domenica 31 gennaio 2016

Tutto è meglio di Mondadori - 31 gennaio 2016

Ovviamente sto parlando dei Gialli editi dall’esimia casa editrice, che, come dico nella critica, da quando sono in mano a Costanzo, hanno fatto un’impennata verso il basso degna del miglior Cagnotto. Così troviamo due illeggibili romanzi il primo di Manuela Costantini ma soprattutto il secondo di Stefano Pigozzi. In una settimana dove le altre trame proposte non certo brillano: abbiamo un onesto Biondillo ed un rivedibile Carofiglio. E niente di più, tanto che nessuno dei quattro libri si avvicina alla sufficienza.
Gianni Biondillo “Nelle mani di Dio” Guanda euro 5,50 (in realtà, scontato a 4,68 euro)
[A: 12/06/2015– I: 13/06/2015 – T: 15/06/2015] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 72; anno 2014]
Per le mie letture di Biondillo mi aspettavo qualche scatto in più, forse sulla strada dell’ironia che, latente o meno, circondava i primi passi dell’ispettore Ferrero. E quella Quarto Oggiaro che tanto mi ricordava le canzoni di Gianfranco Manfredi (dall’album “Ma non è una malattia”). Questa riprende l’edizione uscita un anno prima nei racconti del Corriere della Sera, e che avevo bellamente perso, anche perché erano quasi tutti (o tutti) usciti in digitale e non in cartaceo. Il nostro ispettore, che tanto si muoveva empaticamente con le zone della sua infanzia, si trova coinvolto quasi per caso nell’omicidio di una professoressa di matematica (un mestiere molto pericoloso, invero). Aveva accettato un passaggio da un collega, e si ritrova coinvolto nelle indagini, che il PM lo interessa alla ricerca del colpevole. In fondo, Ferrero conosce queste zone, e può dare una mano. E lui comincia a girare per il quartiere. Per il bar ormai gestito da cinesi. Per il centro islamico, dove i capannoni sono trasformati in moschea. L’unico indizio è che la professoressa sgridava spesso e volentieri gli studenti che mettono poco impegno nello studio. Ancora di più, inoltre, se la prendeva con i genitori, colpevoli di voler coprire le magagne dei figli. E sappiamo come in questo modo, invece di aiutarli, li si spinge verso derive a volte sconosciute. Ferrero parla con tutti, con i filippini genitori di Alvaro, con i sudanesi genitori di Abdullah, con i bianchi genitori di Beatrice. Nella vicenda si inserisce anche un furto di computer che non si capisce se sia stato il fatto scatenante o un elemento di copertura. Biondillo usa anche una pluralità di voci, facendo parlare genitori, baristi, imam ed anche e soprattutto, ragionare il nostro esimio ispettore. Che ha la mia stessa qualità: se ha bisogno di pensare si mette a camminare. Lo trovo uno dei modi migliori per mettere in riga le parole prima ed i pensieri poi. E quando tutto sembra convergere verso Salih, il padre di Abdullah, questi scompare. Tuttavia, convinto dall’imam, torna ed alla fine racconta a Ferrero la sua verità. Tutti i genitori erano in collera con la professoressa Loretta. Che questa li accusava appunto di scarsa responsabilità. E nella collera montante, si accende un parapiglia, dove alla fine è il padre di Bea che dà il colpo finale all’insegnante. Biondillo cerca di ricalcare le vicende alla Agatha Christie de “L’assassinio sull’Orient Express”, dove se tutti uccidono nessuno è colpevole. Ma qui non c’è accordo. Anzi c’è vero e proprio astio. I bianchi fanno comunella, ed isolano il povero Salih. È un racconto, è breve, e Biondillo non se la sente di andare verso un happy end in cui dovrebbe prendere posizione. La sua posizione la lascia capire, quando Ferrero, pur arrestando Salih, e pur cercando le prove verso i veri colpevoli, usa quella locuzione araba, spesso usata maldestramente, e ripresa dal titolo. Finale aperto ed amaro, che ognuno interpreta come vuole. Sapendo che spesso i condizionamenti di pelle e religione sono più forti di prove tangibili verso i WRC (White Roman Catholic). Lasciando per un attimo da parte la storia, e le sue interpretazioni, mi permetto di tornare su quell’”inschallah”, che, per l’appunto, viene mal interpretato come siamo nelle mani di Dio. O sarà fatta la volontà di Dio. O se Dio vuole. Nell’espressività islamica, c’è invece un elemento in più. Non ci si abbandona fideisticamente ad una risoluzione che viene dall’alto o dall’esterno. Si fa e si tenta tutto il possibile. Solo alla fine, quando tutto è stato tentato, analizzato, provato, magari senza risultato, dicevo solo alla fine si potrà rivolgere verso l’alto un sentito “Inschallah”. Per tornare dalla religione alla scrittura, dicevo che, pur con elementi di riflessione, manca sia lo strato ironico che ha sempre caratterizzato le vicende di Ferrero, sia una riflessione meno superficiale sui quartieri multietnici e sulla convivenza di razze e religioni come sempre più stiamo vivendo. Dove, almeno questo è il mio parere, dovremmo mantenere un totale rispetto dell’altro, pur mantenendo totalmente la nostra identità. Io ho sempre cercato, nel mio peregrinare per il mondo, di capire dove stavo mettendo i piedi e quale fosse il modo di vivere che stavo condividendo. Rispettandolo, e mantenendo in ogni caso il mio. Questo, reciprocamente, dovrebbe essere fatto da chi ci viene a trovare sul nostro suolo. Ma qui il discorso si fa altro, e ben lontano da Biondillo e dalle sue storie. Che spero di ritrovare con partecipazioni e scritture più intense.
Gianrico Carofiglio “Una mutevole verità” Einaudi euro 12 (in realtà, scontato a 8,40 euro)
[A: 13/07/2015– I: 08/08/2015 – T: 10/08/2015] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 118; anno 2014]
Dov’è finito l’avvocato Guido Guerrieri? Le sue passeggiate, le sue pensate, le sue scazzottate? Fino ad ora, ho letto tutti i libri di Carofiglio in cui agisce il buon avvocato, tanto che mi è diventato un personaggio - totem, di quelli che ti aspetti di ritrovare sempre, anche se mutati, in tutti i libri. Ed ho letto soltanto due libri “altri” di Carofiglio: le bellissime passeggiate per Bari di “Né qui né altrove”, e la delusione di quel molto antico “Il passato è una terra straniera”. E fino ad ora ero convinto sia delle indubbie capacità scrittorie dell’ex-magistrato sia della sua difficoltà patologica di lasciare da parte Guerrieri. Dato il battage che se n’è fatto e la vittoria che ha ottenuto lo scorso anno nel Premio Scerbanenco, mi aspettavo quindi che questa verità cangiante smentisse i miei assunti. Purtroppo no. Il racconto lungo è ben scritto, si fa leggere quasi con piacere, ma non ha spessore. Non prende, come giallo, neanche alle prime pagine. Sembra quasi l’autore voglia costruire un plot per imbastire storie future, e non per presentare una storia, ed eventualmente su quella costruire un personaggio. Al centro il maresciallo Pietro Fenoglio, che inquadriamo subito essere un tipo di cuore (da buon maresciallo italiano), di pensiero (passeggia per riflettere, un po’ come il Ferrero di Biondillo, e legge molto), ma non un fulmine di guerra (e questa è la maggior pecca del libro, che, dopo poche pagine ha già svelato tutti i suoi misteri e noi si attende che anche la Benemerita arrivi presto alle sue conclusioni). Di contorno, il carabiniere Montemurro, spalla di Fenoglio, da questi usato per verificare le sue elucubrazioni, di rapida mente anche se non d’azione. E la città di Bari, che sempre sta nel cuore di Carofiglio. Ma la storia, appunto, non ha slanci. Un usuraio viene trovato sgozzato nella sua abitazione. Problemi? Ricerca nei meandri della torbida vita? Non facciamo in tempo a formulare ipotesi che una simpatica vecchietta ci fornisce la descrizione di un giovane che si allontana dal luogo del delitto e della sua macchina. E poiché la signora è un po’ maniaca, si segna sempre i numeri di targa sospetti. Quindi, macchina trovata e giovane, Nicola, individuato. Interrogatorio con Nicola accompagnato dalla fidanzata Maria. Non parla e non ci si può esimere dall’arresto. Indubbiamente, a meno di non essere in un thriller alla Grisham, sappiamo che Nicola non può essere stato l’assassino. Vita normale, niente problemi di soldi, nessun contatto con la vittima. Ecco che ci sorbiamo un’ottantina di pagine ben scritte ma poco funzionali alla trama poliziesca. Abbiamo, ed avete, capito tutto quando si scopre che l’usuraio frequentava un bar malfamato, e la mattina incriminata si allontana dal suo “luogo di lavoro” in compagnia di una ragazza. Dobbiamo solo aspettare che anche Fenoglio arrivi al punto, guidato da un ineffabile profumo sentito nelle stanze del morto (per chi è curioso, il pungente “Poison” di Dior). C’è anche un inutile siparietto con un rapinatore buonista ed un figlio a rischio tumore. L’unico punto di divertimento è l’inserimento verso la fine come avvocato difensore di Nicola proprio dell’avvocato Guerrieri (le solite operazioni di mix trasversali), di cui apprezziamo il fatto consigli al maresciallo di leggere “Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta”, un libro che consiglierei comunque a tutti. Nient’altro resta delle verità che non si capisce perché siano mutevoli. Certo, a guardar bene, ogni avvenimento, visto da persone diverse, presenta aspetti e verità che solo quello può percepire. Vogliamo sostenere che la verità è soggettiva? Non c’era bisogno di questo libro per capirlo, né tantomeno questo libro lo spiega. Rimanendo immutato l’affetto per lo scrittore barese, aspetto di leggere altro, di rivedere il giudizio, che qui è salito più per stima che per intrinseca bontà dello scritto. A romanzo breve, quindi, rispondo con trama corta. Capite la mia delusione, rispetto al fatto che, generalmente, gli scritti di Carofiglio sono pieni di frasi che mi rimangono impigliate in testa. Qui, nulla.
Manuela Costantini “Le immagini rubate” Mondadori euro 4,90
[A: 03/10/2014– I: 01/09/2015 – T: 04/09/2015] - &&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 209; anno 2014]
Dopo aver letto un fiume di libri della maestra del giallo (e di cui parlo altrove), torno ai miei “italiani”, con questo che risulta essere vincitore del Premio Tedeschi 2014 (in onore del capofila dei giallisti italiani editi da Mondadori). Ed il confronto risulta purtroppo impietoso. Pur avendo una scrittura abbastanza scorrevole, l’onesta Costantini non riesce a legarti alla pagina, non riesce a coinvolgere nella sua esile trama, pur costellando il suo romanzo di personaggi quanto meno simpatici. Non ci riesce perché sembra voler troppo, sembra promettere una vicenda appassionata, ma che alla fine si salva solo per quei pochi personaggi che, nel corso del libro, ne punteggiano la trama. Anche se la storia “gialla” in sé è di una semplicità disarmante. Alcune persone vengono uccise e poi, alla maniera dei nativi americani, privati dello scalpo. L’avvocato Filippo Dolci ed il commissario Pietro Ciccone, in tandem ma neanche tanto, portano avanti una parvenza di indagine. La giustizia sembra puntare su di un fotografo (da cui il titolo, forse, ma le foto c’entrano quasi nulla alla fine). Poi su di un parrucchiere. Alla fine si arriva ai contorni del colpevole, che si poteva pensare già chi fosse da un bel pezzo, ma che non si riesce a capirne i motivi, se non una ormai conclamata pazzia. Il tutto costellato, come detto, da falsi indizi che vorrebbero portare il lettore fuoristrada, senza purtroppo riuscirci. Uno dei più clamorosi risulta la visita ad un parrucchiere di una donna con la parrucca che chiede notizie di extension per capelli. C’era bisogno di una parrucca per fare domande? Altro tentativo di depistaggio. Durante una visita alla martoriata città de L’Aquila (e qui un devoto omaggio all’autrice che ne ricorda ed ai miei parenti che ancora tentano di viverci), un professore universitario inserito nella trama solo perché andava a scuola con Filippo ed è gay, parla di una sua studentessa morta durante il terremoto, ricordandone gli ultimi giorni, attaccata alle flebo, senza capelli in testa. E tutti a pensare: ecco il colpevole, che vuole farla pagare a chi non si cura della ricostruzione. Poi ci sono casualità incomprensibili. Possibile che Filippo incontri i suoi ex-compagni di scuola e che questi, i loro congiunti e la sorella gemella siano in quale modo implicati nella trama? Filippo è un penalista ma accetta sia di gestire il divorzio (incomprensibile) di Agnese sia una pratica di risarcimento della gemella di lei, Irene. E come motivo del divorzio Agnese accampa la gelosia, a fronte di un misterioso (e strappato) biglietto che parla di stelle in cielo. Altra casualità: Filippo incontra il biglietto intero, e non è un cartoncino amoroso, ma l’invito ad una conferenza sulle stelle in generale e sulla Chioma di Berenice in particolare. E Alberto, il marito di Agnese, che tanto lottò per averla, possibile che assomigli a Rod Stewart e che a Filippo viene in mente, guardandolo, la canzone “Have you ever seen the rain?” (che è una cover di Stewart dall’originale dei Creedence Clearwater Revival)? Soprattutto dato che Filippo ha uno strano rapporto con la pioggia stessa. Tanto che prova a spiegarcelo, ma non si capisce gran che. Filippo poi che di cognome fa Dolci, e non perde occasione di mangiare paste, pasticcini ed altre leccornie? E come si fa a non capire cosa abbia Lavinia, la moglie di Filippo, quando comincia ad avere strani disturbi. E come si fa ad emozionarsi alla sparizione di oggetti dalla casa di Filippo e Lavinia? Certo anche qui un tentativo di depistaggio. Spariscono camicie di Filippo, e tutti sono portati a pensare: ecco, erano sporche di sangue perché è lui il colpevole. Poi ci sono quelle frasi di passaggio, che dovrebbero collegarsi ad altro, ma che sono messe lì non si sa perché (forse ci sono stati dei tagli, ma perché dovremmo sapere qualcosa del fatto che Irene e Saverio cominciano a frequentarsi a poche pagine dalla fine del libro, senza che questo rendez-vous sia stato annunciato da elementi concreti). Infine, c’è tutta la storia basata su Fausto Minardi, il fotografo, quelle delle immagini rubate del titolo. Che ha sempre delle connessioni con il luogo del delitto, per cui viene incriminato. E che Filippo difende. Fausto che risulterebbe “ritardato”, ma non si capisce in che. Quando parla, ragiona meglio del 90% dei personaggi del libro. Descrivendo motivi e sensazioni intorno agli scatti, ci convince e ci coinvolge nelle sue idee. Poi anche qui scopriamo che sicuramente lui non c’entra nulla, ma il padre è impiegato nella ditta dove un dirigente … Boh? Mi sembrano liaison molto flebili. Se a tutto ciò leghiamo una motivazione dell’assegnazione del premio che sembra aver letto un romanzo diverso, ci si domanda: ma sono io che penso sempre male, o Andreotti aveva ragione? Bando alle facezie, sono comunque contento che un premio vada ad un’impiegata nativa di Giulianova. Così almeno, durante la lettura sono tornato indietro nel tempo e nello spazio, alle mie infanzie tortoretane.
Stefano Pigozzi “Non riuscirai a salvarle tutte” Mondadori euro 4,90
[A: 29/04/2014– I: 21/09/2015 – T: 22/09/2015] - &
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 235; anno 2014]
Ed eccoci ancora ritornati alle scuderie giallistiche mondadoriane, che, anche se mi ripeto, da quando sono nelle mani di Maurizio Costanzo, mi sembrano precipitare verso le più basse espressioni letterarie. Certo, rimangono autori storici che bene o male se la cavano, come Annamaria Fassio di cui aspetto di leggere altro. O autori che, dopo un inizio promettente, scivolano libro dopo libro verso un aureo anonimato. Così sembra si avvii anche Pigozzi, di cui lessi il promettente avvio nonché Premio Tedeschi nel 2007. Che si ripeté con un buon romanzo nel 2008. Ma che ora, dopo qualche anno di silenzio, esce fuori con uno zibaldone poco avvincente e poco convincente. Perché riprende ancor una volta i personaggi dei precedenti romanzi, ne aggiunge di nuovi, ma alla fine tutto si risolve in una grande confusione, in cui si elimina qualche elemento ormai “bollito”, e qualcuno rimane in pista per una nuova avventura, che spero di ricordarmi di non leggere. Intanto, come avevo predetto, la fine del precedente romanzo preludeva ad una terza puntata. In cui il filo conduttore rimane sempre il poliziotto cattivo ma non troppo Angelo Schwarz. Ormai separato dalla moglie, che gli da filo da torcere citandolo in giudizio per la morte del fratello. Lui sempre innamorato, ma con la testa ad Anna, l’avvocato morto alla fine del secondo libro. E qui, appunto, si ricomincia con i soliti noti. Il mafioso Aleksj, che ha la peggio in uno scontro con le nuove mafie, che cercano collegamenti con la riviera romagnola tramite il solito Levati (un po’ in ombra nel secondo romanzo). Ma questi ora è aiutato dall’ex-capo di Angelo, Michele Soresini che da buon ex-Digos ha molte frecce al suo arco. E tutto ricomincia con una carneficina al locale di Mosca ormai arcinoto, il Metal Detector. I nuovi vengono uccisi, Aleksj è ferito a morte, ma salva la bella Katrina. Levati, ferito gravemente ad una gamba è invece salvato da Soresini. Aleksj, prima di morire, affida Zoya (quella che aveva tre anni ed un pupazzo di pezza nel secondo libro) a Katrina e le fa partire per l’Italia, alla ricerca della salvezza presso Angelo. Che però è ben nelle peste. Il clan mafioso dei Constabile lo cerca ovunque, utilizzando l’ignara ex-moglie come pedina ed il suo avocato come trait d’union. I Servizi lo aiutano un po’, ma neanche tanto. Nella trama s’inserisce allora Elena, la bella e forse poco presente moglie di Levati. Quella che, per evitare trappole, si vede intestati tutti i patrimoni familiari. Quella che Levati maltratta un giorno sì e l’altro pure. Quella che, Levati ferito, si vede comandata anche da Soresini. Quella che incontra Angelo e pensa che possa essere la sua valvola di salvezza. Angelo, per salvarsi, vende in un primo tempo Katrina a Soresini, che la cerca in quanto unica testimone della strage moscovita. Poi, si accorge che c’è anche Zoya, a cui vuole bene, e fa una potente marcia indietro. Nasconde le due in un albergo sul lago di Como, e comincia un pericoloso triangolo mentale, attratto sia dalla bella Elena che dall’ancor più bella Katrina. Ma Elena lo tradisce, rivelando i nascondigli segreti a Soresini. I Constabile, vedendo di non riuscire a far leva sull’ex-moglie di Angelo, la fanno fuori. Ed Angelo va fuori di testa. Ha perso Silvia, l’ex-moglie, ha perso Anna nel romanzo precedente, e quando Elena gli confessa i suoi traffici, sceglie Katrina. Peccato che anche l’albergo vada a fuoco, ed una tra Katrina e Zoya farà una brutta fine. Ma Angelo, sempre più inc…to riesce almeno ad uccidere Soresini, ed a ritrovarsi in una stanza d’ospedale con la superstite ed un pupazzo di pezza. Il tutto, partito da una predizione di una santera in un losco bar milanese, che guarda Angelo e gli dice che non potrà salvare tutte le persone cui vuole bene. E così è. Ma che fatica arrivare alla fine delle oltre 200 pagine. Dove si susseguono oltre ad episodi alla Spillane, anche tentativi di costruire castelli mafiosi ragionevoli, intrecciando crudeltà ed alta finanza. Con una ben misera riuscita dal punto di vista attrattiva. Peccato Pigozzi, avevi scritto di meglio.
Aspettando la fine di questo Carnevale anticipato, dedichiamoci allora a mettere a posto un po’ di cose di casa (libri e nanetti in primis). Organizziamo anche qualche cena che gli amici vanno frequentati anche in patria, e rimettiamoci, come ogni tanto si fa, a sentire un po’ di sana musica (magari con Stanley Clarke che mi fa da guida verso il prossimo concerto di Carlo). Ed allora un saluto a tutti, sperando che si concretizzino promesse di viaggi.

domenica 24 gennaio 2016

Una manciata di libri - 24 gennaio 16

Parafrasando il primo titolo di queste trame, inizio dando il benvenuto ai nuovi amici che si aggiungono a questa mail, con l’augurio di proficue letture (e se hanno bisogno di spiegazioni, chiedete). Al ritorno da un bellissimo ed intenso viaggio cubano, eccoci alle prese con un classico inglese (molto datato) e di media resa, un emergente australiano (laddove prima o poi si tornerà per vedere finalmente Ayers Rock), un nuovo scrittore italiano (anche qui non riuscitissimo) ed un “classico” di Adelphi e della realtà sarda, che mi ha entusiasmato.
Evelyn Waugh “Una manciata di polvere” Bompiani euro 9,50 (in realtà, scontato a 8,08 euro)
[A: 02/04/2014– I: 22/07/2015 – T: 25/07/2015] - && e ½  
[tit. or.: A Handful of Dust; ling. or.: inglese; pagine: 253; anno 1934]
Mi aveva sempre incuriosito (e ne avevo accennato parlando di quel libro che mi aveva preso di lui, “Quando viaggiare era un piacere”) il nome dello scrittore Waugh. Che ho scoperto, primo chiamarsi per esteso Evelyn Arthur St.John. E poi, anche se non molto usato, essere un nome ambivalente, maschile (poco) e femminile. Tanto ambivalente che la prima moglie del signor Waugh si chiamava Evelyn Gardner, e che, per distinguerli, gli amici li chiamavano He-Evelyn e She-Evelyn. E non è solo un gossip questo inizio, che in questo che è considerato il capolavoro dell’agre scrittore britannico, pare che molta parte del personaggio di Brenda Last deriva proprio dalla prima signora Waugh, sposata nel 1928 e divorziata nel 1930. Possiamo così passare a parlare di questo libro, considerato un capolavoro d’ironia e di satira. Senza dubbio Waugh ha una scrittura graffiante, per l’epoca della scrittura (come si vede sopra, siamo nel 1934), ma sono graffi che sentono il passare del tempo, almeno in gran parte. La storia ruota intorno alla famiglia Last, erede della tenuta degli Hetton nella campagna inglese. Abbiamo Tony, il marito; Brenda, la moglie; e John Andrew, il figlio. E tutta la prima parte direi che è ancora discretamente godibile. Entriamo, infatti, nelle stanze della residenza gotica di Tony, trentenne che dopo alcuni anni di godibile vita mondana in quel di Londra, con matrimonio con la bella Brenda e nascita del figlioletto, si ritira in campagna, elemento più consono alla sua natura. E fin dalle prime battute, e poi per tutto il libro, andremo a sbattere con la sua incapacità totale di adeguarsi e capire il mondo. Pensa che tutti siano felici di vivere in campagna, senza accorgersi che Brenda ormai se n’è stufata. Pensa che Brenda voglia un pied-à-terre a Londra per studiare economia, mentre lei lo usa per le sue avventure mondane. Pensa che John Beaver sia uno scocciatore poco sopportato dalla moglie, mentre Brenda usa il suo localino londinese per le sue scappatelle proprio con il suddetto John (che poi risulterà comunque soltanto un arrampicatore sociale, e non sarà né di aiuto né di conforto quando Brenda avrà difficoltà). Pensa che la principessa (finto) araba sia un’amica di Brenda, quando è proprio Brenda che la assolda per cercare di dare un’alternativa a Tony, visto che ormai lei è presa da John. La prima parte finisce tragicamente quando John Andrew muore cadendo da cavallo. E qui vorrei rilevare che questo è il terzo libro in pochi mesi in cui c’è un ragazzo che muore ed intorno alla cui morte si dipanano le parti forti della vicenda (oltre a questo, vi ricordo “Quello che ho amato” di Siri Hustvedt e “Sportwriter” di Richard Ford). Qui si dimostra tutta l’intensa cattiveria di Waugh. Quando a Brenda si comunica la morte di John, pensa alla morte dell’amante, e quando scopre che è “solo” il figlio, tira un sospiro di sollievo. Tony poi non riesce neanche ad organizzare un funerale decente. In seguito alla morte, Brenda lascia definitivamente Tony. Ed anche qui, il nostro imbecille ne combina di tutti i colori. Pensa che Brenda voglia un divorzio amichevole, e cade dalle nuvole quando scopre l’ammontare degli alimenti richiesti. Pensa di poter inscenare un divorzio per colpa, ma fa una pessima figura assoldando una signorina per far finta che sia la sua amante e questa si presenta con … la figlia. Deluso ed irretito da un ciarlatano finto viaggiatore, Tony decide di partire per il Brasile. In nave fa la sua ultima figura da niente, non capendo i sentimenti che per lui sta provando una signorina di Trinidad, e la lascia bellamente andar via. Ritrovandosi poi nella selva, dove il ciarlatano muore, lui prende la malaria, e viene curato da un eremita analfabeta. Anche qui Tony non capisce nulla, pensando al signor Todd come ad un benefattore, quando questi lo sequestra, lo usa per fargli leggere il suo amato Dickens, e informa Londra che il signor Last è morto. Brenda intanto, senza aver ottenuto alimenti, viene lasciata dal misero John, e si consola con il deputato Jock (altra figura barbina, che per tutto il tempo, per fortuna poco, in cui compare, non pensa altro che a fare un’interpellanza parlamentare sui suini; ovviamente altra macchietta di Waugh). Ed il maniero degli Hetton rimane nelle mani dei cugini di Tony. Insomma, Tony per tutto il libro non ne fa una giusta. Brenda è simpatica nella prima parte, poi, dal tentato divorzio (anche perché in questo Waugh tiranneggia l’altrettanto da poco divorzianda prima moglie) perde sempre più colpi. La parte finale poi, è molto appicciata. Tanto che non mi sono meravigliato quando ho scoperto essere una novella pubblicata in precedenza da Waugh, e poi adattata a romanzo. Con un andamento che mi sembra ripreso molto da quel posteriore (ed anch’esso a me poco piaciuto) libro di Saul Bellow “Il re della pioggia”. Insomma, una serie di frecciate, molto legate agli anni Trenta della Swinging London, ma ora abbastanza spuntate. Sì, bel libro, bella scrittura, anche bell’adattamento cinematografico (ne uscì pochi anni fa un film dal titolo “Il matrimonio di Brenda” con un bel cammeo di Alec Guinness). Ma molto poco di più di così. Meglio Waugh quando parla dei suoi viaggi.
Tim Winton “Cloudstreet” Fazi editore euro 11 (in realtà, scontato a 9,35 euro)
[A: 02/04/2014– I: 02/09/2015 – T: 07/09/2015] - &&&& 
[tit. or.: Cloudstreet; ling. or.: inglese; pagine: 463; anno 1991]
Se non conoscete la letteratura australiana, questo è un buon libro per colmare qualche lacuna. Certo, non parla di aborigeni e bush come faceva Chatwin (che però era inglese). Non parla neanche di grandi distese. Né tanto meno del più celebrato sud (niente Sydney, Melbourne, Adelaide). Tutto concentrato nell’Australia Orientale, e principalmente a Perth. Ed alzi la mano chi c’è stato (io, no, ad esempio). Si parla di Perth come una cittadina provinciale. Si parla dei corsi d’acqua e magari del mare che bagna quella parte al Nord-Ovest dell’Australia. Ma, soprattutto, Tim Winton ci parla della storia di due famiglie, che intrecciano le loro vite intorno ad una casa, una grande casa nella periferia della grande città, una grande casa in Cloud Street number 1. Che finirà ben presto per diventare Cloudstreet, seguendo le idee sulle ombre malefiche che si porta appresso il padrone di casa. Piccolo inciso, seguendo la topografia di Perth, si potrebbe, per assonanza e per descrizione ambientale, avvicinarla alla reale Coldstream Street. Ma torniamo alle due famiglie ed alle loro storie. Famiglie emblematiche, sin dal nome. Da un lato la famiglia Pickles (“sottaceti”) che basa tutta la propria vita sull’antinomia fortuna - sfortuna. In ogni avvenimento c’è un Altro che interviene guidando le sorti delle loro avventure. Non vale tanto la pena industriarsi e lambiccarsi il cervello. Ad un certo punto, la grande ombra del Destino arriverà portando vicende favorevoli o sfavorevoli. L’ombra, appunto, che si cristallizzerà ad un certo punto nella strada (cioè “cloud” – nuvola, sia in senso fisico che in senso metaforico). Dall’altro la famiglia Lamb (“agnello”) che invece ha tutta una prima parte molto dedicata alla religione, al rapporto (più o meno) diretto con Dio. Che continuerà, anche se in forme diverse, ma che si realizzerà in una totale laboriosità. Sottintendendo il seguente messaggio: con la fatica e la dedizione si può, si deve arrivare alla conquista della propria serenità. I Pickles sono 5: il padre Sam, la madre Dolly, ed i figli Rose, Ted e Chub. I Lamb invece sono 8: il padre Lester, la madre Oriel, ed i figli Quick, Fish, Lon, Hattie, Elaine e Red. Sam è uno scommettitore incallito, specialmente sui cavalli. Quando perde deve trovare lavori, anche di bassa lega, per restituire i soldi. In uno di questi, perde quattro dita della mano destra (c’era l’ombra che si avvicinava). Dolly è “la bella” del villaggio, si butta su qualsiasi uomo che incontra, quasi a sfogare un modo represso di vivere la famiglia. E si butta anche su tutte le bottiglie che vede, facendo di tutta la sua vita, anche, un percorso da alcolista che certo non le permetterà mai di avere un buon rapporto con i figli. Nella sfortuna dell’incidente di Sam, intanto, un cugino di Sam muore all’improvviso, lasciando loro in eredità la casa di Cloudstreet (con il vincolo che non la possono vendere, altrimenti Sam la giocava ai cavalli). Una casa grande, dove, nel momento di ulteriori rovesci, pensano di dividerla in due ed affittarla. Compaiono così i Lamb. Lester, quieto e gioviale, inventore di storie, suonatore di “flauto a naso” (guardate che è uno strumento realmente esistente, diffuso principalmente in Polinesia e tra i Maori). Oriel è la colonna della sua vita e di quella di tutti coloro che le sono intorno. I Lamb sono stati da poco colpiti da una tragedia: Fish, il figlio mezzano, cade in acqua, dove rimane a lungo, quasi morto impigliato nelle reti da pesca, con un periodo di mancanza di ossigenazione. Si salva ma rimane “ritardato” per il resto della vita. Lui che era il più vitale, e tutta la famiglia Lamb (ma soprattutto Quick) ne rimarrà colpita duramente. Ma nella nuova casa prima mettono ordine alle loro vite, poi (nel bush erano agricoltori) s’inventano un negozio che vende di tutto. E sarà la loro fortuna, ed il sostegno di tutti gli andirivieni della vita di Cloudstreet. Oltre a Fish, gli altri due personaggi chiave del romanzo sono Rose Pickles e Quick Lamb. Lei ha dovuto fare da balia alla madre per tutta l’infanzia, non riesce ad avere rapporti sereni con gli altri. Vorrebbe studiare, ma non ci sono soldi. Troverà un lavoro fuori dalla casa, da centralinista. Riuscendo anche a vincere un lungo periodo di anoressia che la stava portando alla tomba. Quick invece non vuole studiare, ha un unico talento (quello di sparare con il fucile) ed un grande rimpianto (che voleva essere lui a soffocare al posto di Fish). Così che appena può, scappa di casa, e lo seguiamo nelle grandi distese australiane diventare cacciatore di canguri. Inciso: noi siamo abituati a considerare docili e simpatici questi animali locali. Niente di più falso, il canguro selvatico distrugge campi e raccolti. Ed è anche pericoloso per l’uomo. Tanto che Quick dovrà tornare a casa colpito quasi a morte proprio da un canguro. Rose nel frattempo stava cercando di uscire dal guscio claustrofobico della vita di Cloudstreet. Ma al ritorno di Quick capisce che lo ha sempre amato, sin da quando entrambi erano piccoli. Altro inciso: la vicenda si spande dalla fine della seconda guerra mondiale fino alla metà degli anni Sessanta, in pratica durante tutto il lungo governo dei sette mandati consecutivi di Sir Robert Menzies. E tra alti e bassi coroneranno il loro sogno. Ovviamente, c’è anche tutto il contorno. I molti momenti bassi di Sam e le sue rare ma cospicue vincite. La discesa alcolica di Dolly. I comportamenti di Oriel. Ma come una ballata, tutto ritorna alla fine. Si era iniziato con un picnic dei Pickles poco più che decenni. Si finisce con un altro picnic, con le famiglie riunite. E come detto intorno, oltre al governo australiano, c’è la guerra di Corea, la morte di Kennedy, sul fronte internazionale. E la presenza, qua e là, di alcuni aborigeni, tanto per rimarcare che l’Australia è anche loro. Un buon lavoro. La scrittura è poi un grande punto di forza del romanzo di Winton, in particolare nei toni epici e descrittivi della prima metà del libro. La seconda parte, piegando la scrittura alla storia, perde un po’ di efficacia. Anche se l’autore riesce a dosare ed amalgamare descrizioni, colloqui in terza persona, dialoghi in presa diretta. Un lavoro scritto a 31 anni, dove si sente, e con piacere, l’impeto giovanile della pulsione allo scrivere. Un’opera che può avvicinare a quel mondo “down under” come dicono i locali, tanto lontano nello spazio, ma vicino nello spirito. Seppure, innegabilmente, diverso. Come quando, in modo spaesante, si dice: “era la fine di gennaio, nel pieno dell’estate”. Quest’uguaglianza di sentire nella diversità dell’essere è stata per me uno dei legami affettivi che mi ha ridato la voglia di pensare a tornare laggiù.
“– Le persone … sono quello che sono. – E allora dovrebbero cambiare! Dovrebbero fare qualcosa per se stesse, e non aspettare che siano gli altri a cambiare le cose al posto loro! – Non si può cambiare la propria sorte. – No, ma una deve costruirsela, la propria sorte. Perché ci siamo solo noi e nient’altro.” (187)
Filippo Bologna “Come ho perso la guerra” Fandango euro 10
[A: 01/07/2014– I: 06/09/2015 – T: 10/09/2015] - && e 1/3    
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 272; anno 2009]
Un bel suggerimento di quel misconosciuto episodio di critica letteraria legato alla fanzine “Satisfiction”. Ovviamente non posso che essere in disaccordo con i mini-lanci pubblicitari della quarta sia di Edoardo Nesi che di Asor Rosa (che l’unica cosa buona che ha fatto è il suo palindromo). Non è un libro memorabile, non ci si rotola né dalle risate né si sta seduti a pensare a come poteva andare il mondo. Pur tuttavia ha una notevole dose di freschezza linguistica. Ed alcuni capitoli si leggono con grande piacere. Meglio, allora, il commento di Annarita Briganti, quando ancora scriveva solo per Mucchio Selvaggio, sulla efficacia di questo romanzo molto “local” e poco “global” (anche se). Personalmente, era un libro che stava viaggiando sulla sufficienza piena ed anche qualcosa in più. Almeno per 2/3. Poi, il crollo! Tutta la parte finale, la guerra in sé (quella che, come sapete dal titolo, si è pure persa), la guerra con Lea, l’amore con Lea, la fine con Lea, il riflusso terminale. Insomma, è precipitato come la borsa cinese in un venerdì nero. Alla fine il giudizio è una media pesata delle due parti del libro. Che, per l’appunto, in tutta la parte “on” è gradevole. Certo, con qualche tocco lezioso di troppo (uno su tutti, doveva proprio chiamarsi Federico Cremona il protagonista di un romanzo scritto da Filippo Bologna?). Si parla di borghi toscani. Si parla della storia della famiglia Cremona, dal nonno-bisnonno Terenzio (quello che frustava i contadini). Dei nonni gemelli, Vanni e Fede, e della morte giovane di quest’ultimo per una bischerata (scivola tornando a casa mentre porta la bicicletta con una mano, un pacco con l’altra, batte la testa e non si riprende più). Di come era fuori schema Fede il pro-zio, tanto che nelle adunate del fascio lo si doveva chiudere a chiave per non fargli fare bischerate. Di come fosse rientrato nei ranghi Vanni, per tirare su la famiglia, e far studiare da medico il figlio Terenzio (anche se questi aveva velleità letterarie). Delle partite a Monopoli, gestite dalla nonna, dove ai nomi canonici delle strade del gioco venivano assegnati i nomi delle proprietà della famiglia, finché … Insomma, tutto un florilegio, che esce fuori alla rinfusa, ma che fa piacere leggere, di quello che era il back della famiglia. Poi c’è il luogo, questo mezzo Appennino toscano, con la miracolosa sorgente d’acqua calda, e il pluriennale dominio del Partito (non c’è bisogna di dire quale, il Partito con la P maiuscola è solo uno). Ed è anche interessante ed emotivamente coinvolgente, il modo di Bologna di farci vivere la deriva dell’uno e dell’altro. Legati lì, localmente, in un destino “bersaglio di guai”, ma con un discorso che si può (si deve) ampliare a tutte le risorse locali. Ad un certo punto, si è stati presi dalla fregola del progresso, della modernità, del rinnovamento. Purtroppo, senza avere solide basi per capire su cosa fondare “il balzo in avanti”. Così, amministratori locali, funzionari, ed altri normalmente onesti uomini sono presi e triturati dalle parole di chi, fuoruscito dalla televisione, abbindola tutti con miraggi dorati. Così come fa Ottone Gattai, rozzo ma intelligente arrivista, che capisce, prima e meglio di altri, le potenzialità dell’acqua come risorse. E del fatto che, esaurendosi il petrolio nel giro di pochi decenni, ma aumentando le persone sul pianeta, ben presto, non ci saranno più “guerre dell’oro nero”, ma “guerre dell’oro bianco” (l’acqua). E chi si guarda intorno da anni lo sa bene. Come ad esempio uno degli elementi fondanti delle guerre mediorientali sia stato (e sia tuttora) il controllo dell’acqua del fiume Giordano (e non solo per motivi religiosi). Insomma, Gattai imbriglia le terme, cerca e trova partner russi (una stoccata anti-putiniana è sempre ben accetta), abbatte acacie secolari, distrugge panchine centenarie, ed orna la piazza di città di una scultura moderna ed oscena (nel senso di brutta, ovvio). Fin a qui, si gestisce bene il libro. Da qui, dalla rivolta del giovane Fede, che si sente imbevuto delle battaglie non combattute del nonno omonimo, si cade giù. Non tanto per quella guerra partigiana che Fede e compagni instaurano dandosi alla macchia, pur dopo aver tentato le vie legali per fermare Gattai e la sua Aquatrade. Ovviamente, vie perdute, con tanto di ripicche verso le famiglie, tanto che i legali dell’Ottone depredano tutte le proprietà dei Cremona. Certo, le invenzioni di imboscate appenniniche di resistenziale memoria lasciano freddini. È anche tutta la storia d’amore tra Fede e Lea che lì comincia e che mi lascia molto storto. Storia scontata, sia nelle descrizioni sia nello svolgimento. Storia che non può che finire male. Non tanto perché “Fede è un coglione”, come dice saggiamente Lea. Ma perché come può finire bene una storia d’amore durante la guerriglia (Guevara docet)? Anche il modo della fine che non convince. La tristezza border line di Federico che anch’essa ci coinvolge poco. Fa solo piacere la figura di Irina (capirete perché) e il riassunto finale di dove andranno a finire non “i palloncini” della famosa canzone “quando scappano di mano ai bambini”, ma “i partigiani”, quando capiscono di aver perso la guerra. Un capitolo epilogo fa fare uno scatto di reni alle ultime pagine, ricordando analoghe chiuse di un libro di Paolo Di Paolo. E come per quello, anche qui, questa parte mi porta la riflessione come se molti dei brevi capitoli siano piccoli racconti auto-contenuti. Che in questa lettura sono anche di una loro dignitosa bellezza. Poi, Bologna prende il tutto, amalgama i personaggi e le loro storie personali, cucendo un romanzo che alla fine, come detto, si legge. E si apprezza proprio per quelle spezzettature di storie antiche e moderne, slegate e pur congiunte. Forse, come Fede capisce bene ad un certo punto, andrebbe tutto meglio con la desistenza. Io, riprendendo scritti di un suo conterraneo, l’ottimo Gesualdi, direi che ci vuole sobrietà. Spero comunque di vedere altri scritti del nostro in giro per gli scaffali.
“Se la realtà non coincide con la sua idea, preferisce cambiare la realtà piuttosto che l’idea.” (117)
Salvatore Satta “Il giorno del giudizio” Adelphi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 05/06/2014– I: 13/09/2015 – T: 16/09/2015] - &&&&  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 269; anno 1998]
È davvero un libro valido per tenere compagnia ai novantenni, come dice qualche signorina maligna? Credo proprio di no. Certo, è un libro di difficile lettura, perché nulla concede al pubblico, nulla concede all’applauso facile. Forse perché rimasto tanti (troppi?) anni nel cassetto del grande giurista sardo Salvatore Satta, da cui ne uscì solo postumo. Ed essendo un libro privato, per questo non concede, ma è dolente, diretto, debordante di ricordi, e molto altro ancora. Probabilmente, almeno nelle mie personali corde di lettore, manca qualcosa che ne chiuda le tante parentesi aperte, invece di scorrere via, e poi ad un certo punto, purtroppo finire. Non è comunque facile tracciarne una trama, un percorso, che il libro alla fine è forse un trionfo di ricordi, ed una laude ad una città che non è sia molto ricorrente nei ricordi collettivi. Certo, tutti (molti?) sanno che Nuoro è la città natale di Grazia Deledda. E Deledda ebbe il Nobel per la Letteratura nel 1926. Ma quella che ci porta alla luce Satta con il suo scavare nei ricordi e nelle pietre, una ad una, della città, è la Nuoro città, la Nuoro campagna, la Nuoro lontana dall’Italia eppur così vicina. Seguendo, bene o male, la storia di Don Sebastiano Sanna Carboni e della sua famiglia. Don Sebastiano il notaio, che, in quanto notaio, ha beni al sole, e, onestissimo ed integerrimo, continua ad accumularne se e solo quando può e come può. Senza mai barare (tanto che per un debito di gioco, non intacca i soldi di casa, ma lavora di notte come amanuense). Don Sebastiano che, trentenne, decide di metter su famiglia sposando Donna Vincenza, la figlia di un piemontese immigrato ai tempi dell’unificazione, ventenne ed inesperta. Donna Vincenza che gli darà nove figli, sette maschi vivi al tempo del racconto, e due femmine prematuramente morte. Donna Vincenza che governa la casa, ma poco più, come dice la feroce sentenza di Don Sebastiano che riporto in calce. Ed i sette figli che vanno dal maggiore Giovanni, per anni incupito da un amore andato a male, e poi messosi sulla scia paterna una volta questi invecchiato. Poi altri figli mezzani, che non vedono l’ora, e presto lo faranno, di andarsene per altri lidi. Infine i tre minori: Lodovico, il cagionevole, che, scapolo e misogino, farà il triste avvocato per tutta la vita, Sebastiano, quello che dovrebbe perpetrare il nome, ma non avrà mai né arte né parte, oscurato dal di poco maggiore Peppino, che morirà di polmonite nella Prima Guerra Mondiale. E mentre seguiamo le vicende per anni ed anni della famiglia Sanna, ne seguiamo l’inserimento nel mondo sardo in generale e nuorese in particolare. Belle, anche se apparentemente disorganiche, tutte le pagine che Satta tira fuori. Dalla nascita della città, quando il vescovo Roich nel secolo XII sposta la diocesi dalla malsana Galtellì sulla costa, verso l’interno più salubre. Laddove la città si sviluppa sui tre assi in contrapposizione: i poveri della Seuna, i malviventi (e bella è la descrizione di come ci si diventa) barbaricini della genia dei Corrales abbarbicati al rione San Pietro, ed i benestanti del Corso. Laddove ci sono la grande casa di Don Sebastiano, la farmacia di Don Pasqualino, il caffè Tettamanzi centro e ritrovo di tutto quello che avviene in città. Seguiamo l’alternanza dei preti e dei canonici, dei vescovi, con il munifico Monsignor Dettori in testa, i primi fermenti socialisti che Don Ricciotti tenta di cavalcare, subito imbrigliato dalle gerarchie ecclesiastiche che spingono a deputato Paolo Masala il gran parlatore. La lotta per la terra, la macina del grano, il pane carrasau, i formaggi e le olive. Un mondo che svolta il bordo del secolo scorso, e si affaccia sul nuovo. Don Sebastiano che legge la morte lontana di un arciduca ucciso chissà dove, e che porterà alla morte il suo Peppino. Morte che, alla fine, raggiunge tutti. Il canonico, l’ubriacone Boelle, il fantasioso Paolo Catte, Fileddu, la zia Agostina. E Satta ce li riporta in vita per quel breve tratto che passeggiamo insieme, quando con lui ci si aggira per il cimitero. Che sta dalle parti di San Pietro, così che i poveri hanno l’agio di passare almeno una volta per il Corso, anche se dentro la bara. E attraverso i morti, si arriverà a quel giorno del Giudizio che tutti accomuna in un grande mescolamento. Giorno che Satta anticipa parlando e descrivendo il bene ed il male di molti. Ma lui non da giudizi. Lui espone, narra, a volte spiega, il più delle volte si macera anche lui nella sofferenza. È un po’ questa mancanza di un filo forte, di un meglio seguire le vicende dei Sanna che mi ha lasciato qualche momento di esitazione. In un libro che, per il resto, ho trovato veramente bello e convincete.
“Tu stai al mondo soltanto perché c’è posto.” (24)
“Riusciva a non far nulla senza essere ozioso e questo gli aveva procurato … fama di saggio.” (87)
Ribadisco e sottolineo che Cuba è stata un bel viaggio, una bella scoperta, accompagnata da un solido ed efficace gruppo (sempre solidale anche nelle piccole disavventure). Ora si mette in cantiere un periodo di riorganizzazione casalinga ed un’attesa per future (ma speriamo prossime) partenze.

mercoledì 6 gennaio 2016

I Maigret 2 - 06 gennaio 2016

E com’è già capitato la prima volta, dopo una buona signora del giallo, ecco che ribattiamo con un ottimo Maigret. Dove rileviamo ancora una volta la velocità di scrittura di Simenon, che rende inutili gli sforzi del sottoscritto sulla sua lettura. Quindi, rispondendo come fece Troisi (“voi siete tanti a scrivere, io sono uno a leggere”) andiamo avanti ancora.
Georges Simenon “I Maigret – volume 2” Adelphi s.p. (regalo di mamma)
[A: 16/02/2014– I: 07/07/2015 – T: 16/07/2015] - &&&&--  
[tit. or.: vedi singoli libri; ling. or.: francese; pagine: 719; anno 2013]
Eccoci allora al secondo volume della grande odissea i Maigret, con ben cinque romanzi tutti scritti nel 1931. Notiamo di passaggio che i primi 10 romanzi con protagonista il nostro commissario sono stati scritti tra la fine del ’29 ed il ’31. E tutti e 10 pubblicati nel corso del 1931 stesso.
Titolo
Scritto
Uscito
Data
Luogo
Il cane giallo
Marzo 1931
Scritto a Château de la Michaudière, Guigneville vicino a La Ferté-Alais (Essonne)
Aprile 1931
Il crocevia delle Tre Vedove
Aprile 1931
Scritto a Château de la Michaudière, Guigneville vicino a La Ferté-Alais (Essonne)
Giugno 1931
Un delitto in Olanda
Maggio 1931
Scritto a bordo de l'Ostrogoth, Morsang-sur-Seine (Seine-et-Marne)
Luglio 1931
All’insegna di Terranova
Giugno 1931
Scritto a bordo de l'Ostrogoth, Morsang-sur-Seine (Seine-et-Marne)
Agosto 1931
La danzatrice del Gai-Moulin
Settembre 1931
Scritto a bordo de l'Ostrogoth, Ouistreham (Calvados)
Novembre 1931
“Il cane giallo”
[tit. or.: Le chien jaune; ling. or.: francese; pagine: 9-144 (136); anno 1931]
La scrittura di Simenon va di pari passo con la sua vita errabonda di quel periodo. Dopo alcuni mesi a Parigi, eccolo di nuovo in provincia, dimorare presso il Castello de la Michaudière (non lontano da Parigi, comunque). Ed ambientare questo sesto romanzo a Concarneau, luogo dove aveva scritto il 4°, e che ben conosce per i problemi delle chiuse e della vita acquatica. Ci sono alcuni caratteri peculiari poi, che ritroviamo in queste prime opere su Maigret. Lo spazio limitato di tempo in cui si svolge l’azione (qui, dall’8 all’11 novembre). Lo spazio esterno dell’indagine. Maigret è stato chiamato a Rennes per dei doveri istituzionali, e da lì, convocato a Concarneau (che ricordo è in Bretagna) per calmare le acque montanti di un panico che si va diffondendo in città. Perché all’inizio, c’è un tentativo di omicidio verso il signor Mostaguen, uno dei notabili del luogo. Notabili che sono poi i quattro personaggi di spicco. Mostaguen, appunto, che viene ferito non mortalmente, e che presto sparirà prima in ospedale e poi accudito dalla moglie. Il giornalista Jean Serviéres che, dopo una vita passata su minuscoli fogli scandalistici parigini, pensa bene di ritirarsi in campagna, dove può far risaltare le sue piccole doti. Le Pommeret, il dandy, tombeur de femme, non proprio possidente, ma con una famiglia alle spalle che lo foraggia. Ed Ernest Michoux, un dottore che non esercito, preferendo fare il sensale di immobili. I quattro si ritrovano tutte le sera nell’unico hotel della cittadina. A bere, giocare a carte, e fare appunto la punta della bella vita in città. Hotel dove fa da cameriera la bella Emma, che ne subisce le attenzioni (e a volte anche qualcosa in più). Dopo l’attentato a Mostaguen, il giornalista scompare, lasciando la macchina con tracce di sangue in direzione del Belgio. A questo punto, un giornale locale pubblica un articolo che semina il panico nella zona, ed arriva Maigret per spargere acqua sul fuoco. Ma subito dopo il suo arrivo, muore avvelenato Le Pommeret. Per evitare al quarto notabile una fine analoga, Maigret non trova di meglio che arrestarlo per futili motivi, così sarà la polizia a fargli da guardia. Durante tutti questi avvenimenti, un inquietante cane giallo si aggira per la zona, sempre presente sui luoghi del delitto, che, benché anziano, ringhia un po’ a tutti. Ma mai alla bella Emma. Qui Simenon utilizza un po’ di ingenuo mestiere, cercando di rendere il cane simbolo della paura che sale in città. Tentativo di corto respiro, che il cane è un elemento a margine, utile solo a far capire che c’è qualcuno, un misterioso vagabondo, che si aggira in città. Intanto i giornalisti parigini sono calati in massa, per qualche scoop di bassa lega. Che coinvolge l’arresto e poi la fuga del vagabondo. Maigret ci fornisce pochi elementi di deduzione, che anche qui, come spesso in queste prime indagini, c’è più che altro intuizione, analisi del contesto e visione dei personaggi. Si scopre solo l’esistenza di una lettera d’amore indirizzata ad Emma e firmata Léon. In cui c’è una proposta di matrimonio, e l’acquisto di una nave dal nome “La Belle-Emma”. Non siamo ancora nei turbinii futuri in cui il Maigret-pensiero s’insinua tra le pagine, ci porta nell’animo dei personaggi, ci sfida quasi ad essere più bravi di lui. Maigret ci fa capire, a metà romanzo, che sa tutta la storia, questo sì, mettendoci un po’ la pulce sotto il naso. Cosa c’è sfuggito? Dov’è il trucco nascosto? Intanto il giornalista viene ritrovato sano e salvo a Parigi (era solo fuggito). Il vagabondo Léon viene fermato. E come nelle migliori tradizioni del Maigret d’alto profilo, ci si avvia verso la nemesi finale. Dove tutti gli interessati vengono convocati nella cella dov’è detenuto Michoux. Si scopre allora che Léon era il fidanzato di Emma, che con la barca faceva trasporti guadagnando un po’, in attesa di un più roseo avvenire. Che c’era un personaggio misterioso, un americano, che spesso bazzicava lì nei porti della Bretagna. Che questi, insieme ai notabili squattrinati di Concarneau convince Léon a trasportare un carico di droga negli Stati Uniti. Peccato che l’americano sia un agente federale, che convince anche Michoux e gli altri a denunciare Léon e guadagnare una lauta ricompensa. Così è, con Léon arrestato, incarcerato in America insieme al suo cane giallo. Léon che scontata la pena, torna in patria con il cane, forse per vendicarsi ma sicuramente per “memento” ai cattivi. Sperando di riconquistare la bella Emma. I notabili tremano, sembrano sul punto di crollare. Ed allora il più spietato, quello che, come dottore, sapeva usare le droghe, decide di farli fuori addossando la colpa a Léon e prendendo due piccioni con una fava. Maigret manda tutto all’aria. Michoux è condannato a venti anni di galera. Emma e Léon si sposano. Una caratteristica che viene alla luce qui, e che sarà presente nei prossimi romanzi, e questo finale verso il futuro, dove Simenon ci dice cosa arriverà ai vari personaggi. Come in un bel serial TV, in cui i protagonisti restano, e quelli di contorno spariscono, ma il popolo lettore ne vuol sapere. Altro elemento tipico di questa fase, la trama, in sé, è molto essenziale, quasi da racconto. L’abilità dello scrittore è di prendere questo nocciolo, e condirlo con una buona salsa, facendone un piatto da portata quanto meno passabile. Mi spiace solo aver dovuto percorrere tutta la trama, che, proprio perché così esigua, lascia pochi margini anche ad un devoto tramatore, come il sottoscritto.
“Il crocevia delle Tre Vedove”
[tit. or.: La nuit du Carrefour; ling. or.: francese; pagine: 145-277 (133); anno 1931]
Forse l’Ostrogoth è in riparazione, fatto sta che per il secondo mese consecutivo Simenon non sta navigando. Anzi è fermo a Concarneau, dove scrive il settimo episodio di Maigret. Con due grandi novità: siamo finalmente a Parigi e non più tra chiuse e battelli e compare abbastanza stabilmente accanto al commissario il fido Lucas. Che ho scoperto chiamarsi André di nome, che è sposato ed ha una decina di anni meno del nostro commissario. Il romanzo, inoltre, ha anche due caratteristiche particolari. Una che lo accomuna al Maigret maturo: indagine sui personaggi ed approfondimenti degli stessi (soprattutto del danese Cari). Una che invece lo rende diverso, e cioè il fatto che sia abbastanza movimentato. Nel sottofinale ci sono sparatorie ed inseguimenti in macchina, come nella migliore tradizione dell’hard boiled americano. Qui intanto abbiamo tre coppie che abitano il crocevia del titolo (una volta abitato dalle Tre Vedove, che però son morte, e poco hanno a che fare con il romanzo, tanto che l’edizione originale parla solo della “Notte del Crocevia”): Cari Andersen e sua sorella Else, Michonnait il rappresentante e sua moglie, Oscar il garagista e sua moglie. Una domenica, Michonnait scopre nel suo garage la macchina di Anderson e nel garage di Anderson la sua macchina con dentro il cadavere di tal Isaac Goldberg, commerciante in diamanti di Anversa. Supposto colpevole, Anderson viene interrogato da Maigret e Lucas per 17 ore, sempre negando, e venendo di conseguenza rilasciato. Interrogato per diciassette ore e nega Andersen viene rilasciato. Il lunedì deve arrivare la signora Goldberg, ma viene uccisa appena scende dalla macchina. Il martedì, Anderson deve andare a Parigi per affari e tornare al crocevia, dove ormai si sono installati Maigret e Lucas. Ma non torna. Nel frattempo, in linea con l’atteggiamento più psicologico che vanno prendendo i romanzi, Maigret cerca di capire meglio chi siano i Michonnait, e che cosa voglia il beffardo e volgare meccanico Oscar. E gironzola intorno alla misteriosa Else, il cui comportamento estraniante, il fascino perverso che emana non possono che attirare la curiosità del commissario. A questo punto torna Cari gravemente ferito. Qualcuno l’ha sequestrato con l’auto, poi gli ha sparato. Benché ferito, Cari torna a casa, dove cercano di ucciderlo con un colpo di fucile. Oscar è a Parigi pedinato da Lucas, e Maigret va al garage, dove un giovane meccanico lo insospettisce. Il nostro scopre così che il garage stesso non è che un centro di smistamento di traffico illegale (droga, gioielli rubati e altro). Scopre anche quale sia il meccanismo che avverte i trafficanti se fermarsi o meno. Siamo nella notte movimentata. Passa un’auto da dove sparano verso Maigret. Dentro c’è Oscar. Inizia l’inseguimento. E sparisce anche Michonnait. Ma Lucas ferma Oscar, e Maigret impedisce che Michonnait uccida Else. Allora, come nella tradizione che si va consolidando, sono tutti convocati nella casa degli Anderson dove si scoprono le verità: Else è in realtà la moglie di Cari, che l’ha trovata nei bassifondi di Amburgo, e che la vuole redimere. Ma Else, abituata ad altri mondi, resiste poco “fuori da tutto” con Cari. E lì nel crocevia, capisce ben presto l’attività di Oscar, si associa a lui, coinvolgendo il meschino Michonnait. Ed è lei che, conoscendo il sottobosco del malaffare, attira Goldberg nella trappola. Dove un sicario di Oscar lo uccide. Sicario che uccide anche la moglie di Goldberg per evitare che parli a sproposito. E che tenta di uccidere lo stesso Cari, in modo da far ricadere sempre su di lui la colpa. Notiamo infine altri caratteri ricorrenti: l’inchiesta dura anch’essa quattro giorni, come la precedente, anche se si svolge in aprile e non in novembre. Il finale, nel pieno della prosodia maigrettiana prevede la convocazione di tutti i sospetti in un unico luogo, con Maigret che spiega ed arresta (o fa arrestare) i colpevoli. Inoltre, come quasi tutti in questo volume, Simenon ci dice cosa succede poi: il sicario andrà sulla forca, Oscar in prigione, e Carl continuerà ad andare a trovare Else in carcere perché lui la ama ancora. Un episodio, quindi, che per le sue caratteristiche, si alza un po’ sopra la pur buona media degli scritti del periodo.
“Un delitto in Olanda”
[tit. or.: Un crime en Hollande; ling. or.: francese; pagine: 279-416 (138); anno 1931]
In questo ottavo romanzo continuiamo a notare come Simenon usi una serie di ripetizioni (o di anticipazioni), come a voler eliminare elementi esterni al contesto e farci concentrare sulla trama. Infatti, qui l’azione (e siamo di nuovo in trasferta) si svolge in Olanda, a Delfzijl, laddove scrisse il primo romanzo su Maigret. Poi il personaggio su cui ruota la vicenda, il morto, si chiama Popinga, come il protagonista di uno dei futuri romanzi non-maigrettiani di Simenon (il bellissimo “L’uomo che guardava passare i treni”, dove il commissario che effettuerà l’arresto finale si chiama … Lucas). Come detto in trasferta, similmente a quattro di questi cinque romanzi. E ben due all’estero (qui in Olanda, e nell’ultimo in Belgio). Anche qui Maigret viene inviato a sedare un po’ le acque (come nel primo) ed a cercare di tirar fuori dalle peste un professore di antropologia criminale, Jean Duclos (che mi sarà antipatico fin dalle prime righe). Il battello di Simenon ha comunque ripreso le acque ed il nostro scrittore ne approfitta per scrivere nel suo isolamento produttivo. Il professor Duclos tiene a Delfzijl una conferenza sulla punibilità dei crimini, e durante i festeggiamenti in casa del suo anfitrione, il padrone di casa, Conrad Popinga viene ucciso da un colpo di pistola. I sospetti abbondano: Duclos stesso, che esce dal bagno da dove viene sparato il colpo con la pistola in mano; Beetje, amante di Conrad, tornata verso casa Popinga dopo che questi l’aveva riportata a casa dal padre; l’irascibile contadine padre di Beetje, che, saputo della figlia, era contrario al loro rapporto; il giovane Cornelius, innamorato non corrisposto di Beetje; il vecchio marinaio Oosting, il cui berretto viene trovato sul luogo del delitto; infine la signora Popinga e sua sorella Any, presenti in casa al momento dello sparo. Maigret appura ben presto che il marinaio non aveva nessun motivo di uccidere Popinga, quindi la presenza del berretto è l’elemento anomalo. Qualcuno l’ha messo a bella posta per sviare le indagini. Questa volta, invece di riunire tutti in una stanza, Maigret trova l’escamotage di far ripercorrere a tutti i sospetti le ultime ore della vicenda, attraverso una minuziosa ricostruzione della notte del delitto. Metodicamente, elimina tutti i sospetti. Vuoi che doveva tornare alla scuola militare (Cornelius), vuoi che era manifestatamente fuori della casa dei Popinga (Beetje e suo padre), vuoi chi era sul suo battello (Oosting). Poi dimostra che non può essere stata la moglie ad uccidere il marito infedele, perché sarebbe dovuta passare per la stanza da letto di Duclos. Motivo che elimina simmetricamente anche l’antipatico professore (che speravo fosse in realtà il colpevole, visto che teorizzava il “delitto perfetto”). Rimane solo la povera Any, menomata fisicamente (leggera zoppia), e respinta dagli uomini del paese, aveva sviluppato una passione fatale per il cognato. Quando si rende conto che Popinga le aveva manifestatamente preferito la bella Beetje, l’amore si trasforma in odio, e decide di uccidere Conrad senza farsi scoprire. Maigret potrebbe omettere l’ultimo passo, non rivelando le modalità di questo delitto “quasi perfetto” (modalità che lascio ai pazienti lettori di una storia ben congegnata), ma il suo dovere morale qui ha la meglio. E come negli altri romanzi della cinquina, seguiamo anche qualche episodio successivo. La fuga di Beetje con un bellimbusto che poi la lascerà. Il suicidio di Any prima del processo. Altro elemento ricorrente, la brevità dell’inchiesta, che dura due soli giorni. E il persistere di Simenon verso le descrizioni ambientali. Qui dipinge un bel quadro di una tipica cittadina olandese e della borghesia protestante che ne governa le azioni. Infatti, il comportamento di tutti i personaggi è influenzato da questo contesto. Bisogna comportarsi bene, e i “fuori riga” di Popinga che mal si adatta al posto sono un elemento di forte tensione tra i notabili. E Popinga non sarebbe mai riuscito ad uscirne fuori, pensando già di lasciare Beetje per il quieto vivere (e questo era una delle motivazioni per mettere Beetje tra i possibili colpevoli). C’è anche un altro elemento che verrà sviluppato nel futuro. Una sorta di filo ironico, che qui si svolge nelle scaramucce tra Maigret e Duclos. Dove il professore tenta di sviluppare un approccio analitico al caso (con schemi, disegni ed altro). Mentre Maigret, prendendolo in giro, risolve il caso con il suo ben noto intuito. Rimane quella domanda di fondo su quanto sia utile per la società stessa denunciare la colpevole. Domanda cui qui darà una risposta, ma che si ripresenterà (spesso) e non sempre con la stessa soluzione.
“All’insegna di Terranova”
[tit. or.: Au rendez-vous des Terre-Neuvas; ling. or.: francese; pagine: 417-550 (134); anno 1931]
Sempre a bordo del suo sloop, sempre in giro per i canali della Senna, Simenon butta giù il suo nono racconto con una grossa novità: entriamo nella vita privata di Maigret ed incontriamo (non più per qualche parola, ma come piccolo cameo consistente) la signora Maigret!! Che per me sarà sempre la bellissima Andreina Pagnani. Anche qui Maigret si trova ad agire in trasferta, e per di più in estate. Dove invece che nell’amata Alsazia a riposarsi e fare marmellate, chiamato da un vecchio compagno di scuola, decide di andare in riva al mare in Normandia. Convincendo anche la signora Maigret, che però ha una richiesta precisa: “va bene il mare, ma niente bagni, capito?” E mentre madame cuce e si aggira nelle frescure dell’albergo, il nostro commissario si trova ad affrontare lo strano caso del telegrafista Le Clinche. Imbarcato su di una nave, dopo tre mesi di sfortunata pesca e di “malocchio” (così si mormora), l’Ocean torna a Fécamp, dove il capitano muore strangolato e Le Clinche viene arrestato come sospetto. Nella cittadina, si precipita anche la fidanzata di Le Clinche, che farà ben presto comunella con la signora Maigret. Ma Le Clinche è reticente, quasi scontroso. Cosa che Maigret trova sintomo d’innocenza. La prima ricostruzione delle vicende del peschereccio portano a galla le sfortune: un marinaio si rompe una gamba alla partenza, il mozzo muore in mare, la pesca è sfortunata, il pesce mal stoccato marcisce. E poi la morte del capitano. Attraverso piccoli indizi, nonché un’illuminazione dovuta alla fidanzata Mary (il letto del capitano sembrava sollevato dalla tolda), Maigret scopre che sulla nave era presente una donna, Adele Noirhomme, amante del capitano. Adele che il telegrafista scopre, Adele che è una “donna di vita”, Le Clinche che ci va a letto all’insaputa del capitano, e che per tutta la navigazione i due si guardano in cagnesco. Ma un confronto tra Adele e Le Clinche presso il commissariato porta alla scoperta che le prove contro il telegrafista sono inconsistenti, cosicché viene rilasciato. Durante un pranzo a quattro, con Mary, Le Clinche, Maigret e signora, Adele si presenta al ristorante, facendo ad alta voce pesanti insinuazioni, che sconvolgono a tal punto il povero telegrafista che questi tenta di uccidersi. Mentre si cerca di salvarlo, Maigret tenta sempre di più di penetrare nel duro mondo dei marinai, continuando ad andare a bere birra nel locale che dà il titolo al romanzo. Dove scopre spesso ubriaco l’anziano Canut, padre di Jean-Marie il giovane mozzo morto in mare. attraverso le varie testimonianze dei marinai del locale, Maigret ricostruisce l’atmosfera del viaggio, e si convince che il dramma deve essersi scatenato il terzo giorno, quando muore il mozzo. Con le sue attente manovre psicologiche, Maigret riesce a far parlare Le Clinche: il mozzo aveva scoperto la nascosta presenza di Adele a bordo, ed aveva minacciato il capitano di svelare a tutti il segreto. Questi, accecato dall’ira, lotta con il mozzo, tanto che questi sbatte la testa sull’argano e muore. Il capitano convince al silenzio l’unico testimone, il telegrafista, rivelandogli tutti i retroscena e gettando in mare il corpo del mozzo. Così Le Clinche scopre Adele ed i suoi provocanti atteggiamenti. Dura la vita in mare, ed anche amando la tenera Mary che lo aspetta a casa, “la carne non è di legno”, Le Clinche è roso dal desiderio e dal rimorso insieme. Il capitano, una volta a terra, sa che non sarà più sereno, anzi pensa già al suicidio. Le Clinche decide di vendicarsi del capitano confessando a Canut la verità sulla morte del figlio. E l’anziano marinaio, sconvolto, sarà lui che strangolerà il capitano. Qui Maigret ritorna sui dubbi che lo avevano preso durante il caso olandese. Riesce a scagionare del tutto Le Clinche, che tornerà in Bretagna con la bella Mary, si sposerà ed avrà dei figli, e non tornerà più in mare. Anche su Adele non si accanisce, tanto sa che la donna di vita, come un pupazzo che torna sempre indietro, non potrà che continuare una vita grama. E la incontrerà anni dopo in un bordello a Parigi. Ma soprattutto, decide di non denunciare l’anziano Canut, ritenendo che questi abbia già assai sofferto, e convincendo il magistrato di Fécamp a chiudere il caso come “insoluto”. Come usuale, l’inchiesta è breve (ed efficace), svolgendosi in soli quattro giorni nel caldo giugno bretone. Ci annotiamo la comparsa della signora Maigret. Risottolineamo la vena psicologica che vanno prendendo i romanzi. Anche perché, il maggior sforzo di Maigret (e di Simenon) è quello di ricostruire l’atmosfera pesante e carica di turbamenti che provoca la presenza di una donna a bordo di una nave che per tre mesi vedi i marinai lontano da casa (e noi si pensa subito a Dalla – De Gregori e “A come fanno i marinai”). Qui, inoltre, Simenon usa un nuovo modo di chiudere il romanzo. Invece di mettere tutti in una stanza (altrimenti dovrebbe denunciare Canut) fa in modo che sia Maigret a ricostruire il percorso degli ultimi giorni del capitano nella sua testa. La solita prova dell’eclettismo dello scrittore belga. Ed una buona prova.
“La danzatrice del Gai-Moulin”
[tit. or.: La Danseuse du Gai-Moulin; ling. or.: francese; pagine: 551-690 (140); anno 1931]
Chiude questo secondo volume un romanzo anomalo anche se ha sempre Maigret al centro (o quasi). Intanto con la sua barca, Simenon si è spostato nel Calvados, a Ouistreham. Dove scrive un nuovo romanzo in cui Maigret, benché presente, si palesa e diventa l’attore principale del racconto solo dopo 70 pagine, cioè dopo metà narrazione. Che inoltre si svolge a Liegi (città natale di Simenon), intorno alla rue du Pot-d’Or nel quartiere “Carré”. Lì dove c’è questo strano night-club, il “Gai-Moulin”, non molto frequentato, anche se di buona posizione. E dove lavora come ballerina Adéle Bosquet (solo nel nome coincidente con la signora del romanzo precedente), dove c’è il navigato cameriere Victor, ed è gestito dall’italiano Gennaro, confidente della polizia. A corteggiare Adéle son due giovinastri sempre a corto di soldi, Jean, sedicenne figlio di un impiegato, e René, studente, affetto da una malattia deviante (su questo punto Simenon rimane un poco oscuro). Alla chiusura del locale, i due ragazzi si lasciano chiudere nel bagno volendo provare a rubare l’incasso della serata. Ma nella sala trovano il corpo di un uomo: Efraim Grafopulos, un cliente del locale che ha passato gran parte della serata proprio con Adéle. I due fuggono, e leggono sui giornali il giorno dopo che è stato rinvenuto morto il greco, ma non al Gai-Moulin, bensì in un baule di vimini nel giardino zoologico. Ben presto la polizia (anche su suggerimento di Gennaro) risale ai due giovani arrestandoli. Un terzo personaggio era tuttavia presente quella sera nel night-club. Non solo, ma era anche nello stesso albergo del greco. Anche il massiccio straniero viene arrestato, e durante l’interrogatorio solitario rivela la verità al commissario belga: è, infatti, il commissario Maigret e da alcuni giorni seguiva il greco, fin dalla sua comparsa a Parigi. Ed è proprio Maigret che ha trasportato il corpo nel baule fuori dell’albergo dove in realtà è avvenuto il crimine, in modo da mettere in difficoltà il o i colpevoli. Maigret spiega allora ai poliziotti belgi (che non ci fanno proprio una bella figura) che Grafopulos, figlio di un banchiere greco, volendo provare i brividi dell’avventura, vuole entrare in una rete di spie. Per provare le sue capacità, i suoi futuri capi lo inviano a rubare dei documenti nascosti al Gai-Moulin, che in realtà è una cellula della stessa rete e serve loro da copertura in Belgio. Dove appunto tutto il personal del night-club è coinvolto nella trama. Attraverso un processo deduttivo “alla Sherlock Holmes” (e qui Simenon comincia a lasciare i procedimenti induttivi per passare ai più solidi deduttivi, pur rimanendo fedele agli approfondimenti psicologici) Maigret va spiegando tutte le mosse della sera fatale. E lo fa a casa di Adéle, dove riesce a far convergere tutti gli attori del dramma. La sera “mortale”, anche il greco si era fatto rinchiudere nel locale, e sentendo i due giovani, aveva fatto il morto. Dopo la fuga Jean e René si erano separati, e quest’ultimo, credendo Grafopulos realmente morto, decide di andare nell’hotel e far man bassa dei soldi del greco. Ma lì, è sorpreso dal redivivo Grafopulos. E René, durante una colluttazione, lo uccide. Maigret, arrivato in albergo e scoperto il corpo del greco, agisce come sopra descritto per far venire alla luce i colpevoli. La banda del Gai-Moulin pensa quindi di essere stata scoperta, visto che il presunto allievo-spione è stato ucciso. E cercano ben presto di recuperare i documenti compromettenti la loro attività, nascosti proprio a casa di Adéle. Dove però appunto li aspetta Maigret con la polizia belga. E li fa arrestare. Come arrestato e rinchiuso in manicomio sarà lo studente René, che vi morirà tre mesi dopo per una malattia al cervello. Solo Adéle uscirà di scena senza troppo soffrire, e Maigret la ritroverà mesi dopo in un altro bar, ma a Parigi. Il piccolo Jean, ripresosi dalla batosta, si rimette sulla retta via, e si arruola nell’esercito belga dal quale viene spedito in Congo. Notiamo quindi che, scrivendo libri dopo libri, Simenon affina il carattere di Maigret, il suo comportamento, il modo di agire. Non è ancora nel pieno delle sue azioni al e dal Quai des Orfèvres, non è ancora contornato stabilmente dai suoi “moschettieri” (per ora compare il solo Lucas). Ma è comparsa la signora Maigret. E, in un piccolo inciso, mentre fin dall’inizio il nostro commissario beve birra, sempre e comunque, in questo decimo romanzo c’è un primo accenno al cibo (che diventerà poi un motivo ricorrente). Infatti, in quel di Liegi Maigret va a cena in un buon ristorante, la Becasse, dove mangia ed elogia un piatto (finalmente, erano più di mille pagine che si aspettava qualcosa da mangiare). Lì, mentre pedina Grafopulos, si sazia di “rognone à la liègeoise”. Ora il rognone, pur mangiato, non è che sia in cima ai miei appetiti gourmand, ma ne noto la presenza. Ricordando che in gioventù ero un cultore dei cibi cucinati dai due grandi, avendo fatto incetta e collazionato le ricette della signora Maigret e di Nero Wolfe. Aspettiamo allora come si evolverà il commissario negli anni Trenta.
Per riparare a torti sulle cure libropatiche che ho saltato nel tempo, e poiché voglio farvi un poderoso regalo epifanico, questa volta l’allegato festivo contiene una miscellanea di cure: alcolismo, balbuzie, aborti, confronti, mal di denti ed egoismo.
Domani Cuba, dopodomani il mondo. Un saluto pensando al Che.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

BEFANA 2016
Per inversioni di letture ed altri accidenti, ho saltato molte cure, ma possiamo (e dobbiamo) rimediare con questo maxi regalo epifanico. Soprattutto perché andiamo a recuperare cure passate dal punto di vista alfabetico, ma non ancora descritte. E poiché vi voglio “bene”, ve ne invio ben sei!

RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE PASSATE

ALCOLISMO

Stephen King            ”Shining”
Malcolm Lowry          “Sotto il vulcano”
Luciano Bianciardi      “La vita agra”
John L. Parker Jr.      “Once a Runner”
Gli alcolisti stanno alle pagine dei romanzi come i cubetti di ghiaccio a un bicchiere di gin. Perché? Perché l’alcol scioglie la lingua. E perché sono sempre i vecchi ubriaconi che ci placcano e ci costringono ad ascoltare le loro storie. Quando capita in un libro, ci possiamo godere quegli sproloqui senza il fiato che sa di birra. Lasciamoli nei libri, però. Nessuno vuole ritrovarsene uno in casa; se pensate dì stare andando in quella direzione, il nostro consiglio è mettervi paura con un paio di efficaci rappresentazioni di come ci si può ridurre. La nostra cura va assunta in tre parti - tre cocktail belli forti, per darvi un assaggio del vostro potenziale destino, seguiti da un ultimo sorso che vi spingerà a tornare sobri, mettere le scarpe da ginnastica e correre via, verso una nuova vita priva di alcol.
Jack Torrance, lo scrittore protagonista di “Shining” di Stephen King, ha avuto a che dire con la bottiglia per anni. Anche se la moglie gli è rimasta vicino, ha perduto la sua fiducia quando ha rotto il braccio del figlio Danny in un eccesso di rabbia alimentata dall’alcol. Accettando un lavoro per l’inverno, come custode dell’Overlook Hotel sulle Montagne Rocciose del Colorado, spera di riavvicinarsi a entrambi e di rimettersi in carreggiata come scrittore con un nuovo copione teatrale.
I due peggiori ostacoli alla felicità di Jack sono stati un’eccessiva dipendenza dall’alcol e un temperamento esplosivo - non proprio la combinazione migliore da portare in un albergo enorme e sinistro, dove si rischia di rimanere tagliati fuori dal resto del mondo per diverse settimane quando inizia a nevicare sul serio. Jack comincia a lavorare con la ferma convinzione che resterà sobrio. Uno dei misteriosi poteri dell’Overlook, tuttavia - a parte un’architettura che cambia da sola periodicamente - è la capacità di tirare fuori cocktail dal nulla.
All’inizio esistono solo nella fantasia di Jack; ben presto, tuttavia, l’uomo si vede servire del vero gin dal (defunto) barista, Lloyd. Per Jack guardare nelle profondità di quel bicchiere di gin è «come annegare»: è il primo drink che porta alle labbra da anni. In compagnia di spiriti sempre più maligni, lo spettro latente del suo alcolismo è più che lieto di uscire allo scoperto e lasciarsi andare. Guardare Jack mentre si distrugge vi metterà paura in molti modi e vi spingerà verso il succo d’arancia piuttosto che tra le braccia del demone dell’alcol.
Gli ubriaconi tendono a essere inebrianti o irritanti. “Sotto il vulcano” di Malcolm Lowry, la cui vicenda si svolge durante i festeggiamenti per il Giorno dei Morti nella città messicana di Quauhnahuac, ci mostra entrambi questi aspetti nella psiche del suo eroe dipsomane, Geoffrey Firmin. Console britannico di questa cittadina all’ombra di un vulcano, passa la giornata a destreggiarsi tra il suo bisogno di bere e il complicato ritorno della sua ex moglie, Yvonne. Quello dovrebbe essere il giorno più importante della sua vita, sospetta, ma non riesce a fare altro che bere, dicendo a se stesso che se si scola una birra è «per le vitamine» (in realtà, non è che gli importi molto del cibo), e temendo l’arrivo di nuovi ospiti senza un’adeguata provvista di liquori.
Gli eventi descritti occupano solo un giorno, e avvengono per lo più nella testa del console, e tuttavia questo romanzo di enorme potenza raggiunge un respiro quasi epico. Mentre i festeggiamenti si avviano al culmine, il console precipita in maniera sempre più tragica e inesorabile verso l’autodistruzione, coi pensieri sempre corretti a whisky e mescal. A volte le sue riflessioni sono dense di umorismo nero, con ripetute allusioni a Faust; Firmin si sta dirigendo allegramente all’inferno - e le sue ultime natole, «Cristo, che modo squallido di morire», anticipate in apertura del romanzo dall’amico regista Laruelle, fungono da spaventoso promemoria di quanto sia terribile imboccare, nella vita, simili strade.
Sì, d’accordo, anche se non si sta in Messico e si vive in Occidente e ci si accorge che si cammina per strada come un guscio vuoto in mezzo a una folla di ectoplasmi, di ultracorpi e di baccelloni, a volte viene la voglia di chiudersi a doppia mandata in una camera, e serrare le finestre, e bere come un ossesso, con la rabbia di «un’ostrica malata», per scrollarsi di dosso il fastidio per tutta questa società della grana e dell’indifferenza, per la sua «diseducazione sentimentale» senza rimedio. Come fece Luciano, ai tempi del Miracolo Economico, traducendo di giorno i libri degli altri per guadagnarsi il pane e progettando la notte improbabili imprese anarchiche, come quella di far saltare in aria il torracchione di vetro e cemento dell’impresa che aveva ucciso i suoi amici minatori, in Maremma, e che «oggi aumenta i dividendi e apre a sinistra». Dalla finestra della sua stanza, Milano è ancora avvolta da una nebbia che sembra nascere dal fiato degli ubriachi, gli unici a sapere lucidamente quanto la dolce vita possa essere agra. Ma prima di farci disintegrare il fegato dall’acidità lasciamo le finestre aperte, buttiamo via tutte le bottiglie vuote che occupano il pavimento della nostra casa e andiamo per strada a leggere a chiunque l’accorato invito di Luciano a «non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi e anzi a rinunciare a quelli che si hanno».
Basta con gli avvertimenti! Chi cerca di perdere certe dannose abitudini ha bisogno anche di uno splendido esempio che possa ispirarlo - di un'alternativa a quel modo di vivere. Per questo scopo vi invitiamo a leggere “Once a Runner” di John L. Parker, Jr. Pubblicato a spese dell’autore nel 1978 e diventato subito libro di culto viene considerato una specie di romanzo-manuale per appassionati della corsa (un altro caso di biblioterapia applicata, insomma). Racconta la storia di Quenton Cassidy, membro della squadra di atletica della Southeastern University, che si allena con Bruce Denton, vincitore della medaglia d’oro olimpica sulla distanza del miglio. Denton spinge lui e i suoi compagni a superare limiti dei quali ignoravano perfino l’esistenza. Si esalta per gli innumerevoli giri di pista che Denton lo costringe a correre, finché non orina sangue e scoppia a piangere, mentre le sue “gambe dure come mogano” continuano a martellare il terreno. Al culmine dello sforzo, si sente «così vitale, così veloce, così quasi immortale» da sapere che la vita non sarà più «struggente» come in quel momento.
Lasciatevi ispirare da “Once a Runner”, fino a cambiare completamente il vostro rapporto con il corpo per spingerlo fino al limite in senso positivo, per metterlo al lavoro e vedere che cosa riesce a fare. Mentre Firmin, nel romanzo di Lowry, si augura che il tempo tra un drink e l’altro passi più in fretta possibile Cassidy, in quello di John Parker riempie di senso ogni secondo, ottenendone tutto ciò che può. La pura gioia – e il dolore – della corsa, il sudore e la determinazione spietata sono quanto di più lontano ci si possa spingere dal nichilismo dell’alcolista. Compratevi un paio di scarpe da ginnastica, e servitevi, dopo cena, questo romanzo invece di un drink. Che possa diventare un simbolo del vostro impegno a rinunciare ai liquori.

BALBUZIE

David Mitchell          “A casa di Dio”
Paul Auster             “Mr. Vertigo”
Il racconto più perspicace della difficoltà di vivere con un difetto di pronuncia che conosciamo - in questo caso, la balbuzie del tredicenne Jason Taylor - è “A casa di Dio” di David Mitchell. Jason pensa molto e con intelligenza alla sua balbuzie, che lo ha colpito all’età di otto anni - più o meno quando il matrimonio dei genitori aveva iniziato a sfasciarsi. Jason si è accorto, per esempio, che «il boia», come chiama la sua balbuzie, interessa in particolare le parole che iniziano con la «N» (anche se poi si sposta su quelle che iniziano per «S», una notevole porzione del vocabolario); che il modo migliore per «ingannare» il boia è controllare una frase in anticipo per vedere se ci sono parole a rischio e scambiare quello che si vuol dire con qualcosa che si può dire; infine, che i balbuzienti difficilmente possono avere la meglio in una discussione con una battuta o una risposta secca, perché «appena cominci a balbettare, p-p-pronti, è a-a-andata, t-t-t-tartaglione!».
Quando la tensione in famiglia aumenta e la balbuzie peggiora, tutti i bulli del posto cominciano a prendersela con lui. Si comincia in maniera blanda, ma si arriva presto a livelli strazianti, e condividiamo il dolore di Jason mentre lo guardiamo aggrapparsi alla propria reputazione ormai a brandelli. Poi succede qualcosa di magico: Jason scopre la poesia e con l’aiuto della signora de Roo, la sua logopedista, e di una donna un po’ esotica che abita dalle sue parti, la signora Crommelynk, che si assicura che i suoi contributi anonimi al giornalino della parrocchia vengano pubblicati, stringe un nuovo legame con le parole, imparando ad amarle e a usarle per raccontare la sua verità. Mentre il racconto di Jason diventa sempre più lirico - un impressionante gioco di prestigio da parte di Mitchell – inizia anche la sua metamorfosi da persona piena di invidia per chi riesce a dire «quello che vuole proprio mentre lo pensa» a qualcuno per cui le parole sono, finalmente, un bellissimo strumento.
La cura di Jason potrebbe non funzionare anche per voi, visto che tutti i difetti di pronuncia sono diversi. Guardarlo arrivare al punto in cui riesce a far scendere uno «sbalordito silenzio» su tutta la classe, tuttavia, con una risposta data con tempismo perfetto e degno di un metronomo vi scalderà il cuore. Se la vostra lingua vi crea qualche problema, da questo romanzo imparerete almeno due cose: voi, come Jason, sarete più maturi per avere combattuto questa battaglia e, ancora come Jason, e come il ramo di un albero, se verrete recisi a un’estremità, probabilmente fiorirete da un’altra.
A margine, non dimenticate neppure l’esempio di un pugile creato dalla fervida penna di Paul Auster che fece del suo difetto di pronuncia un nome di battaglia. Lo chiamavano Balbetta Groogan, ma di lui non sono rimaste testimonianze filmate né interviste; l'unico modo per rivederlo in movimento, sulle sue bianche scarpette da boxeur, è correre in libreria e comprarvi Mr. Vertigo.

BAMBINO, PERDERE UN

Audrey Niffenegger  “La moglie dell'uomo che viaggiava nel tempo”
Perdere un bambino per un aborto spontaneo è un fatto doloroso, sanguinoso e solitario. In casi molto rari può rivelarsi un sollievo, ma il più delle volte il suo arrivo è accolto con rassegnata disperazione. Anche se la logica vi dimostra che il feto non poteva farcela, che il trenta per cento delle gravidanze finiscono a questo modo, che è solo un modo in cui la natura fa la propria selezione, sarete in piena tempesta ormonale e soffrirete molto anche fisicamente. Durante il recupero (a letto, speriamo), leggete “La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo”.
Clare ha amato lo stesso uomo da tutta la vita. Lo ha incontrato quando aveva solo sei anni, e lui trentacinque. Henry non è un pedofilo, ma un uomo che viaggia nel tempo, e sa che nel suo futuro, e in quello di lei, saranno sposati.
La storia strana e inquietante del loro amore è tanto straziante quanto meravigliosa. Clare aspetta Henry, respingendo tutti i suoi pretendenti. Ma l’impossibilità di controllare la loro storia d’amore è stressante: Henry non può scegliere quando partire - a volte la lascia sola per mesi, addirittura per anni - anche mentre sono felicemente sposati. Forse è per questo che lei diventa un artista, e affronta la solitudine accogliendola nelle sue opere.
I veri problemi iniziano quando i due cercano di avere un bambino. Clare subisce cinque aborti spontanei prima che alla coppia venga in mente che i feti potrebbero ereditare il gene del padre - e lasciare prematuramente il grembo materno. Ogni volta che succede restano lenzuola intrise di sangue, a volte un «piccolo mostro» in mano a Clare, la speranza e la disperazione che si inseguono da vicino. Clare insiste perché ha un disperato desiderio di avere un figlio - e alla fine troveranno il modo per aggirare la loro difficile situazione. Lei, tuttavia, soffre per ogni perdita come farebbe chiunque, e assistere al suo dolore è profondamente catartico. Se anche voi siete determinate allo stesso modo, continuate a provare e ci auguriamo che questo romanzo innamorato della vita riesca a darvi la necessaria ispirazione, oltre che a consolarvi.

CONFRONTO, PAURA DEL

Chaim Potok             “Il mio nome è Asher Lev”
Noi che temiamo il confronto siamo nati costruttori di pace - o, per dirla con meno gentilezza, mezze calzette, gente alla fai-come-vuoi-tu. Ci arrendiamo al minimo accenno di disaccordo. Proprio così! Anzi, se lo dici tu, non è proprio così. La nostra peggiore paura, lo sai, sono le discussioni. Faremo di tutto per evitarle. Rinnegheremo le nostre parole, sorrideremo nonostante la rabbia, farfuglieremo qualche autocritica e lasceremo tutto agli altri. Poi resteremo a cuocere a fuoco lento, e il conflitto irrisolto si aggraverà fino a quando esploderà con violenza un altro giorno o rimarrà a covare sotto la cenere per decenni, provocando un dolore intangibile ma reale.
Superare la paura del confronto è essenziale se volete avere qualche speranza di riuscire ad affrontare i conflitti come e quando insorgeranno, com’è inevitabile. Vi consigliamo di studiare l’eroe eponimo di “Il mio nome è Asher Lev” di Chaim Potok. Asher si scontra coi genitori già molto giovane, a causa del suo prodigioso talento per la pittura. Da ebrei cassidici, i genitori non pensano che l’arte sia un’attività dignitosa. Asher, tuttavia, non è in grado di controllare il proprio talento. Disegna in continuazione, a volte senza nemmeno rendersene conto. Un giorno, a scuola, su una pagina interna del suo Pentateuco appare un volto, tratteggiato con la penna stilografica. I compagni sono allibiti per questa profanazione del libro sacro, e i genitori di Lev si sentono attaccati personalmente. L’abitudine del ragazzo a reprimere la propria vena artistica, tuttavia, è già così radicata che non si ricorda nemmeno di aver disegnato quel volto.
Il conflitto interno alla famiglia è una pena per gli occhi, mentre i genitori di Asher si sforzano di comprendere il figlio. La madre, Rikveh, è rimasta segnata dalla perdita del fratello ed è terrorizzata che Asher possa scomparire a sua volta; il fatto che lui resti fuori fino a tardi a disegnare al museo, senza informarla, non l’aiuta. La donna è divisa tra il marito e il figlio. Aryeh, il padre di Asher, è sempre deluso dalle scelte del figlio, e quando i due trascorrono del tempo insieme la situazione diventa esplosiva. Il leader della comunità cassidica di Ladover esercita una profonda influenza su tutti loro. Uomo saggio e forte, quando parla con Asher riesce a farsi ascoltare, e a ricordare al ragazzo le proprie radici. «Mi dicono che un giorno il mondo ti conoscerà come un artista» dice. «Prego il Signore dell’Universo che il mondo, un giorno, possa conoscerti anche come ebreo. Comprendi le mie parole?». Lui non disapprova la vena artistica di Asher, ma vorrebbe che il giovane si dedicasse con altrettanto zelo all’ebraismo. Il modo in cui Asher gestisce questi conflitti di interesse è far finta che non esistano il più a lungo possibile - come risultato, si tormenterà per anni.
Se il vostro conflitto nasce da credenze, ambizioni, modi di vedere la vita diversi o semplicemente da problemi famigliari, affrontatelo, prima che si aggravi e produca una allontanamento, o qualcosa di peggio.

DENTI, FASTIDIO AI

Saul Bellow               “Il re della pioggia”
Se non avete mai sentito parlare di questo male, è chiaro che non sapete chi è Henderson, il derelitto protagonista de “Il re della pioggia” di Saul Bellow. Ma se lo conoscete - e/o ne soffrite - probabilmente conoscete anche lui. A Gene Henderson, infatti - un milionario di cinquantacinque anni dai modi spicci, il naso grosso e tanti figli da non ricordare i nomi di tutti - i denti danno fastidio da tutta la sua vita. Ogni suo dolore, fisico ed emotivo (e lui soffre parecchio) si raccoglie in realtà proprio nei denti. Quando è arrabbiato gli dolgono le gengive. Quando ha di fronte una bellezza che toglie il fiato, i denti gli danno prurito. E quando le sue mogli, le sue ragazze, i suoi figli, la sua fattoria, i suoi animali, le sue abitudini, i suoi soldi, le sue lezioni di violino, la sua ubriachezza, la sua brutalità, le emorroidi, gli svenimenti, il volto, l’anima e - sì - i suoi denti, cominciano tutti insieme a dargli problemi, decide di autoinvitarsi al viaggio di nozze del suo amico Charlie, in Africa, e laggiù ritrovare se stesso.
Non funziona, però. Quello che trova è lo stesso milionario di cinquantacinque anni dai modi spicci che ha lasciato. Per di più, mentre è in viaggio rompe il ponte che ha su un lato della bocca, rovinando il costoso e complicato lavoro del proprio dentista e si sputa in mano parecchi frammenti di molare artificiale.
Il fastidio ai denti è una malattia rara, ma esiste - e non solo nei romanzi di Bellow. Il tormento di chi ne soffre è quasi insopportabile. L’unica cosa che può fare impazzire una persona più del fastidio ai denti è non essere creduta quando ne parla con gli altri. Adesso, tuttavia, potrà regalare ai dubbiosi questo strepitoso romanzo, e usarlo come un ariete per smuovere, finalmente, un po’ di compassione per la propria sventura.

EGOISMO

Ken Kesey                “Qualcuno volò sul nido del cuculo”
Da qualche tempo, essere egoisti è stato sdoganato come un tratto positivo della personalità. Occupati prima delle tue esigenze, dicono tutti i manuali. Assicurati di arrivare in cima. Pensare prima a te stesso può farti guadagnare un sacco di soldi e una poltrona girevole da amministratore delegato, ma non ti porterà mai nuovi amici - o, almeno, non il genere di amici che vorresti. A meno che non troviate divertente guardare le persone intorno a voi che se la passano male, essere egoisti non vi renderà mai felici.
È tempo di prendere ispirazione da uno dei nostri personaggi preferiti della letteratura, Randle P. McMurphy, l'irlandese coraggioso e impudente di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, il romanzo di denuncia sugli istituti psichiatrici, l’elettroshock e la lobotomia pubblicato da Ken Kesey nel 1962. Con la sua sonora risata e il rifiuto assoluto di farsi intimidire, McMurphy mette in subbuglio le vite degli Acuti e dei Cronici del manicomio - uomini feriti, abbandonati dalla società che li ha creati - e le cambia per sempre.
McMurphy non è disinteressato nel solito, noioso modo dei santi e dei martiri. Come il medico che lo ricovera legge sul suo fascicolo, è probabile che si stia fingendo malato di mente per evitare i lavori forzati là dove era detenuto fino a quel momento. Soprattutto, McMurphy vuole divertirsi, e mentre fa il giro del reparto presentandosi agli altri, insistendo a voler stringete la mano anche alle Sedie a rotelle, ai Passeggiatori e ai Vegetali, sembra che voglia semplicemente affermare il proprio dominio sul gruppo. Lo spirito irrefrenabile di McMurphy, tuttavia, presto comincia a fare effetto su quegli uomini. Quando ride, è la prima risata che Capo Bromden - il narratore, un indiano americano apparentemente sordomuto, che è lì da più tempo di tutti - sente da anni. McMurphy sa che in quel luogo dominato dalla paura e dalla vigliaccheria, governato dalla tirannica capo-infermiera Ratched, nessuno dei pazienti può migliorare. Sa, e lo dice, che quando si perde la capacità di ridere si perde ogni punto d’appoggio.
E cosi, in modo sottile e forse non dei tutto consapevolmente, McMurphy comincia a ricostruire l’autostima degli altri pazienti, ammiccando e scherzando durante gli incontri di terapia di gruppo per tirare fuori una risata da qualcuno degli Acuti, repressi e traumatizzati fin da piccoli, convincendo il dottore a lasciarli giocare a basket nei corridoi, ascoltando Capo Bromden che è «grosso come una montagna» ma è convinto di essere minuscolo, cercando di capire perché. Quando, un giorno, porta dodici pazienti a una battuta di pesca in alto mare insieme a due prostitute, li premia per il coraggio che hanno dimostrato andando con lui insegnando loro come un po’ di spavalderia possa aiutarli, anche se bisogna fingere. Quello che segue è il racconto di una giornata gloriosa e commovente, in cui la risata torna a gonfiare il petto degli uomini, e ricorda loro quello che potrebbero essere.
McMurphy non era obbligato a portarli con sé sulla barca. Non era obbligato a condividere con loro le sue idee. Non era obbligato a invitare una delle prostitute, Candy, alla festa d’addio, e certo non era obbligato a ritardare la propria fuga perché il giovane, balbuziente Billy Bibbit potesse trascorrere la sua prima notte con una donna. Pagherà un prezzo terribile.
L’altruismo, però, funziona così. Non riguarda te, riguarda tutti gli altri. E per cosa preferiresti essere ricordato, per avere riportato la gioia e la risata nelle vite degli altri o per esserti preoccupato che fosse tutto a posto nella tua? Dimenticatevi del numero uno. Da oggi in poi, pensate al numero due e a tutti quelli che seguono.

Bugiardino

Di questi dieci libri, ne ho tramati sei, come riporto sotto. Ho letto in giovinezza Lowry e Bianciardi, ma non posso dire di ricordarne la trama tanto da poterne dibattere. Mentre non conosco né Parker jr., né Mitchell. Per facilitare i rimandi riporto i “titoli” delle malattie.

ALCOLISMO

Ho tramato solo il libro di King, che, sul lato alcool, mi trova concorde con la necessità di utilizzarlo come deterrente. Anche se, poi, è pieno di molto altro, come potete leggere sotto.
Stephen King “Shining” Bompiani euro 13
[pubblicato il 03 maggio 2015]
Non avrei certo letto un altro libro di Stephen King, autore che confesso non mi piace affatto, se non spinto dalla libropeutica di Berthoud & Elderkin. E mentre rimando a quel filone di discussione l’approfondimento su cosa possa curare omeopaticamente questo libro, per quanto riguardo il romanzo in sé, devo dire che mi sento di ripetere la risposta che Kubrick dette a King quando questi vide il film, e ne rimase contrariato, affermando che non era molto coerente con il suo romanzo. Per tutta risposta, Kubrick affermò che il libro «non era poi un gran capolavoro». Ed è proprio così. Non è un capolavoro. È un buon romanzo thriller, con un crescente di tensione, ma con una assoluta mancanza di spiegazioni, non dico razionali, ma convincenti su tutto quanto avviene nelle quasi 600 pagine del libro. Credo che la storia sia super-conosciuta, quindi ne parlo ma solo perché nel libro ci sono cose diverse dal film che tutti credo abbiano visto. La storia è la caduta verso la pazzia di Jack Torrence, trentenne scrittore fallito e alcolista non pentito. La storia è il rapporto tra Jack e sua moglie Wendy, dall’amore giovanile alle attuali paure. La storia è la vita di Danny, il figlio di Jack e Wendy, quello che ha dei poteri paranormali, che sente i pensieri, che, come dice il salvatore della patria Dick (poi vedremo perché e come), ha “l’aura” o meglio, in inglese “the shining”. Che il titolo (del libro e del film) è con l’articolo. E si riferisce al potere di Danny. Il libro poi è più complesso, che non parla solo dell’Overlook Hotel e delle vicende che vi avvengono quando Jack accetta il posto di guardiano invernale dell’albergo. Perché seguiamo i motivi che portano Jack ad accettare quel posto: il suo inizio come scrittore che vende alcuni racconti, ingaggiato come professore in una università privata, la difficoltà di scrivere una commedia, l’incontro con Al che lo porta ad amare la bottiglia ed il suo contenuto (soprattutto Martini Cocktail), l’incapacità di reagire alle sfortune, la violenza con il figlio di Danny (cui rompe un braccio in un accesso alcolico), il passaggio (misterioso, e non completamente spiegato) verso l’astinenza completa da alcolici, la rabbia che sale senza sfogo, il pestaggio che rivolge ad un suo studente con cui entra in conflitto, il licenziamento dall’università, e la necessità di trovare un lavoro. In parallelo, vediamo la crescita di Danny, che sente i pensieri, che ha un amico nascosto che gli dice cosa fare e cosa non fare, che si angoscia per il possibile divorzio dei genitori (contro di cui usa tutte le sue armi “paranormali”), la paura che gli prende quando si trova nell’albergo in montagna. Qui King usa tutte le sue armi, dopo aver fatto i suoi flashback per spiegarci (nelle prime 300 pagine) chi siano i nostri tre (anche se Wendy mi rimane sempre molto moscia). Si passa dall’inizio post-estivo dell’albergo che si svuota dei clienti prima dell’inverno, e le storie che il guardiano estivo Watson narra a Jack: le strane morti, i sucidi nella stanza 217, l’uccisione di un mafioso nell’appartamento presidenziale, sino alla strage effettuata dal precedente guardiano invernale verso la moglie e le due figlie gemelle. Vediamo il parco giochi. Vediamo le siepi a forma di animali (ed avranno un ruolo nell’angoscia di Jack, che sotto effetto dell’efedrina immagina questi animali muoversi per volerlo assalirlo), quelli che, erratamente, Kubrick trasforma nel famoso labirinto della morte. Vediamo il cuoco Dick, che ha un piccolo potere di “shine”, ma che lo riconosce in Danny e gli spiega come non averne paura. Poi si avvicina l’inverno. Poi comincia a nevicare, l’albergo viene ad isolarsi dal mondo, rimanendo l’unico compito di jack quello di controllare che la caldaia non si surriscaldi troppo, per evitare catastrofi. Da qui in poi, è un crescendo di non-spiegazioni. Jack, probabilmente, in astinenza da eccitanti, e non riuscendo a scrivere la sua commedia, quella che gli darà la fama e gli onori, comincia a cadere in paranoia, pensa che ci siano forze che gli vogliono tarpare le ali (scusa che estremizza l’incapacità di accettare la propria mediocrità). Ed ecco, le foto si animano, ci sono balli notturni di fantasmi, ci sono incontri con il guardiano assassino. Ed anche Danny è preso da questo vortice di anormalità, si aggira per posti incongrui, ed apre la famosa stanza 217, dove trova il cadavere di una donna (quella suicida) e dopo una fuga Wendy lo trova con dei segni sul collo. Danny dice che è stata la morta, Wendy pensa sia stato Jack ormai incontrollabile. Con un messaggio super-potente del suo shine, Danny chiama Dick che intanto sta al caldo in Florida (e ricordo che l’Overlook sta in Colorado…). Dick si precipita, ma intanto Jack è ormai al di là di ogni ritorno. Ed usando un mazzuolo da “roque” (gioco derivato dal croquet inglese, dove si usa una mazza con una superficie di gomma dura ed una di ferro) cerca di sterminare tutti quanti. Ferisce seriamente Wendy, stordisce quasi a morte l’arrivato Dick, ed insegue Danny in soffitta. Qui, con uno sforzo enorme, Danny fa tornare per un attimo Jack in sé, mentre lo sta quasi uccidendo. E Danny gli dice che la caldaia sta per scoppiare. Jack deve decidere se uccidere Danny e pensare alla caldaia o fare l’inverso. Ma Jack, nel fondo, ama il figlio, corre in cantina e, capendo che se si salva, poi, ucciderà Danny, invece di abbassare la caldaia, la alza al massimo e salta in aria con l’albergo. E tutto finisce con Wendy in ospedale, che riprenderà una vita quasi normale con il piccolo, ma quanto traumatizzato, Danny. Mi sono dilungato molto sul libro, più di quanto pensassi. Anche perché mi da modo di dare qualche tocco di confronto con il film (così faccio vedere quanto conosco il regista, come sa il mio amico Luciano). Intanto, nel film la stanza maledetta diventa la 237 (così l’albergo-modello non avrebbe avuto problemi per i suoi clienti). Poi, si salta molto su quanto succede prima dell’inverno, per cui nel film poco si capisce della pazzia di Jack. Ma s’insiste molto sui poteri “assassini” dell’albergo, similmente al libro, ed in entrambi i casi non si capisce perché. Poi ci sono le siepi a forma di animali, che impauriscono prima Danny, poi Jack e che nel libro tentano di fermare la corsa verso il salvataggio di Dick. Nel film invece, molto simbolicamente, Kubrick mette un labirinto di una tipologia che però (questo l’errore) non poteva vivere ai 2000 metri di altitudine dell’albergo. Poi c’è la mazza da roque, che Kubrick sostituisce con la famosa accetta, quella che colpisce più e più volte la porta del bagno dove è nascosta Wendy. Accetta che nel film uccide Dick, e nel libro, mazza che invece lo stordisce soltanto. Infine, Jack non muore congelato nel labirinto, ingannato da Danny che, camminando sopra i passi, fa perdere l’orientamento al padre, ma salta in aria (volontariamente) come a volersi redimere in un ultimo barlume di coscienza. Quindi, mentre in Kubrick le “pazzie” sono accettate come simboliche rappresentazioni, nel libro molte cose vengono non dette e non spiegate, ed a me hanno lasciato un gusto poco partecipe. Non dico voglio capire tutto (in fondo sono molto limitato) ma gradirei che l’autore desse la sua spiegazione. Cui io posso aderire o meno. Mentre questo passaggio sotto silenzio mi lascia freddo verso l’autore. E precipita il libro verso i voti bassi. Colpa anche di una confezione poco accurata, di cui do solo due esempi. A pagina 149 troviamo la frase “una versione riveduta e corretta dell’interi maledetta commedia”. E, poco dopo, a pagina 171: “Nella luce della lampada … il taccino del piccolo appariva teso”. Le sottolineature sono mie: non è difficile fare una concordanza singolare femminile, o e neanche tanto immaginare che Danny abbia un “faccino” e non un “taccino”. Odio l’incuria! Ed alla fine, beh, se vi piace King, leggetelo, io ho fatto un po’ di fatica per le lunghe pagine un po’ prolisse e poco convincenti per i miei gusti.

BALBUZIE

Questa è una cura monca, che il libro di Mitchell non lo conosco, ed il libro di Auster è pieno di tanto altro che l’episodio del pugile balbuziente fa parte di un inciso dentro una parentesi della vita di Walt. Vita che per altro è interessante leggere, come non mancherete di capire dalle mie parole.
Paul Auster “Mr. Vertigo” Einaudi euro 11
[pubblicato il 04 ottobre 2015]
Ogni volta che prendo in mano un libro di Auster, anche se meno intensamente, ripenso alle prime discussioni che ne ebbi con la mia amica Luana (quella di John Fante, amici). Cui ora aggiungo le letture che ho fatto della di lui moglie, Siri Hustvedt. Che alla fine mi danno un bel quadro di una vita familiare che trasferisce sulla carta le proprie idee. Così se ne discute. Auster in questo ventennale romanzo non ha la forza e l’oniricità della Trilogia di New York. C’è una bella scrittura, inventiva quanto basta, la solita follia (tutta la storia si basa su di un ragazzo che impara a lievitare). Ci sono due temi fondamentali, che sarebbe bene non dimenticare mai: il razzismo e le modalità educative. Il primo è un perno della dottrina di Auster: rispettare il diverso, capirlo, conviverci. Il secondo, per me più nuovo, è la descrizione come una grande forza di volontà possa trovare il modo di far penetrare vie educative in persone diverse con culture diverse. Il romanzo è la storia della sua vita raccontata dall’anziano Walt Rawley. Comincia da quando, orfano in St. Louis, maltrattato dallo zio Slim, incontro uno strano personaggio: un profugo ungherese, che si fa chiamare Maestro Yehudi, e che convince Walt che gli insegnerà a volare. Tutta la prima parte si fonda sui modi educativi del Maestro, che devono portare Walt a sentirsi “fuori dal sé”, per apprendere a lievitare. Nel mondo del Maestro, sono poi presenti un ragazzo etiope, Esopo, grande lettore, e l’angelo custode della casa, l’indiana Mamma Sioux, nipote di Toro Seduto. Walt progredisce, ma prima di fare il salto finale (siamo nell’America degli Anni Venti) il Ku Klux Klan brucia la casa, uccidendo Esopo e l’indiana. Che se in un primo tempo erano anche per Walt “diversi”, aveva imparato ad amarli. Walt ed il Maestro sono distrutti e si rifugiano per qualche tempo da un’amica del Maestro, Mrs. Witherspoon. Si riprendono alfine, anche perché Walt comincia a lievitare. Si organizzano spettacoli in tutta l’America. Walt migliora sempre, ma, man mano che si avvicina alla pubertà, la lievitazione gli provoca forti mal di testa. Decidono di smettere (hanno ormai un bel gruzzolo) e Walt pensa di fare l’attore ad Hollywood. Sulla strada per la California sono però assaliti dalla banda capeggiata dallo zio Slim, che li deruba di tutto, lasciando il Maestro in fin di vita. In punto di morte il Maestro confessa comunque di avere un cancro e che Walt, ormai se la deve cavare da solo. Il ragazzo, distrutto, passa i seguenti tre anni a cercare suo zio Slim, colpevole dell'incidente e della conseguente morte del Maestro per vendicarsi e, trovandolo, lo uccide facendogli bere una coppa di latte avvelenato. Contemporaneamente, il capo dello zio, un malvivente di nome Bingo gli propone di prendere il posto dello zio. Così anche qui Walt fa carriera, aprendo un locale dal nome Mr. Vertigo (per ricordare le vertigini della lievitazione). Auster ci mostra sempre che con delle buone capacità di base, si riesce sempre a sfondare, in America (il mito del self-made-man). Fino ad un certo punto, che poi ci vuole anche intelligenza ed applicazione. Così Walt fa spesso carriera, poi si arena. Come qui, nel suo locale, dove s’intestardisce dietro ad un giocatore di baseball in rovina, tanto che andrà fuori di testa, verrà internato in un campo di lavoro (da dove salterà la guerra). Alla fine della guerra stessa, lavorando presso un fornaio, incontra il suo grande amore, Molly Fitzsimmons. Che sposa e con la quale vive per 23 anni, purtroppo senza avere figli. Alla di lei morte, si da all’alcool. Salvato dai suoi amici anche da questo abisso, si avvia verso i luoghi della sua infanzia, dove ritrova la signora Witherspoon, che gestisce una catena di lavanderie. Ne diventa il contabile, rimanendo lì a Wichita sino alla morte anche della sua ultima amica. Dopo di che, si siede ad un tavolino e comincia a scrivere questa storia. Si vede quindi che è una storia tra l’ingenuo ed il reale, tra il vero ed il falso, attraverso cui si passa solo abbandonando un po’ i freni della razionalità. Ed alla fine, anche se leggibile, non mi ha convinto fino in fondo, lasciandomi perplesso sulle avventure di questi errabondi americani. Non è certo spiacevole, ma non certo mi commuove come vorrebbe la quarta di copertina.
“I fatti nudi e crudi sarebbero andati benissimo, ma sul momento non seppi resistere alla tentazione di esagerare … ero un uomo di spettacolo, e non ebbi cuore di mandare a casa deluso un pubblico tanto bendisposto.” (156)
“Io di lei mi innamorai perché mi fece sentire a mio agio, perché riportò a galla la parte migliore di me … Era gentile, non serbava rancore, mi sosteneva, e non cercò mai di trasformarmi in qualcuno che non ero.” (268)

BAMBINO, PERDERE UN

Audrey Niffenegger “La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo” Mondadori euro 10
[pubblicato il 08 marzo 2015]
Avevo delle aspettative strane basendomi sul titolo e sulle immagini che poteva evocare. Purtroppo tutte fallaci. Non che mi aspettassi un libro di fantascienza, ma l’idea di base del romanzo avrebbe dovuto trovare, da qualche parte, una sua soluzione e/o spiegazione. Invece rimane lì, per tutte e 500 le pagine, lasciandomi, alla fine, discretamente insoddisfatto. Non si saprà mai perché Henry, il protagonista, sia una PCD (Persona Cronologicamente Disturbata) e che quindi i suoi geni lo trasportano qua e là nel corso del tempo. Visto poi soggettivamente, in effetti, Henry sembra un essere immortale, perché, andando su e giù per gli anni, vive la sua vita un numero considerevole di volte. Tanto che, in alcuni momenti, è presente in un luogo con due età differenti (tipo “Ritorno al futuro”). E questo contrasta con l’assunto, che anche l’autrice fa, che non si posso alterare il tempo ed i fatti. Tanto che, quando viaggia nel tempo, Henry si ritrova sempre nudo, che portare vestiti in epoche diverse creerebbe alterazioni. Inoltre Henry non è consapevole del suo potere genetico, cioè lo subisce, per cui, ogni tanto, senza che lui sappia perché né come (a parte accusare stati di stress emotivo ed altre concause) si trova da un'altra parte. La storia, vista nel suo scorrere lineare, ci presenta appunto questo Henry, figlio di due musicisti, cui muore la madre a 6 anni in un incidente d’auto. Il padre un po’ lo accudisce, un po’ delega la vicina, la simpatica coreana Kim. Henry cresce, trova lavoro come bibliotecario, ha un po’ di avventure con diverse donne, fino ad incontrare LA donna della sua vita, Clare. Che sposa, e con cui costruisce una vita dignitosa, almeno nel presente di Clare. Diventa amico dei suoi amici, Gomez e Charisse. Aiuta Clare nel suo lavoro di artista. Poi passano un lungo periodo nel cercare di avere una prole. Che arriverà ma solo dopo sei aborti. Nasce Alba, che eredita, ma questa volta in modo consapevole, il dono paterno. Poi, almeno nella cronologia di Clare, Henry morirà. Ci sono anche altri sviluppi sentimental-buonisti, come la redenzione del padre di Henry che, sprofondato nell’alcool, ne uscirà per insegnare il violino ad Alba. Come lo spacciatore Ben, malato non terminale di AIDS, che aiuterà Henry con droghe varie a tenere, talvolta, sotto controllo il suo ondivagare. Ed altri avvenimenti minori. Detto così, il romanzo non è che un modello americano alla Casati Modignani (senza togliere nulla a Sveva, che ha scritto anche cose leggibili seppur non eccelse). L’incasinamento, e talvolta la bellezza, del romanzo deriva da due modalità narrative usate dalla scrittrice. La prima è quella delle due voci. Tutto il libro è narrato a due voci da Henry e da Clare. Spesso narrandoci lo stesso avvenimento dalle due prospettive. Spesso facendo proseguire la storia da una voce all’altre. Ed in questo, devo dire, quando la scrittrice da voce a Clare si sentono meglio sofferenze e gioie. E forse non è un caso che nel titolo si parli di “moglie dell’uomo”. Mi piace di più quando parla Clare, che vive una strana vita, ma la vive sua. Non Henry, che, andando su e giù, s’intorcina spesso. Si mette in situazioni imbarazzanti, soprattutto perché si ritrova sempre nudo da qualche parte. E facilmente la risolve quando trova dei vestiti. Non altrettanto quando si trova in un magazzino al gelo sottozero (e subirà forti danni) o quando verrà preso a fucilate comparendo improvvisamente in un prato (e non vi dirò né chi gli spara né le conseguenze di ciò). La seconda, che invece rende (o almeno ha reso a me) difficile la lettura, è che ogni capitolo, a volte anche ogni paragrafo, è preceduto dall’indicazione temporale di quando siamo (giorno, mese ed anno). E di quanti anni ha in quel momento Henry e di quanti ne ha Clare. Perché, e qui c’è il gioco magico iniziale che da spunto e vivacità a tutta la prima parte, Henry conosce Clare quando lei ha 6 anni e lui 30. E non si capisce come, ma il luogo dove s’incontrano (il giardino di casa di Clare) sarà quello più visitato da Henry durante i suoi viaggi. Come se ci fosse un buco temporale che lo porta lì. Peccato che, mentre Clare cresce linearmente, Henry si presenta ogni volta con età diverse. Questo è il gioco, come detto, che poi si ripercuote per tutto il libro. Dove Henry incontra a volte persone che in qualche su e giù ha già incontrato. A volte non si ricorda lui, a volte la persona che gli sta di fronte. Ma è tutta un’immane fatica, capire chi sia Henry in quel momento, chi sia Clare, tanto che a volte dovevo tornare indietro per rileggere la data. Certo, l’assunto finale di un amore che vada al di là dello spazio e del tempo, e che lega per sempre i due, è piacevole. Ed anche sentimentalmente ben congeniato. Ci vuole però tutta la pazienza e l’amore di Clare per sopportare una vita siffatta. Quindi, onore al merito della scrittura. Onore ai buoni sentimenti. Peccato per un’opera che, nelle premesse, avrebbe potuto meritare di più.
“Quando vivi con una donna impari ogni giorno qualcosa.” (275)
“A Chicago ci sono così tanti esempi di ottima architettura che ogni tanto l’amministrazione comunale si sente spinta a distruggerne qualcuno per costruire edifici orrendi che ci aiutino ad apprezzare quelli belli.” (329)

CONFRONTO, PAURA DEL

Qui siamo praticamente senza parole. Il confronto (o la mancanza del) è il motivo dominante del libro, come giustamente rilevano le mie libropeute. E tuttavia è anche molto altro, confronto con se stesso, ricerca della propria strada, e tutto quello che troverete leggendolo.
Chaim Potok “Il mio nome è Asher Lev” Garzanti euro 13
[pubblicato il 30 agosto 2015]
Altro bello e piacevole libro letto in questo febbraio in cui si è tornati a prendere in mano non dico dei classici, ma sicuramente dei libri sapienti, sempre sotto la guida della scrittura delle mie libropeute di “Curarsi con i libri”. Ed altro libro che, praticamente, si svolge come una potente biografia, anzi auto, visto che viene narrato in prima persona appunto da Asher Lev. Un ebreo, come dice chiaramente il nome. Non solo. Un ebreo cassidico, seguace dei dettami del riverito (e forse santo) rabbino polacco del 1700 Israel ben Eliezer. Ed anche di più, perché scritto da Herman Harold Potok, che assunse lo pseudonimo di Chaim (che significa “vita” in ebraico) e che, oltre ad essere uomo di lettere, fu anche un rabbino statunitense (fu, che purtroppo morì di tumore nel 2002 all’età di 73 anni). Forse più noto per il suo primo libro (“Danny l’eletto”) che io non ho letto, Potok imbastisce qui una trama forse scarna di avvenimenti, ma piena di interrogativi intellettuali, quelli che bene o male hanno fatto da corona a tutta la sua vita. Al centro il contrasto, forte ed insanabile, tra vocazione (o dono superiore) intellettuale e religione. Anche lo scrivere non è tra gli elementi di forza del pensiero chassidico (anche se devo confessare di aver letto di cosa tratti questa corrente ebraica ma di non averla capita fino in fondo), e Potok risolse il suo dramma interiore relegando la scrittura al tempo altro cui non dedicava la sua vita pubblica di rabbino. Qui, con il suo alter-ego Asher Lev, tenta di portare fino in fondo questa contraddizione, provando a vedere cosa succede facendo la scelta opposta. Asher è dotato, fin da piccolo, di una spiccata capacità di disegnare, e per buona parte del libro cerca di descrivere le sue sensazioni visive, il suo modo di cercarne la trasposizione in un mondo bidimensionale (la carta, la tela, i colori; come rendere il freddo del ghiaccio siberiano ad esempio, cercando di far arrivare all’osservatore l’angoscia di chi viene relegato in Siberia come ergastolano per motivi religiosi?). Il grande cruccio, il grande dilemma, è che Asher vive all’interno di una comunità cassidica di ebrei fuoriusciti russi, ora residenti a Brooklyn. Dove suo padre è uno dei più stretti collaboratori del capo della comunità. E per la comunità, il padre lavora, viaggia in America, si trasferisce per anni in Europa. Per cercare di diffondere e difendere il credo chassidico. E tutta la sua vita è improntata n questa direzione, così come quella di suo padre e del padre di suo padre. E la pittura non è contemplata come espressione consentita. Non che non si possano dipingere Abramo e calendari sacri. Non è concepita la pittura come espressione dei sentimenti, tanto quanto non sembra possibile o ipotizzabile esprimere comunque sentimenti. Certo, sembra almeno, rispetto ad altri elementi ebraici noti, il seguace chassidico è meno “triste”. Anche la vita è un dono di Dio, e va vissuta con gioia, anche cantando (e spesso si canta durante le festività). La più alta forma di vita è quella dedicata a proteggere gli altri ebrei, a leggere la Torah, ed a santificare le feste, in particolare il Sabato. Asher è stritolato tra il suo dono e l’amore verso il padre. In tutto ciò non bilanciato dalla madre, che vuole bene ad entrambi, ma che non riesce a trovare il modo di farli comunicare. Sarà il capo della comunità a proporre una soluzione, affidando l’educazione a Jacob un membro della stessa un po’ ai bordi, ma che è un grande artista, che ha dipinto con Picasso al Bateau Lavoire (ed io ricordo ancora la bellissima piazzetta Émile-Goudeau a Montmartre). Jacob insegna realmente ad Asher come utilizzare la sua arte, e lo mette in contatto con i mercanti d’arte. Bello è tutto l’apprendistato del giovane, i suoi tentativi. Ed il successo della sua prima mostra, dove la sua comunità non va perché espone dei nudi (vedi sotto il bel commento). Quindi Asher va anche a lungo in Europa, soprattutto a Firenze e Parigi, dove s’immerge nei doni dei quadri e delle sculture che vi sono in quantità (stupenda la descrizione della scoperta della Pietà di Michelangelo). Qui fa l’ultimo passo e balzo in avanti. Passo che si preannunciava sin dall’inizio, quando, oltre alla Torah, Asher andava guardando i quadri dei musei newyorkesi, soprattutto quelli della Crocefissione di Gesù. Qui bisogna fare un inciso di carattere storico atto ad una migliore comprensione del racconto: da un lato, ci si narra che il nonno di Asher venne ucciso da un cristiano in tempo di Pasqua, dall’altro non si narra, ma si da per scontato da parte di Potok visto la sua storia personale, come la setta chassidica nacque in un momento di grande fermento religioso nell’ebraismo dovuto alla vicenda settecentesca dei falsi messia Sabbat Zevi e Jacob Frank, e soprattutto della conversione dei frankisti al cristianesimo. Motivo questo che rende l’ebreo chassidico particolarmente sensibile al motivo di Gesù e della croce. Comunque Asher a Parigi dipinge il suo capolavoro, intitolato “Crocefissione a Brooklyn”, dove, inserite in serti crocefiggenti, ritrae tutto il dolore di sua madre, di suo padre ed anche suo per tutti i contrasti personali e religiosi avuti nella loro vita. Il quadro avrà un enorme successo nella mostra di Asher Lev, ma segnerà la rottura definitiva con il padre, ed il suo esilio in Francia da parte della comunità. Che rispetta il dono, ma solo lontano da sé. In fondo, ripensando al libro è quasi più denso di cose rispetto a come mi era scorso sotto gli occhi. Ma tutto, e Potok lo rende magistralmente, all’interno di quel conflitto, in cui Asher sente di avere il dono, ma non se la sente, non vuole, (e non lo farà) allontanarsi dalla religione e dalle pratiche chassidiche. Un bel libro di idee, ben scritto, che pone domande. E quando un libro fa riflettere raggiunge un altro dei suoi nobili scopi. Bello, infine, lo scorrere della Storia in sottofondo, che il nostro pittore nasce nel 1943, e percorre, da ebreo, tutti gli avvenimenti di 25 anni di storia (la rinascita post-bellica, la morte di Stalin, l’ascesa di Kennedy, fino all’alluvione di Firenze). Insomma, un libro da leggere e da discutere.
“È un uomo testardo. Essere testardi è allo stesso tempo una debolezza e una forza.” (235)
“- Asher, sono tuo padre, sono un uomo sufficientemente intelligente. Dimmi qual è la differenza tra una donna nuda ed un nudo. – Una donna nuda è una donna senza vestiti. Un nudo è una visione personale dell’artista di un corpo senza vestiti.” (258)

DENTI, FASTIDIO AI

Benché si parli di mal di denti, il libro è tutt’altro. Ed è talmente diverso da quanto ne viene detto (e purtroppo in peggio) che è bene leggiate le mie parole (e non il libro).
Saul Bellow “Il re della pioggia” Mondadori euro 9,50
[pubblicato il 10 maggio 2015]
Gli avrei dato un solo libricino di gradimento, ma il Nobel del ’76 comunque sa scrivere, anche se questo libro non mi è piaciuto, ed allora mettiamoci anche quel mezzo punto in più. Tuttavia, dico e ripeto che l’ho trovato un libro veramente dannoso. Dopo averlo (faticosamente) letto, ho cercato in giro, tra scritti e rete, di capirne di più, di tirarne fuori lati positivi immaginari. Si dice sia una critica dell’uomo americano, del suo ottimismo, del suo credersi centro del mondo. Ora, può anche essere vero, e sicuramente se guardiamo il libro in prospettiva storica della data di scrittura, c’è sicuramente più di una punta di verità. Ma, e questo l’ho sempre detto e ribadito, un libro che è bello e ben scritto resiste, sempre e comunque, al passar del tempo. Se per esempio un oscuro libro di Winnifred Winston degli anni Trenta è ancora godibile oggi, vuol dire che affronta temi sempre attuali, e li affronta in modo da non essere intaccato dal tempo. Bellow, no. Lui è immerso nella fine degli anni Cinquanta, è immerso nelle paure e nelle fobie americane di quegli anni. E non ne esce. E non penso mi debba piacere solo perché, in ogni caso, una penna in mano la sa ben tenere. A parte il vezzo tutto italiano di mozzare i titoli, per cui sparisce il nome Henderson, e rimane il re della pioggia. Che se tu leggi un bel cognome anglo-sassone davanti ad un titolo così, o ti viene in mente l’autistico Dustin Hoffman oppure pensi che ci sia dell’intrigo lì sotto. Infatti di intrigo si tratta. Il nostro esimio scrittore prende un bell’esempio di maschio americano inutile e gli fa percorrere le oltre trecento pagine senza che un solo avvenimento di quelli che gli capitano scalfisca il muro di inutilità del suo essere, appunto, americano puro e duro. Mentre nelle parti in flashback, qualcosa si salva, qualcosa che ci illumina sulla sua storia (e poi ci si ritorna), quando poi si trasferisce in Africa e da inizio alle sue avventure con i selvaggi, beh lì veramente ci si perde e ci si addormenta. Passiamo quindi subito a questa parte, dove, per insipienza, ignoranza o altro, il nostro Eugene Henderson s’inoltra nel cuore africano (quasi fosse un novello Livingstone), ed incontra due tribù con le quali fa scontrare il suo essere occidentale. La prima è pacifica, quasi in stato di inedia, che non piove e non c’è acqua. Henderson, facilone occidentale, pensa di liberarli da questa schiavitù, con il risultato che fa saltare in aria l’unica cisterna di acqua disponibile, per cui gli africani non potranno che continuare a morire. La seconda è invece bellicosa, ma descritta con gli occhi di un occidentale che non ha mai visto una tribù africana. Dedita al sesso ed alla morte, a giochi pericolosi ed a reincarnazioni fasulle. Intrisa di giochi di potere che fanno impallidire Amleto ed i suoi sodali. Direi che sembra tutto talmente falso che non si capisce se Bellow ci creda o sia ironico. Fatto sta il nostro Gene viene coinvolto in questa sarabanda, ha lunghi colloqui con l’unica persona che sa d’inglese (il re). Ma questi viene travolto dai giochi di cui sopra (e che tralascio per la loro inutile lungaggine). Il nostro americano “idiota” (nel senso dostoevskiano) dovrà decidere se lasciarsene anche lui coinvolgere, oppure (ma avrebbe dovuto farlo centinaia di pagine prima), tornare alla sua inutile civiltà ed inutile famiglia. Un’inutile storia che è invece quella a ritroso che più apprezziamo. Che Bellow ambienta nei posti a lui noti di città e province americane. Con gli Henderson che sono una stirpe di americani arricchiti, e dove lui, Gene, è l’ultimo rampollo di quella stirpe. Non ha bisogno di lavorare, che vive di rendita, ma fa di tutto per rappresentare il peggio dell’americanismo. Si sposa senza amore, tradisce (sempre e comunque) le sue donne. Con la prima moglie fa tre (o forse quattro) figli, che non riesce ad allevare (e si meraviglia che uno dei suoi figli si voglia sposare con una immigrata, tanto è razzista dentro). Ha fatto la guerra in Italia, ma non ne ha capito né il senso né le conseguenze. Ha un lungo e tormentato rapporto (lungo per lui, tormentato per lei) con una donna che diventerà la sua seconda moglie. Decide di vivere nella sua casa di campagna allevando maiali. Decide di imparare a suonare il violino come faceva il padre. S’immerge in pensieri che ritiene alti mentre va dal dentista in metropolitana. Si infatua dei dottori missionari in Africa, per cui, quando ne ha la possibilità, molla tutto e attraversa l’Oceano. Per poi avere tutte le storie di cui sopra. Che si leggono come una rottura di cabasisi colossale, senza che ci sia di ritorno un briciolo di piacere, neanche intellettuale. Insomma, ho sempre supposto che i grandi scrittori americani, dopo un po’, mi avrebbero rotto. Ed è così, con Bellow, con Roth, e molti altri. Un caso? Un mio essere legato all’Europa e non capire l’America? Ai postumi (di una sbronza) l’ardua sentenza. Per ora continuerò a leggerne, ed a dire, con forza, che Saul Bellow non mi pace.
“Succede sempre così … combino sempre qualcosa che non va, rovino tutto.” (107)
“Tu non conosci il significato del vero amore, se credi che lo si possa scegliere deliberatamente. Si ama e basta.” (249)

EGOISMO

Sono pienamente d’accordo, almeno qui. Come combattere l’egoismo, il pensare solo a se stessi, fino a perdersi, completamente. Ed un libro di denuncia delle condizioni psichiatriche che Franco Basaglia avrà senz’altro avuto sul suo comodino.
Ken Kesey “Qualcuno volò sul nido del cuculo” BUR euro 9,90
[pubblicato il 13 dicembre 2015]
Anche questo è un libro che si è infilato nella mia libreria sulla scia dei grandi film che ho amato, e che il libro di cura sui libri mi ha indotto a comperare e leggere. Ora sono indeciso, tra libro e film. Il film era potente, e giganteggiava la figura di Jack Nicholson. Anche il libro è potente, ma a me rimane più impressa qui la figura di “Ramazza” Bromden, il capo indiano mezzosangue, voce narrante del libro. È lui che osserva e descrive gli avvenimenti, lui paziente della clinica psichiatrica, dove si finge sordo e muto per non dover interagire con le istituzioni mediche. E che osserva l’ascesa verso la serenità del suo reparto, per poi constatarne, inesorabilmente, la caduta verticale di fronte all’autorità implacabile. L’autore (“troppo giovane per essere beat, troppo vecchio per essere hippie” secondo una sua definizione) è partecipe della grande cultura americana tra la fine dei Cinquanta ed i primi Sessanta. È amico di Neal Cassady (a sua volta sodale di Jack Keruac), conosce Timothy Leary e tutti gli allucinogeni e psicotropi di quegli anni. E confeziona questo libro come protesta verso la cultura americana, come grido ed atto di ribellione. Con l’ovvio ed amaro finale. Un’anticipazione del ’68: McMurphy e Ratched l’infermiera sarebbero le due facce della stessa medaglia americana, il primo a simboleggiare lo scontro violento contro l'autorità, la seconda a rappresentare quell'autorità del potere che non si può scalzare. Storia tutta “girata” nel moderno ospedale psichiatrico, con l’indiano che tutto guarda e osserva e registra. Dove ci sono pazienti più o meno cronici, come il balbuziente ed introverso Billy Bibbit, il logorroico Harding Dale, il maniaco delle carte Cheswick Charley. E pazienti ridotti a larve da elettroshock devastanti e lobotomie sperimentali. Un’isola che potrebbe essere felice, se non fosse dominata dalla rigida caposala, Miss Ratched, che usa un pugno di ferro per affermare il suo dominio su questo mondo in rovina. È qui che arriva Randy McMurphy, che si finge pazzo per scontare un periodo di detenzione in seguito ad una condanna per gioco d’azzardo, invece di passarlo in carcere. E da subito c’è lotta dura tra i due. Randy, comunque insofferente, comunque con una vena d’alienazione, porta venti di novità. Crea un tavolo da gioco, organizza partite di basket, fomenta una ribellione per poter vedere il basket in tv. Ottiene inoltre di organizzare una gita in mare, con i pazienti meno “pericolosi”, dove si accompagna con qualche donnina, e dove scorre birra a profusione. Insomma, spinge tutti a ricercare se stessi, invece di lasciarsi guidare acriticamente da Miss Ratched. Ed anche una seduta di elettroshock non doma il suo spirito ribelle. Che raggiunge il culmine in una notte brava, con medicine psicotrope a go-go, con altre donnine che fa entrare in ospedale, e con una di queste che seduce il poco esperto Billy. Ma l’alcol scorre a fiumi, e la mattina la caposala giunge che sono in piena baldoria, scopre l’amplesso di Billy, lo ridicolizza, e questi, colmo di vergogna, si uccide. Randy cerca a sua volta di uccidere Miss Ratched, ma viene fermato, lobotomizzato, e ridotto ad una larva. Allora, il capo indiano che sempre seguiamo con affetto, pietosamente lo soffoca con un cuscino, per poi fuggire in Canada, verso la libertà. Cantandosi internamente la filastrocca che da piccolo gli ripeta la sua nonna indiana: “Three geese in a flock / One flew East / One flew West / And one flew over the cuckoo's nest” (“tre oche in uno stormo / una volò ad Est / una volò ad Ovest / ed una volò sul nido del cuculo”). Qui sta tutto il bello e l’atroce del libro, che monta pagina dopo pagina, che ci avvolge con questa lotta di potere che sappiamo già come andrà a finire. Perché Randy andrà sempre sul suo solco comportamentale, non accettando di scendere sul piano delle istituzioni, della caposala. E non capendo i meccanismi dell’antagonista, la ribellione sarà inevitabilmente repressa nel sangue. Ecco, il libro mette forse più su questo lato l’accento, mentre Milos Foreman nel film lo sposta più sul lato psichiatrico, quasi a voler parlare solo di sanità e pazzia e non di potere e ribellione. Manca solo, per essere nelle vette top dei miei gradimenti, una punta di consapevolezza in più. Che tuttavia possiamo scusare guardando alla data di scrittura del libro (1962). Ed al fatto di quanto consapevoli e forse non più tanto ribelli siamo noi ora. Piccolo appunto finale: si nota anche che la traduzione è datata, coeva forse al romanzo stesso, laddove, ad esempio, a pagina 19 si lascia un inutile “pallabase” rispetto all’utilizzo del più corretto “baseball”. Ce ne sono altri, di piccoli intoppi, ma il libro è comunque bello e da leggere.

Conclusioni

Qui non ne traggo che già molto ho detto ed illustrato. Buone letture. E pronta guarigione a tutti.