domenica 24 settembre 2023

Ridateci Le Carré - 24 settembre 2023

Una settimana d’inizio autunno, che quasi esaurisce, senza alcun rimpianto, la collana assai poco riuscita, delle “spy stories” di Repubblica. Un filologico (ed unico d’interesse) libro di 120 anni fa, un lavoro di routine di Daniel Silva, e tre pessime riuscite, di autori celebri e celebrati come Cruz Smith, Matthews e Clancy. Come sapete leggo anche “brutti” libri, per poterne parlare. E per poter rimpiangere un autore che neanche mi piace tanto come Le Carré.

Se poi volete saltare le trame, potete andare alla fine con la solita citazione settimanale.

Martin Cruz Smith “La ragazza di Venezia” Repubblica Spy 12 euro 7,90

[A: 09/04/2019 – I: 03/04/2023 – T: 05/04/2023] - & e ½ 

[tit. or.: The Girl from Venice; ling. or.: inglese; pagine: 297; anno 2016]

In fondo è un po’ spiacevole essersi accostati con tante speranze ad un libro di Cruz Smith e rimanerne assai deluso. Certo, sapevo già che non era nel filone di Arkady Renko, che resta la miglior serie di romanzi scritta dall’autore. Tuttavia, un spera sempre un po’ che ci sia qualcosa che rimanga nella scrittura.

Invece, questo libro risulta poco avvincente, a tratti quasi svogliato. Con alcune concessioni “alla platea” che esulano, e di molto, dal contesto storico in cui si dovrebbe inserire. Non cerco scusanti all’autore, ovvio, anche se il fatto che ormai siano una decina d’anni che abbia un Parkinson conclamato, e che le storie le narra, per poi lasciare spazio alla moglie Emily che le riporta su carta, qualcosa possa aver influito. Ciò detto, non ci torno su e passo al testo.

Cominciamo dal contesto. Un’ambientazione fascinosa come Venezia piò risultare gradita al pensionato americano che vive nel Missouri, noi che, fortunatamente, a Venezia e nel Nord Italia ci andiamo in poche ore, sembra più che altro una cartolina un po’ finta. Soprattutto quando gran parte della vicenda “veneta” si svolge a Pellestrina che a Venezia sta come Ladispoli a Roma (o Malibu a Los Angeles se parliamo d’America). Quindi, “The girl from Venice” è già un po’ fuorviante.

Secondo punto, siamo addentro all’ultima fase della guerra, direi che potrebbe essere un’ambientazione “1945”, che inizia con l’incontro tra Giulia e Cenzo e finisce dopo la guerra, passando per l’esecuzione di Mussolini e Claretta. Ma è un’ambientazione molto sui generis, sia nei momenti veneziani, sia, ed ancora peggio, quando l’azione si svolge a Salò. Figure mal delineate, cineasti da cartolina, tedeschi “buoni”. Insomma, tutta una serie di luoghi comuni e di falsi storici che sarebbe stato meglio evitare.

Come evitabile è la trama in sé. Abbiamo il pescatore Cenzo che dopo un arruolamento forzato in Abissinia, ed un congedo con disonore (si rifiutava di bombardare gli etiopi), si ritira in Pellestrina. Magari si sposa con la bella Gina, mentre il fratello minore Ugo convola a nozze con Celestina. In mezzo abbiamo il fratello maggiore, Giorgio, quello bello, quello che fa l’attore prima (con la mirabile interpretazione nel film “Il leone di Tripoli”), poi il portavoce fascista, infine voce calda della radio dei repubblichini di Salò.

Ma Giorgio è soprattutto uno “sciupafemmine”, visto che fugge a Milano con Gina, dopo aver avuto anche una piccola storia con Celestina. Cenzo rimane scottato e si fa introverso. Ugo si fa “incazzuso”, ma mentre cerca vendetta muore in mare.

Fatto questo proemio, la storia inizia quando Cenzo incontra Giulia, giovane ebrea che sta fuggendo ai tedeschi, mentre tutti i suoi parenti vengono presi e deportati. Giulia faceva parte del lato “ricco e benestante” degli ebrei veneziani, con case in laguna e villette al Lido. Per sua fortuna è giovane, atletica e pronta a mettersi in gioco. Così fugge ai tedeschi, si ripara da Cenzo, i due hanno una convivenza problematica, fino a che lui non decide di contattare i suoi amici partigiani per farla riparare oltre confine (in Svizzera, forse).

Qui nasce anche tutta la parte “finta”. Giulia non riesce a raggiungere la salvezza, ma forse si rifugia a Salò. Cenzo va a cercarla aiutato da Giorgio e da un sedicente comandante nazista innamorato dell’Italia (una figura veramente mal delineata). Tralascio tutta l’inutile parte repubblichina, con i finti misteri, gli improbabili cineasti, le amiche di Claretta ed altre incongruenze storiche. Ci sarà una resa dei conti finale tra Giorgio e Cenzo, ovviamente. Ed anche con i nazisti, e poi con la cognata, la moglie fuggita e morta, e tanti altri piccoli inutili misteri.

Come ci si aspetta fin dalle prime righe, Cenzo e Giulia imbastiranno una loro storia. Ma noi rimaniamo con il mistero di fondo. Tutto il libro si basa sulla ricerca che i nazisti fanno di Giulia in quanto testimone di una deportazione che dovrebbe portare a smascherare “traditori” della patria. Vi sembra normale, conoscendo la storia della Guerra, che, nel momento che si avvicina alla resa dei conti, qualcuno si mobiliti per una piccola, poco credibile ragazza?

Questo romanzo ibrido tra romanzo storico con svista, thriller improbabile e storia d’amore scontata, qualcuno impegni mesi di quel tempo prezioso alla ricerca di Giulia? Insomma, uno sforzo di scrittura che non partorisce neanche un topolino.

Finisco con una considerazione laterale: in rete ci sono commenti entusiasti del libro (per me un po’ misteriosi) corredati da altrettanti svarioni, di cui ne riporto uno solo. Un commento svela che Cenzo era traumatizzato da un arrolamento forzato in Afghanistan (!!!!). Stiamo fuori come una batteria di balconi, dove si confonde l’Asia con l’Africa. Qui termino le mie lamentele, esortandovi a leggere il libro solo se avete perduto tutto il resto della vostra libreria.

Erskine Childers “L’enigma delle sabbie” Repubblica Spy 17 euro 7,90

[A: 09/05/2019 – I: 02/05/2023 – T: 04/05/2023] - &&& ---

[tit. or.: The Riddle of the Sands; ling. or.: inglese; pagine: 428; anno 1903]

Sapevo che era un libro “filologico”, e tale si è rivelato, raggiungendo alcuni punti più come prodromo di altri che per il valore in sé. Ma la sorpresa è stata la scoperta dell’autore e della sua storia. Il nome completo dell’autore è infatti Robert Erskine Childers, nato a Londra nel 1870 da un orientalista inglese ed una latifondista irlandese. Per motivi familiari, da Londra, all’età di sei anni, si sposta in Irlanda, imparando ad amare questa terra. Laureato in lettere e giurisprudenza a Cambridge, vorrebbe anche dedicarsi allo sport, ma una lesione alla schiena lo costringe a praticare l’unico sport consentitogli, la vela. Ed in barca percorre in lungo ed in largo il Mare del Nord. Cosa di cui riparleremo.

Nel ’03 scrive il libro che stiamo attraversando. Nel ’04 sposa Molly e l’anno successivo nasce Erskine Hamilton Childers, di cui pure riparleremo. Lavora nel Parlamento inglese, partecipa da giovane alla Guerra Boera e poi alla Prima guerra mondiale, sempre nell’Esercito Britannico, ricevendo menzioni dal Primo Lord dell’Ammiragliato, sir Winston Churchill. Ma anno dopo anno, azione dopo azione, si accorge di essere sempre più vicino all’Irlanda ed alle posizioni dell’ala irredentista del Sinn Féin. Nel momento topico dell’insurrezione irlandese degli inizi degli anni Venti, si schiera con i duri dell’IRA insieme ad Eamon de Valera, in contrapposizione all’ala morbida di Michael Collins (se non ve ne ricordate, andate a rivedere il film del ’96 con Liam Neeson e Julia Roberts).

Trovato in possesso di una pistola, seguendo la legge marziale all’ora in vigore, viene condannato a morte e giustiziato il 24 novembre 1922. A parte l’interesse storico di questo spiegone, quello che mi premeva sottolineare è che il “capo” di Childers, de Valera, divenne Presidente della Repubblica Irlandese dal ’59 al ’73, anno in cui gli succedette, quasi una nemesi per gli inglesi, Erskine Hamilton, il figlio di Childers.

Prima, comunque, di entrare nel merito del libro, parliamo dei meriti, che proprio il sopranominato Churchill tributa a Childers l’onore di avere, in tempi non sospetti, risvegliato un interesse verso le sorti della marina inglese, senza di cui, durante la Prima Guerra mondiale, probabilmente, alcune sorti militari avrebbero potuto essere diverse.

Il romanzo in sé, invece delle avventurose vicende di vita, risulta al contrario discretamente lento ed in un certo senso, non particolarmente appassionante. Con molta lentezza seguiamo le vicende di due gentiluomini inglesi, Carruthers, un piccolo funzionario ministeriale, senza grandi scopi nella vita, e Davis, provetto marinaio nonché, forse, qualcos’altro che tuttavia non si palesa in modo efficace per tutto il libro.

Davis veleggia con un piccolo scafo a vela per il Mare del Nord, tra Olanda, Danimarca e Germania. Scopre, forse, qualcosa che non si sa spiegare nei comportamenti di alcuni marinai, molto vicini alla Marina del Kaiser. Chiede quindi aiuto al suo amico Carruthers, e da qui seguiamo quasi duecento pagine di descrizioni di avventure marine. Scandagli, secche, boma, timoni, derive ed altre enunciazioni di origini navali che farebbero piacere al mio amico Renato.

Il contraltare dei due è un certo Dollman, che si presente come tedesco, ma che forse non lo è. Sicuro sembra losco, o comunque poco limpido. Tutto il contrario della giovan figlia, che, anche se non viene molto approfondita forse a causa della datazione del testo, dove all’epoca di queste cose si accennava solo di sfuggita, ha un debole per Davis.

A complicare il quadro vengono poi alla ribalta un militare teutonico ed alcuni suoi sodali poco raccomandabili. Che cercano, lo si capisce anche se non viene mai fuori uno scontro a viso aperto come avrebbe fatto un Cussler, di mettere fuori gioco i nostri due “impiccioni”. Infatti, Davis e Carruthers, seguendo le peripezie di Dollman e degli altri tedeschi, non fanno altro che entrare ed uscire dai vari estuari tra la Germania ed il mare, per tutta la regione dello Schleswig-Holstein (e ci torneremo su questo).

Uno scrittore più esperto avrebbe approfondito meglio gli aspetti spionistici, che, pur presenti nelle seconde duecento pagine, non portano mai ad un “pathos” reale. Capiamo fin dalle prime pagine dove Childers vuole andare a parare, e, appunto filologicamente, ne seguiamo le frasi. È l’impianto, l’impostazione generale quella che rimane, anche solida. Un tipo di ideazione avventurosa che più di cinquanta anni dopo vedrà risvegliarsi su queste ceneri prima con Ian Fleming e poi con John Le Carrè.  

Quello che Childers vuol tirar fuori da queste pagine (forte anche delle sue esperienze da velista) è la debolezza intrinseca della Marina Inglese in quella zona marina. Una debolezza che potrebbe permettere ad una Germania agguerrita di avere presto il sopravvento navale. Di questo appunto Churchill lo ringrazia, ed avrà modo, in una decina d’anni, di porvi rimedio, di modo che, il ’14 allo scoppio delle ostilità gli inglesi non saranno impreparati.

Quindi, ringrazio Childers per i suoi sforzi, e per la sua vita (come sopra descritta brevemente). Io finisco con un ricordo personale, che, durante la mia vita lavorativa, per due anni ho lavorato insieme ad una società tedesca di stanza proprio nello Schleswig-Holstein. Con un bel fine settimana marino nel capoluogo Kiel. Ma questa è tutta un’altra storia.

Daniel Silva “L’angelo caduto” Repubblica Spy 5 euro 7,90

[A: 24/02/2019 – I: 09/05/2023 – T: 10/05/2023] - && ---

[tit. or.: The Fallen Angel; ling. or.: inglese; pagine: 395; anno 2012]

Un altro autore che da decenni scrive best-seller, ma che non avevo ancora incontrato. Peccato che l’esimia collana di Repubblica ci presenti il dodicesimo volume della serie, senza per altro dire che si tratta di una serie che ruota intorno ad un personaggio, questa volta fortunatamente spia come vorrebbe la collana stessa.

Benché comunque Silva abbia una buona penna, non è un romanzo che sta “in piedi da solo”, che tutta una serie di retroscena andrebbero spiegati o indicati. Certo, nello svolgere del testo, qualcosa capiamo della figura e delle azioni del protagonista, Gabriel Allon. Che giustamente ci viene presentato come esimio restauratore (è forse un caso che il primo volume della serie uscito nel 2000 abbia per titolo “Il restauratore”?) tra l’altro alle prese con un delicato intervento su di un Caravaggio. Mentre però noi lettori per la prima volta dobbiamo aspettare fior di pagine per capirne meglio le sfaccettature, chi lo conosce sa che Allon, in prima battuta, è un agente dei Servizi Segreti israeliani. Reduce di tante battaglie, più volte sull’orlo del baratro, poi in un qualche momento calmatosi delle furie, intraprende un percorso amoroso con una simpatica veneziana, che qui gli è vicina e ne cura gli aspetti “privati”.

Come molte spy stories, l’azione comincia con una morte, che qui è particolarmente vicina a me lettore. Una donna esperta di Belle Arti viene trovata sfracellata alla base di una impalcatura tesa alla restauro del Baldacchino di San Pietro posto a guardia dell’altar maggiore della Basilica di San Pietro. Un’ambientazione che perdura per almeno un terzo del libro, facendoci godere, soprattutto ai romani, non solo delle bellezze vaticane, ma anche di alcuni scorci capitolino, alcuni quartieri, ed altre amene consuetudini, anche personali.

Allon viene convinto dal segretario del papa, monsignor Donati, ad interessarsi alla vicenda, che tutti (meno la polizia italiana) pensano poco probabile il suicidio. Nelle more scopriamo che Donati era un prete della “teologia della liberazione”, operante vicino ai sandinisti in Sudamerica, dove vive esperienze terribili, lascia la tonaca, ha una breve storia d’amore con tal Veronica, per poi tornare nella Chiesa convinto da quello che poi diventerà a breve Papa Paolo VII. Veronica, esperta d’arte etrusca, si consola con il losco Carlo Marchese, che, anche per spinta di Donati, va a ricoprire cariche importanti nelle finanze vaticane.

Breve interludio: nelle more ed indagando veniamo a sapere che in un qualche episodio di poco precedente, Allon aveva salvato il Papa durante un attacco missilistico in Vaticano, che aveva portato alla morte di 700 persone, tra cui 4 cardinali, 8 vescovi, 3 monsignori. E qui mi taccio per non svelare altri libri di Silva nonché una tendenza alla sfiga latente di Allon.

Comunque, gli etruschi c’entrano, perché la morta Claudia, cercando di mettere ordine al patrimonio culturale della Santa Sede, trova un aggancio con i tombaroli della Tuscia (altro momento di insight della mia attuale esistenza). Che con facile equazione noi legheremmo al Carlo di cui sopra. Ma una volta fatto il collegamento, e quasi arrivati ad un principio di soluzione, essendo solo verso pagina 150, Silva non può che decollare verso le sue mire più spionistiche.

Da qui, infatti, parte una sarabanda di intrighi intorno al mondo, che, partendo da Roma, si sposta prima in Svizzera, per poi approdare in Medio Oriente, ed in altre zone “bellicose”. Dove, come un commentatore giustamente rileva, sembra nascere la battaglia pallino di Silva: Israele contro Resto del Mondo. Non vi sto ad elencare tutte le attività e le azioni che Allon imbastisce, basti solo dire che ben presto, i Servizi Segreti israeliani entrano in prima persona nella trama. Mentre terroristi ed islamici (ma non solo) iniziano a far la parte dei cattivi.

Di certo non mi aspettavo un così truculento allargamento di prospettive partendo da una piccola morte romana. Ma Silva è fondamentalmente fazioso e molto dedito ad una prospettiva del mondo “alla John Wayne”, fortunatamente molto lontana dal mio mondo, anche da quello immaginario della lettura. Ovvio che Allon abbia un certo fascino simpatico, che rimane sempre un piccolo passo al di qua dal cadere nel banale. È tuttavia forse l’unico punto a favore, oltre a quelle prime ambientazioni romane ed etrusche. Alla fine, tutto si risolve, seppur non con tutti i cattivi puniti, che stiamo sempre dalle parte dello spionaggio, dove c’è molto grigio.

Per i patiti dei supereroi alla Marvel una lettura distensiva e quasi “da ombrellone”. Non certo un libro per entrare in modo sereno nel mondo di Silva, che forse andrebbe letto in altri romanzi che mi dicono meglio costruiti.

Un ultima spigolatura, tenendo conto che il libro esce nel 2012. La morta si chiama Claudia Andreatti, curiosamente omonima della Miss Italia del 2006. Casualità o fine ironia?

Jason Matthews “Red Sparrow” Repubblica Spy 18 euro 7,90

[A: 15/05/2019 – I: 23/05/2023 – T: 25/05/2023] - & e ½

[tit. or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 506; anno 2013]

Sempre poco avvincente ed un po’ scontata questa collana dedicata alle storie di spionaggio (magari con qualche tocco di noir, anche se non qui) uscita quattro anni fa con Repubblica, e che sto, faticosamente, portando a compimento di lettura.

Intanto cominciamo con qualche notizia preliminare e complementare. Come spesso può accadere tra l’acquisto e la lettura, un autore anziano ci può lasciare. Anche se poi anziano non era, Matthews muore di degenerazione cortico-cerebrale nel 2021 a settanta anni (un ragazzo!). Aveva, come si evince in alto, scritto questo libro nel ’13, proseguendo ogni due/tre anni con un nuovo capitolo, al fine di comporre una trilogia. Anche il secondo è uscito in Italia, con il titolo “Il palazzo degli inganni”. Mentre il terzo mi risulta ancora inedito, uscito in patria con il titolo “The Kremlin's Candidate”.

Seconda notizia, fortunatamente qui l’editore ha usato il titolo originale, invece di quello usato dall’editore Bookme, che lo ribattezzò “Nome in codice: Diva”. Ovvio che questo titolo fa l’occhiolino all’elemento centrale del romanzo (anzi della trilogia), dove tuttavia il titolo originale era più ammiccante. Infatti, “Sparrow”, che credo anche il mio ornitologo Alessandro interpreti come “passero”, è il nome di una scuola di seduzione per spie messa in piedi dall’Intelligence russa ove addestrare le spie a sedurre, portare a letto ed inguaiare potenziali nemici. Peccato che nella traduzione, la scuola venga in italiano indicata come “Scuola delle Rondini”, usando “swallow” invece che “sparrow”.

Ciò detto, è di sicuro un libro scritto da una persona, come Matthews, che per decenni ha militato nella CIA, mostrando nel corso della trama una conoscenza di prima mano su attività di spionaggio, controspionaggio, sorveglianza, reclutamento, interrogatori e raccolta di informazioni. Peccato che tutto ciò sia al servizio di una trama prevedibile e non particolarmente emozionante. Certo, si cerca di ingarbugliare le acque, di mescolare gli elementi in gioco, ma arrivando ad un prodotto che non risulta particolarmente accattivante.

L’unico elemento di sicuro effetto è l’ambientazione nella Russia attuale, non solo e non tanto per la presentazione degli elementi storici dello spionaggio, come l’evoluzione del KGB in altre e nuove forme. Quanto per la presenza, qui nell’ombra e nei successivi libri, mi si dice, sempre più in primo piano, dell’uomo forte del Cremlino. Già qui vediamo agire Vladimir Putin, con tutto il corredo di quanto ora, durante la guerra in Ucraina, sappiamo palesemente di lui. Ambizioso, crudele, comandante con pugno di ferro su tutto e su tutti, tanto che già qui viene indicato come mandante diretto di assassini all’estero. Dato che in patria tutto gli è premesso.

In ogni caso quello che seguiamo è il percorso di Dominika Egorova. Inizialmente promettente ballerina, in seguito ad un incidente provocato (rottura della tibia), alla ricerca di un nuovo ruolo, che gli fornisce lo zio, uno dei capi del Servizio Segreto Russo. Deve trovare una spia assoldata dalla CIA, e per fare ciò deve sedurre e prendere all’amo il referente americano della spia, l’agente della CIA Nate Nash. Che all’inizio pensiamo essere il centro della storia, seguendone alcune brillanti operazioni. Ma, a causa di errori piccoli seppur non fatali, viene spostato a Helsinki. Dove lo raggiunge Dominika.

Lei nei frattempo aveva assistito e/o partecipato ad un assassinio, e, coinvolta nelle spire dello spionaggio, addestrata nella scuola di cui sopra. Ad Helsinki inizia l’avvicinamento, ma una serie di elementi esterni la fanno maturare sul falso ruolo della Russia di questo secolo. Aggiungendo a ciò il fascino del giovane Nash. Insomma, comincia una spirale di lotte, fughe, ricerche, depistaggi, scoperta di traditori, trame complesse per salvare a destra e mettere nei guai a sinistra.

Non ci meravigliamo che, dato il fascino reciproco dei due giovani, sarà il buon occidentale a convincere Dominika – Diva a passare dall’altra sponda. Rimane da organizzare il salvataggio della spia russa talpa della CIA da quindici anni. Salvataggio della persona o quanto meno della struttura messa in piedi in tanti anni.

Tuttavia, pur essendo ben pensata, non mostra caratteri di particolare novità. Quello che ci aspettiamo, accade. Chi deve morire, muore. Chi deve continuare i lavori, continua. Rimanendo il dubbio se, in tutta questa confusione, l’avvicinamento tra Nate e Diva avrà un seguito.

Dicevo, unico punto positivo di tutto il romanzo è l’aver coinvolto direttamente Putin. Ma è anche un elemento che di sicuro avrà fatto innervosire il nostro, tanto che un anno dopo l’uscita del libro, invade la Crimea cominciando quella che, bene o male, da dieci anni è una guerra in terra europea.

Dispiace che l’autore ci abbia lasciato, che io ho sempre pietà per i morti. Sempre.

Tom Clancy “Il cardinale del Cremlino” Repubblica Spy 9 euro 7,90

[A: 13/03/2023 – I: 09/06/2023 – T: 11/06/2023] - & e ½

[tit. or.: The Cardinal of the Kremlin; ling. or.: inglese; pagine: 651; anno 1988]

Non sono un amante delle spy stories, che trovo spesso noiose rispetto anche ai thriller più scalcinati. Certo ci sono esempi in controtendenza, come Le Carrè e pochi altri. Per questo non ho mai dedicato molta attenzione a Tom Clancy, che ricordo solo per il film sul sommergibile sovietico “Ottobre Rosso”. Ho quindi dato fondo a questa lettura, sperando di essere smentito.

Purtroppo, il librone che ho appena finito ha solo rinforzato i miei dubbi sul genere e sull’autore, nonché, se vogliamo, anche sul personaggio principale, John Patrick Ryan detto Jack. Clancy scrisse 13 romanzi con lui protagonista, sino alla sua morte nel 2013. Poi altri, su mandato della famiglia, ne continuarono l’opera, tanto che alla fine mi risultano circa 28 volumi imperniati su di lui.

Tra l’altro, come si ricostruisce da Internet, la carriera di Ryan è stata luminosa ed articolata. Intanto, risulterebbe nato nel 1950 (e quindi sotto i quarant’anni quando comincia ad essere protagonista). Vittima di un incidente con l’elicottero a 23 anni, avrà sempre un po’ di paura nel prendere mezzi volanti. Inizia quindi come analista finanziario alla Merryl Linch, dove conosce e sposa Caroline "Cathy". A fronte di varie vicissitudini poco importanti diventa prima consulente poi membro a tutti gli effetti della CIA.

Clancy sostiene che la sua entrata fu dovuta all’invenzione della “trappola per canarini”, un metodo per scoprire fughe di notizie mettendo in circolo diverse versioni dello stesso fatto, che divergono di poco l’una dall’altra. Quando il “nemico” utilizza una di queste versioni, si può risalire all’origine della fuga.

La carriera di Ryan sarà poi sempre in crescendo, tanto che nel romanzo uscito intorno al 1995 viene addirittura eletto (o cooptato, non so bene non avendone letto) Presidente degli Stati Uniti. Una carica cui accederà nuovamente una decina d’anni dopo, anche se poi si eclisserà pian pianino, di certo per la morte di Clancy, ma anche, come spin-off, per dare spazio alla nuova serie della famiglia Ryan, che ha per protagonista il figlio del nostro, Jack Ryan jr.

Mi pare ovvio che, data questa biografia fittizia, il “ryanverso”, come viene chiamato dai fan tutta la fiction che gira intorno a lui, vedrà come protagonisti anche molti personaggi presi, con piccole differenze, dalla vita reale. Certo, per essere usati dall’autore nelle direzioni che lui predilige, funzionali alle sue trame.

Questo volume è il terzo in ordine di scrittura ma il quinto per cronologia di avvenimenti.

Qui, siamo intorno alla metà degli anni ’80, in un periodo di grandi turbamenti all’interno del mondo sovietico. Tanto che il Presidente russo ha molti tratti in comune con il pensiero di Gorbačëv. Il romanzo poi, si svolge molto internamente alle logiche russe, sottolineando caratterizzazioni di personaggi che tradiscono la Russia come oggetto del partito al potere per non tradire la Russia intesa come patria.

Assistiamo quindi ai tormenti di un eroe della Seconda Guerra mondiale, più volte decorato come comandante di Carri Armati (vedi anche battute finali di questo scritto), fermamente convinto a perseguire il bene della Patria a scapito del capo del KGB. Vediamo le modalità di scambio dei messaggi tra Agenti Segreti, i depistaggi, gli interrogatori brutali. Insomma, tutto il repertorio che ci si aspetta da una storia di spionaggio.

Vediamo anche Ryan, seppur compare in una cinquantina di pagine sparse nelle più di seicento del libro. Con un cruciale ruolo di consulenze, nonché ideatore di un trappolone che dovrebbe permettere di liberare l’arrestato eroe. Infatti, si fa falsamente incriminare per poter avvicinare il capo del KGB minacciandolo poi di rivelare le bugie messe in giro intorno alla cattura del sommergibile russo, cattura avvenuta nel libro precedente.

Prima, durante e dopo ci sono molti altri momenti narrativi che ruotano intorno alle due installazioni rivali, una americana l’altra russa, alla ricerca di una metodologia per utilizzare raggi laser al fine di colpire “oggetti nemici” a notevole distanza e con efficacia. Ci sono arresti, ci sono rapimenti, ci sono sparatorie, c’è perfino (ma non si capisce che cosa c’entri) un assalto ai laser russi da parte di un comando afghano guidato da un guerrigliero chiamato “Arciere” e manovrato nell’ombra dalla CIA. Certo, sono gli anni dell’invasione russa in Afghanistan (ricordo che quella prima guerra si svolse dal ’79 all’89), ma l’episodio è inserito un po’ a capocchia.

Comunque, Ryan si comporta benino, anche quando manca di salire su di un aereo in corsa (memore le sue paure nel volare), cosa che permette a Clancy di imbastire un colloquio tra Ryan ed il finto-Gorbačëv, che serve a dare un senso alla storia. Che tuttavia non decolla mai e prende ancor meno.

Riprendo quanto accennato sopra a proposito dei Carri Armati, perché Clancy era un patito di tale armamento, tanto che, per uno Natale, la moglie gli regalò un carro armato M4 Sherman. Penso che questo sia un commento più che sufficiente per quanto riguarda i miei rapporti con Tom Clancy e con le storie di spionaggio. Anche se ne ho ancora due da leggere.

Come detto all’inizio, vi porgo una bella frase della prima scrittrice che mi ha aperto le porte del Giappone. Banana Yoshimoto nel suo “Presagio triste” ci ricorda che: “In realtà, si scappa da casa quando si ha un posto dove tornare” (39).

Invece noi non scappiamo, ma approfittiamo di questa breve transizione autunnale per pensare all’organizzazione dei prossimi mesi, tra feste e viaggi. Molte per le prime e pochi per i secondi. Ma noi si prosegue indefessi sui nostri binari, si prosegue mandandovi abbracci.

PS: rinnovo una periodica richiesta: se avete libri recenti che ritenete di interesse, mandatemene una segnalazione.

domenica 17 settembre 2023

Musseide - 17 settembre 2023

Come nei grandi classici greci e latini, qui si parla di un uomo, di uno scrittore, emerso qualche anno fa ed ancora con una buona produzione di genere misto. Parafrasando Ligabue, “tra giallo e realtà”. Parlo dell’italo-francese Guillaume Musso, per me legato ad un bel libro pieno di sorprese (“Central Park”). Qui abbiamo suoi scritti dal 2015 al 2021, che, nella media, si posizionano poco sotto il buon gradimento. Non ha alcuni slanci di un tempo, ma alcune trame sono d’interesse.

Guillaume Musso “L’istante presente” La nave di Teseo euro 18

[A: 22/08/2021 – I: 14/02/2023 – T: 16/02/2023] - && 

[tit. or.: L’instant présent; ling. or.: francese; pagine: 332; anno 2015]

È il tredicesimo libro scritto da Musso, venendo, in ordine cronologico, dopo la bella scrittura ed il successo di critica e di pubblico di “Central Park”. Come spesso accade, tuttavia, dopo un boom, si può incappare in un libro solo parzialmente riuscito. Come questo, che mantiene una buona scrittura, alcune invenzioni discretamente riuscite, ma che, nell’impianto generale e nel finale, risulta un po’ deludente e sicuramente poco convincente.

Dopo i primi libri, di buon livello, anche se alcuni di nicchia (come il primo di cui ho parlato recentemente), Musso si era un po’ affrancato da quelle inserzioni favolistiche al limite del soprannaturale inspiegabile, venendo a temi certo complicati ma razionalmente interpretabili. Qui, fa un passo indietro. Incentra tutta la trama su di un presupposto che è altamente inspiegabile, e chiude il libro certo con una soluzione che cerca di sciogliere qualche nodo ma che, a me, rimane ostica e lontana.

La storia è incentrata su Arthur Costello. Un brillante medico di Boston, segnato dalla sparizione, lui piccolo, del nonno Sullivan e da un rapporto totalmente anaffettivo con il padre Frank. Che stranamente, e senza apparente motivo, gli dona il faro di famiglia (che si chiama “24 Wind Lighthouse”) con l’ingiunzione di non aprire mai la porta della cantina, murata. Mi sembra ovvio che Arthur, la prima cosa che fa, è di aprire la porta ed entrare nella cantina.

Qui comincia l’avventura. Arthur sviene e si risveglia, senza motivi apparenti, nudo nella chiesa di St. Patrick a New York (il faro si trovava sulla costa a Cape Cod). Dopo una serie di vicissitudini che animano la prima parte (forse quella che tiene un po’ sulle corde della suspence), veniamo a conoscenza di una serie di fatti “strani”.

Nonno Sullivan non è morto, ma, preso per pazzo, rinchiuso in una clinica da dove Arthur lo libera. Sullivan spiega ad Arthur che chi entra nella cantina subisce un “mutamento”, per cui viene sbalzato di anno in anno, ogni volta per un giorno, per 24 volte (come il nome del faro). In uno dei primi ritorni, Arthur conosce Lisa, e, com’è come non è, i due si innamorano, si accapigliano, si pigliano e si lasciano (con le loro microstorie che durano un giorno).

Fortuna che Liza è più giovane di Arthur, così che non si hanno problemi di invecchiamento tra i due. Ci sono invece problemi di rapporti, ovvio. Che dalle loro focose unioni nascono due figli, un maschio ed una femmina. Cresciuti da Lisa, dato che Arthur (l’uomo che scompare, come lo chiama lei) ogni volta sparisce, anche se verso la fine i salti temporali sono più ravvicinati.

Fino a che, nel 2015, Arthur finisce di saltellare nel tempo, si ricongiunge con i tempi umani del mondo, e Musso deve trovare il modo di concludere in qualche maniera la storia.

Purtroppo, e qui il romanzo cade molto di tono, non c’è una spiegazione coerente, ma un girare intorno al problema, magari cercando di buttarla sullo psicologico (in fondo, Sullivan poteva essere pazzo, e forse anche Arthur). Ma non convince, non è questa la strada, come non sembra plausibile l’ulteriore svolta che Musso cerca di propinarci.

L’idea, all’inizio, poteva essere divertente e stimolante. Anche perché Arthur ogni volta ricompare in un momento topico della storia dell’umanità. Durante i problemi “sessuali” del presidente Clinton, il giorno delle “Torri Gemelle”, ed altri piccoli o grandi avvenimenti. E poteva Musso divertirsi andando ad approfondire lo spaesamento di una persona che, appunto, si trova all’improvviso con notizie ed avvenimenti che non avrebbe mai pensato potessero accadere.

Tutto ciò, però, poteva essere una riscrittura de “La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo” di Audrey Niffenegger, con qualche puntata sul versante “non fiction” interessante. Ma anche questo spunto viene lisciato da Musso.

Alcune recensioni puntano sull’apprezzamento della scelta effettuata da Musso per il finale, leggendo tutta la storia come una sfida dell’uomo verso la conoscenza. Altri, ed io con loro, lo trovano un espediente per chiudere una storia che non si sapeva più come portare avanti. Una storia un po’ rabberciata come scrivevo all’inizio, scritta più sull’onda del successo che per una vera necessità espressiva.

Con anche molti svarioni disseminati nel testo e di cui ne rilevo a mente due.

Il faro ha il nome sopra riportato perché ha murata nella sua struttura una rosa con 24 venti. Ora, seppur vero che si può fare come si vuole, i venti presenti nelle varie rose sono potenze di due (4, 8, 16 e 32). Pare che in Vitruvio esista uno schema a 24, ma non viene considerata una rappresentazione efficace. Certo, 16 anni sembravano pochi e 32 troppi, per cui di sicuro Musso ha fatto una piccola forzatura.

Infine, ad uno scrittore, di cui non vi dirò le generalità, a pagina 307 vengono attributi prima il premio Stoker e poi il premio Hugo per un’opera dedicata ai giovani lettori. Forse anche qui Musso gioca con noi lettori, laddove, per chi non ne fosse a conoscenza, il Premio Bram Stoker è un premio letterario statunitense per opere di narrativa dell'orrore ed il premio Hugo è un premio per lavori di fantascienza e fantasy. Quindi, errore o voluto inganno?

“Non devi restare solo … se si è soli, si è morti.” (288)

Guillaume Musso “La ragazza e la notte” Repubblica Emozione Noir 4 euro 7,90

[A: 07/07/2019 – I: 30/03/2023 – T: 31/03/2023] - &&& 

[tit. or.: La Jeune fille et la nuit; ling. or.: francese; pagine: 345; anno 2018]

Questo è invece il sedicesimo dei venti libri scritti da Musso, di cui ben sedici sono presenti nella mia libreria. Testimonianza di un discreto amore che ho verso la scrittura di questo autore francese, dalle chiare ascendenze italiane (e che attualmente risulta l’autore più venduto in patria). Amore non sempre corrisposto, che alcuni suoi testi mi hanno relativamente deluso. Altri, ed anche questo, hanno invece raggiunto un buon livello di gradimento, pur non raggiungendo quello che per me, ad ora, è il suo più interessante (“La ragazza di Brooklyn”).

Intanto qui si verifica un’inversione di tendenza rispetto a (quasi) tutti i precedenti. Musso non ha mai nascosto il suo amore per l’America, ed ha sempre ambientato lì in tutto o in parte i suoi romanzi. Qui, invece, si rivolge ad un altro ambiente che ben conosce. Che si torna a Cap d’Antibes, che è anche la sua città natale. Tutto il romanzo, poi, pur nei flashback che continuano a caratterizzarne la scrittura, tiene banco intorno al liceo Saint Exupery della cittadina nizzarda, quasi a voler mescolare finzione e qualche ricordo di gioventù.

Tuttavia, è ovvio che la finzione sia quella che ci interessa, che nel presente del romanzo, ambientato nel 2017, si ritrovano nel liceo vecchi compagni di scuola (vecchi come compagni, che all’anagrafe dovrebbero essere splendidi quarantenni). In particolare, si ritrovano Thomas, ora diventato un acclamato scrittore, Maxime, politico in carriera e Fanny, diventata una valente cardiologa. I tre sono poi legati in quanti tutti e tre amici di una studentessa brillante e scapestrata, Vinca, che nell’inverno del ’92 misteriosamente scompare.

Non solo, ma contemporaneamente scompare anche il giovane professore di filosofia, Alexis, verso cui tutte le ragazze avevano un debole. Facile fare 2 + 2 per ipotizzare una fuga d’amore. A maggior ragione se si legge il diario di Vinca, con continui riferimenti d’amore verso una persona di nome “Alexis”.

Le vicende sono complicate dal fatto che Fanny e Vinca condividevano la stanza come da liceali stanziali, Thomas era innamorato e geloso di Vinca, Maxime era amico stretto di Thomas (forse al tempo anche innamorato, visto che poi fa outing, e trentenne, contrae matrimonio con tale Oliver) e Fanny era invece innamorata di Thomas. Ma sono anche complicate dal fatto che i genitori di Thomas erano i rettori del liceo, che nel liceo, oltre al professore, c’erano anche una professoressa di nome Alexis (che, come Andrea, è un nome unisex) ed uno studente di origine greca, anch’esso chiamato Alexis.

Tra l’altro entriamo subito nella confusione che Thomas ci confessa da subito che è stato lui ad uccidere il professore, dopo una furibonda scenata di gelosia, ed aiutato da Maxime. Inoltre, per nascondere il cadavere, i due hanno chiesto di murare il corpo nella palestra al tempo in costruzione. Dev’essere un liceo poco solido, che gli spogliatoi sono da poco crollati, ed in un armadietto (guarda caso quello di Thomas) viene trovata una borsa con un pacco di soldi.

Inutile dire che i nostri tre sono bersagliati da minacciose lettere anonime.

Thomas si mette di buzzi buono a cercare di risolvere il caso, o comunque di ricostruire le vicende dell’epoca. Anche perché: a) la borsa con soldi è del padre di Thomas; b) compaiono foto misteriose da cui si evince che il padre di Thomas aveva avuto una storia con Vinca.

Con la solita abilità, il nostro Musso avanza per rivelazioni e piccoli passi, facendoci scoprire verità, contro verità, falsità, ed altre stramberie che servono a mescolare le acque.

Per arrivare al momento cruciale, quando, ognuno per la sua parte ricostruisce la sera e la notte del ’92. Laddove, al fine, veniamo a sapere innanzi tutto che, come si sospettava dalle prime pagine, anche Vinca è morta. Non solo, ma sulla scena dei delitti ci sono tutti, oltre ai nostri tre, ci sono i genitori di Thomas, che forse sanno più di quello che sembra, ed il padre di Maxime (che poco prima dell’inizio della storia del ’17 è morto in un orribile omicidio).

La fine è un po’ sorprendente, e non ce ne dispiace. Anche se la storia non ha tutti i crismi delle buone storie di Musso. È un po’ zoppicante, quasi si trattasse di trovare nuovi modi di esprimersi dopo aver trovato pochi anni prima, la chiave di un buon successo.

Comunque, un finale da leggere (per cui non ve ne parlo).

Per completezza, volevo segnalare un passaggio che secondo me è indice del momento di ricerca di nuovi mezzi espressivi dell’autore. Tutte le prime venti pagine si concentrano su di un’agente di Polizia, Manon, tra l’altro anche lei liceale coeva dei nostri tre. Viene descritta, approfondito il personaggio, quasi potesse diventare un motore dell’azione. Poi scompare, fa una capatina durante un ballo, e niente più. Ecco, sembra proprio che ad un certo punto l’autore si renda conto che forse non serve Manon e Manon sparisce. Insomma, una specie di scrittura di ricerca, con qualche buco. Noi siamo abituati a vedere personaggi che quando entrano sono funzionali alla trama. Qui, riempie solo alcune pagine.

Guillaume Musso “La vita segreta degli scrittori” Repubblica Brivio Noir 1 euro 8,90

[A: 09/06/2020 – I: 10/04/2023 – T: 11/04/2023] - && 

[tit. or.: La vie secrète des écrivains; ling. or.: francese; pagine: 249; anno 2019]

Prima di entrare nelle tematiche del libro e della scrittura di Musso, spezzo una piccola lancia contro la sciatta edizione del libro nelle edizioni di Repubblica. Senza nessun segnale di cattiva impaginazione, leggendo il libro, scopro che è saltata una parte del libro, da pagina 145 a pagina 160. Niente di tremendo, che il libro si legge e si comprende ugualmente. Solo che non ci si aspetta che un editore possa “lisciare” in questo modo la pubblicazione.

Transeamus.

Continuo, allora, tornando al fatto della prosecuzione delle letture delle opere di Musso, arrivando alla diciassettesima uscita in cui da un lato ribadisce il ritorno “francese” che ha già caratterizzato il precedente romanzo, dall’altro costruisce un’opera dai diversi piani di lettura e di scrittura, con uno sforzo interessante di poliedricità, anche se non sempre sorretto da una buona resa.

Altra costante dell’universo “mussiano” è anche qui l’up and down temporale, dal ’98 al ’18, con qualche salto ancora più indietro e qualche passaggio intermedio. Anche se il nocciolo duro dell’opera si svolge nel 2018 nell’isola di Beaumont, anche se è un nome fittizio. Seguendo le indicazioni per arrivarci, e confrontando le cartine geografiche, si riesce facilmente a comprendere che in realtà è l’isola di Hyères, la maggiore dell’arcipelago di Porquerolles. Già qui cominciano i rimandi letterari, che questa è stata una delle isole rifugio di Georges Simenon.

In quest’isola si è rifugiato lo scrittore franco-americano Nathan Fawles, che, dopo aver scritto tre folgoranti libri, nel ’98 annuncia di abbandonare la scrittura e si ritira sull’isola. Qui, nel ’18, converge un aspirante scrittore Raphaël Bataille, ambizioso ma non ancora mai pubblicato, che vuole scrivere di Nathan e, soprattutto, farsi dare consigli da lui. Poco dopo, arriva sull’isola anche Mathilde Monney, giovane giornalista svizzera, anche lei decisa a svelare il “mistero Nathan” (e forse qualche cosa in più).

Visto che non manca mai un po’ di noir, ed è il motivo per cui il libro esce in questa collana di Repubblica, capita subito la presenza di una morta, che, costringendo la polizia a chiudere l’isola in entrata ed uscita, costringe i nostri personaggi ad una sorta di “vicenda da stanza chiusa”. Con la solita abilità, Musso comincia a far uscire le matrioske una dopo l’altra. Si cerca di capire chi sia la morta, perché sia collegata ad un viaggio in Polinesia, la presenza di una macchina da presa, un eccidio perpetrato in una casa con tanti morti (morti? ma sarà poi vero?). Poi, ecco altri piccoli pupazzi, che servono a capire se ci siano collegamenti tra Mathilde ed i morti. Ma sarà collegata a quei morti lontani o a questa morte vicina? Entra anche a gamba tesa il librario che dà lavoro a Raphaël.

Ma il tutto è condito dalla domanda principe: che c’entra Nathan in tutto ciò? E se c’entra, ha un senso la sua presenza nell’edifico dei morti di venti anni prima? E da dove vengono le lettere d’amore scritte da Nathan ed indirizzate ad una non meglio identificata “S.”, e perché sono in possesso di Mathilde?

Musso, con la solita abilità, riesce a svolgere tutti i nodi del mistero, a fornirci la soluzione di tutti i problemi e di tutte le vicende. Rimane solo la difficoltà di entrare in sintonia con i personaggi, così come si riesce a fare nelle sue opere migliori (per ora, per me, sempre “La ragazza di Brooklyn”). Una difficoltà che abbassa notevolmente l’empatia verso il libro.

Che tuttavia avrebbe molte altre interessanti frecce al suo arco. Perché è una sorta di “romanzi” nel romanzo. Utilizzando molteplici forme di scrittura, veniamo coinvolti nell’idea del best-seller non scritto (o forse scritto ma non reso pubblicato), nel manoscritto rifiutato, nel nuovo libro (ma forse è quello che stiamo leggendo?), negli appunti, nelle trasmissioni televisive, nelle interviste sui giornali. Insomma, un inno alla letteratura ed al mestiere dello scrittore, costellando il testo sia di citazioni (dove c’è finalmente, un esauriente riferimento in epilogo) sia di frasi che forniscono quasi un quadro di suggerimenti per l’aspirante scrittore.

Saltabeccando nel testo, troviamo le seguenti affermazioni: “Nessuno può insegnarti a scrivere. È qualcosa che devi imparare da solo”; “Cercare di piacere al lettore è il miglior modo per far sì che non ti legga”; “Un romanzo è emozione, non è intelletto”; “Se sei romanziere, lo sei ventiquattro ore su ventiquattro”; “Scrittore una volta, scrittore per sempre.”

La sintesi finale di Musso è che se non sei disposto a rischiare (ed a rischiare senza la certezza del successo) è meglio che ti dedichi ad altro.

Personalmente, farei due ultime segnalazioni. A pagina 53, c’è un’altra citazione a Simenon ed alla sua opera (e quando si cita “L’uomo che guardava passare i treni” o “La camera azzurra” come si fa a non emozionarsi). Infine, a pagina 98 viene citato Emanuel Lévinas, per menzionare Bobby, un cane randagio che si aggirava amichevole tra i prigionieri del lager tedesco dove era rinchiuso il filosofo. Un cane che salutava i prigionieri. Che per lui erano uomini, mentre non lo erano per i carcerieri nazisti. E qui mi fermo.

“L’unico rapporto valido con lo scrittore consiste nel leggerlo.” (37)

Guillaume Musso “La vita è un romanzo” Repubblica Anima Noir 5 euro 8,90

[A: 20/07/2021 – I: 20/06/2023 – T: 21/06/2023] - &&& ----

[tit. or.: La vie est un roman; ling. or.: francese; pagine: 235; anno 2020]

Beh, qui invece della sciatta edizione di Repubblica me la prenderei con gli editor della prima edizione italiana (“La Nave di Teseo”) e con il traduttore (Sergio Arecco) per le improvvide note inserite nel testo. Cosa che ha fatto meritare un numero forse infinito di meno alla valutazione. Ora, se ci fosse stato bisogno dei chiarimenti inseriti in quelle note, io avrei fatto una bella “Nota del traduttore” in fondo al volume, riprendendo quelle citazioni, quei rimandi e spiegandoli. Che è un romanzo, non eccelso, ma tutto giocato sullo scrivere, sulla scrittura, sul ruolo dell’autore e sul suo rapporto con i personaggi.

Svelarne in corso d’opera qualcosa toglie due felicità al lettore: la scoperta di sapere a cosa stia giocando Musso e la sorpresa di non averla capita prima. Capisco che non tutti i lettori di Musso leggano tutte le opere di Musso, ma forse è questo che vuole l’autore. Decifrarne in finale (cioè anche dopo il finale, che quelle note non sono vitali per la nervatura della trama) e, magari, decidere di scoprire altro sarebbe forse stato un regalo ai lettori più attenti.

Come si capisce già da queste righe, il testo è un metaromanzo, o un romanzo nel romanzo, o anche un esercizio letterario per lettori – detective, che devono (/vogliono) ritrovare i riferimenti che l’autore, in modo palese o nascosto, ha disseminato lungo le pagine.

C’è la storia di Flora Conway, scrittrice americana, autrice di tre libri, che ha un atteggiamento (quasi) alla Ferrante verso l’esterno. Ha una figlia di tre anni, Carrie, e ne seguiamo le angosce quando Carrie scompare dalla casa al sesto piano, dove tutte le uscite sono sbarrate (una sorta di delitto della camera chiusa).

C’è la storia di Romain Ozorski, prolifico autore francese, sempre ai vertici della classifica dei best-seller. Che seguiamo nella (lunga) battaglia privata con la moglie (o forse meglio, la ex-moglie), per la tutela e l’affido del figlio Theo. E conseguenti ripensamenti sull’arte di scrivere, ed altre considerazioni sulla letteratura (e sul rapporto autore – personaggi).

C’è la storia di Fantine de Villette, che da oscura lettrice di manoscritti, per una serie di fortuite circostanze, mette in piedi la sua casa editrice. Di nicchia, se vogliamo, ma densa di autori di livello da buono a ottimo.

Musso, da buon costruttore di trame strampalate, cerca (a volte riuscendoci) di portare il lettore a spasso per le trame, facendolo appassionare ad una traccia, per poi rivelargli che sta seguendo un metodo di lettura sbagliato.

Come in questo caso, dove, nella meta-trama, porta Romain a scrivere un romanzo con protagonista Flora, per poi abbandonarlo a seguito di un fioretto sulla custodia di Theo. Custodia che otterrà, anche se non vi dico in che modo divertente. Ma quando, dopo anni e anni, Theo scopre dei manoscritti segreti, esce fuori un altro pezzo di verità.

Fantine e Romain ben si conoscevano, e fu Romain a troncare la relazione. Ma anche a dare una spinta, anche se di nascosto, alla nascita del mondo imprenditoriale di Fantine.

Così, dopo 200 pagine, sembra che tutti ritorni all’interno di una modalità spiegabile. Con solo l’accortezza di credere che ci sono parti del romanzo che parlano della vita e parti del romanzo che parlano di altri romanzi, e ne scrivono come fossero vita. Ma forse non lo sono. Oppure lo sono nella maniera distorta in cui i romanzi si nutrono della vita, per poi, dopo averla masticata e digerita, riproporla in altra forma.

Nel mezzo, oltre a quelle note di cui accennavo all’inizio, c’è un’altra meta-invenzione. Dove Fantine vive in un faro riadattato, che si chiama “24 Wind Lighthouse”, come il faro al centro delle vicende del libro di Musso “L’istante presente”. E sempre nella meta-realtà, il buon Romain risulterebbe autore di un libro, “L’uomo che scompare”, che non è altro che la terza parte de “L’istante presente”. Poi si intreccia il tutto con la citazione di un altro scrittore, Nathan Fawles, che, ne “La vita segreta degli scrittori”, dopo aver scritto tre libri (come Flora), si ritira su di un’isola e non scrive più (come Romain qui, quando si rifugia in Corsica). Compare anche un quadro di Sean Lorenz, pittore presente nel libro “Un appartamento a Parigi”, dove, come Flora, subisce il rapimento di un figlio.

Ovvio però che la scomparsa di Carrie è diversa, che la vita di Romain è diversa, che Fantine serve a Musso (anche) per una sua tiritera, un po’ bonaria un po’ cattivella, sul mondo dell’editoria. Quello che in fondo interessa a Musso è instillare nel lettore il dubbio borgesiano su quale sia la realtà e quale sia la finzione, e quale il rapporto tra le due entità.

Se poi fermandoci un attimo, ragioniamo che, in francese, c’è una “i” che porta dal romanzo al protagonista del libro, forse stiamo leggendo la vita di uno “scrittiore” (non è un refuso, ho proprio voluto scriverlo così). Se fosse un autore italiano, Musso avrebbe virato sulla fine alfabetica per passare dal protagonista al romanzo.

Spero che abbiate capito il messaggio. E spero che le prossime letture di Musso evitino di virare troppo verso elementi sovrannaturali (o inspiegabili), a vantaggio di trame (e di personaggi) che siano sempre più naturali (e interpretabili).

“I lettori leggono il libro che vogliono leggere, non il libro che hai scritto.” (28)

Guillaume Musso “La sconosciuta della Senna” La Nave di Teseo euro 20 (in realtà, scontato a 19 euro)

[A: 19/10/2021 – I: 04/07/2023 – T: 06/07/2023] - &&& 

[tit. or.: L’inconnue de la Seine; ling. or.: francese; pagine: 326; anno 2021]

Penultimo volume delle storie giallo-esistenziali di Musso, che continua sulla falsariga della sua consolidata scrittura. Testo gradevole, alcuni buoni spunti, poi le trame si complicano con involuzioni che non lasciano capire la “realtà” del plot (spesso qualche personaggio non viene portato fino al suo completo sviluppo, a volte personaggi ricompaiono in opere successive). Comunque, il tutto su di uno standard di buon livello, che risolleva il tono generale dell’opera omnia dello scrittore.

Come spesso accade nelle opere di Musso, la prima parte si preannuncia ben orchestrata e foriera di possibili misteri. Il tutto scatenato da una sconosciuta che si getta nella Senna nuda (o quasi), viene salvata dalla polizia, ma scappa dalla gendarmeria prima di essere identificata.

Non è un gran mistero, ma di certo non è un avvenimento normale. Motivo per cui viene incaricato delle indagini uno strano dipartimento poliziesco, denominato BANC (Bureau des Affaires Non Conventionnel, ovvero ufficio degli affari non convenzionali), dove è appena subentrata come unico elemento ufficiale una poliziotta scorbutica e poco attenta alle regole, Roxane Montchrestien, quasi fosse una punizione per qualche sua colpa non meglio identificata.

Fino a poco prima il posto era occupato da Marc Batailley, poliziotto vicino alla pensione, che, per circostanze misteriose, cade dalle scale dell’edificio ed entra in coma. Rimane, come solo elemento unificante, la studentessa Valentine, che sta scrivendo una tesi sulle inchieste del BANC, unica a delucidare Roxane su cosa sia l’Ufficio e chi siano alcuni attori che stanno per entrare in scena.

Perché la sconosciuta ha lasciato un braccialetto con dei capelli il cui DNA riporta ad una famosa pianista, Milena Bergman. Peccato che Milena sia morta un anno prima in un incidente aereo. Non solo, tanto per complicare il drammone, Valentine rivela che Milena era fidanzata con lo scrittore Raphaël, per inciso figlio del Marc di cui sopra.

Fino a qui ci sono tutti gli ingredienti del drammone. Roxane indaga, cerca di stanare lo scrittore, si immerge nelle problematiche della famiglia Batailley. E noi aspettiamo che qualche colpo di scena riesca a mettere a posto i tasselli sconclusionati che si stanno accumulando.

Tasselli che includono la presenza (o l’assenza) intermittente di un certa Garance de Karadec, figlia di una casata decaduta, in possesso di un’isola di fronte alla cittadina di Brest. Chi è Garance, perché non si riesce a tenerla in un posto e capire se e come entra nell’indagine? E tralasciamo altri personaggi, forse non minori, ma che servono a rendere confusa tutta la seconda parte del romanzo.

Dove finalmente compaiono dei morti, e quindi c’è bisogno di indagini più “poliziesche”. Ma compare anche un possibile collegamento con altre morti di strano effetto, che non sono localizzate solo in Francia, e che, invece di chiarire i già notevoli misteri, servono a rendere più complessa e meno leggibile la trama.

Non abbiamo dubbi che Roxane sarà l’unica a vedere tutte le connessioni possibili e (forse) a risolvere il caso. Perché il finale, dove Musso al solito cerca anche di usare elementi non solo di scrittura per aumentare l’entropia del caso (in genere articoli di giornale, ma anche lettere minatorie, SMS, rimandi a strane rappresentazioni teatrali nonché l’apparizione intermittente di Vera, la sorella di Raphaël morta all’età di dieci anni in un tragico incidente che non vi svelo), è appunto confuso da un lato e aperto dall’altro.

Il fatto è che Musso continua ad interrogarsi su cosa sia la realtà e quale sia la differenza tra reale e mentale. Però non riuscendo a coinvolgere il lettore in queste sue turbe, che di sicuro hanno origine in tutta la sua storia personale. Vi ricordo infatti, che inizia a scrivere con successo mentre è convalescente da un grave incidente automobilistico, dove si salva per miracolo. Così che molti (o tutti?) dei suoi romanzi ad un certo punto virano verso quel punto di confine della realtà indagando, nelle sue intenzioni, sul rapporto tra la realtà che ci circonda e ciò che si pone al di là della realtà stessa, che sia finzione narrativa, rappresentazione teatrale, realtà virtuale.

Quello che poi a me dà un piccolo punto in più nella sua scrittura è l’abbondanza di citazioni e di rimandi, che (e questo è il plus), vengono ben spiegati nelle note finali.

Mi rimangono solo alcuni punti interrogativi. Come mai lo scrittore si chiama Raphaël Batailley ed in precedente romanzo c’era un altro scrittore di nome Raphaël Bataille? Come mai l’editrice di entrambi si chiama Fantine de la Villette? Perché usare “Karadec” come patronimico, rimandando ad un simpatico poliziotto di una serie televisiva francese, partner di una collaboratrice della polizia che indaga su misteri irrisolti? Un’allusione?

E perché, infine, a pagina 179 il capo di Roxane sorseggia un ceviche? A mia memoria è un piatto di pesce marinato peruviano. A meno che non beva il succo di limone mi sembra un punto veramente strambo.

A parte ciò, vedremo a breve anche l’ultima prova del geniale scrittore.

Visto che siamo in una trama da mono-autore, mi pregio di ricordare qualche frase di uno scrittore che per un po’ ho amato, ma che non ha proseguito la strada del riccio, perdendosi in altri meandri. Nel suo primo libro, la scrittrice (perché, pur non amando i generi, nel mondo ci sono uomini, donne, ed altre fluide espressioni) Muriel Barbery fece un esordio con un libro incentrato sulla cucina. In quella “Estasi culinarie” ho trovato due frasi che mi hanno risuonato: “Il calvario non è lasciare quelli che ti amano, ma staccarsi da quelli che non ti amano.” (40) e “Tutti pensano che i bambini non sappiano niente. Viene da chiedersi se i grandi siano mai stati bambini” (79).

E poi un ricordo, dell’autrice sulla sua infanzia marocchina e mia, per un viaggio in Marocco ed uno scorcio di panorama che vedo come fossi accanto a lei: “Mi ricordo la magnificenza floreale della sala da tè degli Oudaïa dalla quale contemplavamo Salé e il mare in lontananza, alla foce del fiume che scorre sotto i bastioni; le stradine variopinte della Medina; le cascate di gelsomino sui muri dei cortiletti, ricchezza dei poveri distante mille miglia dal lusso dei profumieri occidentali; mi ricordo, infine, la vita sotto il sole, che è diversa da tutte le altre perché chi vive all’aperto concepisce lo spazio in modo differente … e il pane marocchino, preludio folgorante alle unioni carnali.” (75)

Per il resto si continua a sperare che quest’anno mantenga le promesse del suo nome, anche se di segnali ce ne sono pochi. Tanto che nel prossimo futuro si vedono pochi viaggi (e tutti privati al momento) e concentrazione sulle ottime vicende private. Che essendo private non se ne parla, anche se non vi faccio di certo mancare i miei abbracci.