domenica 24 aprile 2022

L'amico e le spie - 24 aprile 2022

Una settimana “pasquale” poco impegnativa, sospesa tra i libri che gentilmente mi presta il mio amico riciclatore e la collana di spionaggio di Repubblica. Con un record, il primo libro che non riesce a raggiungere neanche un libro di gradimento. Anche la collana di Repubblica non è che sia esaltante, riscattandosi solo con un libro di un autore classico in questo genere, Eric Ambler, anche se non con le sue migliori opere (tra cui ricordiamo “Topkapı”, un punto di riferimento dello spionaggio, soprattutto nella sua versione cinematografica).

Alistair MacLean “Burattino in catene” BUR s.p. (Prestito di Fako)

[A: 24/07/2021 – I: 09/08/2021 – T: 10/08/2020] ½

[titolo: Puppet on a chain; lingua: inglese; pagine: 380; anno: 1969]

Un libro talmente brutto ed inutile che, dopo averlo letto, è stato diligentemente lasciato nell’albergo di Matala, come a ricordare la bella isola del mio fornitore di libri letti.

Ora, Alistair MacLean risulterebbe uno scrittore scozzese di medio-alta notorietà, più che altro noto come autore del libro e poi sceneggiatore del film “I cannoni di Navarrone”. Non conosco il libro, ma il film con Gregory Peck, David Niven e Anthony Quinn è senz’altro un film di guerra avvincente. Ma qui si parla di “thriller” e non di guerra. Un thriller che venne in mente ad Alistair mentre era in giro per Amsterdam, e notando i canali, le strade strette, ipotizza un thriller pieno di fughe e nascondigli vari.

Nasce così la storia di Paul Sherman, un esperto agente della Narcotici dell’Interpol, tanto esperto che normalmente lavora in solitario. Ora, gli è stato affidato il compito di debellare una rete di spaccio il cui centro sembra sia Amsterdam, e per l’occasione il solitario Paul viene affiancato da due agenti di sesso femminile. Una è un poliziotto esperto, che ha già lavorato con Paul, mentre la seconda è una recluta al primo incarico.

L’incarico gli è stato assegnato (ma questo lo scopriremo strada facendo) dopo che tre spacciatori hippie vengono uccisi in una casa di Los Angeles. Non solo, ma Sherman (che non sembra sia il suo nome) è olandese, e conosce, anche se non a fondo, l’ispettore Van Gelder, la cui nipote Trudi, soffre di gravi danni cerebrali causati da un'overdose di eroina. Tuttavia, ciò non fa in modo che ci sia un buon rapporto con il colonnello De Graaf, capo della polizia locale, che non vede di buon occhio l’interferenza americana.

Il gancio di Sherman è Jimmy, un tempo all’interno del business, ma che sembra ne voglia uscire. Anche perché i banditi della droga sono sempre più violenti e non esitano di ricorrere all’assassinio, se qualcuno mette loro i bastoni tra le ruote.

Ma già dalle prime pagine si capisce l’andamento della trama, dove il tutto pare rivolto ad una violenza tipo il peggior hard-boiled americano (o ancora peggio, i più brutti polar francesi). Infatti, prima che Sherman lasci l’aeroporto di Schiphol, viene assalito, tramortito e Jimmy viene ucciso.

A questo punto Paul si imbufalisce, comincia a toccare tutti i tasti delle sue conoscenze, mette in mezzo le sue assistenti, trattandole anche male (è un rude, quindi le donne zitte ed obbedire). Questo modo di fare indispettisce la polizia locale, che non risulta allearsi con lui, anzi sembra quasi remare contro.

Tra l’altro, è certo che ci sia una talpa, da qualche parte, perché Paul, per quanto faccia passi in avanti, sembra sempre essere un passo indietro rispetto ai suoi avversari. Questo non può portare che ad una spirale di violenza. Che non sarebbe male in assoluto (leggete il mio amico Bissa), ma che qui è gratuita e neanche tanto ben scritta. Alistair vuole mantenere un tono ironico, ma sarà che sono passati cinquant’anni, che il tono risulta veramente inefficace.

Per trovare un bandolo, Sherman incontra la ragazza di Jimmy, Astrid ed il di lei fratello George, tossico. Potrebbe essere un nuovo gancio contro il crimine, ma George muore di overdose (provocata) e Astrid prima scompare, poi viene trovata morta. Sherman, con l’aiuto di Van Gelder, arriva ad individuare una rete di spaccio legata ad una setta che promuoverebbe l’emancipazione di donne traviate. La rete usa bambole che vengono fabbricate in un’isola vicino la capitale, e poi convogliate nel magazzino di due loschi figuri.

Una delle assistenti prova ad infiltrarsi nella setta, ma viene scoperta ed uccisa infilzata con dei forconi. Fine veramente trucida. Ma risalendo dall’isola alla terraferma, Paul arriva di nuovo al magazzino, dove scopre che è proprio Van Gelder la talpa, e che Trudi non è reduce da overdose, ma è una brava attrice.

Siamo alle scene finali, agnizioni, fughe, controfughe, sparatorie, Trudi che muore, Paul che viene ferito, e Van Gelder che finisce infilzato su di un gancio, di quelli che spesso sono presenti nelle case olandesi, per portare oggetti in casa, laddove scale strette ed altro impediscono un agevole accesso interno.

L’unico punto positivo è la punizione che alla fine toccherà ai cattivi. Ma risulta troppo macchinoso il modo in cui i contrabbandieri fanno circolare la droga. Non solo, ma Sherman è spesso alle strette, tuttavia i cattivi non si risolvono mai a finirlo, anzi sembra che siano alla finestra per vedere i modi che il buono escogita per metterli in difficoltà. C’è poi un fondo di misoginia nel trattare le assistenti di Sherman, che svolazzano in baby-doll nel mezzo delle azioni più complicate. Sembra una brutta copia di un bel film di James Bond. Quindi, non ho rimpianti nel cercare di dimenticare in fretta il libro, e nel consigliare di evitarlo.

William Le Queux “Il mistero del raggio verde” Repubblica Spy 19 euro 7,90

[A: 22/05/2019 – I: 19/09/2021 – T: 22/09/2021] - &

[tit. or.: The Mystery of the Green Ray; ling. or.: inglese; pagine: 205; anno 1915]

Questa lettura inaugura la collana di Repubblica dedicata alle storie di spionaggio. Una collana presa per completezza ma che non mi entusiasmava particolarmente nella lista dei volumi pubblicati. Entusiasmo che si è mantenuto alquanto basso anche con questa prima uscita. Una lettura filologica, se vogliamo, ma assai datata e quasi scevra di spunti interessanti.

L’unico è il recupero di un autore assai noto e prolifico all’epoca, ma abbastanza presto caduto nel dimenticatoio. William Tuffnel Le Queux (un nome che sembra quasi uno pseudonimo) era un londinese, nato nel 1864, che dopo un iniziale interesse per il giornalismo, si dedicò alla scrittura. Ma fu anche un pioniere dell’aviazione e delle trasmissioni radio. Fu anche assai prolifico, scrivendo circa 170 libri, nella maggior parte dei quali descriveva come i cattivi tedeschi si stessero infiltrando in Inghilterra per invaderla. Era anche un patito di pettegolezzi, il cui massimo raggiunse sostenendo di aver visto un manoscritto francese scritto da Rasputin dove si affermava che Jack lo Squartatore era un medico russo di nome Alexander Pedachenko, che aveva commesso gli omicidi per confondere e ridicolizzare Scotland Yard.

Tra l’altro, un’altra particolarità del nostro è di aver inventato il personaggio di Duckworth Drew, membro dei servizi segreti inglesi, bello, solitario, amante delle belle donne, e pieno di gadget all’avanguardia per il suo tempo, come uno spillo con il quale mette fuori combattimento il nemico, o un sigaro che contiene una droga speciale per addormentare l’avversario. Insomma, se non fosse stato scritto da Le Queux nel 1903 sarebbe un perfetto James Bond. O forse Fleming ne ha preso anche degli spunti?

Per venire al romanzo, collocato temporalmente all’inizio della Grande Guerra, come tutti i più triti romanzi di spionaggio comincia in modo molto flebile. Ronald Ewart è un giovane avvocato inglese che, iniziata la guerra, pensa di arruolarsi. Prima però vuole concedersi una breve vacanza andando a salutare la sua fidanzata Myra, che vive in Scozia, nei pressi di un bellissimo golfo marino. Vive con il padre, che vede di buon occhio Ronald, e ha un bel cane.

La quiete marina è solo disturbata da uno strano americano che ha affittato una casa dalla parte opposta del golfo. Americano fino all’osso, con la presupponenza e l’invadenza che gli europei ritengono (e non a torto) sia un tratto distintivo dei cugini d’oltreoceano.

Tutto sembra tranquillo e pacifico, se non che, durante una passeggiata con Ronald, Myra diventa improvvisamente cieca. Vengono chiamati i più illustri luminari che si occupano di oculistica, ma nessuno trova motivi plausibili all’incidente accaduto a Myra. Ritengono possa essere un fenomeno naturale, tanto che sostengono che da lì a breve, Myra potrà rivedere.

Ronald è poco convinto, anche perché anche il cane di Myra diventa improvvisamente cieco. Un fatto è casuale, due sono un indizio. Tre diventano una prova, che il cane viene misteriosamente rapito. Altri due fatti si aggiungono ai misteri. Myra sostiene di aver visto una luce verde prima di diventare cieca. L’americano va e viene per il golfo, a sincerarsi delle condizioni di Myra, ma comportandosi in modo che l’autore non esita a farci subodorare sospetto.

Ai misteri si aggiungono barchette alla deriva, piccoli natanti che si aggirano per il golfo, guidati da personaggi con accenti improbabili. Perfino con marinai che non sembra capiscano l’inglese. Alla fine, comunque i buoni capiscono chi siano realmente i cattivi, ovviamente tedeschi che vogliono invadere l’Inghilterra. Nelle pagine finali Le Queux si lancia in un’astrusa spiegazione sulla nascita di questo famoso raggio verde, sulle sue proprietà al limite del fantascientifico, quando non proprio al di là. Come la capacità di deossigenare l’aria, di funzionare come un enorme telescopio naturale ed altre invenzioni che sarebbero potute diventare plausibili se manipolate da un bravo scrittore, alla Giulio Verne, ma che in mano al nostro diventano soltanto risibili.

Di passaggio, ricordo che Verne scrisse realmente un libro intitolato “Il raggio verde”, ma si trattava di un fenomeno naturale che accade al tramontar del sole. La particolarità è che Verne sostiene sia maggiormente visibile in Scozia. Il libro fu scritto nel 1883, e dato che Le Queux era bilingue (padre francese, madre inglese) di sicuro ne avrà avuto notizia, onde collocare la sua vicenda proprio in Scozia. Partendo per la tangente, ricordo poi che dal libro, venne tratto nel 1986 un bellissimo film con la regia di Eric Rohmer.

Lettura quindi filologica, ma trama assolutamente inconsistente con un autore forse abbastanza giustamente dimenticato.

Laura Lippman “La donna del lago” Bollati Boringhieri s.p. (Prestito di Fako)

[A: 07/09/2021 – I: 10/11/2021 – T: 14/11/2021] && e ½

[titolo: Lady in the Lake; lingua: inglese; pagine: 374; anno: 2019]

In realtà, stavo per mandare maledizioni apotropaiche al mio carissimo amico odioso, che l’inizio di questo ennesimo prestito (sempre gradito, comunque) mi sembrava non portare da nessuna parte. Invece, ad un certo punto, il meccanismo ingrana. Non sarà un capolavoro, ma funziona, con alcuni pezzi di bravura e con risvolti non sempre scontati.

Anche perché la scrittrice, pur non essendo sempre nelle mie corde, sa districarsi, nella trama e nel mondo che descrive. Laura Lippman è infatti figlia di un giornalista (e le domande che fa sul mestiere ne risentono positivamente) e di una libraia (da dove apprese l’amore per la scrittura), oltre ad essere lei stessa passata per il giornale, ed averne sposato un redattore. In realtà, è meglio conosciuta per un personaggio seriale, Tess Monaghan, cui dal ’97 in poi ha dedicato 12 romanzi. Qui, invece, abbiamo un giallo a sé.

Anche se, oltre la trama gialla, affronta altri temi scottanti: il ruolo della donna in una società maschile (o maschilista?), data anche l’ambientazione nella Baltimora del 1966; o anche il significato di essere giornalisti, oggi, quando la protagonista prende in mano la storia poliziesca di un’altra persona, ci si getta a capofitto, fino a farla diventare la sua storia e non più quella della “Donna del Lago” (che non era così chiamata finché Maddie non la battezza così nei suoi articoli).

Altro elemento di interesse, ma anche dio difficoltà di lettura, soprattutto nei primi capitoli, è il fatto che la narrazione avviene in terza persona quando seguiamo direttamente Maddie, intervallata da capitoli in prima persona dove seguiamo vari personaggi di contorno che, con le loro riflessioni, alla fine, riescono a darci il quadro complessivo. Uno di questi “intarsi” poi è corsivato, con elaborazioni e pensieri della persona scomparsa.

Ma andiamo con ordine. Infatti, si inizia quasi con un tono altro. Vediamo una cena organizzata a casa Schwartz, dove Maddie incontra un suo vecchio conoscente, a suo tempo di scarse capacità, ma ora presentatore di successo. Maddie, invece, era al vertice (reginetta del ballo, giornalista in erba). Ora lei è solo la moglie di e la madre di. Da qui, nasce la sua “ribellione”.

Si separa, va a vivere da sola, con evidenti difficoltà economiche, per inseguire il suo sogno: entrare nel giornalismo. In un mondo in cui l’uomo detta legge (allora come ora) lei entra dalla porta di servizio, si occupa più o meno di fotocopie. Saranno le storie di due donne che le spalancheranno, a poco a poco, altri orizzonti.

La prima è una ragazzina, Tessie Fine, scomparsa. Partecipando alla sua ricerca, seguendo per istinto delle vie poco battute, sarà proprio lei ad imbattersi nel suo cadavere. Questo le fa fare il primo salto di qualità.

Il secondo avviene per la sua caparbietà, che Maddie comincia a seguire un caso che non interessa a nessuna: la scomparsa, avvenuta due mesi prima, di Cleo Sherwood, una bellissima afroamericana. Se fosse stata una donna bianca, tutti avrebbero voluto scriverne. Ma è di colore, ed oltre tutto, non di grande moralità. Ma Maddie si intestardisce.

Affronta entrambi gli omicidi con una sensibilità tutta femminile (uno dei tratti migliori che ci fa vedere la scrittrice). Indaga sui possibili moventi, frequenta i familiari delle vittime, ne ricostruisce le mosse, si aggira nei luoghi dove le due donne hanno passato gli ultimi giorni della loro esistenza. E dopo Tessie, trova anche un corpo, nel lago (la donna del titolo) per chiudere il cerchio anche su Cleo.

Non basta però trovare dei corpi, e Maddie continua il suo giornalismo investigativo, per scoprire come si sono svolti i fatti, chi è l’assassino. Arrivando ad una soluzione che fa salire il tono del romanzo ed il suo gradimento.

La complessa scrittura dell’autrice, alla fine ci porta ai noccioli delle questioni: la scissione tra quello che le donne del romanzo (ed in particolare Maddie) volevano essere e quello che gli uomini volevano che fossero. Un sussulto di femminismo, vivacizzato dalla voglia di emancipazione. Ma anche dei bei colpi al razzismo neanche tanto nascosto del tempo del racconto (e Baltimora due anni dopo l’epoca del racconto sarà uno dei più violenti centri delle rivolte successive all’assassinio di Martin Luther King).

Un ultimo cenno, ad un momento che mi ha divertito: quando parla della cena che sta preparando per i suoi ospiti, ad inizio libro, Maddie confessa di preparare il suo stufato di manzo con molto vino (che ne copre il sapore) e due lattine di zuppa Campbell. Non so voi, ma io ne mangiai di queste lattine. Erano orrende. Buona lettura, in ogni caso.

Eric Ambler “Epitaffio per una spia” Repubblica Spy 4 euro 7,90

[A: 04/02/2019 – I: 31/01/2022 – T: 01/02/2022] - &&&-

[tit. or.: Epitaph for a Spy; ling. or.: inglese; pagine: 233; anno 1938]

Secondo appuntamento con le spy stories di Repubblica, dove facciamo un discreto balzo in avanti nel gradimento, in gran parte dovuto all’autore. Eric Ambler è infatti considerato il maestro del genere, cui faranno sincero omaggio le storie di spionaggio di Graham Greene e di Ian Fleming, anche se spesso le sue storie sono tinte di giallo. Non sempre per la presenza di morti, quanto per l’intrico che viene imbastito e per la sua soluzione. Per me, infatti, rimarrà per sempre legato a “La luce del giorno”, da noi meglio conosciuto con il nome del film che ne fu tratto: “Topkapı”, anche se devo riconoscere che la sua miglior prova di spionaggio è il suo quinto libro “La maschera di Dimitrios”.

Questo è il suo terzo libro, pubblicato verso i suoi trent’anni, ancora pieno di un sentimento di sinistra che lo accompagnerà fino alla disillusione del patto Stalin – von Ribbentrop del ’39. Qui si gustano in pieno i due tratti distintivi della sua prima produzione: l’utilizzo di personaggi ordinari, venutisi a trovare in situazioni più grandi di loro, dei veri antieroi, ed il sentimento di ribellione verso il baratro verso cui correva l’Europa in quegli anni. Non a caso, in questo libro le spie, che pur ci sono, sono legate agli ambienti fascisti italiani. Non a caso vengono stigmatizzate le iniziative tedesche avvenute dopo il ’33, con un accenno, sicuramente ante-litteram ai campi di concentramento per chi si oppone a quel regime. Non a caso, per bocca di un rifugiato antinazista sentiamo una bella tirata sulla socialdemocrazia tedesca di Weimar, degna quasi di un libro di storia ma pronunciata con ritegno da un personaggio costretto a giustificare la propria doppia identità.

Qui, il nostro antieroe è una specie di apolide: Josef Vadassy, nativo di Szabadka, ora meglio nota con il nome di Subotica. Alla nascita, era una città ungherese, poi per il trattato di Trianon che dissolse il vecchio Impero Austro-Ungarico, venne data alla Jugoslavia (ed ora è cittadina della Serbia). Per questi motivi Vadassy non ha un passaporto regolare, e vive in Francia, precariamente, come insegnante di lingue. Dato che conosce ungherese, tedesco, francese, inglese ed italiano.

Vadassy si concede ogni anno una piccola vacanza nel sud della Francia, questa volta a La Ciotat, piccola cittadina tra Tolone e Marsiglia. È un appassionato fotografo naturalista, con una costosa macchina fotografica al seguito. Tutto comincia quando, inviando un rullino allo sviluppo, si scopre che contiene foto delle difese navali di Tolone. Accusato di spionaggio, ci si accorge ben presto che ci deve essere stato uno scambio di macchine. I Servizi Segreti francesi, allora, lo incastrano: deve trovare la spia, altrimenti verrà espulso, cosa che dato il suo stato incerto, potrebbe costargli la vita.

Si capisce allora che, più che un romanzo di spie, è un giallo dove l’antieroe Vadassy deve risolvere il rebus: chi degli ospiti del suo hotel può essere la spia? Ambler ha qui il modo di sviluppare la descrizione dei diversi personaggi presenti sulla scena, e di farci ammirare le peripezie del nostro sfigato alla ricerca di risolvere il mistero. Vadassy prende sempre le decisioni sbagliate, mettendo sé stesso anche in pericolo. Ovvio che essendo un eroe per caso, alla fine troverà il modo di dare un suggerimento giusto alla polizia, che provvederà non tanto all’arresto della spia (l’investigatore francese sapeva sin dall’inizio il nome della spia) quanto, attraverso la spia, allo smantellamento della piccola rete spionistica antifrancese.

Vediamo allora chi sono i possibili colpevoli. I coniugi Vogel, svizzeri di lingua tedesca, sempre pronti al pettegolezzo. Gli americani Skeleton, forse fratelli, forse cugini, forse amanti, di sicuro hanno segreti. La coppietta fintamente innamorata, lei, Odette, sciacquetta e inconsistente, lui, André Roux, presupponente e decisamente antipatico. Il signor Duclos, che si finge industriale, ma che è solo un piccolo impiegato molto sopra le righe. I coniugi inglesi Clandon-Hartley, lui ex-maggiore e lei italiana, mascherati da benestanti ma realmente squattrinati. Poi c’è Emil Schimler, l’unico che escludiamo subito in quanto rifugiato antinazista.

A parte il divertimento dell’uso dei nomi (dalle varie lingue abbiamo Uccello, Scheletro, Ruggine, Clandestino, quasi a voler ogni volta indirizzare la colpevolezza attraverso nomi che possono essere inventati; nonché il protagonista, non a caso “Schiavo”), Ambler si muove a suo e nostro agio attraverso una trama leggera, ben scritta, forse un tantino scontata alla fine, ma ancora di gradevole lettura.

“Non è naturale che un uomo parli perfettamente più di una lingua.” (136) [e perché?]

Robert Harris “Enigma” Repubblica Spy 13 euro 7,90

[A: 10/04/2019 – I: 05/02/2022 – T: 08/02/2022] - &&

[tit. or.: Enigma; ling. or.: inglese; pagine: 412; anno 1995]

Una trentina di anni fa lessi il primo libro di Harris, “Fatherland”, che trovai interessante nel suo dipingere una ucronia ben delineata, anche se ben lontana dal capolavoro del genere, “La svastica sul sole” di Philip K. Dick. Poi, Harris è sempre stato ai margini, uno di quegli autori che forse si poteva leggere, ma che non trovavo occasione per farlo.

Ecco quindi, che, nella collana delle storie di spionaggio di Repubblica, ho modo di leggere il suo secondo romanzo, che, tuttavia, non solo risente il peso dei 28 anni trascorsi, ma è appesantito anche da una storia spionistica anch’essa leggermente ucronica, e purtroppo, mal rappresentata. Cioè, Harris parte da un fatto reale, il lavoro di crittografi alleati per decifrare codici segreti nazisti, ma ne inventa contorni, personaggi, trame abbastanza poco credibili, anche perché si scontrano con dati di fatto acclarati.

Il retroterra storico, quello reale, è più o meno ben noto: i tedeschi, sulla base di un progetto iniziato nel 1918 e successivamente modificato ed ampliato, costruiscono un apparecchio di codifica abbastanza complicato. Ci sono dei rotori con elementi alfabetici, che vengono innescati secondo codici prestabiliti, e che, in base al modo di innesco, forniscono, per ogni lettera una lettera alternativa. Il ricevente del messaggio, sapendo il codice d’innesco, fa il lavoro inverso e ricostruisce il messaggio. Questa macchina venne chiamata “Enigma”.

Già nel ’32, tuttavia, un’equipe di matematici polacchi riuscì a capirne il meccanismo, e progettò un elaboratore di intercetto, chiamato “Bomba”. Allo scoppio della guerra, i tedeschi usarono diversi tipi di “Enigma” per le varie trasmissioni, sia terrestri che navali. Gli inglesi misero su una squadra di analisti e matematici in località Bletchley Park, sotto la guida del grandissimo Alan Turing, che, facendo fronte alle modifiche tedesche, progetto una nuova macchina e riuscì a trovare il bandolo definitivo per decrittare i messaggi nemici. Elemento che portò notevole beneficio alla vittoria finale degli Alleati, soprattutto nel campo navale.

Ora su questa storia, dove sicuramente in Bletchley Park ci saranno stati elementi di spionaggio (siamo in guerra, che diamine), Harris costruisce il suo scenario fantastico. Pur citando Turing, fa recitare la parte del decifratore massimo al suo protagonista Tom Jericho. Poi inserisce una vicenda di spionaggio che mette in pericolo tutta la strategia alleata, per arrivare ad una soluzione che rende (quasi) tutti felici del successo. Meno ovviamente i cattivi.

Tom effettua una prima decifrazione dei codici, poi si innamora di Clair, una delle signorine presenti nel luogo, e quando questa lo schizza, lui, tra problemi di cuore e stress lavorativo, ha un collasso nervoso. Viene allontanato, ma poi, ad inizio romanzo, richiamato che gli analisti della squadra si trovano davanti ad un grande problema: i tedeschi, misteriosamente, cambino il codice di cifratura iniziale, quindi i messaggi non sono decodificabili, e si avvicinano importanti missioni transatlantiche con reali pericoli che i sommergibili tedeschi abbiano la meglio.

Tom torna, cerca Claire che però misteriosamente scompare. Abbiamo quindi due livelli di racconto: Tom ed i suoi che cercano di trovare il modo di risolvere il rompicapo cifrato e Tom con Hester, un’amica di Claire, che cerca di capire che fine abbia fatto la ragazza.

Per complicare il tutto, Harris ci fa a lungo credere che Claire sia una spia tedesca che passi informazioni al nemico. Tom, inoltre, essendo matematico è notoriamente per il folklore popolare una persona un po’ fuori di testa, così i suoi tentativi nelle due direzioni, vengono tenute sotto controllo di Servizi Segreti alleati, come se fosse possibile sia lui la spia.

Harris cerca di creare mistero, ma allunga solo il brodo, lasciando poi poche decine di pagine a reggere la vera suspense. Tom, in base ad intuiti ed aiuti da parte di Hester, decifra parte dei messaggi, capisce che si riferiscono a problemi tra polacchi e russi, ipotizza che Claire sia in combutta con il polacco presente a Bletchley Park, e si fa un film in testa.

Alla fine, sia i Servizi che Tom arrivano alla soluzione completa del problema, con Tom che ci porta anche ad una soluzione avanzata, che forse qualcuno sapeva, ma che è l’unico momento di reale interesse di tutto il libro. Perché, come non si dovrebbe fare, tutte le soluzioni vengono al fine trovate senza che il lettore abbia avuto indizi di possibili fatti che a loro portano. Come conigli che escono da cilindri.

Insomma, certo uno scrittore che sa scrivere, ma che traviso molto. Primo, Tom dovrebbe essere una specie di Turing mascherato, visto che gli si attribuisce la soluzione del mistero. Tuttavia, non è credibile che un Tom-Turing cada in depressione per una qualsivoglia Claire, visto che il buon Turing era gay. Secondo, uno degli elementi cardine della soluzione è la decodifica di un messaggio che narra del massacro di Katyn (l’esecuzione di 22.000 polacchi militari e non da parte dell’esercito staliniano). Ora, tutta la storia si svolge ai primi di marzo del ’43. Le prime notizie sul massacro di Katyn furono date solo dopo metà aprile dello stesso anno.

Ci sono anche altre piccole imprecisioni, ma la scrittura è già troppo lunga, per cui ne riporto solo una, che forse è anche dovuta alla cattiva stampante usata. Tra i libri di Tom che si porta a Cambridge, ne viene citato uno di “George Shoobridge Garr”. È un libro esistente, che fornì la base istruttiva per il grande matematico indiano Ramanujan. Peccato che l’autore si chiamasse “Carr”, con la “C”!

Come ormai dovreste sapere la quarta settimana è dedicata ad una trama di passaggio, senza altre aggiunte. Mi piace comunque ricordare una frase di un’autrice a me assai cara, la francese Fred Vargas che nel suo “Dans les bois éternels” sostiene “en amour, mieux vaut regretter ce qu’on a fait que regretter ce qu’on n’a pas fait” (162). Cioè, “in amore, è meglio rimpiangere qualcosa che abbiamo fatto, piuttosto che qualcosa che non abbiamo fatto”.

Per il resto, sembra che, nonostante il clima pesante di guerre e pandemie, qualcosa si stia muovendo. Forse si accumulano altre adesioni all’Islanda estiva. E si avvicinano altri interessanti week-end di riposo e di cultura. Speriamo che tutto si riesca ad appianare, anche se le notizia, intorno al globo, non sono delle migliori. Ma io, lo sapete, sono sempre portato all’ottimismo della volontà. Per cui vi abbraccio di nuovo.

domenica 17 aprile 2022

Dei viaggi in giallo - 17 aprile 2022

Non perché si parli di viaggi in senso stretto, ma perché, tramite la “Passione Noir” di Repubblica, incontriamo scrittori in giro per l’Europa. Si comincia con una buona prova del greco Markaris, seguito da una caduta di interesse dello svizzero Suter, si risale un po’ sia con la spagnola Ribas che con il tedesco Buchholz. Terminando ancora un po’ in discesa con lo scozzese McCall Smith (che tuttavia scrive di una agenzia investigativa nel Botswana). Con tutti i limiti che cito, comunque, il greco rimane nella mia testa (soprattutto per la simpatia verso il commissario Kostas Charitos).

In finale, vi consiglio un’attenta lettura del mio ritratto come esce dalla penna di Martin Suter.

Petros Markaris “Il prezzo dei soldi” Repubblica Passione Noir 4 euro 7,90

[A: 17/07/2018 – I: 25/08/2021 – T: 27/08/2021] - &&& 

[tit. or.: Offshore; ling. or.: greco; pagine: 302; anno 2016]

Undicesimo titolo della serie legata al commissario Kostas Charitos, opera dell’ottimo scrittore armeno Bedros Markarian, poi naturalizzato greco con il nome di Πέτρος Μάρκαρης (Petros Màrkaris). L’ho seguito fino ad ora, e penso che continuerò a seguirlo, anche in questa parte della sua opera dove il noir, il poliziesco è un di cui per parlare del mondo attuale, in particolare della Grecia, ed ovviamente di riflesso, dell’Europa.

Dopo aver completato la tetralogia della crisi, ora, come immaginavo dal titolo precedente, che recava in finale la postilla “Epilogo”, qui si parla non di altro, ma di cosa avviene dopo aver toccato il fondo. Ed è un romanzo eminentemente politico, anche se l’autore deve mascherare i suoi strali con qualche camuffamento, velato ma facilmente scopribile.

Non entro nell’analisi delle vicende greche reali, facendo solo un piccolo parallelo con la realtà. Il libro è scritto nel 2015-2016, a cavallo delle elezioni greche del settembre 2015, che vedono il mantenimento della quasi maggioranza del movimento Syriza guidato da Alexīs Tsipras. Era stato proprio Tsipras che nell’ultimo anno, con un mix di austerità ed aperture. Una politica che riesce, in breve tempo, a scardinare le secche in cui si stava impantanando la vita economica dei greci. Ora, noi sappiamo, che alle successive elezioni del 2019, la maggioranza passa da Syriza alla destra di Nuova Democrazia di Kyriakos Mītsotakīs. Ma questa è storia, mentre Markaris parla di romanzo.

Nel romanzo, si respira il clima di ripresa, guidata da una formazione nata improvvisamente sull’onda della crisi, una formazione prima inesistente, che Markaris indica con il nome K.E.AN. (Komma Ethnikis Anatropìs, cioè Partito Nazionale del Cambiamento) e su cui torneremo con una domanda nel finale. Un partito che promette di risollevare l’economia greca in tre mesi, se gli viene data carta bianca. Cosa che succede alle elezioni, e dove i cambiamenti si vedono subito, che si cominciano ad aumentare gli stipendi, e gli investitori iniziano a tornare in Grecia.

Certo che Kostas, sollecitato dalla moglie Adriana, e dal suo amico Lambros, si domanda da dove vengono i soldi che stanno risollevando il paese. Domanda che si collega al titolo e sulla quale torneremo sempre in finale.

Nelle more, ci si deve innestare il filone poliziesco. Così viene assassinato un piccolo gestore di porti e posti barca. Indagando, Kostas scopre ben presto che era legato a commerci in nero, anche di stupefacenti. Ma due sbandati si fanno arrestare accusandosi dell’omicidio, ed il nuovo capo di Kostas gli impone la fine delle indagini.

Poco dopo, viene ucciso anche un armatore, ben più importante, con una grande flotta ex-greca, ma ora di stanza a Londra. Dopo la morte, la flotta, ed altre a lei vicina, annunciano il ritorno in Grecia. Kostas scopre situazioni poco chiare nelle vicende precedenti alla morte, ma due georgiani si fanno arrestare accusandosi dell’omicidio, ed anche qui Kostas viene bloccato.

Non si blocca il suo amico giornalista, che però anche lui viene ucciso poco dopo. Stessi meccanismi, misteri possibili, ma un iraniano si fa arrestare, e tutto si insabbia (come ben legge Kostas nel suo impagabile dizionario greco, il Dimitrakis, analogo del nostro Devoto-Oli).

Kostas rischia di suo nel continuare le indagini, e, avendone trovato il bandolo, viene ad un colloquio di difficile gestione con un personaggio probabilmente (ma non viene detto esplicitamente) legato alle forze di governo. Che gli fa capire che queste morti sono “effetti collaterali” dello sforzo della politica di riportare a galla la Grecia. Markaris, comunista di fondo, fa capire che potrebbero esserci dietro mafie di tutti i tipi, nonché fondi neri provenienti da paradisi fiscali. Ma il tutto viene sospeso, perché a volte è meglio sapere molto ma fare poco, per il bene di molti. Chi siano questi molti, il nostro lo dice. Anche se non ci fa capire fino in fondo quali saranno le future decisioni di Kostas, che io rimando alle prossime puntate.

Intanto vengo a sciogliere le due domande sopra espresse. Una sul titolo, che ovvio tutto il romanzo si basa su quello scelto per la versione italiana, cioè sul potere dei soldi. Mentre il titolo originale era non in greco, ma come vedete sopra, in inglese, cioè “Offshore”. Che, come dice il dizionario italiano, si riferisce “ad un’operazione che si svolge al di fuori del sistema economico di un paese allo scopo di usufruire di condizioni di maggior convenienza sul piano fiscale e legale”. Sia dentro che fuori la legge.

L’altro riguarda il partito, che esiste in Grecia come KEAN (Kinima Ethnikis Antistasis, cioè “Movimento di resistenza nazionale), che nelle elezioni del 2015 prende 619 voti, pari allo 0,01%. Vorrei sapere da Markaris il motivo di questa scelta.

Per finire, un dubbio che mi era sorto quando all’inizio si parlava della Pasqua all’inizio di maggio, cosa impossibile che al massimo si può arrivare al 25 aprile. Poi mi sono ricordato che si tratta della Pasqua ortodossa, che viene celebrata seguendo il calendario giuliano, e quindi può arrivare sino all’8 maggio. Chiarito l’errore, non ci sono ulteriori punti di domanda.

Martin Suter “Allmen e le libellule” Repubblica Passione Noir 25 euro 7,90

[A: 01/11/2018 – I: 25/09/2021 – T: 26/09/2021] - &&--

[tit. or.: Allmen und die Libellen; ling. or.: tedesco; pagine: 187; anno 2011]

Martin Suter è uno dei pochi a me noti scrittori svizzeri di lingua tedesca. Laddove, come ricordavo in altri scritti, mi rimanevano in testa solo Max Firsch e Friedrich Dürrenmatt. Tra i viventi, non ne rammento nessuno. Il quasi settantacinquenne zurighese ha di certo un buon successo, tanto che ormai vive quasi stabilmente a Ibiza, sia per la produzione direi “normale” sia per la serie dedicata ad Allmen, che è stata anche portata sullo schermo. Anche se non con grande successo, visto che in Italia è stata trasmessa in agosto dello scorso anno.

Per trani destini delle letture, ho già incrociato l’autore ed il suo personaggio in un libro della collana di scritti per l’arte e sull’arte del Corriere. Senza averne avuto una grande impressione. Però quello era il terzo titolo della serie, in base alla quale sappiamo che, ad un certo punto della sua vita, Allmen fonda un’agenzia per il recupero delle opere d’arte rubate, la "Allmen International Inquiries", che avrà il capzioso motto "The art of tracing Art".

Qui, invece, siamo alle prese con la nascita del personaggio, cosa che da un certo punto di vista è risultata più interessante. Anche perché, nel complesso, il libro non mi è sembrato particolarmente attraente, con una trama di certo un po’ ingarbugliata, ma anche lineare e scontata nel suo progredire verso una fine note.

Comunque, iniziamo a conoscere il protagonista: Johann Friedrich von Allmen. Intorno ai quarant’anni, erede di un cospicuo patrimonio paterno, ha il solo pregio di non voler far nulla nella vita, riuscendo in breve tempo a dilapidare tutti i soldi. Non solo, ma a vendere la villa avita ad una banca, ottenendo in cambio di poter vivere nella dépendance, insieme al fido ex-maggiordomo, ora tuttofare, Carlos. Non guida, e gira con una Cadillac guidata da un autista, viaggia con valigie di Louis Vuitton, distribuisce mance sostanziose, ha un palco all’Opera, parla cinque lingue, ma non disdegna di parlare lo “svizzero-tedesco” quando gira in città.

Avendo avuto una buona educazione, come si evince dalla citazione sotto riportata, si sa muovere nel suo mondo, conosce l’arte, ama l’opera. Insomma, è un dandy che vive al di sopra dei propri mezzi. Per mantenersi, quindi, scopre che la migliore risorsa sia dedicarsi a piccoli furti, generalmente di oggetti d’arte, che rivende ad un fido mercante d’arte. Furti che distanzia sul territorio in modo da non esserne mai (o quasi) coinvolto.

All’opera conosce Jojo, una ricca ereditiera con cui finisce a letto. Nella concitata fuga notturna per non essere scoperto dai genitori di lei, scopre una stanza dei tesori, dove sono custodite, tra l’altro, 5 coppe uscite dalla mano di un abile vetraio, Emile Gallé. Ovvio che ne ruba una e l’offre al suo mercante. Ma i soldi non bastano mai, quindi, pressato da un minaccioso usuraio, decide di fare un secondo furto presso la bella. Qui avvengono due fatti: la collezione è ancora completa (da dove viene la quinta coppa rubata?), e, cercando di risalire alla radice del problema, scopre che il suo mercante è stato assassinato.

Allmen allora dovrà impegnarsi, per non essere accusato né del furto né dell’omicidio, a risolvere un complicato caso di frodi assicurative che coinvolge finanzieri e collezionisti di alto bordo, disposti a tutto per salvaguardare i loro interessi. Sarà il fido Carlos ad aiutarlo ad uscire indenne dall’intrigo in cui si stava cacciando.

Ed una volta risolto, i due avranno modo di volgere al meglio quest’esperienza, facendo nascere quella società, di cui sopra, e che sarà il nodo centrale delle successive avventure di Allmen.

Come nell’altro libro letto, l’intreccio è abbastanza risibile, non c’è un vero pathos. C’è di certo una piacevolezza nel leggere i modi in cui Allmen truffa la gente (almeno qui) e nei modi con cui metterà a frutto la sua esperienza, nei successivi libri. Siamo nell’area di un intelligente divertissement, che però rimane solo un divertissement.

Un ultimo accenno: l’idea di base è venuta a Suter da un furto, realmente avvenuto in Svizzera, nel 2004, di cinque coppe firmate Gallé. Che, ricordo, fu un vetraio di valore, i cui oggetti d’arte sono esposti in molti musei. Ma fu anche molto impegnato politicamente, tanto da battersi, con Zola e gli altri, per l’assoluzione del capitano Dreyfuss.

“Era un lettore avido. Lo era sempre stato, sin da bambino. … leggeva qualunque cosa gli capitasse a tiro. Opere straniere, classici, novità, biografie, cronache di viaggio, opuscoli, istruzioni per l'uso. Era cliente abituale di diverse librerie che vendevano volumi a prezzi ridotti, in più era già capitato che facesse fermare un taxi davanti a una casa per recuperare un paio di libri buttati insieme ai rifiuti ingombranti. Una volta cominciato un libro doveva per forza arrivare alla fine. Anche se si trattava di una pessima lettura. Non era questione di rispetto verso l’autore ma di curiosità. Era convinto che ogni libro contenesse un segreto, magari semplicemente il motivo per cui era stato scritto. E scoprire questo segreto era praticamente un obbligo. In effetti, più che di letture era avido di segreti.” (37) [praticamente un ritratto…]

Rosa Ribas “La detective miope” Repubblica Passione Noir 14 euro 7,90

[A: 05/09/2018 – I: 28/09/2021 – T: 30/09/2021] - && e ½   

[tit. or.: La detective miope; ling. or.: spagnolo; pagine: 217; anno 2010]

Un libro iniziato con una serie di fraintendimenti, che alla fine si riscatta, anche se rimane poco sotto la media di gradimento degli scritti del genere nero. L’avevo preso in mano pensando fosse una scrittrice sarda, visto anche il titolo italiano. Poi scopro che in italiano e spagnolo “detective miope” si scrive uguale. Tra l’altro, poi, scopro che Rosa Ribas non solo è spagnola di Barcellona, ma si occupa di filologia, in particolare tedesca, e vive a Francoforte dove insegna all’Istituto Goethe. Iniziando a leggerlo, inoltre, penso sia il solito giallo-umoristico, che il personaggio principale ed alcuni attori comprimari suscitano alcuni sollevamenti di labbra. Ma non è così, e pur mantenendo un andamento tra l’ironico ed il triste, si rivela meno allegro di quanto pensassi. Ed io che l’avevo portato in viaggio di nozze per divertirmi un po’.

L’idea di fondo che fa partire il treno della trama deriva da molto lontano. Esattamente, da un racconto dello scrittore e psicologo ungherese Frigyes Karinthy che nel 1929 scrisse un breve racconto (di cinque-sei pagine) intitolato “Catene” dove lanciava l’idea che tutte le persone fossero tra loro collegate da un numero finito di conoscenze. Nasceva allora la teoria dei “sei gradi di separazione”. Non entro nella teoria, ma vediamo l’idea che Rosa Ribas ne ricava.

Irene Ricart ha subito un grave lutto: Victor il marito poliziotto e la loro figlia Alicia vengono assassinati. Irene cade in una grave depressione, viene ricoverata in un ospedale psichiatrico, dove le diagnosticano una progressiva (ed irreversibile) miopia. Tra le stanze dell’ospedale e la panchina n.8 del giardino, Irene elabora la sua teoria. È possibile che esitano sei gradi di separazione anche tra i crimini che vengono commessi. Quindi indagando su cinque casi criminali, dovrebbe riuscire a trovare chi ha ucciso marito e figlia.

Così, uscita dalla clinica, si fa assumere dall’agenzia investigativa “Detectives Marin” gestita da Miguel Marin, uno che sembra sapere più di quello che sa, ma che diventa un nume tutelare per Irene. Interessante anche la descrizione dei colleghi di Irene nell’agenzia: Rodrigo Carrasco, il veterano, quello che vede ma non compare, cui Marin si affida nei casi complessi; Felix Marin, nipote di Miguel, l’esperto informatico dalla faccia da putto del Rinascimento; l’argentina Flavia Irigoyen, giovane, forzuta, con cui inizialmente non ha un buon rapporto, ma che migliora nel tempo; per finire con Sarita Picó, la segretaria, che sarà da subito solidale con lei.

Vediamo così che Marin le affida diversi casi, ognuno dei quali, analizzato da Irene, sembra che la porti vicino alla soluzione. Quindi, uno dopo l’altro, assistiamo ad Irene che risolve i cinque casi. Quello di Jaume Peyrò jr., lei essendo ingaggiata dal padre visto che Jaume sbaglia i conti della ditta, ma lo fa per sostenere la sua compagna, un’attrice porno affetta da alopecia. Quello di Marius Rovira che vuole sapere le sue ascendenze e scopre di essere di sangue mulatto senza averlo mai saputo. Quello di Jordi Gasull, un fabbricante di occhi finti, che le chiede di ritrovare un suo cliente, per cui aveva costruito un occhio color nocciola e che poi è scomparso. Quello di Kono Berger indagato per le troppe assenze, che Irene scopre essere dovuto al fatto di travestirsi di notte nel personaggio della regina hawaiana Lilì Uokolani. Infine, quello di Alina Vlasceanu con una strana storia di ragni e di amanti.

Irene trova un senso a tutto ciò, e risolve anche il suo caso. Ora, però, mentre andando per via, durante il percorso, risulta gradevole, la fine la trovo un po’ appiccicata, un po’ forzata. Anche per questo, credo, che pur sembrando un personaggio che poteva far nascere una serie, la scrittrice scriverà di neri seriali, ma con altre protagoniste. E vedremo se entreranno qui.

Quello per cui ringrazio però Rosa Ribas è più che altro avermi fatto ritornare per le strade di Barcellona, laddove non giravo più dai tempi di Pepe Carvalho. Così, con Irene, sono tornato al quartiere di Poble Sec, mi sono aggirato per i derelitti del Montjuic, e poi siamo saliti sino alla parte elegante, al Tibidabo. Già solo per questo è tato gradevole. Ed anche per altri personaggi minori, su cui non ha molto senso nell’economia della trama tornare su, ma che denotano una felice mano legata ad un occhio che osserva realmente.

Una lettura nata trasversa, che si è aggiustata per via, anche se non si è chiusa come mi aspettavo. Cioè con spiegazioni convincenti e solidi. Ma va bene anche così.

“I bravi bugiardi sono quelli che mescolano una dose sufficiente di verità con la menzogna, di modo che non devono inventare tutto ed evitano di commettere errori.” (66)

Simone Buchholz “Revolver” Repubblica Passione Noir 22 euro 7,90

[A: 19/11/2018 – I: 22/01/2022 – T: 24/01/2022] - && e ½

[tit. or.: Revolverherz. Ein Hamburg-Krimi; ling. or.: tedesco; pagine: 237; anno 2008]

Non dispiace, ogni tanto, incontrare un nuovo personaggio nel vasto panorama della letteratura gialla (o poliziesca o “krimi” come si dice verso il Nord). Quindi anche un nuovo autore, o meglio autrice, essendo Simone una scrittrice (discretamente) prolifica in questo genere di espressione, avendo dal 2008 ad oggi pubblicato dieci romanzi con protagonista Chastity Riley.

Intanto alcune note, positive e negative, per entrare in argomento. L’originale recita, a parte il titolo su cui torniamo, il sottotitolo: “Un giallo di Amburgo”. Ora in italiano, questa edizione dei Noir di Repubblica fa sparire sottotitoli dalla copertina, relegandolo all’interno e modificandolo in “Le ragazze del porto di Amburgo”. Dove “ragazze” e “porto” sono una aggiunta immaginifica, e se volessimo proprio cercare il pelo nell’uovo, magari avremmo dovuto inserire nel titolo il teatro dell’azione, cioè St. Pauli, il quartiere a luci rosse di Amburgo.

Poi, il titolo tedesco oltre a revolver, contiene il suffisso “herz” che, pur con le mie scarse conoscenze del tedesco, credo si riferisca a “cuore”. Concludo quindi che una pistola del cuore che viene declassata a semplice pistola, merita una reprimenda da parte del traduttore. O della casa editrice che l’ha portata in Italia, la Emons Edizioni.

Sul versante positivo è l’ambientazione ed i personaggi che ruotano intorno alla protagonista. Perché siamo ad Amburgo, una città che conosco poco, ma che merita forse qualche approfondimento. Non solo, ma come detto siamo a St. Pauli, anche qui con necessari approfondimenti in loco (quando si tornerà a viaggiare?). Inoltre, la protagonista è anche tifosa della squadra locale, il St. Pauli, che, al tempo della scrittura, era reduce da una splendida Coppa di Germania (semifinalista) e dalla promozione in Bundesliga. Ora è in Seconda Divisione, ma lotta per la promozione. E noi faremo il tifo per la squadra, sia per Chastity, che per la squadra stessa.

Venendo ora al contendere, cioè al testo, facciamo la conoscenza di Chastity Riley detta Chas, procuratore proprio a St. Pauli. Figlia di un americano e di una tedesca, viene abbandonata piccolissima dalla madre, che fugge in America con un altro. Cresce con il padre americano che decide di vivere in Germania, anche se depresso. Tanto che quando lei ha vent’anni, si spara un colpo in testa, con un revolver che rimarrà “in regalo” a Chas (quello del titolo, I suppose). Contrariamente poi al suo nome, è tutto fuorché casta. Beve a tutto tondo, spesso con Carla la sua amica del cuore, concupisce (giustamente) l’altro sesso, ed ha una storia intermittente (almeno in questo libro), con il suo vicino di casa. Il cui nomignolo viene tradotto con “Sberla”, quando il tedesco recitava “Klatsche”, che (aiutami cugino) credo si riferisca a “gossip”. Tanto per sottolineare poi il lato trasgressivo di Chas, il vicino è un ex-scassinatore, ora dedito alle serrature di sicurezza, ma con buone entrature nel mondo criminale.

Il quarto elemento che sembra fondamentale per il racconto è Faller, il commissario capo, che lavora molto bene in coppia con Chas, ma che ha (credo) problemi di salute, tanto che mi aspetto scompaia nelle puntate successive.

Il giallo gira intorno al ritrovamento, in giorni successivi, di belle signorine uccise per strangolamento e poi private dello scalpo e lasciate in varie parti del porto, nude. Chas e la sua squadra scoprono ben presto che tutte fanno parte del corpo di ballo di lap dance di un locale a luci rosse di St. Pauli, l’Acapulco. Si fanno ricerche, si incrociano dati, ed alla fine si trova il bandolo della matassa. Purtroppo, senza troppa partecipazione di noi lettori, che ipotizziamo la soluzione fin dalle prime battute, ed aspettiamo solo di vederne lo svelamento finale. Che è concitato, che coinvolge la pistola del titolo, ma che non riserva sorprese.

Il bello, e per questo il libro ha una buona gradevolezza di lettura, è il contorno. L’ambiente, come detto. I vari personaggi del mondo di mezzo che circolano per Amburgo. La squadra di Chas, i pedinatori, il medico legale (antipatico) e la sua assistente (molto simpatica). L’amica Carla e le sue storie che sembrano finire male sino a che non trova uno scozzese “tutto sesso e simpatia”. Le partite del St. Pauli. Il rapporto tra Chas e “Sberla”.

Quello che è invece veramente poco azzeccato nell’edizione italiana, è la presentazione dei personaggi, stile “Gialli Mondadori” che, per la poca accuratezza, ci fa capire molto di quello che succederà. Un vero peccato.

Alexander McCall Smith “Salone di bellezza per piccoli ritocchi” Repubblica Passione Noir 9 euro 7,90

[A: 03/09/2018 – I: 10/02/2022 – T: 12/02/2022] - && +

[tit. or.: The Minor Adjustment Beauty Saloon; ling. or.: inglese; pagine: 267; anno 2013]

Ecco che dopo circa tre anni, torno a leggere del simpatico scozzese e delle sue storie. In realtà, McCall Smith è originario della Rhodesia (ora Zimbabwe) pur se da genitori scozzesi, ma alla recrudescenza del razzismo nella regione, nei primi anni ’80, il poco più che trentenne Alexander torna in Scozia, dove da allora vive a Edimburgo (in una zona dove ha, per vicini di casa, J. K. Rowling e Ian Rankin, che chi sa di scrittura ben conosce).

Metto questa introduzione, che, forse, molti miei attuali lettori si sono persi le prime scritture del nostro. Che incomincia a leggere perché la mia amica Chiara, di ritorno dalla Scozia, mi disse che erano scritte in un “simply english” gradevole da leggere. Poiché io sono capoccione, ovviamente, ne cominciai a leggere in italiano, seppur qualche puntata in originale l’ho fatta, confermandone il sopra citato giudizio.

McCall Smith, giurista ed esperto di bioetica, ha scritto sino ad ora un numero impressionante di libri, molti anche per l’infanzia. Io seguo, con alterno interesse, le sue tre serie principali, il “Club dei filosofi dilettanti” (dove tratta di temi etici), il “44 Scotland Street” (dove si parla di rapporti interpersonali, ed è una strada esistente, che ho visitato, anche se termina al numero 43) e le storie di Precious Ramotswe, la prima donna detective del Botswana, cui fa parte questo scritto. Nelle tre serie ha scritto, in totale, 52 romanzi, di cui io ne ho circa un terzo.

In questa serie, questo salone di bellezza è il quattordicesimo titolo, avendo poi la particolarità vincolante, che le storie procedono in ordine, così che i personaggi e le situazioni si legano, evolvono, ne possiamo vedere i nuovi aspetti. Per questo, fermiamoci un attimo rammentando i personaggi principali.

Ovviamente, c’è Precious Ramotswe, abbastanza robusta (40 anni e taglia 54, ma lei dice “di taglia tradizionale”). Dopo un fallimentare matrimonio, con i soldi lasciategli dal padre, apre la prima agenzia investigativa femminile a Gaborone in Botswana. Dal quinto romanzo sposa J.L.B. Matekoni, valente meccanico, proprietario di un’officina vicino all’agenzia. Uomo timido, ha una passione sconfinata per Precious, cercando di aiutarla in tutti i modi. Il terzo personaggio è Grace Makutsi, inizialmente segretaria dell’agenzia, poi, per il suo acume e la capacità di fare da spalla a Precious, farà carriera fino a diventare partner dell’agenzia.

Come spesso accade nei suoi testi, McCall Smith segue diversi filoni durante un romanzo. Così in questo in realtà abbiamo tre storie che si intrecciano, di cui due legate alle investigazioni delle nostre detective. Dove, infatti, per la maggior parte trattano casi di violenza domestica, infedeltà coniugale e riappacificazioni varie.

La storia spuria narra la nascita del figlio di Mma Makutsi, dove apprezziamo alcune considerazioni sulle relazioni sociali nella società africana tradizionale.

La prima inchiesta riguarda un caso di eredità. Alla sua morte, un possidente lascia tutta la sua fattoria ed il suo bestiame al nipote. L’avvocato incaricato dell’esecuzione testamentaria non è però convinta che il nipote sia realmente tale ed incarica Mma Ramotswe di risolvere il caso. Tra una tazza di tè (poi ci torniamo) ed una torta, la nostra scopre che in realtà il nipote è il figlio segreto del morto, con alcune complicazioni tra morti e riconoscimenti vari. Ma alla fine il giovane avrà quanto gli spetta.

La seconda è quella che dà il titolo al romanzo. La proprietaria del Salone del titolo viene a lungo calunniata e rischia di andare in rovina. Qui sarà Mma Makutsi che, scoprendo le modalità d’uso di una fotocopiatrice, risolverà il caso e permetterà al salone di avere il suo giusto spazio e riconoscimento.

Come si capisce, sono temi etici anche qui che interessano l’autore. Le difficoltà delle donne africane di avere lavori non tradizionali. La società rurale africana contrapposta alla pretesa modernità. La medicina tradizionale rispetto a quella occidentale. Il tutto trattato con molta leggerezza, ma anche con una profonda conoscenza del mondo locale. Senza entrare nel merito delle questioni (si avrà spazio altrove, forse), ad esempio, apprendiamo che la popolazione locale sono i tswana, che il prefisso “Bo” significa nazione (da cui Botswana). Che la lingua locale è indicata dal prefisso “Se” (da cui Setswana come lingua ufficiale). Che le donne sposate, da noi indicate come signore, vengono chiamate Mma, ed i loro mariti Rra. Ed altre geografiche amenità.

Non ultima quella della bevanda preferita da Precious, indicata nel testo come tè rosso. In realtà, è una tisana di “rooibos”, una pianta che cresce in Sud Africa, simile al tè, che si beve in infusione. Il nome corretto sarebbe “tè rosso africano”, essendo quello solo “rosso” una varietà del tè nero cinese. Non dovendo inoltre essere neanche chiamato tè, che non deriva dalla Camellia, ma da una leguminosa, e quindi non contiene caffeina.

Una lettura etnica, quindi, con alcuni risvolti etici. Non eccelsa come pathos nello svolgimento, ma certamente di curiosità intellettuale.

“Anche se ormai erano sposati da qualche anno, ancora non riusciva a capacitarsi della fortuna che aveva avuto a trovare una donna come lei.” (166)

“Dobbiamo tutti conoscere la nostra storia, ma ha davvero importanza che questa storia sia vera o inventata?” (255) 

Siamo nella terza settimana di aprile, ed in mancanza di altri spunti, vi omaggio di alcune belle frasi lette nel novembre di tredici anni fa.

Ma oltre ad essere la terza domenica, è anche Pasqua, che si sperava di resurrezione e di pace, ma che ancora non lo è. Allora, mi viene ancora in mente, come in questi momenti in cui non si sa cosa succederà, quello che diceva Jean-Patrick Manchette quando si finisce un libro e si lasciano i personaggi vagare nella propria mente. In “Morgue pleine” diceva “J’ai pris un livre… et l’auteur nous laissait là-dessus, ce qui m’a paru assez déloyal. Ce que j’aurais aimé savoir, c’est ce qui se passait ensuite. Ce qui arrivait au père. Sans doute l’auteur était-il incapable de l’imaginer”. Io rimango sempre su quel punto: sarei felice di sapere cosa succedeva dopo ai miei personaggi. Cosa succederà, dopo, di questa guerra e di questi interpreti del mondo, quando si chiuderà questa pagina.

Io, nel mio piccolo e modesto progredire, non posso che continuare nella mia sfida: viaggiare, se possibile, volervi bene tutti.

P.S.: nell’ambito dei vostri consigli, questa settimana cito Ian McEwan ed il suo “Chesil Beach”.

Citazioni dagli appunti di Giovanni

Citazioni di aprile

Le citazioni di queste mese mi riportano agli ultimi mesi del 2009 ed alle letture di quel periodo.

La prima frase che mi viene sulla punta delle dita risale ad uno scrittore brasiliano non molto noto in Italia, pur essendo considerato dieci anni fa uno dei migliori scrittori under 40 della sua generazione. Lessi di João Paolo Cuenca uno strano libro intitolato “Una giornata Mastroianni” dove il protagonista, seguendo un po’ le mie orme di allora, ripeteva “il mio problema è che non riesco a interessarmi a niente che non sia me stesso” (83).

Alla fine del mese di ottobre di quell’anno, lessi di fiato tutta la trilogia Millennium del bravissimo e compianto Stieg Larsson. Nel fondamentale, perché ha aperto un filone ormai quasi inesauribile, “Uomini che odiano le donne” affronta il tema dell’amicizia con due frasi che ho fatto subito mie: “l’amicizia si fonda su due cose… rispetto e fiducia. Entrambi i fattori devono essere presenti. E deve esserci reciprocità. Si può avere rispetto per qualcuno, ma se non c’è la fiducia, la confidenza, l’amicizia si guasta” e poi dicendo “non discuto di una persona amica alle sue spalle perché allora tradirei la sua fiducia”. Passando a cose più leggere, poi, se ne uscì con un’altra pietra miliare, sull’amore quasi per amicizia: “– è la tua ragazza? – Non proprio. È sposata. Io sono più che altro un amico e occasional lover… – anch’io avrei bisogno di un occasional lover”.

Un altro autore poco presente nella mia biblioteca fu letto in quel novembre, senza tuttavia lasciare grandi segni. Anche se ho preso in prestito una riflessione sul comportamento sociale. Parlo di Ugo Cornia che ne “Le pratiche del disgusto” dice: “è strano come uno, a fare esattamente la stessa cosa in casa sua e a farla in casa di un altro, delle volte quello che a casa tua ti sembra insopportabile, soltanto perché sei a casa di un altro diventa immediatamente non soltanto sopportabile, ma addirittura gradevole”.

Sempre in quel novembre, accogliendo un suggerimento del mio amico Luciano, lessi il primo libro di Maurizio de Giovanni e da allora non l’ho più lasciato, anche se non sempre mi sono piaciuti i suoi romanzi. In quel triste mese, Maurizio inserì alcune riflessioni nel libro: “Il posto di ognuno”. Una riguardava il senso del crescere, ponendo una fondante domanda ai suoi genitori: “Quand’è, mamma, che uno non è più un bambino? Quando è grande e forte e può decidere da solo? … Secondo me, sai, mamma, uno è adulto quando vede. E se vede, allora deve intervenire.” (207) Poi c’erano delle frasi che, in vario senso, mi riportavano a mio padre, scomparso allora da quasi due anni. “Un uomo muore quando non significa più niente per nessuno” (219) Ma soprattutto, per papà, era questa la frase che avrei voluto condividere con lui, e lui avrebbe capito: “Ricordate che non esiste solo il rimorso; esiste il rimpianto, che è peggio ancora … Se è necessario prendere un’iniziativa, una volta nella vita, lo si faccia. Per non passare poi tutti gli anni che restano a chiedersi che cosa sarebbe successo se si avesse avuto un poco di coraggio” (360)

A ruota, lessi anche “Il mio volto è uno specchio” di Enrico Luceri con un ricordo che ora sento ancora vibrare nel mondo: “Bisogna essere egoisti per sopravvivere in questo mondo.” (81)

Poi ci fu un colpo al cuore, quando lessi, io allora non ancora sessantenne, questa frase di Edgar Wallace nel suo altrimenti poco interessante libro “L’uomo dai due corpi”: “Ho più di cinquant’anni; sono brutto; sono vecchio; guardate queste mani da vecchio. … Ebbene, io vi amo! … Voi siete bellissima… la donna più bella che io abbia mai visto.” (99) E so ben io a chi dedicai e dedico quella riflessione.

Inoltre, dopo molti anni finalmente ero riuscito a finalizzare le letture che mi aveva suggerito la mia amica Chiara. In special modo “La strategia dell’orso” di Lothar Seiwert, forse a volte un po’ semplificatorio, ma con alcune frasi che condivido ancora: “chi è consapevole di ciò che vuole dalla propria esistenza ha già compiuto il primo passo verso una vita felice” (31); “non perderti in questioni marginali” (43); “il tempo è il bene più prezioso che possediamo” (44); “chi riconosce i propri errori è sulla buona strada per evitarli in futuro” (46). Per finire con il decimo e più importante consiglio dell’orso: “Realizza i tuoi sogni!” (105).

L’altra passione cominciata allora, fu quella per il grande pensatore Zygmunt Bauman che da non molto ci ha purtroppo lasciato. Ma ci ha lasciato tutte le considerazioni sul mondo liquido. Anzi, come lessi in quel novembre, su “Amore liquido”. Bauman è al solito pieno di pensieri che mi hanno forzato alla meditazione.

Molti sull’amore e sul rapporto tra due persone: “Amore e morte non hanno una storia propria: sono eventi che accadono nella storia di un uomo” (6); “Essere connessi è meno costoso che essere sentimentalmente impegnati, ma anche considerevolmente meno produttivo” (87); “ciò che amiamo è lo stato … di essere oggetti degni di essere amati. [E se siamo amati] … deve esserci in me qualcosa che solo io posso offrire… Qualunque cosa ci sia nel mondo che mi circonda, quel mondo sarebbe più povero, meno interessante … qualora io dovessi improvvisamente cessare di esistere” (110-111).

Ma anche sulla vita civile e sul rapporto tra noi e l’Altro. Un concetto che ora ci farà riflettere come settanta anni fa: “[Il grande fratello] è la narrazione pubblica della smaltibilità dell’essere umano: se mi servi sei con me, ma per vincere devo liquidare tutti” (122). Come, quest’altra riflessione, sulla difficoltà di convivere: “La verità appena pronunciata si trasforma in un’opinione. Il fatto che altri sono in disaccordo con noi … non è un ostacolo sulla strada della comunità umana. Ma la nostra convinzione che le nostre opinioni siano … l’UNICA verità esistente e che le verità altrui, se diverse dalle nostre, non sono altro che semplici opinioni, questo è un ostacolo alla convivenza.” (208)

Per passare dall’amore ai viaggi, intanto mi ricordo dei film da lui interpretati, ma anche dei suoi racconti di viaggio. Come ne “Il grande viaggio” dove Giuseppe Cederna fa una riflessione che condividerei con la mia amica Rosa “le storie sono come i fiumi. Nascono in alto, scendono fra gli uomini, raccolgono altre storie, si dividono e si confondono di nuovo” (195).

Infine, non posso non ricordare, a due anni dalla morte, un giornalista che ho anche avuto l’onore di conoscere. Ma soprattutto di apprezzare in alcuni suoi scritti. Ripenso quindi a “Il cammello battriano” di Stefano Malatesta.

Anch’io ho visto i cammelli battriani nel Ladakh, e non solo quelli in quel posto sperduto eppur bellissimo. E con Stefano (e Nina) condividevo alcune considerazioni: “Detto per inciso e una volta per tutte, la parola Assassino non viene da hashishiyun, fumatore di hashish, come in genere viene ricordato dai proibizionisti, nella speranza di bollare d’infamia l’uso delle droghe leggere, ma da assass, i fondamenti della fede” (58); “[Chatwin] in uno di questi [appunti] ricordava che nomos in greco significa pascolo, e il nomade è un capo che presiede alla distribuzione dei pascoli” (87); “Nabokov non è mai stato più ad oriente di Odessa. Ma le trenta o quaranta pagine [del Dono] in cui immagina di seguire il padre esploratore sono di una bellezza struggente, le più belle che qualcuno abbia mai scritto sull’Asia Centrale” (123).

Ma soprattutto, non posso dimenticare quando, sedicenne e speranzoso, mi aggiravo per la prima volta solo a Parigi. E lì scoprii la libreria di cui poi trovai traccia in questo ed altri scritti. “Chi può mai descrivere la felicità delle ore passate da Ulysse, rue Saint Louis en l'Ile, dove la proprietaria, Catherine Domain, considerata bisbetica nell’ambiente, mi accoglieva con la gentilezza riservata a chi aveva conosciuto Ella Maillart, l’intrepida viaggiatrice svizzera? E i pomeriggi da Orient, da Samuelian, e, tornando a Roma, nella Libreria del Viaggiatore?” (15-16)

Purtroppo, Malatesta è morto, come il proprietario della Libreria del Viaggiatore. Noi, si spera che dopo la pandemia ed in vista di una speranza di pace, si riesca a portare novità anche ad Ulysse.