domenica 3 febbraio 2019

Ultimi anglosassoni - 03 febbraio 2019


Eccoci all’ultima trama dedicata alla collana dei Gialli Anglosassoni del Corriere della Sera. Collana iniziata con qualche buona prova e poi pian pianino calata verso fondali abissali. Qui c’è solo la prima trama che ha un filo di interesse, come esemplare del filone “se l’avessi saputo prima”. Il resto è praticamente inutile (ah, se l’avessi saputo prima…).
Dorothy Cameron Disney “Una sciarpa intorno al collo” Corriere della Sera Gialli 21 euro 6,90
[A: 24/06/2016– I: 23/09/2018 – T: 25/09/2018] - && e ½
[tit. or.: Strawstack; ling. or.: inglese; pagine: 279; anno 1939]
Eccoci ancora ad una nuova puntata dei gialli anglosassoni. Ancora con un autore, anzi autrice, americana, che rispecchia meglio il moto inglese di vedere il poliziesco. Anche se la sua scrittura è nel filone, che trovo un po’ ridicolo nel suo modo di porsi, noto come “Had I but know (HIBK)” (cioè, “se lo avessi saputo prima”). Con quel modo di attaccare molti capitoli di narrazione con appunto quel mantra. Se lo avessi saputo non avrei fatto, non avrei detto, e così via. Sottolineo ridicolo, perché ad un certo punto la protagonista del libro, ad esempio, nasconde delle forbici usate per tagliare dei fili del telefono, e ripete, ah se l’avessi saputo prima cosa sarebbe successo, non lo avrei fatto. Ora, vi renderete certo conto che non bisogna essere delle aquile investigative per capire che sottrarre una prova in un ambito di inchiesta di certo porta a sviare l’inchiesta stessa, quando non favorisce il colpevole, piuttosto che la ricerca dello stesso. Vedremo di certo più avanti nelle mie letture il capostipite di questo genere, Mary Roberts Rinehart con il suo “La scala a chiocciola”, così come abbiamo già visto le prove di un’altra esperta del ramo, Ethel Lina White. E di entrambe ricordo le bellissime rese cinematografiche.  Qui, intanto abbiamo Dorothy Cameron Disney, nata in un territorio indiano ora in Oklahoma, autrice di 9 romanzi gialli, poi editorialista per decenni in un magazine femminile, dove teneva una rubrica dal promettente titolo “Can this marriage be saved” (cioè, si può salvare questo matrimonio, e non faccio altri commenti). Come spesso in questi romanzi HIBK la protagonista è una donna, sovente anche narratrice, come in questo caso. Solo che la nostra Margaret è un po’ più ingenua del normale, una che casca un po’ dal pero quando gli avvenimenti si susseguono. Margaret, benestante del Vermont, cerca di mettere su casa vicino a Washington, una casa dove vivono lei, la sorella Marian con il marito Fred e la figlia Jane, una serie di domestici, ed a cui viene invitato il cugino Ames (figlio della morta sorella Jane, e che nessuno ha mai incontrato). Margaret si ammala stranamente di febbre tifoidea, viene chiamata anche la cugina Violet per curarla, viene ingaggiata un’infermiera, Dorothy, per assisterla, e giunge dal Vermont l’amico e sodale dottor Samuel. Questa è la scena che ci si presenta, quando Margaret guarisce e Dorothy decide improvvisamente di lasciare la casa. Peccato che poco dopo vadano a fuoco i pagliai della villa (gli “Strawstacks” del titolo, bellamente cambiato con quella sciarpa un po’ anodina). E nel pagliaio si trova Dorothy morta (in particolare strangolata, da cui ancora la famosa sciarpa). Di capitolo in capitolo Margaret, con l’aiuto reale del solo Samuel, percorre avvenimenti, ricostruisce movimenti, entra nella vita di Dorothy. Che pare sia vedova oltre che infermiera. Che ha conosciuto Fred, il marito di Marian, quasi che tra i due ci potesse essere una tresca. Che in effetti ha sottratto dei virus tifoidei dall’ospedale per far morire Margaret. Cosa scoperta da un dottore dell’ospedale stesso, che Dorothy ricattava per altri piccoli motivi, ma che forse stava per uscire allo scoperto. Il tutto ingarbugliato da una tresca tra Jane ed un ricco vicino, complicata dall’arrivo del cugino Ames. Insomma, ogni capitolo porta nuove rivelazioni, ogni rivelazione fa scoprire un piccolo o grande mistero (questo è un po’ il marchio di fabbrica della scrittrice). Sempre con la povera Margaret a bocca aperta. Alla fine, tutti i tentativi di ucciderla verranno sventati, con un finale descrittivo (buono in genere ma non sempre presente) si risalgono tutti i passi di chi voleva accaparrarsi soldi e casa dell’ereditiera Margaret. Anche se per scoprire la colpevolezza bisognerà ricorrere ad alcuni elementi esterni (per cui il lettore è un po’ sfavorito rispetto agli indagatori). Tutto poi con un bel happy end finale, tanto che (visto lo svolgimento quasi tutto in due o tre stanze della casa) sembrerebbe facile e promettente poterne ricavare un bel testo teatrale. Come promesso, torniamo anche al rapporto ed alle similitudini con la Rinehart. Gli avvenimenti si svolgono in una villa di campagna isolata, e spesso di notte, coinvolgendo qualcuno che cerca di penetrare nella casa. Come nella Rinehart, molti membri della famiglia sembrano nascondere segreti, e sembra che siano in atto sinistri complotti, spesso iniziati ben prima dell’inizio stesso del libro. E che continuano a svolgersi per tutto il romanzo. Quindi, non solo il filone HIBK, ma anche lo stesso modo di scrivere e presentare la narrazione è simile. Purtroppo, qui con risultati modesti, se non un po’ noiosetti.
“Per te farei molto di più … di quanto tu possa credere. Mi sono reso conto che tu sei molto importante nei mei progetti.” (101)
Elizabeth Daly “L’assassino scrive di notte” Corriere della Sera Gialli 24 euro 6,90
[A: 05/07/2016– I: 28/09/2018 – T: 30/09/2018] - &
[tit. or.: Nothing Can Rescue Me; ling. or.: inglese; pagine: 267; anno 1943]
Certo mi sembra un bel salto degli editor italiani passare da “Nessuno può salvarmi” a questo anodino sull’assassino che scrive di notte. Che in effetti, la vittima predestinata non potrà essere salvata nonostante tutto l’impegno del protagonista. Ma che l’assassino scriva di notte è un’illazione che inferisce sulla scrittura di alcune frasi simbolicamente (e pateticamente) ingiuriose all’interno di un dattiloscritto delle memorie della futura vittima. Non è solo l’assassino che scrive di notte, e non si capisce la ratio che c’è dietro la scelta di questo titolo. Ma non è questa la sola pecca del libro. Certo, questa è l’unica non imputabile all’autrice, anche lei, come le ultime segnalate, proveniente dalla parte americana dell’anglofonia. Anzi, newyorchese per l’esattezza. Elizabeth ha una degna famiglia alle spalle (padre giudice, zio commediografo di successo), fa onorevoli studi finendo nell’insegnamento universitario. Ma ha sempre avuto il pallino dei romanzi gialli, di cui diventa esperta lettrice, ma non altrettanto esperta autrice. Tanto che sin dagli anni Trenta prova a confezionare trame “di mistero”, ma con scarso successo e nessuna pubblicazione. La svolta, minimale ma significativa, avviene nel ’40, quando riesce a vendere la prima novella che ha per protagonista Henry Gamadge. Un personaggio cui fa ricalcare un po’ la sua storia personale, anche se ne colloca la nascita nel 1904, quando lei ha 25 anni. Un personaggio su cui imbastisce alla fine sedici libri. Un personaggio cha ha la passione per le edizioni rare dei libri. Proprietario di una libreria di vecchi libri e noto esperto di incunaboli e manoscritti autografi, è un “gattofilo” (il suo gatto Martin è per lui pari a un essere umano) che occupa il suo tempo libero per giocare a bridge e inscenare spettacoli teatrali dilettanteschi. Nel suo tempo libero, si rivela anche come un detective perspicace, che sa come sondare le oscure profondità dell'anima di un assassino. Ma questa è teoria, che qui non solo il racconto è ingarbugliato, ma le doti del nostro Henry non mi sembra vengano particolarmente esaltate dalla trama. L’unico tratto distintivo è che il nostro, fin dall’inizio, dice di aver capito tutto, e ne sta cercando le prove. Ma un’affermazione non fa una verità (almeno nel mondo reale, non ad esempio in quello pentastellato… ma questo sarebbe un altro discorso). Ed io aspetto le quasi trecento pagine per saperne di più. Ed alla fine, poco di più se ne sa. Con una descrizione dello scioglimento dei misteri che non si riesce a decrittare fino in fondo. Tra l’altro la scrittura è discretamente involuta, non si scioglie fluida in descrizioni e dialoghi. Partendo in ogni caso da una premessa poco allettante, come quella descritta all’inizio per il futuro libro di memorie di Florence. Il suo giovane fratello chiede aiuto al nostro Henry, e tutto converge sulla lugubre casa di campagna, la casa ereditaria degli Hutter. Dove sono presenti, oltre a Florence e il fratello Silvester, Tim, il giovane marito di Florence, miss Wing, la segretaria tuttofare, Susie, un’amica giovane e un po’ svenevole, Sally, che Florence aveva “costretto” al divorzio dall’alcolizzato Bill, Percy, altro giovane squattrinato, e Corinne, la cugina del ramo cadetto, dove si ricorda, di passaggio che i rispettivi genitori ebbero liti giovanili mai sopite. Il tutto ancor più complicato da questioni testamentarie. Il grande patrimonio degli Hutter risulta vincolato sino alla morte di uno dei due fratelli. In questo clima poco disteso, da un lato si intrecciano storie di possibili rapporti ed amori clandestini, mai ben chiariti. Dall’altro, Sil viene ucciso, quindi Florence diventa erede del patrimonio considerevole. Motivo per cui Henry la convince alla redazione di un testamento civetta, dove inopinatamente lascia tutto alla segretaria. Peccato che subito dopo anche Florence venga uccisa, ed il testamento diventa reale. Ci sono tentativi, molto poco riusciti, di suscitare interesse con sedute spiritiche, statue tribali poco raccomandabili, ed altre amenità. Henry scopre solo che la segretaria non era proprio ignota, visto che aveva rapporti di conoscenza ben stretti sia con Sally che con Corinne. Ecco allora che il campo è ben ristretto. Si può puntare il dito proprio sulla segretaria, sul marito Tim che verrebbe diseredato o sui rancori della cugina Corinne. Henry risolve la matassa poco ingarbugliata, senza coinvolgerci più di tanto, senza spiegare in dettaglio la successione degli avvenimenti. Lasciando inoltre spiragli di futuro che non capiamo e non seguiamo in modo particolare. Insomma, non capisco come Agatha Christie potesse dire che la Daly la incuriosisce e la stimola. Forse altre prove danno miglior risultato. Questa risulta una lettura faticosa ma soprattutto molto poco stimolante.
Thomas Kyd “Morte in palcoscenico” Corriere della Sera Gialli 28 euro 6,90
[A: 02/08/2016 – I: 20/10/2018 – T: 22/10/2018] - & --
[tit. or.: Blood on the Bosom Devine; ling. or.: inglese; pagine: 267; anno 1948]
Devo dire, una delle espressioni più basse del giallo anglosassone e del giallo in generale. La storia si potrebbe risolvere in poche battute, e nel tentativo di complicarla, l’autore si ingolfa in situazione di scarsa sostenibilità. Anche i personaggi sono poco delineati, forse a parte l’investigatore, il tenente Sam Phelan. Con una conclusione che è molto scontata nei modi e molto tirata per i motivi. Bisogna comunque subito dire che l’autore, in realtà, è noto ed anche bene in tutt’altro campo, con il suo vero nome di Alfred Bennett Harbage. Americano di Philadelphia, per decenni docente ad Harvard, ed uno dei più noti studiosi di Shakespeare, cui ha dedicato tutta la sua vita accademica, nonché numerosi libri. Non a caso, sceglie come pseudonimo il nome di uno scrittore inglese coevo del suo bardo. Come molti professori, decide poi (in questo caso alla fine della guerra) di darsi un po’ di vacanza, pubblicando quattro libri polizieschi, di cui i primi tre (tutti con un titolo “Blood…” e poi qualcosa) con personaggio principale appunto Sam, un ex pugile dei pesi massimi, che, abbandonata la carriera, entra in polizia. Come questo, che in realtà recita “Sangue sul petto divino”, giocando sul fatto che la morta è un’attrice il cui nome d’arte è Lilith … Divine. In Italia, visto che il gioco di parole si perde, si opta per un titolo d’effetto, visto che la morte per l’appunto avviene su di un palcoscenico. Quello però di spettacoli leggeri, burlesque nel senso attuale del termine (vero Giulia?), con donne discinte che cantano e ballano, ed altri numeri al contorno, per la maggior parte comici. L’autore cerca di mettere un po’ di carne al fuoco, inscenando la vicenda in una cittadina di provincia, il 2 marzo 1942 (che per inciso, anche se non c’entra nulla, è la data di nascita di Lou Reed). Cittadina dove gli spettacoli di varietà non son ben visti, tanto che il prete locale non perde tempo a lanciare i suoi strali contro lo spettacolo “Frivolezze Quarantadue”, costringendo magistrati e polizia locale a prendervi parte per giudicarne le possibili oscenità. Ovvio che quando sono tutti presenti, avviene il fattaccio: la bella Lilith colpita a morte durante lo spettacolo. Da questo punto in poi il nostro Thomas-Alfred si incarta un po’. Cerca di mettere in cattiva luce via via tutti i possibili sospettati: il gestore dello spettacolo, che però ha una mano fasciata quindi sembra impossibilitato ad operare, il prete, presente in un palco oscuro, che potrebbe voler iniziare una campagna moralizzatrice, un cantante dello spettacolo, messo in ombra da Lilith, la soubrette Mary, che avrebbe tutto da guadagnare, prendendo il posto della morta, un giovane giudice, forse innamorato di Lilith o forse amante, il comico ex-lanciatore di coltelli Loopy (un po’ fuori di testa come dice il nome che si potrebbe tradurre come “pazzerello”, anche perché alcolista perso) che scopriremo essere anche il marito legittimo di Lilith. Ci sono di mezzo soldi, che Lilith potrebbe lasciare a qualcuno, potrebbero essere rubati dall’organizzatore, potrebbero andare a Loopy. In tutto questo, si muove con le sue movenze da ex-pugile il nostro Sam. Che ovviamente prende una piccola scuffia per Mary, ma che continua ad indagare su tutti i fronti. Fronti da non dimenticare, che siamo nel ’42 e c’è la guerra. Con fatica Sam scopre che l’arma è una canna di bambù presente sulla scena. Ma il prete era svenuto, il giudice fugge di casa per arruolarsi, l’organizzatore ha le mani fasciate, il cantante era nel cono di luce, quindi visibile a tutti. Rimangono Loopy e Mary. Sam svelerà alla fine il mistero, ma con un piccolo scoop che spiega molto, e che tuttavia contraddice i precetti classici del giallo dove il lettore deve essere messo in grado di avere le stesse informazioni degli investigatori. Insomma, una trama che si trascina, personaggi delineati con un po’ di approssimazione, soluzione che viene classificata come impossibile ma che ben presto viene smontata e si rivela non semplice ma fattibile. Una soluzione inoltre che viene fuori a pezzi, e non con un finale fluido come sarebbe auspicabile in tali gialli. Forse non è questo il miglior libro del nostro autore, che, basandomi solo su quest’unica lettura, direi che ha fatto bene a non indulgere troppo in questo passatempo e tornare al suo amato Shakespeare.
Rufus Gillmore “Il letto d’ebano” Corriere della Sera Gialli 27 euro 6,90
[A: 02/08/2016 – I: 23/10/2018 – T: 26/10/2018] - &
[tit. or.: The Ebony Bed Murder; ling. or.: inglese; pagine: 318; anno 1932]
Davvero una bella lotta tra l’esimio Rufus Gillmore e l’altrettanto poco noto (almeno come pseudonimo) Thomas Kyd, da poco letto e tramato. Nella parte finale di questi gialli anglosassoni si stanno nascondendo i meno interessanti risultati di tutta la collana. Intanto anche Gillmore è americano, ma scrivi negli anni Trenta, quando ancora non montava l’ondata hard boiled d’oltreoceano sulla scia dei primi scritti di Dashiell Hammett. Ma oltre ad essere un giornalista non particolarmente brillante, ha pubblicato ben 4 libri di genere poliziesco, di cui 3 prima della Prima Guerra, e questo una ventina d’anni dopo. Facendo un’operazione furbetta ma con poco successo. Ha infatti ripreso i caratteri di un investigatore che andava per la maggiore all’epoca, Philo Vance, cambiandone alcune caratteristiche, ma riuscendo solo a creare un personaggio un filo (scusate il gioco di parole) più antipatico. Questo Griffin Scott è un pubblicitario che a tempo perso si dedica ad aiutare la polizia nelle indagini, ovviamente arrivando prima alla conclusione (ci sono vari accenni nel libro). Come Vance ha due antagonisti nella polizia, il procuratore distrettuale Randolph Hutchinson e l’ottuso sergente Mullens. Ma i due sono costantemente contro Griffin, i due di Vance, il procuratore John F.-X Markham e il sergente Ernest Heath, sono ondivaghi, ed a volte riconoscono palesemente la superiorità di Vance. Infine, c’è l’io narrante. Che per entrambi è lo stesso autore, per Vance celatosi sotto lo pseudonimo di S. S. Van Dine (in realtà era il critico d’arte Willard Huntington Wright), mentre qui con la sua vera identità di Gillmore. Quindi, un tentativo di imitazione, che non soddisfa nessuna velleità di sorriso. Anche quando riprende il tormentone del numero 6. Van Dine, infatti, ha scritto tutti i sui romanzi intitolandoli “The X Murder Case”, dove X è sempre una parola di sei lettere. Ebbene qui, abbiamo sei personaggi presenti all’ultima cena della morte, sei possibili assassini, sei ex o quasi mariti della morta. Tuttavia, ci vuole del bello e del buono per trovare qualcosa di salvabile oltre alle poche cose menzionate. Anche perché la storia è banalina, ed inutilmente contorta. La bella e famosa Helen Brill Kent viene trovata morta sul suo letto d’ebano apparentemente suicida. Nella casa al momento del “suicidio” erano presenti Jesse Brill, il padre di Helen, Cleveland e Napoleon Brill, i suoi fratelli, Ethel Cushing, la figlia, la signora Vroom, la domestica tuttofare, e sua figlia Dorothy. Tutti vivevano alle spalle di Helen, e tutti hanno motivi per volerla morta. Che nella cena prima della morte, Helen annuncia a tutti che vuole sposarsi per la sesta volta, che non vuole più la famiglia Vroom a ricasco nella casa, pur se presenti come aiutanti, che non darà più un centesimo né al padre né ai fratelli. Né tanto meno alla figlia, che in realtà non è neanche figlia, avendo finto di adottare una bambina per accalappiare il secondo marito, ed avendola tenuta in casa come si tiene un sopramobile, cercando ogni due per tre di sbolognarla ai nonni (benché in realtà siano solo i genitori del marito morto). L’operazione di Griffin per tutto il libro è smontare gli alibi di ognuno, facendo vedere che ciascuno poteva essere l’assassino. Quindi di trovare le modalità dell’uccisione. Ingegnosa ma molto “sul filo”. Helen infatti teneva sul comodino una pistola (diavoli di americani sempre pieni di armi), che chi l’ha uccisa ha pensato bene di costruirvi un meccanismo fintamente inarrestabile. Un filo sul grilletto collegato all’interruttore della lampada sul comodino. Quando Helen spegne la luce, il filo si rilascia, muove il grilletto e la pistola spara. Meccanismo alquanto fragile, che basta spostare la lampada, decidere di spegnerla prima e non dopo essersi coricata, sbadigliare mentre si spegne, o tanti altri accidenti, che la messa in scena va a pallini. Ma Gillmore non è molto ferrato in queste possibili analisi. Lui si concentra sulle spacconate di Griffin, che ricostruisce a casa sua vari momenti dell’omicidio, avendo a disposizione una specie di caverna di Batman tecnologica (per l’epoca). Il tutto, come detto, narrato dal povero Gillmore che non perde occasione di sottolineare quanto è intelligente Griffin, quanto è stupida la polizia, quanto pensava a mille ipotetici assassini prima che Griffin incastra … Beh, non vorrete mica che vi dica tutto. Anche se non mi piace, non sono così cattivo. O forse sì? Prima di lasciarvi, un ultimo cenno forse all’unica cosa carina di tutto il libro: la presenza di una grande scacchiera dipinta sul pavimento della casa di Griffin, dove lui e Gillmore iniziano una partita a scacchi con un’apertura, detta dei Quattro Cavalli, molto in voga all’epoca, ma che porta ad una partita generalmente con poco mordente. Come poco ne ha questo libro.
Whitman Chambers “I morti non lasciano impronte digitali” Corriere della Sera Gialli 30 euro 6,90
[A: 30/08/2016 – I: 28/10/2018 – T: 29/10/2018] - & e ½
[tit. or.: Dead Man Leave No Fingerprints; ling. or.: inglese; pagine: 284; anno 1935]
Dispiace che anche con quest’ultimo autore siamo ancora nelle parti basse dell’espressione del giallo anglosassone. Con un autore americano che scrisse molto tra le due guerre, per poi dedicarsi al cinema ed alla televisione (tra l’altro, per chi ha memorie antiche, sceneggiò alcuni episodi della serie “77 Sunset Strip”). Come molti dei suoi romanzi (in genere ambientati nell’ambiente giornalistico che conosceva bene), questo si basa intorno alla figura di una persona che indaga. Data l’ondata favorevole negli anni ’30, ecco Stan Lake, uno scanzonato investigatore che ha quasi le movenze di un Sam Spade, sempre un passo avanti al lettore. Cercando però di conciliare (senza molto successo tuttavia) un giallo classico con alcuni spunti da hard-boiled. Lake viene coinvolto in questa trama complicata da un’attrice danese, Hilda, che prima tenta una fuga d’amore con il bieco Theodore Raybourne, poi si accorge che questi è appunto un profittatore che cerca solo i suoi soldi e la vuole sposare con un ricatto. Lake allora con uno stratagemma si introduce nella casa dei Raybourne dove trova: Rufus, il patriarca, una volta molto ricco ma ora in calo economico, Maurine, la giovane moglie di Rufus, una coppia di amici della famiglia, gli Amerton, che si spacciano per sensitivi, Inez, la figlia di Rufus, con il suo fidanzato, il dottor Pageot, ed il maggiordomo cinese Fong Woo. Inseritosi nelle dinamiche della casa, Lake si trova ingaggiato nello smascherare una serie di assassinii. Il primo morto è Theodore, colpito con un attizzatoio. Subito si pensa ad Hilda come possibile esecutrice, ma fortunatamente l’oggetto mortale ha le impronte dell’assassino. Con un primo passaggio alla CSI, tutti vengono schedati, ma si scopre che le impronte sono di un tale John Royal, ex-socio di Rufus, morto un anno prima a San Quintino, in prigione. Lake ed i suoi accoliti decidono di profanare la tomba di John, per trovare le prove, ma la trovano vuota. Forse allora che John non è morto e stia cercando di vendicarsi? Mentre Lake e la polizia tentano di risolvere questa prima morte, ne avviene una seconda, con una tipica descrizione da “camera chiusa”: la giovane Maurine viene trovata nella sua stanza, molto discinta, strangolata con una calza. Due qui sono i dilemmi: sulla calza ci sono le impronte di John, e, secondo problema, come è stato possibile il delitto? Tutti i sopra menzionati erano in casa, e non sarebbe stato semplice per un estraneo introdursi in casa. Confrontando le dimensioni interne ed esterne della stanza di Maurine, Lake scopre un possibile passaggio segreto. Si insinua nello stesso, e trova che sbuca nella stanza del dottor Pageot. Messo alle strette il dottore confessa di essere stato l’amante di Maurine, ma di averla trovata già morta. Qualcun altro ha usato lo stesso passaggio, allora. La scoperta di un corpo alla deriva sulla spiaggia con delle strane abrasioni alle mani, porta Lake all’intuizione di come sia stato possibile lasciare le tracce sopra citate. Qualcuno ha rubato il corpo di John, prelevato le impronte e costruito dei guanti con il loro calco. Mescolando camere chiuse, sparizioni di cadaveri, e i “dieci piccoli indiani” alla Christie, i possibili colpevoli si restringono sempre più. Il colpo finale l’abbiamo con la morte, pugnalato al cuore, di Rufus. Pugnale sempre con le impronte di John. Lake ha capito tutto, anche perché, come spesso accade, i delitti o sono fatti di cuore o sono fatti di denaro. Qui potrebbero essere tutti e due. Rufus sapeva che Maurine lo tradiva con Pageot, e Theodore sapeva tutto, essendo un losco figuro. Ma anche i soldi di Rufus, una volta morti il figlio e la moglie, andranno a Inez la timida figlia rimasta. Chambers ci porta per mano alla soluzione, l’unica cosa ingegnosa di tutto il libro. Perché tutta questa storia è raccontata senza molta enfasi, con molte intrusioni di altro: la polizia, personaggi che entrano ed escono dalla scena, giornalisti impiccioni. L’unica cosa che possiamo dire è che Hilda non è colpevole. Anzi si innamora di Lake, e lo prega di non abbandonarla. Ma lui, duro e puro, e che sa di avere un debole nei suoi confronti, non vuole passare il resto della sua vita come “marito di Hilda Lane”.  Per questo scende dall’auto con la quale si stanno allontanando dalla casa dei delitti, e si avvia verso il treno, senza guardarsi dietro. Un puro Humphrey Bogart! Peccato che invece il libro sia solo uno zibaldone di fatti e luoghi comuni del crimine, mescolati e rimessi insieme, forse anche un po’ troppi creando l’effetto “arrosto bruciato”. Comunque, la serie è finita, ed ora si leggerà altro.
Non ci si sorprenda delle limitate letture del mese di novembre, passato per la maggior parte in un bello ed impegnativo viaggio in Botswana. Sottolineo solo la bellezza dell’ultimo libro di Baumann, anche se non tra i suoi migliori, e la poca leggibilità della franco-marocchina Pancol.
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Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Zygmunt Baumann
L’ultima lezione
Laterza
9
4
2
Ernesto Sabato
Il tunnel
Repubblica Duemila
9,90
2
3
Sandor Marai
L’eredità di Eszter
Repubblica Duemila
9,90
3
4
Alexander McCall Smith
The n°.1 Ladies’ Detecive Agency
Abacus
13
3
5
Danila Comastri Montanari
Dura Lex
Mondadori
12
3
6
Katherine Pancol
Gli occhi gialli dei coccodrilli
Bompiani
12
1
7
Danila Comastri Montanari
Pallida Mors
Mondadori
12
2
8
Danila Comastri Montanari
Saxa Rubra
Mondadori
12
3

Come si diceva, questa settimana si parte. L’India lunga è saltata per problemi dei viaggiatori, la Dancalia non si è concretizzata, che, visto che ero pronto per l’India vengo spedito (con mio sommo piacere) in Tamil Nadu. L’avevo detto che questo febbraio poteva essere interessante.