccato che poi Gallimard lo pubblicherà in volume solo nel 1938.

È un periodo di transizione, dove l’autore si crogiola dello status di autore “Gallimard”, ostentando la sua ricchezza (anche un po’ da “parvenu”): si veste nelle boutique, e solo abiti su misura, guida per la corniche una “Delage Grand Sport”, vettura di lusso tipo Bugatti.

In questa calma apparente, Simenon produce un affresco mirabile di due condizioni estreme: ricchi annoiati che non trovano altro da fare che bere fino a stordirsi e farsi dispetti, più o meno cattivi, e domestici, massimamente emigrati da paesi di un’Europa scossa dalla mancanza di lavoro e da imminenti sommovimenti. C’è anche un altro motivo dominante nel periodo, che troveremo poco dopo nella splendida epopea di Popinga: il treno. Che viene usato varie volte nella narrazione, come momento di giunzione tra vari passaggi, ma che diventa simbolico nel finale, con Vladimir che lì finalmente ritrova il modo di aprirsi agli altri, di trovare una comunità con gli umili suoi simili. Su quel treno verso Mosca ritrova la sua umanità, dispossessata da una convivenza troppo lunga fuori dal suo ambiente.

Per tronare all’altro tema sopra accennato, spesso, nei suoi romanzi, i personaggi bevono. Ma mentre in Maigret, assistiamo essenzialmente in birra e vino, sono fuori da Maigret che ci si abbandona all’alcool. In quest’ambito, questo romanzo sembra segnare un vertice alcolico. Tutti i personaggi bevono a dismisura, sono costantemente ubriachi, disgustati da quello che vedono intorno (ricchi senza scopo, poveri senza mete), e da un’auto commiserazione che porta solo a rimuginare sulla propria miseria morale. Bevono per evitare di affrontare la deludente realtà della propria esistenza.

Ed in effetti, sin dalle prime righe vediamo personaggi, Vladimir e comprimari, in una bettola a bere e parlare nel vuoto. Con quello stile asciutto che Simenon trova quando sta seguendo una sua idea forte, vediamo poi Vladimir andare nella villa di Jeanne, la possidente, il centro economico del racconto, e continuare a bere, con Jeanne ed i suoi ospiti parassiti.

In realtà, i personaggi del romanzo sono quattro. Vladimir, russo fuggito dalla rivoluzione comunista, girovago da mille mestieri per l’Europa, dove incontra un altro russo Georges, detto Blinis per la sua passione per questa pietanza. Con un colpo di fortuna, i due trovano lavoro presso Jeanne, ad accudire il suo inutile yacht. Dove Blinis raggiunge un suo equilibrio, anche per la presenza della figlia di primo letto di Jeanne, la scostante e ritrosa Helene. Vladimir aumenta il suo status, diventando anche l’amante della ricca signora.

Sarà proprio la presenza di Helene ad innescare una serie di avvenimenti che porteranno i nostri verso una strada senza uscita. Vladimir è geloso della comunanza tra Blinis ed Helene, e trova il modo di cacciarlo. Ma non riuscirà ad entrare in sintonia con la giovane, rimanendo invischiato nelle serate alcoliche di Jeanne.

Quando poi Helene gli chiede aiuto per abortire il figlio di Blinis, Vladimir entra in una crisi profonda. È geloso, rancoroso, ma anche si domanda dove sia finito Blinis, in realtà il suo unico vero amico. Riuscirà a liberarsi dalle grinfie di Jeanne in modi che dovrete seguire su carta, poi comincerà a girare per l’Europa alla ricerca di Blinis, per riannodare un’amicizia, ma soprattutto per convincerlo a tronare da Helene.

Qui c’è tutta l’odissea ferroviera che si diceva, che lo riporterà all’Est, verso Mosca, verso Blinis, verso, forse, un ritorno alla povertà, ma alla serenità di aver fatto, pur dolorosamente, pur con errori, la cosa giusta.

Al solito, mi dispiace che si travisi il titolo. Certo, la vita di Vladimir, di Blinis, di Jeanne stessa sono senza scampo. Ma Simenon aveva intenzione di mettere l’accento invece sulle strade intraprese dai personaggi, che sono senza uscita, che non portano a nessuna salvezza.

Un ultimo accenno, nel 2006, il regista Jacques Fieschi realizza un film intitolato “La Californie” ispirato da questo testo. Dove il titolo riporta ad una zona residenziale di Cannes, dove c’è una villa a suo tempo abitata da Picasso e si svolge la maggior parte del romanzo. Un film dove Jeanne è interpretata da Nathalie Baye, che ben ricordo dai tempi di un mitico film di culto per la mia memoria, “Effetto Notte” di Truffaut.

 

Dove

Protagonista

Altri interpreti

Durata

Tempo

Golf-Juan, vicino ad Antibes, Cannes, Varsavia

Vladimir, russo emigrato in Francia; domestico e amante di Jeanne Papelier, celibe, maturo d’età

Jeanne Papelier, ricca ereditiera, cinquantenne

Hélène, figlia del primo matrimonio di Jeanne

Georges Kalenine, chiamato Blinis, compatriota e amico di Vladimir, anche lui al servizio di Jeanne

Da Pasqua a fine anno

Epoca contemporanea (accenno alla Rivoluzione Russa)

 

Georges Simenon “Il Sorcio” Repubblica Simenon 29 euro 9,90

[A: 06/05/2020 – I: 15/05/2022 – T: 16/05/2022] - &&&--- 

[tit. or.: Monsieur la Souris; ling. or.: francese; pagine: 153; anno 1938]

Nella solita confusione della seconda metà degli anni Trenta, ci troviamo di nuovo di fronte ad un romanzo scritto nel febbraio del ’37 ma pubblicato soltanto l’anno dopo in volume da Gallimard. È anche il periodo in cui, sperando di trovare un posto nell’alta letteratura, aveva deciso di abbandonare la scrittura delle avventure di Maigret.

Anche se inverno, comunque, torna al sud, nella Villa “Les Tamaris” sull’isola di Porquerolles, dove scrive un discreto numero di romanzi. La sua attenzione, poi, lo porta a percorrere strade note, oltre a spaesare il testo rispetto al tempo della scrittura (e al luogo). Sarà anche un periodo fecondo, che subito dopo mette mano ad uno dei suoi romanzi più riuscite (“L’uomo che guardava i treni”).

Prima di calarci nel testo, una piccola nota linguistica. “Souris” in francese è sia sorriso che topo. Ma il primo è maschile (“fais-moi un souris”) mentre il secondo è femminile (“la souris mange du fromage”, dove è il topo che mangia il formaggio e non …). Così il signor Topo del titolo, il clochard di cui seguiamo le gesta, è appunto “Monsieur La Souris”.

Pur appartenendo a pieno titolo ai “romanzi duri”, questo è, a tutti gli effetti, un Maigret senza Maigret. Per tutta una serie di motivi, a partire dall’intreccio, su cui torneremo, ma soprattutto per la presenza di poliziotti che presto vedremo entrare a pieno titolo nei Maigret. L’indagine è infatti affidata al commissario Lucas, che, se non fosse perché si chiama Lucas (e perché, forse, interviene meno) sarebbe omologabile al suo capo, appunto il commissario capo Jules Maigret. Ha un piccolo cameo Janvier, retrocesso al ruolo di Brigadiere. Ma l’elemento forte è il poliziotto che indaga, tristemente ma senza mai tirarsi indietro, l’ispettore Joseph Lognon.

Ora, per chi conosce la serie di Maigret, sa che Lognon compare come un componente di una squadra di indagine, che è sempre un po’ in urto con Maigret, ma che è un vero mastino. Quando ha un compito è praticamente impossibile che si tiri indietro. Qui, Lognon è un ispettore del commissariato afferente l’Opera, laddove “La Souris” clochard impenitente spesso passa la notte. Il clochard, giustamente riportato in italiano con “il Sorcio”, sarà lui che darà a Lognon il soprannome di “Malgracieux” (in italiano Scorbutico), con il quale lo ritroveremo poi nei romanzi di Maigret.

Simenon si sofferma molto su Lognon, ce lo descrive (“tagliato nel legno, capelli nero inchiostro, fuma sigarette in giro e la pipa in casa”), anche nell’ambiente familiare: moglie arcigna, figlio non ben identificato, ed un luogo esplicito, 29, place Constantin-Pecqueur, al quarto piano. Quasi a voler capire se potesse avere un seguito, ma anche a sottolinearne l’ambito più popolare: la casa è nel 14° verso Place d’Italie, mentre lui lavora dall’altra parte della Senna, nel 9°.

Veniamo allora all’intreccio, che, come nei Maigret puri, è anche molto dedito alla psicologia dei personaggi. Entriamo in sintonia con il Sorcio, il suo prendere la vita così come viene, arrangiandosi, dormendo in guardina, per poi venire a trovarsi con una busta super piena di soldi. Che fare? Ideona: darlo alla polizia, e se nessuno la reclama, dopo un anno, averla indietro e tornare a vivere al paesello.

Ma la busta è cascata dalle tasche di un personaggio altolocato, Edgard Loëm, finanziere svizzero, che, nelle frequenti soste lavorative parigine, si è creato un piccolo ambiente familiare con una ragazza madre, il di lei figlio, e la sua passione per i francobolli rari. Edgard risulta scomparso, ed il Sorcio tenta di capire che fine faccia.

Così, da un lato il Sorcio legge i giornali, si apposta, guarda, in modo di scoprire se i soldi siano al sicuro. Dall’altro Lognon lo segue passo passo, facendosi anche troppo vedere. Ma Lognon è un mastino, non si tira mai indietro, tanto che ne subirà delle conseguenze.

Ma l’abilità di Simenon è quello di fare un canto corale. Il Sorcio che gira e scopre, Lognon che guarda e capisce solo alla fine, i finanzieri svizzeri venuti a controllare le transazioni di Edgard, il segretario di Edgard con l’amante ungherese, l’amante di Edgard. Insomma, la solita messe di persone che l’abilità di Simenon riesce a non perdere per strada.

Alla fine, verrà trovato morto Edgard, e si verrà a scoprire altari ed altarini legati dalla comparsa di un francobollo raro (o dalla sua scomparsa). Simenon trova anche il modo di prendere in giro il lettore, mescolando nomi altolocati inglesi, che si ripetono di generazione in generazione, confondendo il nuovo ambasciatore inglese con un omonimo plenipotenziario che si occupava di colonie. Ma anche di chiudere il caso senza un vero colpevole accusato e condannato. Perché nel finale, Simenon preferisce seguire i vari personaggi, compresa l’amante di Edgard, per poi finire con il Sorcio che, sfumato l’affare dei soldi della busta, continua la sua vita da clochard tra le varie prefetture parigine.

È un bel ballo di attori, anche se la trama poliziesca è un po’ blanda, il che rende poco chiari moventi e movimenti. Diverte la presenza dei futuri collaboratori di Maigret, ed il solito modo di Simenon di portarci in giro per Parigi. Che al solito è un segno dell’autore, scrivere di luoghi che lui ben conosce, ma scrivendo lontano dai luoghi stessi.

 

Dove

Protagonista

Altri interpreti

Durata

Tempo

Parigi (quartieri Champs-Elysées, Opéra, la Madeleine, etc.)

Ugo Mosselbach, alsaziano, sopranominato “il Sorcio”, barbone, ex-professore di musica, 68 anni

Edgard Loëm, finanziere svizzero

Frédéric Müller, assistente di Loëm

Dora Staori, fidanzata di Müller, figlia di un avvocato ungherese

Ispettore Lognon, sopranominato “Ispettore Scorbutico”

Commissario Lucas

Lucile Boisvin, amante di Loëm  

Una settimana più un finale mesi dopo

Epoca contemporanea

 

Georges Simenon “Corte d’Assise” Repubblica Simenon 6 euro 9,90

[A: 31/10/2019 – I: 29/05/2022 – T: 31/05/2022] - &&&&  

[tit. or.: Cour d’assises; ling. or.: francese; pagine: 184; anno 1941]

Purtroppo, rispetto all’andamento più regolare di quando scrive di Maigret (scrive, corregge e poco dopo esce il libro), sui romanzi “duri” il divario tra scritto e pubblicazione è sempre più ampio. Perché Gallimard, che sta tenendo in mano le sorti di Simenon, ha una discreta messe di libri da far uscire, non solo quelli del nostro.

Ecco allora che nel 1937, approfittando di una vacanza in Italia, mentre dimora all’Hotel Verbano, sull’Isola dei Pescatori nel Lago Maggiore, scrive di getto questa “Corte d’Assise”. Che non avrà nessuna pubblicazione preliminare. Non solo, nel gennaio del ’39 la rivista “Cinémonde” ne annuncia l’uscita, ma è una falsa notizia. Dopo di che, anche Gallimard proclama che il libro uscirà nel giugno del ’40, ma la guerra deciderà altrimenti, e la storia di Luigino (per fortuna, non il nostro Luigino, ma il protagonista, Louis Bert detto Petit Louis) uscirà solo nel 1941. 

Ci si avvia verso la fine degli anni Trenta, e Simenon si sente un vero romanziere, anche se non disdegna di proseguire i suoi rapporti plurimi con l’altro sesso. Iniziata e finita la storia con Joséphine Baker, si ritira nel sesso a pagamento, ed in alcune uscite rare con la moglie Tigy. Anche se, per sua esplicita richiesta, vuole un figlio. Tanto che il 19 aprile 1939 nasce, a Bruxelles Marc Simenon. In precedenza, nel resto del 1937 aveva cambiato molte dimore prima di stabilizzarsi a Neuilly, che nel 1938 aveva abbandonato per tornare sulla costa atlantica, vicino a La Rochelle. In attesa delle novità che arriveranno, come tutti sanno, verso la fine del ’39.

Ma torniamo al romanzo, ed alle idee di Simenon sulle vicende umane. Al solito, non ha interesse, reale, a svelare i misteri, a trovare (e punire) i colpevoli. Quello che vuole è descrivere un momento dell’esistenza di qualcuno, dove ci possono o non ci possono essere azioni criminali, ma che solo in alcuni casi, fuori dai Maigret, risolverà sino in fondo. Spesso, come in questo, possiamo capire chi ha fatto cosa, ma i colpevoli saranno colpiti solo da altra giustizia, non da quella umana.

Giustizia che invece colpisce il nostro eroe, che seguiamo in un romanzo realmente spaccato in due parti. Nella prima, anche con ironia, Simenon ci racconta le spacconate di un delinquente di basso profilo. Petit Louis è sui 24 anni, ha fatto l’ebanista per uscire dalla miseria, poi ha pensato bene di sfruttare il suo fascino gentile, per entrare nelle grazie delle bande dei Marsigliesi, in genere attirando su di sé l’attenzione, per permettere ai compari rapine ed altro.

Così accade a Le Lavandou, sulla costa tra Saint-Tropez e Marsiglia, dove sfida il direttore dell’Ufficio Postale ad una partita di bocce (in realtà pétanque), mentre i suoi amici svaligiano le Poste. Colpo riuscito, come lui riesce a far colpo su una gran dama che vive di rendita, Constance Ropiquet, che si fa chiamare Constance d’Orval, ed usa la sua rendita per vivere agiatamente e giocare al casinò. Petit Louis ha facile accesso alle grazie della tardona, si fa mantenere, non solo. Torna a Marsiglia per avere la sua parte di bottino, che non avrà. Per ripicca, costringe Louise, la sua amante, a lasciare il rifugio marsigliese ed a seguirlo a casa di Constance.

Nasce così un rapporto multiplo tra i tre, con il nostro che si bea di tutte le comodità che gli permettono i soldi. Anche se deve stare attento ai marsigliesi, in particolare a Gene, il capo, che non solo non vogliono pagare la sua parte, ma Gene è imbestialito da quello che ritiene sia il “rapimento” di Louise.

Tutto collassa quando, dopo la festa per il compleanno di Constance, Petit Louis prima si aggira per la cittadina cercando di sfuggire a Gene, poi scopre che Louise è fuggita; quindi, torna a casa dove trova Constance morta. Sicuro che gliene venga addossata la colpa, fa sparire il cadavere (che non verrà mai trovato) e cerca di sfruttare il tempo prima dell’allarme per appropriarsi dei soldi di Constance e fuggire all’estero.

Non sarà così, verrà preso, e passeremo quindi alla seconda lunga e complessa fase del romanzo, dove, raccontato alla Simenon, sempre seguendo un modo mai troppo diretto, vedremo Petit Louis intrappolato dalle sue stesse bugie, imboccare un tragico sentiero, che potrebbe portarlo anche alla sentenza capitale. Il giudice Monnerville istituisce un mostruoso fascicolo probatorio contro Louis Bert, che arriverà a più di 800 pagine. Dove sono elencati tutti i fatti della vita di Petit Louis, ed in particolare quelli fuori della legalità, ma che travisano i fatti reali. Si costruisce così un castello di accuse, consistente, ma completamente falso. Vediamo così ribaltata l’immagine del giovane allegro, sfrontatamente disinvolto, che diviene un cupo figuro, violento nei confronti della madre e dell’amante. Dato in pasto a tutta una platea giudicante, che non solo è quella della Corte d’Assise, ma anche quella di conoscenti, di passanti, di portinai. Ogni azione di Louis, avulsa dal contesto, può essere ed è vista in un’ottica negativa. Ed il nostro, schiacciato dall’inutilità della lotta verso un meccanismo che non gli consente di difendersi, si chiude in uno sterile mutismo, guardando i suoi giudici con l’aria di un cane condotto alla vivisezione.

La storia riporta in pagine mirabili la profonda convinzione di Simenon, quella di comprendere ma non giudicare, che sarà sempre la sua filosofia, in specie nei migliori Maigret. Io mi sono beato del modo di scrivere, che assume un tono adeguato all’andamento della storia. Scanzonato all’inizio. Cupo e spezzettato quando vediamo Petit Louis cadere nel baratro di una giustizia che non gli consente nessuna difesa utile. Alla fine, ci sarà una sconfitta per molti, per la giustizia, per Petit Louis (che però salverà la testa), ed una “vittoria” per chi ha commesso i crimini e non verrà punito. Ed una vittoria per me che con Petit Louis ripercorro strade a me care, da Nizza a Cannes, senza scordare la mia amata Saint-Paul-de-Vence.

 

“È inevitabile, quando si è felici, si sente sempre un brivido di angoscia all’idea di perdere ciò che si ha…” (46)

 

Dove

Protagonista

Altri interpreti

Durata

Tempo

Le Lavandou, Nice, Mentone, Cannes, Porquerolles

Louis Bert, soprannominato Petit Louis. Ex-ebanista, celibe, 24 anni

Constance d’Orval, in realtà Constance Ropiquet, vive di rendita

Louise Mazzone, detta Lulu, prostituta

Gene, protettore di Lulu

Commissario Battisti

Monnerville, giudice istruttore

Una settimana più un anno tra indagini e processo

Epoca contemporanea

 

Georges Simenon “Pioggia nera” Repubblica Simenon 21 euro 9,90

[A: 13/02/2020 – I: 10/06/2022 – T: 11/06/2022] - &&&&  

[tit. or.: Il pleut, bergère; ling. or.: francese; pagine: 123; anno 1941]

Ci sono alcuni elementi notabili in questa lettura di uno che per me rimane tra i migliori scritti “non Maigret”. Il primo è che fu acquistato nel giorno del compleanno di Simenon (nonché della mia amica Rosa). Il secondo deriva al solito dal tempestoso rapporto tra Simenon ed il suo editore, Gaston Gallimard. Che il nostro scrive, e l’editore lo pubblica dopo anni. Questo libro, infatti, viene scritto sempre sulla residenza sopra La Rochelle, a Nieul-sur-Mer nell’ottobre del 1939. La guerra è scoppiata da poche settimane, ancora non siamo nel pieno del conflitto. Ma Gallimard ha tanto da pubblicare, poi sopravvengono ristrettezze varie. Fatto sta che il libro esce in volume solo nel giugno del 1941.

Ma in quel ’39, Simenon è particolarmente in buona disposizione (ricordo che in aprile è nato il primogenito Marc), tanto che poco dopo la scrittura di questo romanzo, per la prima volta, dopo sei anni, mette mano ad un’avventura del suo commissario.

Tornando al libro, tuttavia, il terzo elemento da notare è che, seppur indirettamente, il filo rosso della trama cerca di rendere omaggio, nel trentennale della ricorrenza, all’ingiusta esecuzione dell’anarchico spagnolo Francisco Ferrer, avvenuta per l’appunto nell’ottobre del 1909. Simenon, però, non è sprovveduto da esporsi totalmente, così che imbastisce un romanzo obliquo, tutto visto in soggettiva dagli occhi di un ragazzo, Jérôme Lecœur, di sette anni all’epoca dei fatti, e poco più grande durante la narrazione. L’azione, come al solito in Simenon, si sviluppa lontano dal luogo di scrittura. Lui sta sull’Atlantico, la vicenda si svolge in una imprecisata cittadina della Normandia.

Facciamo anche un piccolo passo di lato per riflettere sul titolo. L’originale riporta “Il pleut, bèrgere”, titolo che nella prima edizione italiana si riporta pedissequamente come “Piove pastorella”, e solo dalle edizioni Adelphi di dopo il 2000, si trasforma in “Pioggia nera” (dato anche che per molto tempo dell’azione in effetti piove). Nessuna edizione, tuttavia, riporta l’origine e le connessioni del titolo. “Il pleut, bèrgere” è in realtà una canzone presa dall’opera comica in un atto “Laura e Petrarca” scritta nel 1780 da Fabre d'Églantine. La canzone pare venga cantata nel luglio 1789 dalla Guardia Nazionale, dopo la presa della Bastiglia, dove la pastorella sarebbe la regina Maria-Antonietta ed il temporale rimanda al furore rivoluzionario che attraversa quegli anni. Fabre d'Églantine era tra l’altro un fervente sostenitore di Danton, e con lui finirà ghigliottinato nel 1793.

Ultimo elemento che sottolineo è il racconto in prima persona di Jérôme Lecœur, che, ricordando acutamente gli avvenimenti di quel periodo turbolento, ci narra di tutti quei giorni di pioggia che lo costringono in casa, e che lo coinvolgono in una lotta senza quartiere (così almeno nella sua mente) con l’ingombrante zia Valerie, che inopinatamente si trasferisce a casa Lecœur, che gestiscono un avviato seppur non proprio redditizio, commercio di tessuti.

Con gli occhi di un bambino (e qui Simenon si aiuta molto con i suoi ricordi infantili, dove torneremo in finale), Jérôme vede tutto, ma non tutto capisce. Non capisce l’acidità della zia, la sua malvagità, tanto che zia e nipote si mettono a competere con piccole ripicche: lei calpesta i suoi giocattoli, lui nasconde il giornale da usare nella ridotta. Unica consolazione per Jérôme è la vista di quello che considera suo amico, pur non avendo mai né parlato né giocato con lui. Di là della strada vive la famiglia Ramburges. C’è la nonna, e c’è il nipote, il piccolo Albert. Jérôme ne diventa sodale, soprattutto quando sa che il padre di Albert, Gaston, è un anarchico ricercato dalla polizia.

Ed il tifo per la famiglia di Albert è vieppiù rafforzato che invece la zia si schiera con i gendarmi. Così come l’odio di Jérôme verso Valerie. Nei ricordi da fanciullo, lui pensa che sarà proprio questa contrapposizione a far andar via insalutata ospite la zia. Solo da adulto, parlando con la madre, ne scoprirà le vere e più banali motivazioni. Che lascio a voi scoprire.

Per la mia lettura, è stata una bella cavalcata nell’idea di vedere il mondo attraverso gli occhi innocenti di un fanciullo, non ancora incattivito dalle brutture del mondo. Un fanciullo che si esalta di piccole cose, un giocattolo, lo sguardo verso Albert, un foglio di giornale. È di certo, riprendendo quanto accennato sopra, un prodotto obliquo di quanto Simenon stava producendo in quegli anni. Che stava in effetti scrivendo la prima parte delle sue memorie. Che voleva chiamarsi “Je me souviens” e che Gallimard lo convinse a cambiare in “Pedigree”. Una memoria che, letta, illumina la modalità di crescita delle capacità scrittorie del maestro belga.

 

Dove

Protagonista

Altri interpreti

Durata

Tempo

Cittadina in Normandia non meglio precisata

Jérôme Lecœur, narratore dei fatti, 7 anni all’epoca del racconto

Tante Valérie,

Papà e mamma Lecœur

Albert e sua nonna, la signora Ramburges

Gaston Ramburges, padre di Albert

Alcuni giorni

Intorno al 1909

 

Georges Simenon “Il viaggiatore del Giorno dei Morti” Repubblica Simenon 10 euro 9,90

[A: 26/11/2019 – I: 13/06/2022 – T: 15/06/2022] - &&& e ½   

[tit. or.: Le Voyageur de la Toussaint; ling. or.: francese; pagine: 281; anno 1941]

La guerra è ormai scoppiata, e Simenon, pur continuando a scrivere nel suo rifugio vicino La Rochelle, è coinvolto dall’ambasciata belga e nominato “Alto commissario dei rifugiati”. Un compito cui si dedica con ardore, riuscendo a sistemare 18.000 compatrioti in fuga dal Belgio occupato nelle cittadine intorno a La Rochelle. Un compito che lo occupa per buona parte del 1940. Finito il quale, decide di ritirarsi nell’interno della Francia, e precisamente a Mervent-Vouvant in Vandea. Si stabilisce in una fattoria, dove compone alcuni romanzi.

Ma insorge anche un terribile problema. Un radiologo di Fontenay-le-Comte, non distante dalla fattoria, mal interpretando delle lastre, gli diagnostica al massimo tre anni di vita. Motivo per cui, prima abbandona tutti gli altri scritti, dedicandosi alla stesura della sua autobiografia (”Pedigree”, di cui si è già parlato), poi si sposta in città, dove nel caso può essere più facilmente curato, affittando un appartamento al numero 12 di quai Victor-Hugo a Fontenay-le-Comte. Qui compone cinque romanzi nel ’41, di cui due “Maigret”. Uno dei cinque è questo viaggiatore del 1° novembre, il Giorno dei Morti. Redatto in febbraio, già a maggio esce a puntate sul quotidiano “Le Petit Parisien”, e subito dopo l’estate già in volume, prima di altri romanzi che restano nei cassetti.

Probabilmente, Gallimard decide di anticiparne l’uscita per le tematiche del romanzo, che potrebbero riassumersi in una lotta senza esclusione di colpi tra due concezioni del mondo. Un tema che in tempo di guerra è di certo molto forte. Tanto che già due anni dopo, ne viene tratto un film, non particolarmente brillante, che ha però due interpreti da segnalare. In una parte, non di primo piano, ma chiave per la storia è presente il giovane Serge Reggiani alla sua prima interpretazione. Una piccola comparsa vi fa anche la ventenne Simone Signoret.

In questo romanzo Simenon si impegna in una trama non complicatissima, ma di più ampio respiro rispetto all’usuale, tanto che, caso raro per la sua scrittura, si avvicina alle 300 pagine. Ovvio che il suo modo di scrivere non può venir meno, quindi tripartisce il racconto, quasi a farne tre mini-romanzi. Nel primo assistiamo alla presentazione dei personaggi e dell’ambiente. Al solito, scrivendo in Vandea, fa muovere i suoi attori altrove. E cosa meglio di farli agire nel luogo che frequenta da tanti anni, cioè La Rochelle? Quello che seguiamo, qui e per il resto del testo, è il non ancora ventenne Gilles Mauvoisin, che torna nella città natale della sua famiglia, dopo che ha sempre vissuto girovago con i suoi genitori, attori e giocolieri, sempre in giro per l’Europa.

Nell’ultima tournée in Norvegia, i due muoiono e Gilles torna a casa, dove è sicuro di trovare almeno un parente, la sorella della madre Gérardine Éloi. La sua sorpresa è invece di trovarsi erede delle fortune dello zio Octave, un sessantenne morto alcuni mesi prima. Gilles è giovane, forse ingenuo, ed i potenti locali, notai, avvocati, proprietari immobiliari, capitani di flotta, sembrano poterlo piegare ai loro voleri. Che Octave li teneva tutto in pugno, ma le carte dello zio sono in una cassaforte che pare impenetrabile. Il tutto è condito da Colette, la giovane (meno di trent’anni) sposa di Octave, che però tradiva con un dottore. E da Alice, una giovinetta che è la prima persona che Gilles vede arrivando, e di cui sembra innamorarsi.

La seconda parte è dedicata alla discesa di Gilles nell’inferno del quotidiano, dove tutti, non essendo lui duro e cattivo come lo zio, vogliono ridurlo alla ragione. Gilles decide di seguire i suoi istinti. Sposa Alice, è compassionevole verso Colette ed il suo amante. Vuole metter naso negli affari della ditta, cosa che i potenti del luogo prima osteggiano brontolando, poi si mettono di buzzo buono. Cercando di coinvolgere la spaesata Colette in trame delittuose. Ma dopo la prima parte spaesata, e la seconda in difesa, Gilles trova l’accesso alla cassaforte dello zio (vedi anche commento finale), ed ha in mano gli strumenti per difendersi.

Parte così l’ultimo terzo di romanzo, dove Gilles sembra ripercorrere la strada solitaria del potente ma anche malvagio zio. Ha tutti in mano, li piega alle sue necessità. Ma si accorge della povertà della sua vita privata. Alice non ha slanci, il figlioletto nato non lo coinvolge, vede allontanarsi zie e cugine, di sangue ed acquisite. Qui Simenon entra a gamba tesa nel problema su cui girava intorno dall’inizio. I due tipi di società, emblematizzati da lui e dallo zio Octave, sono separati non solo da una diversa concezione dell’uso del denaro, ma anche, e soprattutto, dai valori umani che ad essa sono sottesi. Gilles decide di rompere il cerchio, di riappropriarsi della propria vita e dei propri valori. Riprendendo la vita girovaga dei suoi genitori. Da solo? In compagnia? Lo scoprirete solo leggendo, parafrasando Battisti.

Un altro bel romanzo, forse solo appesantito dalla lunghezza. Ma esemplifica al meglio il suo modo di scrivere fuori dalle costrizioni di Maigret. Frasi brevi, dialoghi che dicono ma anche accennano, sorvolano. Capitoli che sembrano temporalmente conseguenti, ma fanno anche piccoli salti in avanti. E poi c’è questa lotta tra le due anime della famiglia Mauvoisin, che vale tutta la lettura.

Con la solita velocità delle traduzioni italiane, la prima uscita in Italia fu solo venti anni dopo la pubblicazione, uscendo per Mondadori con il titolo “La cassaforte dei Mauvoisine”, con un errore di scrittura (quella “e” finale, forse aggiunta da Wikipedia?) e con l’accento ad un elemento che parafraserebbe un giallo. Poi fortunatamente viene ritradotto in questa versione da Adelphi.

 

Dove

Protagonista

Altri interpreti

Durata

Tempo

La Rochelle

Gilles Mauvoisin, 19 anni, celibe e senza professione

Colette Mauvoisin, vedova di Octave Mauvoisin, sulla trentina

Gérardine Éloi, zia di Gilles

Alice Lepart, figlia del contabile delle imprese Mauvoisin

Alcuni mesi

Epoca contemporanea

 

Anche questa settimana, prima di salutarvi, tornerei su Erri De Luca che per alcuni anni mi ha assillato con i suoi scritti, risuonanti nelle mie corde, anche se ora mi si è un po’ allontanato. Ma dodici anni fa, in “Non ora, non qui” mi rivolgeva frasi che, come dice l’ultima, a lungo hanno risuonato in me. La prima è quasi un’introduzione: “Molto del destino di ciascuno dipende da una domanda, una richiesta che un giorno qualcuno, una persona cara o uno sconosciuto, rivolge: d’improvviso uno riconosce di aspettare da tempo quella interrogazione, forse anche banale ma che in lui risuona come un annuncio, e sa che proverà a risponder ad essa con tutta la vita” (60). Poi viene l’affondo: “Papà aveva ragione, ero un bambino che non sapeva domandare” (66).

Fortuna che ho imparato, ed ora che mi accingo ad un nuovo viaggio, ne posso ripensare a mente serena. Quindi, saluto velocemente, chiudo la valigia, vi abbraccio.