venerdì 29 giugno 2012

Storie - 29 giugno 2012

Storie di uomini, di donne, intrecci, scritture mediterranee, scritture anglosassoni, scritture messicane. In questa festa di fine giugno (anche se festa solo per noi romani) ci dedichiamo alle storie, di quelle narrate, partecipate, belle o brutte non so, ma con qualche cosa, un accenno, un sorriso, una frase, che me li fanno vicini, anche se non proprio piacevoli. Infatti, mi aspettavo di più da Oz, che in genere mi coinvolge di più, così come mi aspettavo di più da Mastretta, che in genere mi lasciava belle immagini femminili di rabbia, mi aspettavo di più da McCarthy, che in genere è più asciutto, mi aspettavo di più da Coe, che in genere è più ironico. Ma tante frasi sono rimaste nella mia testa.
Amos Oz “Conoscere una donna” Feltrinelli euro 8,50 (in realtà, scontato 6,37 euro)
[A: 19/01/2012 – I: 20/02/2012 – T: 21/02/2012]
[titolo: השיא תעדל (To know a woman); lingua: ebraico; pagine: 253; anno: 1989]
Per quanto voglia bene e mi faccia sempre piacere leggere di Oz, questo libro mi ha lasciato alquanto perplesso. È strano, dolente, ed in realtà non è che succeda nulla. Tutto sta nell’atmosfera, nel porsi reciproco delle persone, nell’attesa di un disvelamento che, in realtà, non c’è, non arriva mai. È un libro, per me, difficile, tutto fatto di chiaroscuri, ben diverso da altri e più brucianti libri di Oz. Incanto, molto si gioca sul contrappasso. Perché, nonostante il titolo, tutto il libro racconta l’impossibilità di questa conoscenza. Yoel, il protagonista, è una gente dei servizi segreti israeliani, sempre in giro per il mondo. La morte, strana e accidentale, della moglie Ivria spalanca a Yoel un mondo inatteso. Scopre quindi di non sapere chi fosse in realtà la moglie. Ed anche tutte le persone a lui vicine lo pongono in dubbio. Tanto da mettere in gioco anche la domanda su chi sia lui stesso. E mentre da agente erano i suoi occhi che lo guidavano. Attenti, capaci di cogliere sfumature negli estranei che lo circondano. Ora deve ricorrere ad altri sensi. In primis, la memoria. E quindi, tutto il romanzo è percorso da flashback, che fanno emergere bolle di passato. Ognuna studiata, percorsa e ripercorsa in attesa di un’illuminazione. Si dimette da spia, va a vivere in un villino con la figlia (colpita da una strana forma di epilessia) e la madre. Conosce strani vicini canadesi. Fa amicizia con l’agente immobiliare che gli ha venduto casa. Indaga il quotidiano, percorre il vuoto intorno a lui, tra le tisane mute della figlia, le uscite in barca, la cura del giardino, le notti con Annmary. E ripensa all’altalena del suo amore con Ivria. I silenzi. Le assenze. Gli anni di appostamenti e di interrogatori si rivelano inutili a capire l’essenza della donna che ha scelto come sposa ed è il vuoto generato dalla scomparsa a porre l’accento sulla distanza incolmabile verso colei che avrebbe invece dovuto essergli più prossima di chiunque altro. Amos Oz sembra schernirlo col suo curriculum da spia, quasi a sottolineare che conoscere intimamente sia una missione più ardua che operare in qualità agente dei servizi segreti israeliani in lungo e in largo per cinque continenti, tra nomi in codice, trattative riservate e attentati da sventare. Mi piace il dubbio che sempre pone Oz verso l’universo femminile: come d’altronde essere certi di poterlo penetrare, noi, maschi ed altri da voi, donne? Donne inaccessibili, misteriose, che Yoel, con tutta la sua autoanalisi non riuscirà a scalfire. E scivoliamo lunga la sua lunga autoanalisi, al fine senza un vero approdo. Soltanto con la consapevolezza che, una volta tanto, bisogna anche ricominciare dal se. E questo (sembra, credo, mi auguro) è quello che farà Yoel dopo che avremmo chiuso l’ultima pagina e lo avremmo lasciato andare a curare il suo giardino. Ho faticato in lettura, e non ne sono uscito completamente vincente. Vedremo altro, del simpatico toro del kibbutz, sperando che prima o poi si possa fregiare del Nobel, che secondo me merita.
“In un racconto breve di Cechov o in un romanzo di Balzac c’erano … più misteri che nelle storie poliziesche o di spionaggio.” (39)
“Tu sei una persona molto intelligente … e anche perbene. … Però ti mancano tre cose serie: uno, non hai passione. Due, non hai gioia. Tre, non hai pietà.” (161)
Angeles Mastretta “Donne dagli occhi grandi” Giunti euro 5,90
[A: 29/07/2011 – I: 31/03/2012 – T: 31/03/2012]
[tit. or.: Mujeres de ojos grandes; ling. or.: spagnolo; pagine: 197; anno 1990]
Ho sempre avuto un moto d’affezione per l’ottima messicana che scrisse un libro tanti anni fa, di cui mi innamorai (e chi non lo ha letto, vada di corsa a comperare « Strappami la vita »). Mi aspettavo qualcosa di simile, dato anche il bel titolo, e non solo, anche la bella confezione che riporta in copertina una foto giovanile di Julia Roberts (che come molti sanno, a me sta molto simpatica). Invece, altro. Altro, perché non è un romanzo, ma sono brevi bozzetti di donne, la cui caratteristica principale è di vivere a Puebla, non lontano dalla capitale (130 km), ma non nella capitale. E le cui caratteristiche secondarie sono di essere tutte chiamate zie (vezzo spagnoleggiante o dovuto all’influenza del [don] Giovanni bolognese?) e di avere sempre qualche particolarità. Un’idea, un modo di essere, una maniera di affrontare i rapporti con le altre persone. Mastretta, in poco meno di 200 pagine ci presenta poco più di una cinquantina di donne. Intanto, torniamo su Puebla, che è la più spagnola e la meno india delle città messicane (con un bellissimo centro storico patrimonio Unesco, compresa l’alta cattedrale). Ed è forse per questo che Mastretta riesce a far muovere le sue donne più liberamente che altrove. Le donne che (come da uno dei brevi racconti) non nascono (solo) dalla sua fantasia, ma fanno parte della sua costellazione familiare. Pare che l’idea le sia venuta durante la malattia di sua figlia piccola. Per distrarla, comincia a narrare le storie delle donne “Mastretta” in modo che non se ne perda il ricordo. Da lì a farlo diventare una galleria di personaggi da presentare al mondo, il passo è stato breve. Attenta come al solito alla donna ed al suo ruolo, che non può, non deve, non sarà mai di secondo piano (come vorrebbero machi latini e sudamericani). Donna che rivendica il diritto di pensare. Di essere intelligente anche quando si innamora come un’idiota. Che fugge con l’amante. Che rimane con il marito, ma si tiene l’amante. Che per un’idea d’amore è disposta a sacrificare tutto. Che alleva i figli della sorella morta. Che fugge a Parigi per ritrovare l’amore ed una volta trovatola si accorge che era l’idea quella che cercava. E l’idea è sempre distante dalla realtà. Che coltiva l’amicizia e la solidarietà tra donne, anche quando sembra impossibile. Anche quando serve a far star meglio il proprio uomo. Ed allora ecco che ci scorre davanti la galleria delle zie: zia Charo e i suoi problemi con il prete, zia Eugenia che per far felice il suo uomo lo divide con Georgina, zia Natalia che mangia le nespole con il cugino, zia Fatima, zia Pilar, zia Jacinta, e via con tutte le altre. Non ve le dico tutte, anche se ne avrei voglia. Più che per elencarle che per narrarle. Il tratto poi che più mi piace della nostra messicana nata un 9 di ottobre (sempre bilance, eh!) è la sua totale assenza di giudizi. Non giudica, non pontifica. Descrive le donne passate e presenti della sua costellazione familiare. I loro difetti, i loro pregi, le loro manie. Così come si descrive un quadro. Ma anche un quadro non va giudicato. E se lo descrivo bene, lo rendo così che sarai tu che potrai decidere di giudicarlo. Oppure di guardarlo perché è bello e conservarlo nel ricordo. Alla fine, non sono soddisfatto completamente da questo libro, anche se ne parlo a lungo e bene, che idee ne ha messe tante sopra il fuoco. Ma sono piccole pennellate sulla tela. Ed io avevo bisogno di un affresco corale, di un murales di Diego Rivera, anche se queste miniture di Frida Khalo hanno sempre il loro interesse e piacere. E dopo questa citazione colta, vi lascio decidere se leggere queste favole. Anche se non tutte riuscite, io le leggerei.
“Non rovinare il presente lamentandoti per il passato o preoccupandoti per il futuro.” (43)
“Nessuno può uccidere la parte di sé che ha fatto vivere negli altri.” (88)
“La zia Daniela s’innamorò come s’innamorano sempre le donne intelligenti: come un’idiota.” (175)
“Gli assenti si sbagliano sempre.” (181)
Cormac McCarthy “Suttree” Einaudi euro 15 (in realtà, scontato 11,25 euro)
[A: 02/06/2011 – I: 22/04/2012 – T: 02/05/2012]
[titolo: Suttree; lingua: inglese; pagine: 560; anno: 1979]

Sono d’accordo anche questa volta con Baricco, sulla potenza della scrittura del quasi ottantenne McCarthy, tuttavia qui ho avuto molta difficoltà a portare a termine questa fatica di trenta anni fa. E non perché la scrittura sia datata, ma per quegli inserimenti, tra flusso di coscienza e descrizionismo aulico, che non sono presenti nelle altre sue opere. Certo, il suo modo di scrivere rimane peculiare, e può anche non piacere. Niente dialoghi espressi, ma comunque evidenziati. Nessuna concessione all’uso del presente narrativo, della terza persona, dell’autore onnisciente. Sempre un grande rimescolio. E tuttavia, pagina dopo pagina, qui come altrove, esce fuori la storia. E con essa un dipinto, un brano d’America che ci viene incontro. Siamo ancora negli anni Cinquanta, come in altri suoi romanzi. E siamo sempre nell’America profonda. Qui, siamo a Knoxville, Tennessee, dove McCarthy allestisce una sua balzacchiana commedia umana, intorno alla figura di Cornelius Bud Suttree. Uno spostato, come molti personaggi dell’autore. Uno che vive ai margini, che cerca di guadagnare dei soldi solo per campare alla giornata. Magari per ubriacarsi. E, scandalo, scandalo, magari bere insieme a dei negri. C’è di tutto (ed in fondo sono quasi 600 pagine) in questo condensato d’abisso americano. C’è appunto Suttree, con passaggio in prigione per qualche ubriacatura molesta. Che ora vive di piccola pesca e di vendita di pesci gatto. Ma l’inverno non si pesca sul fiume, e Knoxville si arriva a 15 gradi sottozero. Come fare a sopravvivere? Lui un po’ soffre il freddo, un po’ cerca fortuna altrove, ma poi torna, un po’ sembra trovare un amore (ma quanti anni ha? In fondo è imprecisata l’età, anche se il degrado lo mina nel fisico, e probabilmente finirà prima del previsto). Ma niente dura nelle sue mani. Né l’amore, né il pesce, né il cappotto nuovo. Ed alla fine ricomincerà a cercare di arrivare all’indomani in qualche maniera. E tutto intorno a lui, i comprimari della commedia. Primo fra tutti lo stralunato Gene, che si ritrova suo compagno di detenzione (era stato arrestato per aver sodomizzato un’anguria). Sempre pieno di idee bislacche per far fortuna. E sempre idee che lo portano un passo più vicino alla catastrofe. Dove, infatti, finirà, tornando in carcere, dopo aver cercato di rubare i soldi ai telefoni pubblici (un reato gravissimo per i puritani americani). E poi il cenciaiolo che non vuole invecchiare. L’indiano che mangia le tartarughe. I neri BigJohn e OceanFrog che sono più spesso ubriachi che sobri. La maga – fattucchiera che legge il futuro e prepara improbabili amuleti contro o per tutto. I commercianti della città, che quando non sono anche loro sul filo della birra, a volte riescono ad essere compassionevoli e magari fanno anche credito. Le puttane, piccole o grandi, che circolano per la città e che presto cercano (se ci riescono) di fuggirne. La polizia, sempre dura e cattiva, così come duri e cattivi sono i secondini delle varie carceri. E Ab Jones, un duro che vedendo avvicinarsi il declino, decide di sfidare i poliziotti, magari per esserne ucciso ed uscire così di scena. E il truffatore che convince Suttree ad imbarcarsi in un’improbabile ricerca di perle di fiume, sottraendogli un po’ di denaro, per poi pentirsene alla morte della moglie e restituirglielo. E tanti, tanti altri personaggi. Così come personaggi sono il fiume che scorre lente con le sue barche strane, le montagne intorno, le grotte della città, le strade polverose. Quei paesaggi che fanno tornare in mente tante immagini di film americani: le strade percorse con la moto da Marlon Brando, le desolate vallate dell’Eden con James Dean, il tardo west che uscirà dalla pellicola di Wenders. Insomma un libro forte, che ci restituisce con vigore l’immagine di questa America che magari solo ora riusciamo a vedere. Che l’America non è solo (o non è per nulla) le grandi città, New York, San Francisco, Los Angeles o Boston, ma è Knoxville, è Flagstaff in Arizona, è Owensboro nel Kentucky o Cedar City nello Utah. Lì dove le vicende altre, anche quelle della nostra civiltà occidentale, bella ed europea, non arrivano. Lì che si vive e si muore per una bevuta di whisky. Detto quindi il bene possibile del libro (pur con i limiti miei di avvicinamento ad alcuni brani come detto sopra) passo a lanciare il solito grido di dolore contro curatori ed estensori. Perché la quarta di copertina lo definisce “esilarante”? Che ci sarà da ridere in questa triste e sconsolata vita dell’America profonda? Rimango sempre con il dubbio se chi ha scritto le note sia andato oltre pagina 50. Peccato (per lui).
“Avessi mai conosciuto un uomo che ha tutto e che non si dimentica da dove veniva prima. … Che pensa che quando sarà arrivato andrà tutto alla grande. Ma non si arriva mai. Non importa chi siamo. Una mattina ti guardi e sei vecchio.” (243)
“I giorni di un vecchio sono ore.” (307)
“Lo shopping per uomo. Lo trovo sexy.” (474)
“Lei gli si era inginocchiata accanto e gli mordicchiava l’orecchio. Il seno morbido contro il suo petto. Allora perché questo senso di solitudine?” (483)
Jonathan Coe “Circolo chiuso” Feltrinelli euro 8,50
[A: 17/05/2011 – I: 04/05/2012 – T: 08/05/2012]
[titolo: The Closed Circle; lingua: inglese; pagine: 403; anno: 2004]
La banda dei Brocchi – venti anni dopo. Un po’ come il Visconte di Bragelonne in salsa londinese. Troviamo i protagonisti cresciuti, ognuno magari sviluppando lati della personalità. Comprimari che vengono in primo piano. Protagonisti che hanno ruoli marginali, se non quasi scomparsi. Un’operazione che si regge abbastanza se ci si ricorda del primo libro (e che viene felicemente riassunto in appendice). Un po’ meno come libro in sé. Tuttavia preferisco questa scrittura di Coe ad altre sue prove (tipo “Donna per caso”) perché mi sembra sia più in grado di reggere la dimensione corale del racconto. Rinverdendo i fasti iniziali di quella “Famiglia Winshaw” che rimane per me uno dei suoi libri migliori. Certo, a volte si fissa su questo o quell’aspetto che non sempre ci fanno partecipi, dilungandosi in esegesi tutte inglesi su città emarginate (Birmingham), crisi economica (la vendita della Rover da parte della BMW), sedute del Parlamento ed altre digressioni (quelle che fanno un po’ strabordare le pagine). Ma gestisce meglio le varie personalità. Spiace forse il tentativo finale di riconciliare tutto e di dare a tutto una spiegazione. Togliendo tutti i (possibili) misteri l’efficacia complessiva ne risente sicuramente. Ritroviamo però i vari capisaldi dei brocchi. I fratelli Trotter, ancora ognuno a seguire la propria strada. L’insicuro Benjamin che da vent’anni sta cercando di scrivere il suo meraviglioso libro multimediale, che non riesce ad uscire dalla sua dimensione giovanile, non riesce a crescere, non riesce a decidersi. Tanto che viene (e giustamente) lasciato dalla moglie. Tanto che la ragazza di cui si invaghisce finisce tra le braccia del fratello (ed è meglio così, come scopriremo nel finale). E l’altrettanto smidollato Paul, che ha ogni tanto dei soprassalti di intelligenza, immersi in mesi se non anni di ignavia, di difficoltà di esprimersi, anche se viene per ben due volte eletto in Parlamento. Con la sua totale e proverbiale mancanza di umorismo. Il giornalista Doug che trova la felicità nella sua famiglia allargata con Frankie ed i suoi quattro figli (due di lui, due di lei), che passa dall’altare del giornalismo politico alla polvere del supplemento letterario. Ma che avrà la forza di continuare a lottare e rimettersi in gioco. L’amica Claire, alla ricerca della sorella scomparsa venticinque anni prima, ed alla ricerca di una sua dimensione, dopo un divorzio ed una fuga in Italia per amore di un uomo sposato. Claire che apre e chiude il libro, consentendo a Coe di aprire e chiudere tutte le parentesi. La utilizza un po’ come alter ego dello scrittore, e dalla sua bocca, alla fine, sapremo tutti i retroscena di questa storia (ma anche di quelle in sospeso dei Brocchi). E poi le storie di Paul, di Steve, di Emily, di Cicely, e via elencando tutti, protagonisti e comprimari. In una pittura lunga cinque anni della storia, inglese ma non solo. Dal capodanno del nuovo secolo e dalle sue promesse, alle Torri gemelle e la lotta al terrore. Dalle tormentate decisioni sull’intervento in Iraq al conseguente tracollo di Tony Blair. Passando per trasmissioni alle tv private, grandi feste in costosi ristoranti, visioni londinesi della grande ruota, immagini di brughiera. Certo, viene molto scoramento sulla caduta e la perdita delle illusioni, su come ci si ritrovi a decenni di distanza ad andare avanti, quasi senza fare un bilancio di quello che stai facendo. C’è molta amarezza, in me che leggo queste righe, che nessuno si fermi a pensare a quello che poteva e non è stato. Ma alla fine, ognuno tira la sua carretta, raggiunge quello spicchio di paradiso che c’è concesso durante la nostra vita. Ed allora, con il mio sano nonché inguaribile ottimismo mi dico che forse è bene così. Forse non vale la pena tanto fermarsi a compiangere. Ma accettare quello che si è fatto, magari con qualche rimorso, ma senza nessun rimpianto. Che comunque questa è la nostra vita, e tanto vale viverla e prenderne e gustarne tutti i lati positivi. Che vi assicuro, ci sono.
“Ho imparato molto dai miei errori, e sono certo che potrei ripeterli alla perfezione.” (15)
“È assolutamente affidabile … ha reso il divorzio così poco traumatico … se mai vuoi divorziare da qualcuno … Philip è l’uomo giusto.” (19)
“Se sei a tuo agio con te stesso – nella tua testa – allora ti senti a casa dappertutto.” (88)
“C’erano dei sentimenti che non si indebolivano mai, nonostante il passare degli anni, nonostante tutte le amicizie, i matrimoni e le relazioni che andavano e venivano nel frattempo.” (109)
“È un appassionato lettore … Ha sempre il naso in un libro. Sta perdendo la vista, ma continua a leggere … qualsiasi cosa gli capiti a tiro.” (191)
“È un disastro col fai da te. Riesce a distinguere César Franck da Gabriel Fauré dopo due accordi, ma non riuscirebbe a inchiodare un attaccapanni nemmeno se ne andasse della sua vita.” (215)
“Un uomo deve lavorare nella consapevolezza dei propri limiti.” (254)
Siamo a metà di un anno bisestile. Facciamo i dovuti omaggi a tutti i Pietri ed i Paoli di mia conoscenza. Abbiamo anche raggiunto due ulteriori risultati: più di 100 libri letti in 6 mesi (grazie anche ai tragitti metropolitani) ed un pareggio delle informazioni tra questa mail volante ed il sito che riporta dall’inizio tutte le trame scritte (per chi le avesse perse ricordo si trova su giogio53.blogspot.it  - Trame e … voilà). Adesso vado che Sara torna da Cuba e la vado a festeggiare.

giovedì 28 giugno 2012

Amore ai nostri tempi/2 - 24 giugno 2012

E con questa chiudiamo anche l’ultima uscita delle iniziative editoriali di Repubblica. Una delle più infelici. Su 10 titoli forse se ne salvano un paio, e per poco. Poco c’è delle idee del titolo della collana (amore ai nostri tempi??). Molto si dibatte su Internet e sul suo utilizzo, ma in modo ripetitivo, a volte un po’ pedante. A fine aprile parlai dei primi cinque titoli, scritti da donne. Ora abbiamo gli altri cinque scritti da uomini. Tre stranieri, tra cui il compianto da poco scomparso messicano che altra fortuna meritava. L’irlandese di cui si dovrà leggere altro che qui non risulta. Ben Jelloun che mi rimane sempre ostico, e qui non si smentisce. Poi c’è Aldo Nove che prometteva bene, per poi naufragare. E tutto sommato, anche se con molte riserve, il curatore della collana, con l’unico titolo passabile dei cinque.
Carlos Fuentes “Vlad” Repubblica Amore euro 3,90 
[in: 04/11/2011 – out: 28/11/2011]
[tit. or.: Vlad; ling. or.: spagnolo; anno 2004]
Con questa lettura inauguriamo la collana di Repubblica dedicata all’amore, intitolata, per l’appunto, “L’amore ai nostri tempi”. Non è il primo volume, ma il volume #8 (si sa che io leggo molto casualmente). E spero che i lettori della collana l’abbiano abbandonata prima di me. Perché se questo è un esempio del contenuto che l’editor di Repubblica ha voluto dare alla collana, direi che sarebbe ora di mandare il suddetto editor a fare altri lavori. Innanzi tutto, non è scritto che nella collana si pubblichino inediti, anche se così sembra dal lancio iniziale. E lo scritto di Fuentes non è certo un inedito, uscito, infatti, in una raccolta di novelle nel 2004 dal titolo complessivo di “Inquieta compagnia” (traduzione mia). Non è certo, tanto meno, un lavoro di argomento inedito e/o insolito. Ora già dal titolo, se uno legge qualcosa che si chiama Vlad quanto meno pensa a problemi vampireschi. Se poi dopo poche pagine, esce fuori che parte preponderante della novella è occupata da tal Vlad Radu, rumeno. I sospetti salgono. Se il tale Vlad, poi, vuole una casa a Città del Messico senza finestre, come diceva il buon Nero Wolfe, due sospetti sono un indizio, tre una certezza. Allora ti aspetti che ci sia qualcosa di nuovo, qualcosa di “spaesante”. D’altronde l’autore è uno dei più rinomati del Sudamerica. Benché nato a Panama (tra l’altro un 11 novembre) è cittadino messicano (il padre era diplomatico). E noto scrittore, ed influente (amico di Clinton e Llorenç Fluxà, dove tutti sanno chi è il primo, mentre pochi sanno che il secondo è il multimilionario padrone del marchio Camper). Riceve numerosi e vari premi internazionali. Insomma, sembrano tutte premesse perché ad un certo punto, la storia del conte Vlad si muti in qualcosa di nuovo. Ed invece corre sui binari banali di un horror alla Bela Lugosi, e finisce come ti aspetti che finisca. Il narratore spaesato, la moglie attratta dall’immortalità e poco altro. Ci vuole del bello e del coraggio, per sostenere qualche idea moderna dell’amore, come si rivendica nel risvolto di copertina. Ma a parte la novità di vedere un vampiro tra le strade asfissianti di traffico della megalopoli messicana, sembra esserci molta più innovazione nelle figure dei vampiri-rosa alla “Breaking Dawn” e simili melense propaggini del bel testo di Stoker. Certo, c’è l’amore tra Jules, il narratore franco-messicano, e la moglie Asunción. Amore fisico, ben raccontato nelle torride notti messicane. Così come c’è amore verso la piccola Magdalena, figlia di dieci anni della coppia di successo, lui avvocato lei immobiliarista. Ma le poco più di cento pagine si trascinano stancamente verso uno stanco e scontato finale. Spero che Fuentes abbia scritto di meglio. E spero che la collana di Repubblica consenta altre e meno banali letture.
Roddy Doyle “Matto weekend” Repubblica Amore euro 3,90 
[A: 23/09/2011 – I: 25/01/2012 – T: 25/01/2012]
[tit. or.: Mad Weekend; ling. or.: inglese; pagine: 88; anno 2006]
Qualche considerazione, in positivo ed in negativo. Libro #2 della collana della collana di Repubblica dedicata all’amore ai nostri tempi e come detto per le altre uscite, una collana che sembrava promettente e si rivela piena di magagnette. Diciamo intanto che è un racconto piuttosto che un romanzo breve (stampato largo per occupare più pagine) anche perché venne scritto per una collana che pubblicava racconti lunghi di autori irlandesi, con caratteristiche fisse (si parla di Irlanda, in qualche modo, capitoli brevi, frasi corte e lingua poco slang). E questi vincoli si sentono, infatti sembra molto costruito, quasi un racconto a tema. E quindi un po’ forzato. D’altra parte non conoscevo la prosa di Doyle se non nella trasposizione cinematografica del suo “Commitments”, che ricordo come uno dei migliori film di quel periodo. Non ho letto “Paddy Clarke ah ah” o “La donna che sbatteva…”. Quindi non so dire se questo modo tagliente di scrivere sia solo per la tipologia sopra descritta o sia una costante dello scrittore. In sé, il racconto è banalino. Tre ragazzi di Dublino, amici per la pelle, decidono di andare a vedere una partita del Liverpool, loro squadra del cuore. E lì, nella città dei Beatles, si perdono. Due, Dave e Pat, solo metaforicamente, prima dietro a due ragazze, poi in una deprimente partita, ed in altre avventure e pensieri di contorno. Uno, Ben, realmente sparisce. Il risvolto di copertina insinua che a questo punto parte una riflessione sull’amicizia e sul senso della vita. A me sembra che comincia una depressione totale dei ragazzi, dei ventenni di Doyle, che non riescono, o meglio non vogliono uscire dalla crisi che li ha portati a quel punto. Poi scopriremo che cosa è successo a Ben, e devo dire la soluzione adottata dallo scrittore anche qui mi lascia perplesso. Come le sue conseguenze. Insomma, un racconto che si regge solo quando parla di pub, di calcio, di ragazze e di bevute. Poi quando cerca di tirare le fila non carbura più. Sembra al più un racconto apologetico per ragazzi delle medie, a cui cerca di dare qualche miraggio all’orizzonte, una meta a cui tendere (fate i bravi, bevete con moderazione, non scopate, o scopate con moderazione, che c’è una sorta di paradiso mussulmano che vi attende). Insomma, il racconto non mi è piaciuto, non mi sono divertito, e rimango perplesso sull’operazione di Repubblica. Spero soltanto che le altre prove di Doyle siano più in linea con la sua fama, e non con questa.
Tahar Ben Jelloun “Incontro crudele” Repubblica Amore euro 3,90 
[A: 21/10/2011 – I: 15/04/2012 – T: 15/04/2012]
[titolo: Cruelle rencontre. Un pigeon à Amsterdam. L’ètreint vide; lingua: francese; pagine: 108; anno: 2011]
Soliti piccoli elementi che continuano a farmi innervosire verso i curatori delle collane edite da Repubblica. Intanto abbiamo 3 racconti e non un romanzo breve. E poi perché chiamarlo con il primo titolo e non con un elemento comune? E gli errori di stampa, come a pag.11 dove si legge: “grazie alle affermazioni di una veggente cui si aggiungevamo molti sospetti da parte sua”. E se qualcuno rileggesse? O ci fidiamo solo delle correzioni automatiche? Nello specifico poi mi scontro ancora una volta (e non è la prima) con la scrittura di Ben Jelloun, autore che per altro ammiro (impegno sociale, ed altro), ma che tutte le volte mi riesce un po’ ostico. Speravo che fosse migliore in uno scritto veloce, ma siamo ancora alle solite. Certo scorre facile (tant’è che l’ho letto in una serata), ma mi lascia distante. Certo, e di nuovo, le tematiche potrebbero (dovrebbero) essere interessanti. Una vista della modernità con gli occhi di un arabo attento alla società civile. Ma se da un lato il primo racconto ricalca solchi ormai abusati, proprio in questa stessa collana (solitudine – internet – chat – e via digitando), dall’altro si affrontano tematiche come la libertà femminile (secondo racconto) o l’omosessualità (terzo), che non sono (spero) solo dell’amore ai nostri giorni, ma sono tematiche più durature. Il tentativo, secondo i curatori, sarebbe quello di vedere i rapporti tra i sessi alla luce dei giovani che escono dalla primavera araba. Frase ad effetto, da marketing. E se è pur vero che Ben Jelloun ci da una visione dall’interno, aprendoci qualche spiraglio su mondi a volte poco noti quando non distorti, qual è il rapporto con la primavera di cui sopra? Il filo conduttore, per me, è più sul versante della solitudine e, ben collegato a questo, della difficoltà di comunicazione. Perché è sola Fathida, bella trentenne in cerca di lavoro, che ogni tanto va ad un Internet point per inviare CV ad aziende e chattare al buio. Con alle spalle una famiglia in crisi, padre e madre che non si parlano. Si rifugia anche in qualche libro, ha qualche avventura di passaggio. Ma poi torna lì, alla solitudine di Internet, fino a convincersi di accettare l’incontro con l’ignoto della chat. Ci aspettiamo cose cruenti (se ne sentono tante) ma sarà solo crudele e non vi dico perché. Altrettanto sola è la sposina dell’ultimo racconto, che si ritrova per convenzione sposata ad un poco noto maschio, che già dalle prime battute capiamo essere gay. E qui sopraggiunge l’incomunicabilità. Capisco che il mondo arabo sia chiuso, ma in tutto il racconto lei non riesce a parlare con Mahdi, a chiedere. Si strugge e basta. E poi, il meno riuscito, quello del pollo, dove seguiamo le vicissitudini di un personaggio pubblico, forse scrittore, che si invaghisce di giovani donne. E soprattutto di lei, bella Biba disinibita. Ma lei vuole forse giocare. O forse vuole altro. Lui organizza un week-end ad Amsterdam con lei, che però non cede alle sue avance. E quando dopo mesi al ritorno, è lei a fare delle avance, è lui che si sottrae. Ed a che serve tutto ciò? La storia è debole, i personaggi stonano. Non è neanche ironica. Insomma, due racconti modesti, ed uno non riuscito. Ben poco per uno scrittore dalla fama di Ben Jelloun. E molto poco per questa forse inutile collana.
“La tradizione marocchina vuole che nelle parole non emergano sentimenti. Questione di pudore.” (9)
Aldo Nove “Elegia” Repubblica Amore euro 3,90 
[A: 18/11/2011 – I: 03/05/2012 – T: 03/05/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 125; anno: 2011]
Riprendo la mia troppo poco vituperata collana sull’amore fatta uscire da Repubblica lo scorso autunno. Con un libretto di facile lettura, divorato, infatti, tra un’andata ed un ritorno in metropolitana verso il nuovo lavoro. Ed anche portatrice di un duplice sentimento, cullato dal ritmo delle fermate. Di condivisione ed esaltazione all’andata, che mi sembrava finalmente un romanzetto con delle idee interessanti ed un bel modo di scrittura. Di depressione al ritorno, perché le idee della prima parte si sono esaurite, si deve parlare di internet e chat ed altre amenità. E si fa una brutta copia del racconto da poco letto e tramato di Ben Jelloun. I due fanno da contraltare alla scrittura femminile in coppia della Mastrocola e della Maraini, dove anche lì sembrano esserci idee analoghe e sviluppi simili, se non simmetrici. Dicevo della prima parte che mi stava portando verso alti punteggi di gradimento. L’autore eponimo degli scrittori cannibali si imbarca nella scrittura di lettere ad un tal Marco, amico di gioventù che decise un gesto estremo nel lontano ’84. Ed allora quale miglior modo di sfogarsi che trovare una persona cui spiegare tutto, cui dover far capire come, da quel mondo incasinato ma tutto sommato lineare degli anni Ottanta si sia arrivati all’attuale incasinato e frastagliato mondo del duemila? Spiegare a chi viveva l’inizio di certi moti quello che sarebbe successo di lì a poco. La caduta del Muro, e poi del comunismo, che porta a venti di democrazia e stragi in Jugoslavia. L’ascesa di Craxi che poi porta alla caduta della prima Repubblica, ed all’ascesa di SB e della sua sgangherata visione della vita, che tanti guasti ancora ci sta portando. Fino ai problemi di comunicazione. Con il passaggio dai telefoni ai cellulari (e belle sono le pagine sullo stare insieme stando da soli, sul far finta di telefonare per non sentirsi emarginati, e via cincischiando). Con il passaggio dagli elaboratori, ai personal computer, e quindi con l’avvento dei social network. Anche qui, non tanto facile si rivela il passaggio per spiegare l’amicizia su Facebook a qualcuno che di amicizia sentiva parlare sui banchi di scuola. Ecco, tutta questa parte è interessante ed intrigante. Perché è una bella trovata cercare di spiegare l’oggi ad un morto. Certo, la tirata su SB, pur giusta, risulta lenta e poco incisiva. Altri punti sono meglio approfonditi, specialmente il senso della vita che scorre e fugge. Poi, quasi ad obbedire al richiamo dell’editor, si passa ad addentrarsi sui social network, sulle chat, e simili “modernità”. Qui, Nove si impantana, si lascia guidare dai soliti luoghi comuni tra l’uso di chat con nomi di finzione e foto relative, altrettanto finte. È giusto, sono problemi, e spesso male affrontati. Ma qui, come in Ben Jelloun, ci si lascia prendere la mano dal colpetto ad effetto. Che ci aspettiamo da pagine e pagine, e ci lascia freddi. E se vogliamo anche un po’ spaesati: ma caro Aldo, non ti poteva venire in mente qualcosa di più innovativo? Così sembra proprio che tu abbia voluto chiudere la storia in qualche modo, tanto per riscuotere il compenso. Insomma, una seconda parte ed un finale che fanno precipitare il giudizio positivo della prima parte. Peccato. Come dispiace rimarcare la noncuranza dei lettori di bozze che lasciano l’aggettivo “solo” in una frase dove andava il verbo “sono”. Che sciatteria!
“È curioso … vedere la gente per strada che parla [con chi sta] lontano e nessuno che invece parli con chi gli sta vicino.” (57)
“Quello che si fa è quello che è.” (60)
“Sogniamo che gli altri ci vogliano per ciò che siamo.” (94)
Mario Fortunato “Il viaggio a Paros” Repubblica Amore euro 3,90 
[A: 17/10/2011 – I: 14/05/2012 – T: 14/05/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 121; anno: 2011]
Mario Fortunato mi sembra (anzi sono sicuro) riesca meglio in questo racconto lungo, piuttosto che nella sua opera di curatore della collana, dove, con questo, ho finalmente letto tutti e 10 i libretti usciti. Tanto per rovesciar tutti gli insegnamenti di scrittura, comincio quindi con il dire che le scelte fatte per questa collana che voleva portare esempi di amore ai nostri giorni, non mi sono sembrate all’altezza. Molte ripetizioni (Mastrocola e Maraini, Ben Jelloun e Nove), alcuni elementi forzati (Herta Muller su tutti, ma anche Fuentes seppur dispiaccia che sia in questi giorni morto). Solo due (e su dieci è un po’ poco) che ho letto con piacere. La Rasy, di cui ho parlato, e questo che ho appena finito. Che scorre veloce, giocando su tre registri narrativi in soggettiva, usando la ben collaudata tecnica di Kurosawa in Rashomon per scrivere una moderna versione di Jules e Jim. Seguiamo quindi la prima parte, la giovinezza, con Maurizio. La nascita dell’amicizia con la bella e scontrosa Mo e con il più colto Dav. La vita da orfano, la sregolatezza. Ma anche i sentimenti profondi, le intuizioni allegre. Come l’idea di fare tutti e tre un viaggio in Grecia, all’isola di Paros, dopo la maturità (mitica meta della nostra giovinezza, non contaminata da Mykonos e Santorini). E Mau si prende anche un amore profondo per Mo, con il beneplacito dell’amico Dav. Mo rimanendo incinta (ma non dirà mai di chi), Maurizio cade nel panico ed a seguito di vergogne che non riesce a sopportare (leggetelo) si uccide. Passiamo quindi alla soggettiva di Monica detta Mo. Che partorisce la bella Nina, che prova a vivere nella Calabria natia. Che emigra dai parenti americani, dove trova un buon compagno e mette al mondo un altro figlio, Matt. Che non rivela mai di chi sia figlia Nina. Che solo dopo molti anni comincia a rispondere alle mail di Dav. Il bel colpo di scrittura è che la terza parte viene in soggettiva non da Dav, ma dal giovane Matt. Che alla morte di Mo riceve in eredità la corrispondenza con l’italiano. Che decide di andare in Italia a vedere le sue radici. Che lo incontra e scopre che è gay. Che decide… beh, questo non ve lo dico. Comunque un bel racconto lungo, con buoni ritmi, con un intreccio decente e ben sostenuto dalla scrittura. Pur riecheggiando i temi sopra citati, ne esce fuori un racconto autonomo ed interessante. Per la caratterizzazione dei personaggi, dell’ambiente claustrofobico calabrese, per il tentativo di liberarsene andando nella mitica America e ritrovarsi nell’altrettanto ristretto Ohio. Per la leggerezza con cui si affrontano momenti tragici. Per la serietà con cui si sottolineano passaggi più leggeri. Tutto scorre. E scorre bene. Insomma, si capisce che mi è piaciuto. Direi per finire un bel racconto e … Fortunato (ah, ah, ah).
 “Con i genitori, la strategia migliore per ottenere ciò che si vuole è non dare nell’occhio. … Fagli credere che sei uno tranquillo e si fideranno ciecamente.” (12)
“Le verità del cuore non coincidono quasi mai con quanto si dice e forse anche per questo le parole che ci rivolgiamo sono tanto necessarie e così straordinariamente inutili.” (120)
Chiudiamo in questo giorno onomastico, mettendo qualche paletto per le prossime settimane, sperando che il lavoro non assorba troppo, invidiando i vacanzieri cubani e ipotizzando giornate più fresche

mercoledì 27 giugno 2012

Eurogiugno - 17 giugno 2012

Perché mese di europei (calcistici e monetari) e quindi diamo un’occhiata ai francesi, che è un po’ che non li guardiamo, con una punta di spagnolo, anche se parliamo di Sudamerica. Riprendiamo, in attesa dell’economica della Vargas, l’accademico Orsenna ed una nuova puntata della grammatica ragionata, un salto sui racconti di Schmitt (in attesa di Ulisse) ed un tentativo di apertura di orizzonti diversi con un libro “amoroso” ma che poi non è stato così come mi aspettavo. Il boliviano è un sentito omaggio al viaggio della scorsa estate in America Latina. In attesa di nuove partenze.
Erik Orsenna « La Révolte des accents » Livre de Poche euro 5,60
[A: 02/02/2012 – I: 02/02/2012 – T: 03/02/2012]
[titolo: originale; lingua: francese; pagine: 117; anno 2007]
Terzo episodio della saga grammaticale dell’Accademico di Francia Erik Orsenna (seduto sulla poltrona n° 17 che fu di Louis Pasteur e di Jacques-Yves Cousteau) dove il funambolo della grammatica mescola un po’ di cose per cercare di creare un cocktail più saporito della trama un po’ banalotta del precedente sul congiuntivo. Troviamo quindi la nostra eroina, la simpatica Jeanne (quella che cerca di capire cosa fosse l’amore nei romanzi precedenti) che qui è un po’ cresciuta (ma non sappiamo quanto, e viene tutto un po’ lasciato all’immaginazione, come giusto in una “favola”) scoprire durante un lavoro estivo come aiuto del guardiano del faro della nostra isola grammaticale, che, in seguito alla visita di una compagnia di attori, dall’isola sono sparite le spezie e dai discorsi degli isolani gli accenti. Nell’assemblea cittadina per capirne di più Orsenna ci da una simpatica lezione dell’uso e del significato dell’accentuazione nella lingua (l’uso dei segni diacritici, cioè quelli che servono a distinguere una lettera da un’altra dalla scrittura uguale ma dal suono differente seppur simile). E ci dà anche il primo dei due colpi di genio del racconto lungo: sono sparite cose che servono ad insaporire. Le spezie insaporiscono il cibo e gli accenti insaporiscono la costruzione delle frasi. I segni diacritici danno senso e profondità alle parole. Le modificano, fanno passare i verbi dal presente al passato. E via accentuando. Certo stiamo parlando della lingua francese, dove gli accenti di base (acuto, grave e circonflesso) hanno una loro funzione insostituibile. Non sarebbe così facile trattarne in italiano dove, ad esempio, il circonflesso praticamente è inesistente (anche se si dovrebbe utilizzare nel plurale delle parole in –io come condominî per non confonderlo con condomini). E gli accenti grave ed acuto sono quasi solo in fine di parola. Ma, come direbbe la mia maestra di francese, “Revenons à nos moutons”, cioè torniamo all’argomento principale della nostra trama (e ricordate che voilà ha l’accento e voila delle nostre trame … no). Spariti spezie e accenti, la nostra intrepida Jeanne si prende, come al solito, l’incarico di risolvere il mistero. E dietro il suggerimento di una povera accentuazione slovena, la Kljukica (che non è altro che l’accento “v”, cioè il circonflesso rovesciato), rimasta sull’isola perché innamorata di un accento circonflesso, parte in quarta alla ricerca degli scomparsi che si dovrebbero trovare in una misteriosa valle indiana. Lì, avendo come Virgilio uno sconclusionato internauta che, dall’India, regola il traffico e le multe della città di Brest (primo accenno ad un sottotema del racconto, sull’uso e l’abuso della globalizzazione e della tecnologia), viene a conoscenza del mistero della valle misteriosa. E ci viene introdotto il secondo elemento suggestivo della fervida mente di Orsenna. La valle, in fatti, è anche piena di attori. Che anche loro (e ben lo sappiamo) danno colore e sapore alla nostra vita. Ed è divertente la narrazione del Dio stanco che decide di introdurre prima le spezie e poi gli attori nella quotidianità indiana. Qualche altra invenzione minore (che vi lascio scoprire), una bella citazione d’amore della Principessa di Clèves, ed una di una poesia di Pessoa. E poi, finalmente, si arriva alla valle incantata. Con tutti i segni diacritici del mondo. Gli usuali, i quasi esotici (la tilde, la cediglia, i due punti, i segni sopra e sotto la riga dell’arabo e dell’ebraico), quelli veramente diversi (l’hamza araba, che serve a dare un colpo di glottide prima della lettera che lo precede, il sapore forte e dolce dei greci, fino ai belli, discreti e misteriosi accenti tibetani, che non posso mostrarvi avendo bisogno di un diverso insieme di caratteri grafici, ma che sono ben disegnati nel libro). Qui il racconto lungo è un po’ irrisolto, che non sappiamo se gli accenti torneranno alla base, ma sappiamo perché se ne sono andati. L’uso smodato del “non accento” dovuto al diffondersi perverso di Internet e delle tastiere semplificate. Ci viene però lasciata una bella immagine: Jeanne si ricopre di accenti a mo’ di tatuaggi. Perché fanno i nostri segni per distinguere, anche per distinguere le persone normali d quelle innamorate. Così Jeanne saprà di essersi innamorata. Ma di chi? E l’amore trionferà come in tutte le saghe? Speriamo di scoprirlo prima o poi nel prossimo racconto dedicato alle virgole. Per ora, un nuovo plauso ad Orsenna, alla sua fantasia, ed alla realizzazione di questi libretti, pieni di disegni ed immagini grafiche che consentono di ritenere ben spesi i 5 euro del costo.
“Si tu avais voulu être comédienne, ce qui s’appelle vouloir, vraiment vouloir au lieu d’en rêvasser vaguement, tu le serais déjà.” [Se volevi fare l'attrice, ciò che si chiama volere, volere veramente, invece di sognare vagamente, lo saresti già] (26)
“Mais votre histoire … a une suite ? … Bien sur … Avez-vous déjà rencontré une histoire sans suite ? Toutes les fins d’histoire sont des fausses fins. Sitôt qu’on a les dos tourné, l’histoire repart.” [Ma ... la tua storia ha un seguito? … Sicuro ... Avete mai incontrato una storia senza seguito? Tutte le fini delle storie sono delle fini false. Non appena si girano le spalle, la storia riparte.] (69)
“- Ramenez-moi donc ceux qui regardent et qui voient. – Vous voulez parler des artistes ? … Il faut vous prévenir, majesté, … les artistes … souffrent d’une maladie grave : ils mentent. – Le silence ment bien plus que la mensonge.” [- Portatemi coloro che guardano e vedono. – Volete dire gli artisti? … Dobbiamo avvertirvi ... maestà ... gli artisti ... soffrono di una grave malattia: mentono. – Il silenzio mente molto più di una menzogna.] (73)
“Une histoire qu’on n’arrive pas à raconter ressemble à un amour qu’on n’ose pas s’avouer.” [Una storia che non si riesce a raccontare assomiglia ad un amore che non osiamo confessarci.] (116)
Eric-Emmanuel Schmitt « La Rêveuse d’Ostende » Livre de Poche euro 6,50
[A: 02/02/2012 – I: 04/02/2012 – T: 06/02/2012]
[titolo: originale; lingua: francese; pagine: 246; anno 2007]
Una nuova puntata anche degli scritti del drammaturgo – scrittore francese cui mi sono appassionato negli ultimi anni. Trovato a Bruxelles, tra una riunione e l’altra, ho cominciato a leggerlo in aeroporto avendo a) finito i libri italiani (pochi) che avevo portato e b) nell’attesa che prima o poi partisse un volo per Roma. Sapevo già che erano racconti e certo, nella mia nota diffidenza verso lo scritto breve, ero pronto ad essere molto critico. Alla fine il giudizio è però sulla via mediana. Due buoni testi e due meno, più una punta di penna di dieci pagine non eccelsa ma quasi bozza per altro scrivere. Mi è piaciuto il racconto del testo, che ha anche un respiro maggiore. Tra l’altro si svolge ad Ostenda (città natale di Magritte), ed avendolo letto in Belgio mi faceva sentire vicino. Vicino a quello strano mare del Nord, ed a quelle atmosfere di qualche decennio fa che ritrovai sulle coste olandesi. Pur tuttavia, non è quello il fulcro del romanzo. Il centro è la solitaria Emma, di cui, pagina dopo pagina, entriamo a penetrare il mistero. Lei ormai anziana si confida con lo scrittore venuto a curare le sue piaghe amorose. A lui sembra sognatrice, ma si appassiona alla trama della strana vita di questa ottuagenaria, che, pur paraplegica, racconta di una bellissima storia d’amore. Saltando dall’Africa al mare del Nord, dai palazzi principeschi alle stradine piene di salsedine. Vita che Emma si affanna a raccontare sentendosi alla fine della sua strada. Ma talmente improbabile, che nello scrittore si introduce potente il tarlo del dubbio. Sarà tutto vero? Saranno fantasie di una povera signora persa tra i suoi libri e il mare? Ovviamente non vi sciolgo l’enigma, ma passo all’altro bel racconto, il terzo. La storia di una guarigione. C’è un’infermiera che cura un bel fotografo ridotto maluccio da un incidente. Tra l’altro è diventato cieco (ritorna il tema di Piccoli crimini coniugali). La nostra infermiera si sente sempre fuori posto, grassa, sgraziata, colpevolizzata nell’aspetto fisico da una madre bella ed esigente. Ma il cieco ne sente il profumo, la immagina, la vive nel ricordo delle sue modelle bellissime (ed oche). E a poco a poco riesce a far uscire il cigno interiore del brutto anatroccolo. Sarà quindi il malato che farà guarire la persona supposta sana. Anche se… E non dico altro. I due che mi hanno convinto di meno sono un po’ più truculenti, e forse linearmente concepiti, ma non raggiungono punte di coinvolgimento. Una donna uccide il marito pensando che questi, dopo trenta anni di matrimonio, gli nasconda dei segreti cui lei non riesce a penetrare. Scoprendo alla fine che l’unico vero segreto era l’amore del marito nei suoi confronti. Nell’altro seguiamo le vicende di un professore di liceo che odia e non legge i romanzi, ma solo saggi e libri dotti. Solitario ed impaurito fa il solito viaggio estivo con la cugina adorata, che riesce a farlo appassionare ad un romanzo. Qui la trama si fa flebile, che troppo scontato è l’innamoramento per una trama d’azione del nostro. Che si immerge a tal punto nella lettura da confondere, come è facile prevedere, realtà e fantasia. La breve punta di penna si aggira intorno ad una strana signora che da quindici anni si presenta tutti i giorni alla banchina numero 3 della stazione di Zurigo con un mazzo di fiori in mano. Non c’è azione, non c’è reale rivelazione. Solo interrogativi che lo scrittore si pone sul perché, immaginando storie possibili. Ma quale sarà la realtà? La scrittura di Schmitt qui non è potente come altrove, ma è sicuramente maturata negli anni (questi racconti ne hanno solo cinque sulle spalle). E Schmitt riesce sempre, nelle pieghe dei suoi testi, a porci qualche domanda su di noi, sul nostro vivere, sui nostri sogni e sulla rispondenza tra sogno e realtà. I suoi personaggi positivi hanno solo bisogno di un piccolo aiuto per uscire dai pantani cui si vengono a trovare. E quando arriva (se arriva) possono finalmente veleggiare sugli altipiani della serenità. Beh, a me continua a piacere, e continuerò a cercare altre “sue” prove.
“Certaines femmes sont des trappes où l’on tombe. Parfois, de ces pièges, on ne veut plus sortir. ” [Alcune donne sono trappole in cui si cade. A volte da queste trappole, non vogliamo più uscire.] (9)
“Parfois des êtres constitués pour s’enflammer ne vivent pas la grande passion qui leur était destinée car l’un est trop jeune, l’autre trop âgé.” [A volte le persone fatte per innamorarsi non vivono la loro grande passione, perché uno/a è troppo giovane, l’altro/a troppo vecchio.](26)
“Lire et écrire, ça n’a aucun rapport. Est-ce que je vous demande, moi, si vous allez vous transformer en femme sous prétexte que vous aimez le femme ?” [Leggere e scrivere, non hanno alcun rapporto. Non le chiedo certo se lei si trasformerà in una donna solo perché ama le donne?](49)
“Je vais vous expliquer … pourquoi on ne doit jamais être jaloux. Parce que si vous créez une relation unique avec quelqu’un, elle ne se reproduira pas.” [Ti spiego ... perché non dobbiamo mai essere gelosi. Perché se si crea un rapporto unico con qualcuno, questo non si ripeterà mai.] (180)
Anna Gavalda « Je l’aimais » J’ai lu euro 4,80 (in realtà, scontato a 4,50 euro con FNAC BXL)
[A: 22/06/2011 – I: 18/02/2012 – T: 18/02/2012]
[titolo: originale; lingua: francese; pagine: 157; anno 2002]
Avevo sentito parlare di questa scrittrice, insegnante di francese, come una specie di Moccia d’oltralpe. Curioso, compro e leggo. Niente Moccia, per fortuna. Scrittura molto più robusta, anche se piana e senza intoppi. Ed alla fine più sul versante che da Sveva Casati va a Federica Bosco, inciampando in Chiara Gamberale (questo per dare riferimenti ai miei italici lettori). Ed in realtà, più che un romanzo, sembra essere la trasposizione di una piéce teatrale. In effetti, ci sono solo due personaggi, Chloé e suo suocero Pierre, che non fanno altro che parlare per tutte e 150 le pagine. Parlare all’inizio un po’ di tutto, per poi concentrarsi su due filoni di racconto. Uno che dà un po’ il filo al romanzo, l’ossatura, è lo spunto iniziale. Chloé è stata lasciata dal marito Adrien. Hanno 2 figlie. Chloé si è sacrificata in un lavoro poco soddisfacente per fare in modo che Adrien si laureasse ed intraprendesse una brillante carriera (ahi, quante storie simili ho sentito!). E poi Adrien incontra una ragazza giovane e brillante. E prende le sue decisioni. Chloé ne esce distrutta. E passa tutto il tempo, lì in campagna con il suocero, a piangere. Qui si innesta la figura di Pierre. Che vuole bene alla nuora. E vuole bene anche al figlio. E cerca le motivazioni, le ragioni. Trovandole solo nel raccontare, e questo è il secondo e robusto filone, la storia del suo innamoramento per tale Mathilde. Una storia che inizia, si svolge, ed avrà una sua fine, lasciando Pierre nella sua “comoda” situazione familiare, con la moglie Suzanne ed il figlio Adrien. Esce così la figura di questa persona che pur sposatasi con amore, non è mai riuscita a dimostrare affetto né per la moglie né per il figlio. Figlio che allora ha sempre cercato di fare tutto per trovare il modo di farsi amare dal padre. Facendo, come si dice, le scelte corrette. Ma questa scelte lo hanno portato al bivio, davanti al quale ha fatto la scelta che Pierre non ha avuto il coraggio di fare. Ha scelto il rischio. Pierre no. Anche se Mathilde aveva tutte le qualità complementari alle sue. Lo faceva stare bene. E si capisce quando si sta bene con una persona se si fanno cose anche senza parlare, e se ne esce contenti. Pierre si occupava di progetti internazionali. Mathilde era interprete dal francese all’inglese. E si incontrano ad Hong Kong e per cinque anni proseguono la loro storia in giro per il mondo. Mai a Parigi, dove Pierre ha la sua vita. Ma Mathilde è veramente innamorata, ed in un bel pezzo di bravura descrittiva, narra a Pierre tutte le piccole minute cose che avrebbe voluto fare con lui. Non i grandi viaggi, le scoperte eclatanti, ma “fare la siesta lungo un fiume, mangiare gamberetti, comprare delle scarpe, prendere la metro…”. E l’impossibilità di tutto ciò porta alla loro fine. Che Pierre non lascia la sua situazione, anche se continua a ripetere che lui Mathilde, l’amava. E con questo apologo, cerca di convincere Chloé che suo figlio Adrien è molto al di sotto della bravura della nuora. E che questa per lei è un’opportunità. Anche se dolorosa. Poiché la storia, poi, non fa che adombrare la vicenda personale della scrittrice, intuiamo che forse c’è del vero, che Anna Gavalda, dopo essere stata lasciata, ha un bel successo come scrittrice. Ma ritorniamo al testo, ed ai suoi messaggi. Dove c’era veramente l’amore? Dove incominciava l’egoismo di ognuno? Pierre ottiene tutto da Mathilde, ma rimane con Suzanne e continua la sua vita “normale”. Ma Pierre amava veramente Mathilde? E fino a che punto bisogna tenere in considerazione le compatibilità? E i figli? Il mondo gavaldiano sarebbe bello se tutti fossero onesti con sé stessi e leali verso gli altri. Ma il mondo, purtroppo, non è così. Quasi mai. Ecco, con questi interrogativi l’andamento un po’ piatto sembra riscattarsi un po’. Ma immagino che altra forza avrebbe avuto se ad impugnar la penna ci fosse uno Schmitt dei “Piccoli crimini coniugali”.
“C’est la vie. Il y a les courageux et puis ceux qui s’accommodent. C’est tellement moins fatigant de s’accommoder…” [Questa è la vita. Ci sono i coraggiosi e quelli che si accontentano. E talmente mento faticoso accontentarsi.] (123)
“Jusqu’à présent, la Vie s’était si bien chargée de tout décider à ma place, pourquoi aurait-il fallu que ça change ?... Je préférais rêver ou regretter.” [Fino ad ora, la Vita si era incaricata di prendere decisioni al posto mio, perché si sarebbe dovuto cambiare? … Preferivo sognare o rimpiangere.] (138)
“Toi … tu as la nostalgie des montagnes. – De quelles montagnes ? … - De celles que tu n’as pas connues.” [Tu ... hai nostalgia delle montagne – Di quali montagne? … - Di quelle che non hai conosciuto.] (139)
Jaime Mendoza “En las tierras del Potosì” Puerta del Sol euro 2
[A: 25/07/2011 – I: 12/04/2012 – T: 16/04/2012]
[tit. or.: originale; ling. or.: spagnolo; pagine: 153; anno 1911]
Un romanzo nel complesso minore, ma che porta con sé altro di cui narrare. Prima di tutto, l’acquisto, avvenuto durante l’ultimo viaggio in Sud America. Trovandomi nella città di Sucre, ho a lungo girato per libreria alla ricerca di un libro di autore locale (come spesso faccio in giro per il mondo, la dove la lingua lo consente). E mi imbatto in questo che il buon libraio mi definisce una delle opere della storia letteraria boliviana. Già mi sembra un bel fatto, unito alla considerazione che si parla del Potosì, la regione mineraria boliviana per eccellenza. Scopro poi che l’autore, Jaime Mendoza, è proprio natio di Potosì. E che ho acquistato il suo libro con due ricorrenze significative: sarebbe il compleanno dell’autore (25 luglio) e sono 100 anni esatti dalla sua pubblicazione (1911). Tutto questo me lo ha reso caro, e con un bel sorriso interno l’ho messo lì, nel calderone delle letture. E visto i ben numerosi libri che compongono la fila in attesa, non meraviglia che siano passati 8 mesi prima di iniziarlo. Ma dalla prima pagina, sono tornato al vento boliviano, ai grandi spazi, ma anche alle visioni angosciose delle sue miniere, alle improbe condizioni dei minatori. Leggendone la cadenza, mi ritrovavo a percorrere non le squadrate vie di Sucre la bianca, ma le salite mozzafiato di Potosì, con i suoi quasi 4000 metri di altitudine che ti rimangono tutti in gola ed in testa. E la visita alla miniera di Cerro Rico, dove scendemmo con l’elmetto in testa, per un kilometro nella pancia della montagna, guidati dal piccolo faro a batteria. Che sensazione di claustrofobia (ed io non sono claustrofobico). E la liberazione di uscire all’aperto. E l’angoscia di vedere i minatori ubriachi dalla mattina. E sentir parlare di crolli. E poi tornare alla città, ai non minatori, ai passanti dalla corporatura compressa e dalla faccia rubizza, dalle donne indios ed i loro (comunque) sorrisi nel veder stranieri passeggiare per le loro terre. Lo spagnolo di Mendoza mi culla, ma la storia non è di un grande intreccio. La storia racconta la vita di Martin Martinez, uno studente di legge che va da Sucre a Llallagua a lavorare nelle miniere, perché lì si dice ci sia abbondante ricchezza per tutti. C'è, invece, una vita dura, piena di incidenti, malattie, vizi, ingiustizie e corruzione. Martin cercherà di opporre i suoi buoni sentimenti a tutto ciò, ma ne verrà sconfitto e tornerà a Sucre per cercare di laurearsi e trovare altri modi di vivere. Il romanzo ha tuttavia, al di là di questa trama miserella, alcuni spunti notevoli. Alcuni caratteristi, che popolano le giornate di Martin: il giovane Lucas, che ruba lo stagno nelle miniere per venderlo e distribuire una parte dei soldi ai poveri della città, la bella india Catalina che per un po’ attrae Martin, ma che fugge con un altro, e soprattutto il medico senza nome, che adombra la figura stessa di Mendoza, che proprio a Llallagua cominciò la sua carriera come medico (si laurea a Sucre nel 1901) e che userà i suoi ricordi per scrivere il romanzo. L’altro spunto sono le descrizioni: sia delle miserande condizioni dei lavoratori nelle miniere, con le cruente descrizioni delle morti, per dinamite mal posta, in genere, ma anche e soprattutto per tubercolosi e tifo (due malattie endemiche che il medico Mendoza tentò di arginare). E sia delle terre boliviane: nel viaggio da Sucre a Llallagua, nelle passeggiate tra Llallagua e Uncía, nelle miniere. Insomma, come disse la critica, un libro che inaugura il realismo boliviano di denuncia. Dopo verranno altri, anche se a noi poco noti, e riprenderanno principalmente i temi di denuncia. Mendoza ha il merito di aver innestato un volano che ha proseguito la sua corsa. Forse con successi limitati nel campo minerario puro (visto che cento anni dopo le condizioni sono cambiate di poco) ma con indubbi avanzamenti sul piano della salute al contorno. Chiudo il libro, sento ancora mancare il fiato delle alture boliviane, sento nelle ossa il freddo e il vento di Uyunì. Ma come sempre, se mi dici partiamo, io ti rispondo: ci sono.
Ricordo che questa settimana c’è stata un’ottima iniziativa sulla scrittura in carcere presso il Museo di Criminologia di Roma, e rammento a chi è interessato i titoli della scrittura in carcere usciti presso Sinnos edizioni: “Attimi che cambiano la vita”, “Malgrado tutto”, “Identità sospese”, “L’umano e il suo rovescio”. Inoltre tra poco si va tutti al Dinamofestival a Testaccio a vedere un nuovo saggio-assaggio di “Ho sete”. Per il resto una buona settimana

martedì 26 giugno 2012

Last classics - 10 giugno 2012

E si che con questi ho finito gli stranieri della collana di Repubblica (manca una manciata di italiani ed archiviamo il tutto). Con i soliti “mostri sacri” che mi dispiacciono nelle prove più acclamate. Trovo poco leggibile Bellow, una palla mega Faulkner (anche se la sua scrittura è potente come una citazione biblica). Sempre caro, oltre l’ermo colle, anche John Fante (e si vedrà perché). Una riscoperta il grande tedesco che avevo dimenticato, quel Roth che fa Giuseppe e non Filippo.
Saul Bellow “Herzog” Repubblica Novecento euro 4,90
[in: 2004 – out: 04/01/2012]
[tit. or.: Herzog; ling. or.: inglese; anno 1964]
L’ultimo libro cominciato nel 2011 e finito ora, quindi ancora con le informazioni “vecchio stile” rispetto alle modifiche introdotte quest’anno. Anche se lo meriterebbe di essere additato ad esempio, che ho impiegato circa 2 settimane, e forse un po’ di più, per leggere questo libro, assolutamente, incontrovertibilmente palloso. Volete soffrire? Volete vanificare tutto gli sforzi di una buona lettura? Mettetevi Herzog sotto braccio, ed avrete questo ed altro. Ora Saul Bellow è decisamente ebreo, e non nel modo “scanzonato” alla Woody, ma in quello triste e pensoso dei classici ebrei americani. Era anche (che è morto sei anni fa, a 90 anni), un letterato a tutto tondo, docente, compilatore di enciclopedie, ed altri buoni elementi di cultura. E tutto questo si riflette e pesantemente in questo libro che scrive sulla soglia dei 50 anni. Ne fa, in un certo senso, una somma etero - biografica ed epigona. Cioè la vicenda di Moses Herzog per molti versi ricalca alcuni passi della sua storia (in effetti, Saul come Moses all’epoca è reduce da 2 divorzi, e dall’avere un figlio ed una figlia dalle sue due divorziate mogli). E ricalca la sua storia intellettuale. Herzog è un erudito che ha scritto un interessante ed acclamato libro sul Romanticismo. E che cerca di rinverdirne i fasti. Quindi non ci vedo nulla di strano che Bellow cerchi di esorcizzare i suoi problemi del momento riversandoli nella scrittura. Ne esce però un librone di più di 400 pagine illeggibili. Perché illeggibile? Perché Herzog è (vuol mostrare di essere) un sapiente, è in crisi, ed allora scrive, pensa, mugugna, fa stupidaggini. Ma cosa scrive? Scrive lettera a tutti, agli amici, alle ex-mogli, a personaggi contemporanei (compreso il Presidente Americano), a personaggi del passato (sopratutto a Nietzsche e Kierkegaard), ed anche alcune righe a Dio. E Bellow vuol far vedere di essere un tuttologo, ed in queste lettere butta dentro tutta la sua (e non è poca) cultura. Ed Herzog pensa, si arrovella di tutto, ricorda il padre morto e i suoi contrasti. I contrasti con la famiglia. E con l’ultima moglie. In un delirio quasi da psicopatico. Facendo stupidaggini, come girare con una rivoltella carica, ed avere un incidente di macchina. Prende un treno, arriva da alcuni amici, ma si sente insofferente, ed invece di presentarsi per la cena, esce dalla finestra, e con l’aereo torna a casa. Cerca di sfuggire alla bella Ramona, che però esalta il suo lato sessuale (anche se Bellow rimane distante dagli abissi esaltati e depressivi di Philip Roth). Herzog sa anche tutto, che portando allo zoo l’ultima figlia le spiega tutto di pesci e tartarughe come se fosse uno zoologo di rango. Ed altre e continue amenità, in tutti i suoi rapporti interpersonali. Ad ognuno parla come se fosse quello il suo campo, come se fosse il più esperto di. Solo una cosa non gli riesce: tenere in ordine le case in cui vive, riparare lampadine, aggiustare tubature ed altre attività manuali (mi ricorda qualcosa…). Non che non sia in grado di farle: è un tuttologo e se ci si mette riesce anche a dipingere di verde un pianoforte. Magari ci mette un anno e ci rimette la salute. E dopo tutto questo andare, girare, parlare, psicanalizzare, impazzire, si sdraia nella sua casa di campagna e forse medita una calma per il suo futuro. Ma allora cosa c’è che non va? Non va, cioè non mi va la presupponenza dello scrittore che vuol far vedere quanto è bravo, talmente bravo che 10 anni dopo gli daranno anche un Nobel dedicato alla sua “alta comprensione umana”. Tuttavia non coinvolge. Una cavalcata del genere, nel mondo e nella crisi di un uomo di mezz’età pieno di problemi poteva indurre in un’identificazione, in un’empatia. Invece, ad ogni lettera non vedo l’ora che finisca. Ad ogni incontro, mi aspetto un moto di atteggiamento umano. E via e via. Nulla. Mai nulla. Avevo tuttavia deciso di portarlo a termine, per capire, per vedere. Non so se ho capito, ma ho visto (e lo sospettavo) che Bellow non mi piace. Ho letto con più scioltezza i “Prolegomeni di ogni futura metafisica che si presenterà come scienza” di Kant! Torniamo a letture più coinvolgenti, vi prego.
“Dunque, lei è un uomo sano – non ha più vent’anni, ma è forte.” (21)
“Poteva anche pensarsi un moralista, ma la forma dei seni in una donna aveva grande importanza per lui.” (24)
“Aveva un debole per gli intellettuali pasticcioni con forti impulsi morali.” (39)
“La luce non viaggia a 300 mila km al secondo solo per permetterci di vedere mentre ci pettiniamo.” (64)
“Spinoza: è dell’uomo desiderare che anche gli altri gioiscano del bene di cui noi godiamo, non di costringere gli altri a vivere secondo il nostro modo di pensare” (153)
“Una volta era un giovane stupidello, e … adesso stava diventando un vecchio stupidello.” (232)
“Lui pensò … a come, invecchiando, era diventato vano, terribilmente narcisistico, a come soffriva senza dignità.” (243)
John Fante “Chiedi alla polvere” Repubblica Novecento euro 4,90
[A: 2004 – I: 22/01/2012 – T: 23/01/2012]
[titolo: Ask the Dust; lingua: inglese; pagine: 189; anno: 1939]
Che dire? Mi era rimasta impressa la faccia di Selma Hayek che faceva Camilla sullo schermo ed ho impiegato del tempo per decidermi a leggere il libro di Fante. Il film (a parte Selma) l’ho già dimenticato. Il libro è più difficile. Da dimenticare e da mandar giù. Perché Fante – Bandini riesce a farmi esaltare ed arrabbiare ogni poche pagine. Ma sicuramente ti prende, ti senti lì in California con lui. Ed è un vero reportage su un certo mondo che vive a Los Angeles, di emarginati, di gente in cerca di qualcosa, che vive di briciole. Oltretutto sentito fino in fondo, che quello è ancora il mondo del figlio di immigrati italiani, fuggito dal Colorado per cercare fortuna nel West, armato solo di una smisurata fiducia nella sua capacità di scrivere. Fante si sta avvicinando ai trenta anni, e si arrabatta con lavori occasionali e racconti pubblicati sporadicamente. Ma questo suo vivere al margine gli da materia per rivestire le sue esperienze, scrivere il romanzo, ed avere una parte di quella fortuna che pensa di meritarsi. Qui, Fante si cala di nuovo nel suo alter-ego Bandini, e narra un po’ sé stesso dal vivo ed un po’ romanzato. Con quell’albergo scalcinato dove puoi entrare dalla finestra senza farti vedere dalla padrona cui deve settimane di affitto. Con quel bar, il California Buffet, dove per 5 cent ti metti a sorbire un pessimo caffè. Con la fauna che popola l’albergo (l’ubriacone, le donne in fuga con figlia al seguito, le matrone in decadenza), con il droghiere cinese che ti passa di straforo delle arance con cui sopravvivi. E con quell’ego ipertrofico che gli fa annunciare ogni due parole: quanto sono bravo a scrivere, quanto sono geniale, quanta gloria avrò tra poco. In questo mondo ai margini, Bandini fa due incontri, con due donne ben diverse: Vera, assillata da problemi fisici, benché nascosti, e Camilla, la splendida messicana, irrequieta e spontanea. C’è una specie di triangolo aperto sotterraneo, che Vera si prende di Bandini che si prende di Camilla che si prende … della marijuana. E Bandini trasfigurando il suo rapporto con Vera scrive il romanzo che gli porterà il benessere (e che aprirà a Fante le porte di Hollywood dove farà, seppur scontento, per decenni lo sceneggiatore). Ma non riesce a star lontano da Camilla, la cui verve gli dà vita e pensieri e voglia di fare. Tuttavia il rapporto non decolla, che la prima volta che cercano di andare più in là, Bandini fa cilecca. E qui esce fuori tutta la cattiveria e la rabbia, da americano e da italiano. Da lì, ogni momento sarà buono per tormentare Camilla, per ripagarla con falsa moneta, perché non si può ammettere di aver fallito. Camilla però da spirito libero, non entra in questo gioco di Bandini, ed esce dalla porta più scomoda. Perché è scontenta della vita, perché non riesce a sopportare la mediocrità in cui vive dopo essere fuggita dalla povertà messicana. E fugge. Prima nella droga, e poi verso il deserto, nella polvere. Bandini ogni tanto rinsavisce, cerca di riavvicinarsi. Ma il solco iniziale è stato troppo violento, e non sarà possibile. C’è altro nel libro, c’è atmosfera, c’è tratteggio di situazioni interiori (quel rapporto ossessivo da immigrato italiano verso la religione intesa come valvola di sfogo quando le cose vanno male), ci sono cammei. Tutto in un libro che ha più di settanta anni, ma che (a parte il dollaro che aveva tutti altri valori) si legge con un’attualità sorprendente. Quello che mi respingeva ogni tanto (seppur scritto bene) è questa incapacità di Bandini non dico di fare un passo giusto, ma di ragionare in modo incoerente e di agire di conseguenza. C…o, ma fermati un attimo, pensa! Certo, l’autore si colloca ventenne e quindi irruento e quindi in formazione. Ma tutte quelle azioni sballate (poesie copiate male, telegrammi stupidi, parole fatte uscire dalla bocca senza aver connesso il cervello) mi facevano sentir male leggendole e mi facevano urtare verso Fante che le scriveva. Direte, ma questo è il mestiere dello scrittore. D’accordo, ma io sono un lettore umorale, e se i personaggi si comportano male in modo che non mi piace, mi storco. Però un bel libro, che avrebbe a suo tempo meritato maggior fortuna, visto che poi solo negli anni settanta fu ristampato e rivalutato. Hai dovuto aspettare molti inverni, Fante, altro che primavera! (Inciso finale, che non può mai mancare, sempre grazie a Luana che anni fa mi fece leggere il mio primo Fante).
Joseph Roth “La Cripta dei Cappuccini” Repubblica Novecento euro 4,90
[A: 2004 – I: 20/03/2012 – T: 23/03/2012]
[titolo: Die Kapuzinergruft; lingua: tedesco; pagine: 191; anno: 1938]
Incominciato in sordina, all’inizio non mi stava convincendo molto. Poi, pagina dopo pagina, lievita nell’anima, quasi come un mucchio di farina con un po’ di pan degli angeli. Ed alla fine non riuscivo più a staccarmene. La storia in sé sembra quasi fatta di niente. Incontriamo il giovane poco più che ventenne Trotta che vive mollemente sull’onda stanca della Vienna del secondo decennio del secolo scorso. È benestante, ha i suoi amici, fatui, benestanti, fintamente nobili, che si aggirano tra case e ritrovi, contornati da lacchè e belle donne. In questo mondo che non sa di esistere, si introducono piccoli elementi dissonanti. Il cugino Branco, venditore di caldarroste della natia Slovenia. L’ebreo Manes che fa il vetturino. La bella Elizabeth di cui il nostro sente di innamorarsi, ma come guardando un vetrino al microscopio. E si accumulano sapientemente pagine su pagine che dipingono un po’ alla Manet questo mondo slavato, come visto attraverso una pioggia che ne attutisce i colori forti, le sensazioni rudi. Senza grandi movimenti (e Roth non si interroga, se non con poche parole sui perché e sui come) questo mondo scivola dentro la catastrofe. Che prende i connotati della Prima Guerra Mondiale. Trotta, conseguentemente al suo sentire di nobile lignaggio, decide di sposare Elizabeth prima di partire. Poi di raggiungere il corpo militare di Branco e Manes (non prima di aver capito l’inutilità del suo matrimonio, che trova più affetto verso la morte del domestico che verso la fresca sposa). Lì alla prima scaramuccia, vengono sbaragliati, fatti prigionieri ed inviati in Siberia. Anche qui, a contatto con dei sentimenti più veri, sentiti, Trotta si smarrisce. Comincia in fondo a capire che il mondo è più variegato e complesso di quello che vedeva al mattino sorseggiando una cioccolata al caffè Sacher. Ma anche la guerra passa, quasi involontariamente, quasi che anche la morte non li volesse. E Trotta ritorna, dalla vecchia madre che fino alla morte non capirà bene cosa stia succedendo al mondo. Benché sempre più poveri ed in bolletta, penserà che la sua casa si riempia di amici e non di affittuari i cui pochi soldi servono a tirare avanti. Ritorna dalla sposa, che ha una strana storia di amore ed amicizia con la scapigliata Jolanth, che forse un po’ lo ama, tanto da donargli un figlio, per poi lasciarlo quando sente il richiamo della nuova arte, e decide di volare ad Hollywood (come molte attrici tedesche nello stesso periodo). Ritorna ai vecchi amici, quelli che non sono morti in guerra. Ma non può ritornare al vecchio mondo, ormai definitivamente sepolto. Quello nuovo, è solo popolato da arrivisti, da sfruttatori, da parolai. Prova, con tenacia, ma senza costrutto, a capirne qualcosa. Ma non ne ha gli strumenti. La sua storia non lo ha messo in grado di leggere il presente in maniera costruttiva. Abbandonato da tutti, o anche abbandonando tutti, quel che gli resta è visitare la Cripta dei Cappuccini, lì dove sono le tombe dei re e dei grandi dell’Impero Austro-Ungarico. Perché solo quello riesce a comprendere. Il mondo è andato avanti. Tutto quello che c’è da distruggere dell’idea arcadica della Vienna di tanti anni fulgenti verrà al fine spazzato via. Non dalla pagina, che si chiude senza un grido palese di dolore. Ma dal contesto della pagina, che viene chiusa nel 1938, mentre Hitler trionfalmente annette l’Austria al suo psicopatico sogno di gloria. Velatamente autobiografico (anche Roth parte volontario nella prima guerra mondiale, e rimane sconvolto dalla fine del sogno imperiale, dalle successive assurdità naziste, tanto che fuggirà in Francia, morendovi alcolizzato a soli 45 anni poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale). È una ripresa al rallentatore di una caduta verso il basso, in cui la capacità pittorica di Roth ci fa seguire e capire passo dopo passo l’avvicinarsi dell’abisso, ed anche l’abisso stesso. Non fa mai tinte forti. Non urla. Non si erge a didascalico narratore che vuole spiegare con tonnellate di parole quello che succede. Ha la capacità di descrivere avvenimenti minuti, e farci capire la metamorfosi di un mondo. Che comincia a dipingere quando è già un mondo malato (e Roth non lo salva mai, pur guardandolo con occhio di simpatia). E ci fa precipitare nell’angoscia della sua fine. Ma tutte le sue parole sono necessarie. Non usa i fronzoli e le peripezie moraviane per farci capire che è bravo. È bravo perché sente, partecipa intimamente a quello che scrivere. E ce lo comunica. E lo viviamo con lui. Tanto, appunto, da non poterlo lasciare finché non entra mestamente nella Cripta.
“Le persone sanno quando partono. Non sanno mai quando ritornano.” (83)
“Non ero capace di fare i conti, tutt’al più una somma, se proprio occorreva. Ma una moltiplicazione era già un supplizio.” (156)
William Faulkner “L’urlo e il furore” Repubblica Novecento euro 4,90
[A: 2004 – I: 20/04/2012 – T: 25/04/2012]
[titolo: The Sound and the Fury; lingua: inglese; pagine: 287; anno: 1929]
Come dice sempre il nostro buon Baricco, la sua è una scrittura potente. Ma riconosciuto questo pregio, non posso proprio dire che il libro mi sia piaciuto. Soprattutto l’impostazione del flusso di parole, che è debitore, e tanto, del travolgente modo joyciano di portare le ondate di parole che fluiscono in testa sulla carta. Non riesco a seguirlo in Joyce, come non riuscivo a seguirlo nel più tardo, ma di analoga impostazione, ‘Cassandra’ della Wolfe. Certo, Faulkner si dimostra un maestro in questo ma io fatico ogni volta ad arrivare al fondo della pagina. Dicevo maestro che, anche se ribadisco le difficoltà, ti fa capire quello che succede, quello che vuole dire. Certo, ben difficile è il primo brano dove entriamo nella testa di Benjamin, il figlio “disabile” come si dice ora. In realtà, muto e con problemi psichici. E Faulkner riesce a buttare di getto (per noi lettori) 60 pagine che ci fanno entrare con tutte le scarpe nella difficile testa di Benji, dove gli avvenimenti si accavallano, i tempi della vita non seguono il loro ordine, ma arrivano a sprazzi, e poi, noi, ordinati lettori, li ricomponiamo in una descrizione di quanto avviene in quei tre giorni di aprile. Più lineare il flusso di Quentin, quando facciamo un salto di quasi venti anni indietro, e, pur nell’accavallarsi di parole, capiamo che quel Quentin lì, anche lui dovrebbe avere dei problemi. Certo, non è matto come un cavallo come il fratello, ma qualche turba, tra lui e la sorella Candace ci deve essere stata. Tanto che prima intuiamo, poi ci viene detto, che di lì a poco, il buon Quentin si butta a fiume. Ancora più lineare, proprio perché pare sia l’unico non disabile della famiglia, sarà seguire i ragionamenti di Jason, il fratello rimasto. Che diventa, per me, il centro di tutto l’odio che si poteva concentrare sulla pagina, non mi piace quello che fa, non mi piace come lo fa, non mi piace come ragiona. Insomma, è l’unico che vedrei soffrire con piacere, ed alla fine, invece, è l’unico che sembra uscirne fuori con la testa sulle spalle. Poi un penultimo capitolo in forma descrittiva, dove si tirano un po’ le fila dei discorsi. In cui vediamo agire in primo piano anche i negri di Jefferson, quelli che servono la famiglia Compson. E che sembrano avere, nella loro umiltà, gli unici piedi per terra di tutto il lungo urlo. Perché è tutto un grande urlo il libro. Un urlo pieno di furore, per la vita, per le difficoltà, per l’ignoranza. Faulkner ci mette di tutto, di più. Perché vediamo lo sgretolarsi di una cosiddetta grande famiglia del Sud americano. Siamo anche all’avvicinarsi della grande crisi del ’29, che finirà per dare mazzate a chi non ha avuto lungimiranze di tirarsi su le maniche e cominciare dal basso, da molto in basso. Una famiglia piena di problemi psicologici. Un padre debole, che si ritira ben presto intorno alle bottiglie. Una madre che prende i colpi della vita con mestizia senza reagire, anzi quasi a voler esserne contenta (si fa per dire), come se ci fosse un grande disegno di castigo divino in tutto quello che succede. Che hanno quattro figli. Il primo ritardato, turbato e mai aiutato (anzi, il più delle volte lasciato alla pietà dei servitori). Il secondo, quello intelligente, ma ossessionato dal peccato, dalla morte e dalla sorella minore, con la quale non si sa se commette o sogna di commettere atti impuri. Fatto sta che poi si butta nel fiume. La terza, la sorella, che, come dice il fratello minore, “essendo donna è una puttana”, diventa di facili costumi (sembra o si dice), ha una figlia fuori dal matrimonio cui mette il nome del fratello suicida (ci sarà un motivo?) e poi, in seguito ad un paio di divorzi, viene bandita dalla famiglia. I critici ben informati ci dicono che lei è il vero centro del libro. Sarà… E poi c’è l’ultimo, il piccolo Jason, che fa una serie di azioni per me ignobili, ma che essendo l’ultimo maschio di casa “deve” essere servito e riverito. Finché la madre muore, lui Jason, prende il potere, si sbarazza del fratello matto, ed avrà una serena (per lui) seconda parte della vita. Ma questa fine la ritroviamo solo nell’appendice, dove Faulkner decise (su pressione degli editori) di scrivere le storie dei vari personaggi così da dare ordine al flusso di coscienza. Ed è la parte peggiore. Perché spiega! Non si può spiegare un’emozione. O la si capisce, o non è un’emozione da ricordare. Insomma, certo alla fine viene fuori un potente quadro della pessima vita del Sud degli Stati Uniti, così come in (pare) tutte le opere di Faulkner. Di cui ho letto con questo un paio di cose. E mi basta. Non credo che tornerò a frequentarlo.
Ancora e ancora e ancora tante scuse a tutti i miei amici che non riesco a sentire così spesso come vorrei, alle cose che vorrei fare e non si mettono in ordine, alla stanchezza che si accumula. Insomma speriamo che torni il sound e copra tutta la fury (e che vadano bene anche tutti gli esami, a cominciare da quelli di mamma).

lunedì 25 giugno 2012

Gialli d’Italia - 03 giugno 2012

Subito si volta pagina. Subito si ritorna alle trame più classiche, ai gialli più scacciapensieri, anche se non sempre. Con due libri di impianto classico che lasciano un po’ di delusione. Sicuramente Heinichen (che equiparo ad italico, visto l’ambiente triestino). Ma in parte anche i nostri amici bolognesi, da cui mi aspettavo qualcosa di più. Le avventure del commissario Ricciardi, come mi aspettavo, continuano, anche se non al top come la quadrilogia delle stagioni, ma sicuramente godibile. Ed anche l’unica donna, che all’inizio mi aveva lasciato freddino, ma si è andata scaldando in lettura.
Maurizio de Giovanni “Per mano mia” Einaudi euro 18 (in realtà, scontato euro 9,90)
[A: 04/12/2011 – I: 01/01/2012 – T: 03/01/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 313; anno: 2011]
Dopo la fine delle stagioni del Commissario Ricciardi, visto che le storie erano ancora sospese come avevo rilevato, il buon de Giovanni ha ben pensato di continuare a parlare del nostro commissario, iniziando una nuova serie che si rifà questa volta alle feste. Questa prima, infatti, è dedicata al Natale. E spero bene che ce ne siano presto altre, magari dedicate al Carnevale ed alla Pasqua. Chissà! La seconda notazione riguarda il cambio di casa editrice, che dopo aver pubblicato le quattro stagioni con Fandango, ora questa esce per i tipi di Einaudi. E per l’occasione, l’unica cosa veramente cambiata, in peggio, è il prezzo che sale da 15 a 18 euro. Venendo al libro, non possiamo che rilevare come l’impianto di base sia sempre lo stesso, o quanto meno similare. Un omicidio, il commissario che, con la sua strana facoltà di sentire i morti ammazzati, ripercorre le ultime parole dei morti, la ricerca di un filo per sbrogliare la matassa, ed il chiarimento finale. Meccanismo collaudato, ma qui un po’ in minore. C’eravamo ben abituati a seguire le passeggiate di Ricciardi che incontra i suoi morti ammazzati per le strade di Napoli, e ne fa una dolentissima Via Crucis. Qui ne rimangono pochi, sostituite, periodicamente, ad inizi di capitoli che fanno da cambio di scena, da alcune tirate sulla filosofia del mondo e sul resto, che, francamente, lascerei da parte nelle prossime uscite. Rallentano il filo dei pensieri e non portano nulla di nuovo. Prende giustamente più spazio il brigadiere Maione, che sta diventando una specie di Watson per Sherlock Holmes, o Goodwin per Nero Wolfe. Ma rispetto alle spalle generiche, se ne apprezza il mondo a sé, la famiglia con la simpatica moglie Lucia, e con quel dolore, che viene dal primo libro, della morte del figlio Luca, anch’esso poliziotto. Qui, tra l’altro, in un ramo secondario del racconto, apprendiamo anche che forse il colpevole di quella morte non era quello indicato. Ed il brigadiere “panzone” (che già mi sta simpatico per questo soprannome) dovrà combattere con la sua coscienza per capire se gli sviluppi di questa storia  vadano ripresi o meno. E sempre intrecciata c’è anche l’altra storia, quella che già dissi mi teneva sulle spine. L’intreccio amoroso tra il Commissario, l’avvenente Livia che cerca di conquistarlo in tutti i modi, e la dolce Enrica, che sta recuperando terreno e per la quale io faccio il tifo. Vedremo de Giovanni come se la caverà nelle prossime storie, che tutte le soluzioni sono ancora possibili. Non è invece possibile altra soluzione all’omicidio del centurione Garofalo e della di lui moglie. Qui, piacevolmente, un po’ ricalcando il primo Lucarelli, quello che pubblicava per Sellerio, l’autore si intreccia con lo spirito del tempo, che, come ricorderete, siamo nel 1931 e siamo a Napoli. Quindi la morte del centurione delle milizie fasciste deve essere risolta in fretta per non diventare un caso. Intanto, mentre ad inizio indagine, Garofalo sembra un brav’uomo, ci accorgiamo ben presto che invece è un fetente. E non perché fascista, ma perché malvagio ed arrogante. Incontriamo la gente che ha rovinato per farsi strada nella vita, e che avrebbe tutte le ragioni per essere lei la proprietaria delle mani assassine. E ci immergiamo nella Napoli natalizia, qui de Giovanni dà anche il meglio del narrare, nel mercato del pesce a Santa Brigida, nelle botteghe d’arte di San Gregorio Armeno, nei vari presepi, da quello di Suor Veronica, sorella della morta, a quello di Don Pierino, l’esperto di Ricciardi nelle tematiche religiose. E sarà proprio seguendo il filo di coloro cui Garofalo ha rovinato la vita che il Commissario avrà l’intuizione per trovare le mani assassine. Che ci riportano al titolo, ed al refrain del libro, che molti vorrebbero far giustizia con le proprie mani. Ma la giustizia deve essere affidata a chi ne è preposto. Insomma, un romanzo ben scritto, decentemente equilibrato, e pieno di spunti che mi sono piaciuti. Come la citazione di quella bellissima tragedia, “Natale in casa Cupiello”, la cui prima avvenne proprio per il Natale del ’31. Unico e finale neo: perché il risvolto insiste proprio su questo punto, che arriva dopo 250 pagine, ed è subito sorpassato, mentre l’estensore delle note fa credere che sia un elemento dorsale del racconto. Mi continuo a domandare se chi scrive quei testi abbia letto il romanzo prima di inventare sfondoni!
“Quando pensava a lui sentiva quel sottile dolore che si prova per un importante sentimento che per incuria si sta lasciando morire.” (96)
“Tu non lo sai, mio solitario amico, ma i grandi amori sono così: senza sbarre e senza catenacci.” (133)
“In realtà è tutto così semplice. Se si vuole essere felici, bisogna darsi da fare per esserlo.” (225)
Veit Heinichen “La calma del più forte” E/O euro 10,50 (in realtà, scontato 8,40 euro)
[A: 18/05/2011 – I: 30/01/2012 – T: 02/02/2012]
[titolo: Die Ruhe des Stärkeren; lingua: tedesco; pagine: 331; anno 2009]
Già nel precedente romanzo, la vena più propriamente gialla (o nera) di Veit Heinichen si stava esaurendo. Si parlava di molte cose e la trama “noir” andava a nascondersi in un piano defilato. Beh, qui stiamo andando sempre più defilati. Sì, c’è la ricerca di costruire un plot di suspense. Ma fin dalle prime pagine sappiamo chi è minacciato di essere uccise, perché e da chi. Ci resta solo da sapere per chi la trama andrà a buon fine (i buoni? I cattivi? Altri?). Ma è una suspense minore. Anzi ci induce a ben poche riflessioni. Così come poco altro ci fanno pensare le altre 3 trame intrecciate. Seguiamo le vicende della famiglia Laurenti, con il commissario assediato da moglie, figlie e madre. Ma poco risalto hanno le sue azioni. Certo, ha ancora le sue idee, si arrabbia con i vari Ministeri degli Interni (italiano, sloveno, e altri se ce ne fossero). Ma non ha un ruolo veramente centrale. Da punto di gravità dei romanzi di Heinichen diventa un tratto di continuità, tanto per far vedere che stiamo sempre nella stessa serie, lì dalle parti di Trieste. Conosciamo meglio la giovane poliziotta Pina, il suo background, il suo coinvolgimento nelle storie, e soprattutto nella storia personale con il paraplegico Sedem, figlio dell’indiziato di morte, il grande finanziere Duke. Vengono sollevati tanti piccoli punti sparsi e relativi problemi, ma pochi vengono portati alla loro ultima conseguenza. Sappiamo meglio il significato del tatuaggio di Pina (quello con la scritta “Basta amore”). Ma non sappiamo perché Duke porta sempre i guanti. E seguiamo anche la storia dei combattimenti dei cani (pratica selvaggia che andrebbe stroncata ma che mi risulta essere invece ancora e sempre in auge). Storia che si intreccia con le altre. E con gli inserti dei pensieri del cane Argo. Per questa è poi la parte più debole del romanzo: un cane che racconta le azioni cui partecipa come fosse un umano, con pensieri e sensazioni umane. Poco credibile (si vada a rileggere Timbuctù di Auster). Tra tutte queste storie che si intrecciamo c’è la trama che sembra essere cara ad Heinichen. Quella del governo mondiale dell’economia. I grandi Board internazionali. Sedem che guadagna investendo sui derivati di borsa. E reinvestendo in scuole per lo sviluppo del terzo mondo, ah il buon filantropo. È quella che il nostro scrittore vorrebbe far risaltare come “vera” trama del romanzo. Non importa quello che succede, se ci sono o meno morti, se si sa chi abbia o non abbia ucciso. Ad Heinichen interessano le lotte per il potere tra i potentati internazionali, intrecciate con la caduta delle frontiere e gli accordi di Schengen, le speculazioni edilizie ed il contrabbando di droga. Ma questa parte risulta pallosa e scontata. Si vanno perdendo e rarefacendo le sensazioni positive dei primi romanzi: Trieste e le sue atmosfere, i dintorni di Trieste, con le osmizze dove si beve vino locale, le campagne ma anche il mare, il pesce da mangiare (possibilmente crudo) il Carso e la friulanità. Piccolo inciso, nella trama si inserisce lo smantellamento della frontiera italo - slovena, dove io avrei dato un piccolo risalto alla più ignota conseguenza di ciò: la caduta di uno degli ultimi muri del tempo della guerra fredda, quello tra Gorizia italiana e Nova Gorica slovena. Alla fine un libro riuscito a metà. Mi aspettavo di più, ora che i cattivi slavi dei primi romanzi erano usciti di scena. E mi aspettavo che qui nascessero altri antagonisti. Ma la trama non decolla. E credo se ne accorga anche Heinichen, tanto che alla fine sembra (e dico sembra che mi rimane sempre un piccolo punto interrogativo in fondo alla testa) che voglia eliminare tutti i contorni lasciando solo la nostra banda di eroi a continuare le prossime trame. Pochino. Speriamo meglio in futuro.
Marzia Musneci “Doppia indagine” Mondadori euro 4,90
[A: 02/12/2011 – I: 18/03/2012 – T: 20/03/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 258; anno: 2011]
All’inizio ero un po’ scettico, mi sembrava la solita riproposizione di un giallo all’italiana sull’onda dei tanti guasti degli ultimi anni (tipo Sarah Scazzi o altri). Poi invece prende quota. Soprattutto quando finalmente si centra sulla figura dell’investigatore Matteo Montesi (doppia M come l’autrice?). Dal narrato si capisce che è stato il protagonista di un’altra storia (e sarà interessante andarla a ricercare, pubblicata da un’improbabile casa editrice chiamata “La Riflessione”). E si costruisce un bel gruppo intorno a lui. Un gruppo che lavora molto su Internet (ed è chiamato, infatti “La Rete”), con personaggi simpatici e singolari. Soprattutto l’autistico Palanca, che mi sta simpatico subito, a pelle. La storia, appunto, comincia in sordina, che siamo invischiati nella scomparsa di una ragazzina di 11 anni, molto dotata per la danza. La madre, dopo tre settimane di inutili tentativi, si rivolge al nostro Montesi, coinvolgendolo però in una storia più complicata. Che 7-8 anni prima anche il marito della Alessia è scomparso. E lei è convinta che ci sia un legame fra le due sparizioni. Legame che sembra condividere anche la persona da cui doveva andare Stella prima di sparire. La sua insegnante di disegno, Elena. Montesi brancola nel buio, anche se cerca di farsi aiutare dal commissario che segue le indagini (e che si capisce abbia avuto un ruolo interessante nel primo romanzo). Ma riesce soltanto a farsi francobollare dall’aiutante del commissario, la bella e spigliata agente Cristiana. E mentre indaga con Cristiana, trova tracce del famoso Gianmarco scomparso, ma subito dopo viene uccisa Elena, e compare sulla scena il suo tormentato figlio, il maestro di piano Ettore. Brancolando nel buio, Montesi (sempre più aiutato e vicino alla bella Cristiana) però riesce a mettere insieme alcuni pezzi di informazione. Un disegno qua, un gioiello là, un avvocato reticente, un cieco che si aggira per il paese, un rebus lasciato da Elena sulla sua agenda. A poco a poco tutta una realtà diversa viene fuori. Un po’ ce lo aspettiamo, che quando qualcuno scompare senza lasciare tracce si sente subito odore di servizi segreti. Le persone assumono prospettive diverse. Anche i rapporti tra i vari personaggi si vanno complicando. Lo scomparso era forse una spia, ma anche forse un trafficante di gioielli. Elena era una brava disegnatrice, ma anche una forte mente matematica ed a sua volta una spia legata (o slegata) con l’ex-Unione Sovietica. Il figlio pianista è anche un giocatore d’azzardo che abilmente dilapida i suoi averi e viene a sua vola ricattato da altri trafficanti. E la bella storia di futuro amore tra Matteo e Cristiana, è vera o anch’essa inquinata da depistaggi e sotterfugi? Certo è che Matteo, qualche neurone del suo cervello lo sa usare. E ci fa piacere che metta insieme i vari pezzi del rompicapo. E capisca tutto. Forse non riesce, non riuscirà a provarlo. Ma capisce dove sia andato a finire il marito scomparso, la ragazza scomparsa, le spie, e tutto il resto. E (come sembra abbia fatto nella prima storia) riuscirà a ricomporre la storia in tutto il suo splendore. Certo, ci si domanda se sia più consono un lieto fine o la disillusione della cruda realtà. Io ho le mie preferenze. E l’autrice le sue. Non ve lo svelo, così qualcuno si rilasserà passando alcune ore in compagnia di un romanzo sicuramente non travolgente, ma scritto in modo onesto. E che giustamente ha vinto il premio annuale rivolto ai romanzi gialli d’autore italiano.
“La vita, si sa, è una questione di tempismo. La cosa giusta al momento giusto nel posto giusto. Sbagli una delle tre e sei fregato.” (58)
Francesco Guccini & Loriano Macchiavelli “Malastagione” Mondadori euro 10 (in realtà, scontato 7,50 euro)
[A: 18/03/2012 – I: 05/04/2012 – T: 08/04/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 305; anno: 2011]
È sempre piacevole leggere gli scritti a quattro mani dei due “bolognesi”. Anche quando, come in quest’ultima fatica, non sono proprio ai massimi livelli. Finite, o tralasciate, le storie ottocentesche di briganti ed anarchici (e dell’ottimo maresciallo Santovito che un po’ ci manca) i nostri si dedicano al presente. Con alcune caratteristiche che ne fanno la cifra stilistica: ambientazione in un paesino Appennino, direi tosco-emiliano, anche se più emiliano che tosco. Una piccola comunità, con tutti gli esponenti tipici: il vecchio bracconiere però leale, il giovane forestale (anima del romanzo e forse futuro protagonista di altri, con quel soprannome, Poiana, che già me lo rende simpatico), la locanda, le case, in paese o isolate, il maresciallo dei carabinieri (e già dire carabinieri basta), l’ex-sindaco ora titolare di un’agenzia immobiliare (ed anche qui si intuisce qualcosa), il costruttore edile con moglie belloccia, uno stuolo di immigrati (più o meno regolare), la ragazza cittadina con radici campagnole. Ed il solito, lodevole, impegno civile. Che sì, parliamo di gialli ed intrighetti (quelli che tanto non piacciono all’amico Baricco), ma sempre presente l’etica della nostra coppia. Il rispetto per la natura (e non a caso, il protagonista è una guardia forestale che proprio al rispetto della natura ed al ripopolamento di boschi e torrenti ha dedicato i suoi giovani anni), l’astio verso le beghe, l’insofferenza verso le gerarchie. Come aspettarsi altro dai nostri due fondamentalmente anarchici dentro? La storia prende le mosse dal ritrovamento di un piede nel bosco, ma senza il resto del corpo. E si sviluppa, lentamente è ovvio, verso un incendio, sicuramente doloso, ed il ritrovamento di un secondo morto, carbonizzato ma forse già cadavere. Il tutto condito dalla bella Francesca che, delusa dalla città, cerca le sue radici nella casa del nonno. Abbandonata, sembrava, ma dove trova tracce di passaggi non autorizzati. Dalla misteriosa scomparsa di un tunisino, forse carpentiere, sicuramente ingegnere. Dagli intrecci di affari e malaffari, che tutti ruotano intorno all’agenzia immobiliare, dall’incerta e sicuramente poco limpida proprietà. Il tutto condito dalle solite macchiette dei simpatici bolognesi. Prima fra tutti quella del bracconiere, che il padre, illetterato amante de “I tre moschettieri” chiama come il nome che appare sulla copertina, Adumas (!). Corretto e beone (come rinnegare i trascorsi, eh Francesco?). E poi l’altrettanto immancabile trattoria (per ribadire il bel mangiare contadino, come riesce a fare solo l’Adele). I quattro giovinastri perdigiorno. Il giovane ed un po’ scapestrato aiutante di Poiana. Il cameriere extra-comunitario (ed il caffè che rimanda al brigadiere Sarti Antonio, eh Loriano?). La ragazza-madre che vive nei boschi. Le vedove del casolare sperduto. Insomma, tutto procede ai ritmi di campagna, compreso il prevedibile filarino che nasce tra Poiana e Francesca. Ma tutto sull’onda del possibile. Onda che ci porterà al dipanamento dei diversi misteri sorti lungo le trecento pagine, anche se (sempre per rimanere in tema con i nostri), non saranno conclusioni consolatorie. Questo è poi il bello delle storie dei nostri due. Storie possibili, intrecci probabili, e finali (quasi) sempre aperti, in cui il lieto fine non è mai scontato, perché la vita è purtroppo complessa. E qui se ne tracciano alcuni fili. Mi piace, ribadisco, l’anima ecologista dei nostri. E la facilità di una lettura dipanatesi tra la pioggia amalfitana. Via, che vi offro una sfogliatella di Santa Rosa, a voi del Nord (che magari non la conoscete, ma l’apprezzerete senz’altro).
Inizio giugno, ed inizio, propriamente detto, del mio lavoro di sostituto di maternità. La collega è andata in permesso, ed io sarò lì da solo, nella sede tuscolana, a dipanar matasse, a volte di cui si capisce poco. Scommessa o testa dura? Si vedrà. Per ora