domenica 25 giugno 2023

Si va sulla montagna - 25 giugno 2023

Dove la neve il volto ci abbronzerà. Con questa dotta citazione della canzone di Cherubini e Bixio comincio ad esaminare i testi provenienti dalla collana di Repubblica dedicata alla montagna. Ma prima che dei libri, tornerei a parlare della canzone con testo di Bixio Cherubini e musica di Cesare Andrea Bixio (intreccio bellissimo), incisa nel 1967 da Los Marcellos Ferial. Dove ricordo che il trio era tutto italiano, pur essendo stato lanciato nel ’62 come gruppo messicano, interpretando la bellissima “Cuando calienta el sol”.

Venendo ai libri, abbiamo alcuni approcci, che non mi hanno convinto molto. E se i “moderni” Brizzi e Cognetti raggiungono una discreta sufficienza, i veterani come Dino Buzzati e Lalla Romano mi hanno lasciato un po’ perplesso. Mentre mi ha proprio deluso, e non credo potesse fare di meglio, la scrittura dell’osannato Mauro Corona.

Enrico Brizzi “Una notte sull’alpe della luna” Repubblica Montagna 14 euro 9,90

[A: 22/06/2021 – I: 27/06/2022 – T: 28/06/2022] &&&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 77; anno: 2019]

Terzo libro di Brizzi ad entrare nella mia biblioteca, dopo il mitico “Jack Frusciante…” ed il me assai caro “La vita quotidiana a Bologna ai tempi di Vasco”. Pur nella diversità di approccio, pur nell’affrontare un tema che non mi è caro sino in fondo, il libro rimane sugli standard di Brizzi, che al fine risulta un autore di buon livello nelle mie letture (direte voi, e gli altri libri? Quello che non leggo, non so; vedremo nel futuro).

Intanto, il libro è anche il primo delle letture che dedicherò nel futuro al tema di questa collana, cioè “la montagna”. Non è che abbia un cattivo rapporto con i monti, così come non l’ho con il mare o con altri panorami. Ripeto e sottolineo: sono un animale cittadino, che va altrove per vedere, capire, conoscere, interpretare. Ma poi, torna sempre a camminare lungo i marciapiedi della sua Roma.

Nonostante i suoi 45 anni, all’epoca dello scritto, Brizzi rimane sempre “giovane” dentro, con quella capacità, dei buoni scrittori, di riuscire ad immedesimarsi (ed a farci calare) in ogni età cui decidono di ambientare i loro scritti. Brizzi, poi, è molto legato al passaggio dal liceo all’Università (ricordiamo sempre Jack), e qui, in un contesto diverso, e con diverso spirito, è lì che ritorna, è lì che ci fa ritornare.

Come detto, è una collana dedicata alle montagne, e non so come se ne parli nelle altre scritture, ma qui si reca un sentito omaggio ad una dorsale appenninica molto interessante. Intanto perché, pur nell’Italia centrale, si chiama “Alpe della Luna”, è incuneata tra Toscana, Umbria e Marche per poi sfociare verso la Romagna, e non è neppure di altezze imponenti, essendo il suo punto più alto (Monte dei Frati) di soli 1453 metri.

Il percorso che Brizzi racconta del suo sé stesso negli anni Novanta è tipico appunto di quei gruppi di giovani che stanno “attraversando la linea”. Giovani che hanno fatto la maturità, giovani che pensano (forse o forse no) all’Università, giovani che si immaginano scenari del futuro. Qui, ne abbiamo tre, Brando, Senzombra ed il narratore. Ovvio che vogliano festeggiare, decidendo di partire da Bologna su di una scassata Renault per andare ad un concerto ad Arezzo Wave. Altrettanto ovvio che sbagliano i giorni e ad Arezzo non c’è nulla.

Alternativa? Andare a Rimini al mare. Problemi? Si, la Renault si ferma. Allora, la grande decisione: attraversare l’Appennino a piedi. Qui comincia il rapporto con la natura e la montagna. Iniziando, per Brizzi d’allora e di ora, quella scoperta del camminare che lo porterà anche ad altri scritti. Camminare che è una scoperta di sé (come sa chi lo fa anche in città). Quando poi lo si fa nella natura (e qui il mio amico Luciano mi sarà di conforto) è anche una scoperta del paesaggio, di chi ci sta dentro. Ed un approfondimento dei propri pensieri.

Ognuno porterà il proprio io in questo viaggio iniziatico, in particolare Brando, il capobranco, sempre coraggioso, sempre propositivo, anche se il suo carisma non potrà annullare la tensione che naturalmente si crea di notte, dormendo all’addiaccio in posti sconosciuti. I tre, e qui ci sono belle descrizioni di natura e persone, vanno per monti e per boschi, guadano fiumi, attraversano vallate e villaggi, incontrano persone diverse da loro, ma con le quali si instaura quel senso di comunanza quando si sta, insieme e senza mascheramenti, a contatto con la natura.

Nonostante la stanchezza, la mancanza di sonno, lo spettro costante di una fame latente, avranno momenti magici, che mi hanno rimandato ad un tramonto in una valle desertica del deserto africano che fu un momento bellissimo ed indimenticabile per me. Si scopriranno vicini, parte di una comunità. E se alla fine faranno promesse che difficilmente si mantengono a diciotto anni, non lo faranno per facciata. Dopo un’esperienza del genere, ci si promette di non lasciarsi mai, di rimanere in contatto, di restare amici per sempre.

Promesse che non sempre si possono mantenere, promesse che si fanno e poi, per mille ed uno motivi, diventano altro, diventano allontanamenti impercettibili che neanche i social moderni riusciranno fortunatamente a colmare. Se ci siamo persi di vista, ci sarà un motivo.

Rimane il ricordo di un momento in cui si aprivano tutte le possibilità e tu, mentre lo vivi, non te ne sei accorto.

Insomma, un buon racconto di formazione, con un Brizzi come a me piace, vicino e scanzonato, attento ai problemi quotidiani, alla vita, e soprattutto, alla natura.

“Non bisognerebbe mai tradire quel che si prova a diciott’anni.” (77)

Mauro Corona “Le voci del bosco” Repubblica Montagna 2 euro 9,90

[A: 25/03/2021 – I: 10/11/2022 – T: 12/11/2022] && 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 111; anno: 1998]

Se avessi letto questo libro quando fu scritto (nel ’98) o anche quando fu ripubblicato (’08), corredato anche dai bei disegni originali dell’autore, penso ne sarei rimasto incantato. Purtroppo, letto ora, dopo aver visto Corona balzare nelle pieghe della cronaca per intemperanze verbali in trasmissioni televisive, nonché nella partecipazione a non so neanche io quale tipo di “Grande Fratello … qualcosa”, non riesco a scindere l’autore dal testo.

Ne viene fuori, quindi, non un discorso onesto sugli alberi e sulla loro natura, magari condito da interessanti elementi biografici, ma un discorso, sempre sugli stessi argomenti, fatto a mo’ di “captatio benevolentiae”. Tipo, io, Corona, so di che parlo, e voi no. Io conosco il legno dei boschi e posso parlarne imbastendo discorsi che voi, ignoranti dei boschi, dovete prendere per buono. Anche se magari stai dicendo cavolate.

Ecco, io, e tutti lo sanno, non so distinguere un tiglio da un leccio, quindi, seppur mi hanno divertito ed incuriositi alcune uscite di Corona, mi rimane l’insoddisfazione di fondo di non aver capito se mi sta prendendo in giro.

Comunque, anche per un profano come me, rispetto ad un esperto ligneomorfo, la lettura, pur non entusiasmante, risulta gradevole (ed anche breve). Non sapevo, e di certo mi ha colpito, che Corona venisse da Etro, e che Etro si trova sopra il Vajont, e tutto mi porta alla mente i miei dieci anni e quello che ricordavo come “i morti di Longarone”. Comunque, Corona aveva 13 anni al tempo del disastro, e credo che quello lo abbia ancor di più legato alla sua terra.

Ed ai suoi alberi, che tratta familiarmente, come fossero compaesani, ed a volte, quasi con più gentilezza di come tratti ora i suoi amici. In effetti, e qui devo concordare con lui, ogni pianta ha dei tratti specifici che la differenziano dalle altre. Guardare il tronco, la chioma, la reazione agli agenti atmosferici (soprattutto come reagisce al vento) ci dà informazioni sulla natura della pianta stessa, sulla sua “personalità” come direbbe l’autore.

Ed è così, con un pensiero gentile a mia madre che conosceva fiori, piante e frutti come fossero amici suoi (ed avrebbe fatto un bel paio con il nostro scrittore), seguiamo le passeggiate tra boschi e valli, alla conoscenza degli alberi, del loro carattere, del loro utilizzo (e qui una valanga di notizie sugli attrezzi di legno e sul legno migliore per realizzarli).

Io mi accontento di ricordare questi giri con il ricordo veloce di alcune sensazioni.

Il cirmolo, buono e generoso, altrove ricordato come “pino cembro”, da sempre utilizzato per le sculture lignee in Val Gardena. Il carpino, piccolo e cocciuto, tanto che ci si fanno birilli e scacchi, a volte confuso con l’elegante betulla, che ci ricorda essere un albero pioniere, di quelli che si insediano per primi in nuovi territori. Infatti, la betulla è anche conosciuta come “Regina dei boschi”, per la sua bellezza nella fioritura, e per le sue proprietà diuretiche.

Ovvio che poco dopo, Corona ci racconti del “Principe dei boschi”, l’Abete Bianco, il saggio protettore dei boschi. L’abete che mi porta il Natale, ma che io ricordo solo per il miele di melata. Per poi dedicare lunghe pagine al maggiociondolo. Ora questo (ma solo perché ho cercato) è il laburno delle poesie di Sylvia Plath o dell’albero mitologico di Tolkien. E poi Corona non ci parla dell’origine del nome, che deriva dal fatto che, in maggio, le foglie del laburno, ciondolano. Ribadendo quindi la natura fragile dell’albero. Quanti altri personaggi lignei ci fa scorrere l’autore sotto i nostri occhi: il noce superbo, il pioppo sfortunato, l’alacre faggio, il resistente frassino, che invoglia gli artisti ad usarlo per i loro scopi, contrapposto al fragile acero (che io ricordo solo per lo sciroppo con cui condivo i miei pancake americani), e poi i noccioli (ahi, Soriano…), le acacie, i sambuchi, gli agrifogli, e via discettando.

Io raccolgo solo due ultime provocazioni: il duro ma non resistente tasso e l’ulivo di cui si parla pur non essendo un albero del bosco di Corona. Il primo a me rimanda ad uno dei corti inimitabili di Achille Campanile: “Il tasso della quercia del Tasso”. Se non lo conoscete, cercatelo, un piccolo gioiello. L’ulivo mi riporta invece a Gerusalemme quando vidi per la prima volta gli ulivi del bosco di Getsemani, storti, contorti, dolorosi come gli avvenimenti che videro duemila anni fa. Un’emozione che sarà difficile dimenticare.

Invece, dimenticherò anche se non presto questo libro, fragile, veloce, ma molto lontano dalle mie corde.   

“È sciocco cercare di mascherare il cammino degli anni. L’incedere del tempo cambia il colore della pelle … ma lui non se ne rammarica.” (32)

Dino Buzzati “Bàrnabo delle montagne” Repubblica Montagna 4 euro 9,90

[A: 10/04/2021 – I: 03/03/2023 – T: 04/03/2023] &&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 139; anno: 1933]

Anche se piace a molti, anche se questo suo primo romanzo lo scrive a “soli” 27 anni, Buzzati non è mai riuscito, nei romanzi, ad entrare nelle mie corde. Ho letto racconti ed articoli che mi hanno convinto di più, la sua presa immediata, la capacità quasi filmica di farci vedere le cose che scrive. Poi allunga il passo, e, seppur rimangono idee e sensazioni, il risultato finale a me rimane un tantino lontano dalle mie corde.

Tuttavia, devo sottolineare che questa sua prima prova contiene, in tutto o in potenza, l’insieme del mondo dello scrittore: l’amore per le montagne, che ha per corollario il legame tra l’uomo e la natura, la contemplazione del tempo che passa mescolata alla solitudine dell’uomo moderno, l’attesa. Attesa di vivere, attesa di compiere un atto che abbia senso, attesa di qualcosa che possa cambiare il nostro mondo. Un tema, questo, che vedrà il suo magico compimento ne “Il deserto dei tartari”.

Ma torniamo a questo primo testo, dove seguiamo l’odissea della vita del giovane Bàrnabo. Uno che vive per i monti e sui monti, tanto che non se ne conosce il cognome, ma da tutti è nominato come Bàrnabo delle montagne. Uno che, laddove i suoi giovani amici fanno feste e cecano ragazze, lui guarda i monti, guarda la natura, aldilà dei piccoli orizzonti delle case in cui vivono. È un guardaboschi e con i suoi colleghi, oltre a pattugliare i monti, deve sorvegliare un deposito di munizioni chiamato “la Polveriera”. Siamo in tempi grami, e ci si arrangia per vivere. I monti della val di Greve sono pieni di gente che si deve arrangiare. Gente, anche, che si dedica al contrabbando con la vicina Svizzera. Gente che non esita, se necessario, ad assaltare il deposito in cerca di armi.

Dopo un primo assalto, dove muore il capo dei guardiani del deposito, Bàrnabo ed il suo mentore Berton incrociano i briganti. Ma Bàrnabo ha paura, si nasconde, mentre Berton viene ferito. Per questo Bàrnabo viene licenziato, e deve trovare altro da vivere. Seguiamo allora il suo percorso, da montanaro a contadino, lavorando in campagna, rimpiangendo sempre quella vita che la sua vigliaccheria gli ha costretto ad abbandonare.

Passano anni (forse dieci) e l’amico Berton, l’unico che non lo ha mai abbandonato, gli consiglia di tornare. Lui lo fa con la coda tra le gambe, ma molte cose sono cambiate. Il deposito è stato spostato, i guardaboschi sono quasi tutti andati altrove. Ma a lui fanno credere che tutto è tornato come un tempo. Riveste la divisa, e si accinge a tornare a fare le ronde tra le montagne come una volta.

Viene anche a sapere che i briganti stanno tornando, ed i vecchi compagni lo illudono che lo aiuteranno nella cattura. Ma Bàrnabo si ritrova sempre solo a girare tra i monti. E vede l’arrivo dei briganti. Ma vede anche che i briganti stessi sono invecchiati, non hanno più la ferocia e l’audacia di un tempo. Arrivano al deposito e guardano delusi la vuota caverna.

Bàrnabo prende la mira, potrebbe sparare, non ha più paura. Decide (grande cambio nel passo senza speranza di Buzzati) di non farlo. Ha trovato la sua serenità, non spara. I briganti vanno via per non tornare più. Bàrnabo continuerà a stare tra i suoi monti, in pace con sé stesso.

Il contraltare che sottolinea inconsciamente, forse, Buzzati, è che ci possa essere una “grande occasione” che permetterà di dare un senso alla propria vita. Bàrnabo decide che l’occasione è non sparare. Drogo aspetterà sempre senza averla mai.

Ho letto più libri di Buzzati di quanti pensassi mi interessasse, ma pur nella non corrispondenza d’amorosi sensi con Buzzati, l’autore fa comunque riflettere. È sempre una lettura personale, è sempre un momento d’intimità con sé stessi. Dove a me rimane un monito, che non è l’aspettare delle occasioni, ma quello di avere il coraggio interiore di non mentire a sé stessi, di non farsi prendere, immotivatamente, dalla paura, di non avere, comunque, momenti di indecisioni. Ci possono essere dubbi, non ci devono essere rimpianti.

Di passaggio, ricordo solo che ho letto uno dei libri di Colaprico dedicato al maresciallo Binda, dove, ambientato in parte nel ’72, il protagonista ricorda la morte di Buzzati, dedicandogli brevi ma coinvolgenti parole, a chi ne ricordava i passaggi sui Navigli a bere sino a stordirsi (ricordo anocra, a chi se ne dimentica, che Buzzati muore per un tumore al pancreas).

Lalla Romano “Pralève e altri racconti di montagna” Repubblica Montagna 18 euro 9,90

[A: 20/07/2021 – I: 05/03/2023 – T: 06/03/2023] &&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 140; anno: 2017]

Devo dire nella mia beata ignoranza che, pur avendo da sempre avuto questo nome tra le orecchie come di una dignitosa esponente della scrittura italiana, non mi era mai capitato di leggerne. Vuoi perché scrisse poco, vuoi perché le sue scritture spaziano dal ’50 al ’70, e poi non vengono molto riprese, vuoi perché il suo maggior libro non è mai riuscito ad entrare in nessuna libreria familiare.

Eppure, Lalla Romano fu una piemontese doc, e quindi, mi si insegna, una persona riservata e determinata, anche se ha attraversato il Novecento con la leggerezza (verbale) di quel libro che nel ’69 le valse il Premio Strega (“Le parole tra noi leggere”, titolo bellissimo di un toccante romanzo sul rapporto madre – figlio). Piemontese delle Langhe, nata in quel di Cuneo, come Mario Soldati, che ebbe compagno di liceo, così come lo fu Cesare Pavese. E di certo era una fucina di talenti, quel Piemonte degli anni Venti, con la presenza anche del giovane Leone Ginzburg, del promettente Norberto Bobbio, del già maturo Montale, insomma di tutta quella massa di talenti che nel ’33 fondò la casa editrice Einaudi.

Ma qui stiamo narrando di un testo di montagna, e non della vita, pur interessante, di Lalla Romano e dei suoi amici. Un libro che fa parte di quella collana che ho acquistato un po’ per scommessa, puntando su di un settore di lettura, appunto la montagna, che non avevo mai praticato attivamente, né come lettore né come camminatore.

Il testo, nella sua parte più “intensa”, è dedicato alla fittizia cittadina valdostana di Pralève, che nella realtà è Cheneil, piccola località montana, appunto, sulla strada tra Chatillon e Cervinia. Un racconto lungo, già apparso con altri racconti, nel testo pubblicato da Einaudi nel ’75 con il titolo “La viandante”. In effetti, il racconto “Pralève” è del ’58 (nella firma autografo di Lalla Romano), e qui è corredato da tre brevi racconti “A Cheneil d’autunno” (‘89), “Profili di pietra” (‘87) e “Vetan” (‘97), che tuttavia non aggiungono molto all’interesse del testo principale.

La forma particolare del testo è che, un po’ a forma di puzzle, il testo principale è a sua volta una collazione di brevi scritti, di bozzetti, di pennellate (e ne capiremo il senso) che compongono il mosaico del luogo, dei suoi abitanti, e della vita vissuta da Lalla laggiù. Ne capiamo il senso maggiore ripensando che una delle arti cui Lalla Romano si dedicò sin da giovane era proprio la pittura.

Ed è in fatti come se stessimo davanti ad una tavolozza, con i vari personaggi a mo’ di colori, che la scrittrice prende, porta sulla tela, ed incastona in un dipinto che alla fine ci restituisce il senso di una serie di visite estive nella località montana, dove lei trascorse tutti i mesi di luglio per una trentina d’anni.

Ovvio a questo punto un inciso, che penso a Pralève ed invece vedo altri paesaggi. Vedo il Passo delle Capannelle, vedo la sosta a L’Aquila, vedo Teramo, incontro il mare, e mi lascio cullare dalla “nostra” Tortoreto. Lì dove ci portò mio padre, io allora seienne. Lì dove ci riportò per tutte le estati, che trascorrevamo da giugno a settembre, io fino ai miei venticinque, ma altri ancora, e mio fratello tuttora, or sono più di quaranta. Un’epopea familiare risvegliatasi e che spero qualcuno avrà la forza di scrivere.

Riprendendo quanto sopra, è la forza della pittura, che consente a Lalla di descriverci, di farci vedere le persone incontrate, incrociate in tutti quegli anni. Di cui, alcune rimarranno anche in fondo ai nostri occhi: l’albergatrice Nanda del Corona, la vedova Cristillin o l’ingegnere e le sue empatie verso le esistenze altrui. Le piccole note vi fanno vivere il posto attraverso le piccole gesta di chi ci abita. Ma è quell’introduzione corale, sia della descrizione della conca, sia delle fatiche della corriera o degli altri mezzi per raggiungere la cittadina che ci danno il contorno, che ci danno lo sfondo e le quinte di questo teatro della vita.

Facendoci poi capire che quello di cui stiamo leggendo non è lo schizzo di alcuni protagonisti, ma la vita di chi li guarda, di chi li ricorda, di chi, ora, ne scrive. Di chi non ne sapeva, di chi, attraverso la quotidianità della montagna, penetra nei luoghi, abbandonando la rigidità borghese che ne aveva accompagnato l’avvicinamento. Come si afferma infatti ad un certo punto “Sono gli uomini che fanno i luoghi”. Uomini di cui, a volte, non se ne sapeva nulla, prima di parlarne, ed ora fanno parte del “nostro” coro.

Devo comunque dire che, in finale, non mi ha conquistato in modo particolare, lasciandomi soltanto la piacevolezza di un’idea di scrittura, e di una levità di vita che sicuramente è stato un momento di piacevole riposo mentale.

Paolo Cognetti “Il ragazzo selvatico. Quaderno di montagna” Repubblica Montagna 1 euro 9,90

[A: 19/03/2021 – I: 21/03/2023 – T: 21/03/2023] &&&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 139; anno: 2013]

Non ho letto, e non so se leggerò, il super-premiato libro di Cognetti, “Le otto montagne”, benedetto anche da un film, anch’esso agli onori delle cronache, ed anche questo non credo che a breve sarà frequentato. Perché, per me, Cognetti rimane ancora quello di “Una piccola cosa che sta per esplodere”, quello che nei racconti “altri da sé” ci dà bei punti di pensiero.

Ad un certo punto, l’autore si volge (anche) alle sue montagne, al mondo “alto e silente”, e ne comincia a scrivere. Questo, in realtà, è il primo dei libri che si occupa di montagne, e ben ci sta, sia a rappresentare Cognetti, sia ad essere il primo titolo della collana di Repubblica per l’appunto dedicata ai monti.

In realtà, non è un libro facile da descrivere, che non c’è praticamente trama. O meglio, c’è tutta una storia da raccontare, ma solo attraverso brani, cenni, rimandi, e poi sensazioni ed altre cose che a volte non hanno una sequenza temporale, se non nell’animo di chi le vive.

Scrittura autobiografica, ci porta diritti nella crisi dello scrittore Paolo, stretto nella vita di città, dove si sente mancare l’aria e, soprattutto, mancare lo spunto di scrittura che lo aveva sorretto sin a quel momento. Per dare uno stacco a tutto quanto decide di ritirarsi in una baita di montagna che aveva visto le prime mossa di lui bambino e adolescente, ma che erano almeno dieci anni che non vi ritornava.

Seguiamo così, in un diario cui mancano solo le date per esserlo, l’andamento di questi mesi di “ritorno alla natura” del nostro, dalla primavera che inizia all’autunno che scolora, passando indenne e pieno di colori per un’estate smagliante.

La narrazione procede così per piccoli scatti, e per tanti incontri, di persone, di cose, di animali. E lì, a contatto più con sé stesso che con la natura, ritrova in sé appunto le parole per farci partecipe del suo mondo. Prima che con Remigio e Gabriele, i suoi mentori montani, vediamo Paolo incontrare una lepre, sentire il rumore della pioggia durante un temporale, passare all’aperto una notte a guardar le stelle (“Dimmi tu luna in ciel, dimmi che fai?” questo lo cito io, visto che Cognetti invece cita anche molti scrittori, degni di nota e di ricordi), pensare a come organizzare un orto (e noi diciamo sempre “Grazie, Sandro!”). Attraverso il silenzioso rumore della natura, passando dal guardare gli alberi, ammirando la vitalità dei boschi, a ricercar per terra le orme degli stambecchi, restiamo lì, nella Valle d’Aosta che prima o poi ci rivedrà, a seguire la trasformazione del cittadino Paolo nel “ragazzo selvatico” del titolo.

Altri animali iniziano a popolare l’immaginario, ma anche il reale, di Paolo. Mentre si meraviglia dello sciogliersi della neve all’inizio dell’avventura, portandoci, pagina dopo pagina, a godere del fiorire della natura, ecco che si mette a cantare una canzone ad una marmotta, oppure ad osservare mamma aquila che insegna il volo al suo piccolo. Sino all’incontro (o al re-incontro) con gli umani. Con Gabriele il pastore chiacchierone amante delle bevute. Con Remigio, silenzioso con il suo trattore, ma che coinvolge Paolo in piccole attività campestri.

La riflessione e le letture portano il nostro Paolo a condividere con noi alcuni grandi maestri, come Defoe ed il suo Robinson, come tanto Primo Levi, come le montagne di Mario Rigoni Stern. Ma soprattutto, com’è ovvio, Thoreau ed il suo “Walden ovvero Vita nei boschi”, con un ovvio pensiero che va a Chris McCandless (quello di “Into the Wild”). Tuttavia, personalmente, mi ha entusiasmato conoscere (ed approfondire) la personalità di Elisée Reclus, francese ottocentesco che si definiva “geografo, ma anarchico”. Ed in particolare mi ha preso la frase in commento al suo librone “L’uomo e la terra”, che dice: “La Geografia non è che la Storia nello spazio, mentre la Storia non è che la Geografia nel tempo”.

Qualcuno trova le pagine di Cognetti “un po’ lente”, ma io ritengo che questa lentezza sia congeniale al modo di proporre la materia a noi lettori, di farci riflettere, di farci prendere una pausa. A me non fa venire voglia di ritirarmi in montagna per perseguire una vita autarchica, non è nelle mie corde. Certo, mi carezza che ci sia Soriano come paracadute di riflessione. Ma la voglia di partire, di allontanarsi dal caos presente (ed italiano) mi fa solo venire in mente un aereo, un volo, un atterraggio ed un giro in un mondo altro dove far magari i conti con altre vite artificiali, tuttavia diverse dalla mia.

Un libro degnamente letto appunto in un momento altro, pensando ad un giardino zen giapponese, mentre in aereo tornavo verso casa.

“La fine è importante in tutte le cose.” (133)

Essendo una settimana italiana, ed anche volta alla leggerezza, vorrei riportare alcune frasi dal certamente poco profondo “Il tempo che vorrei” di Fabio Volo, un autore che si fa leggere, e che ogni tanto inserisce momenti di riflessione che mi coinvolgono grandemente. Come in questo caso, con due piccoli grandi inserti dedicati alla lettura.

“Sappi che leggere mette in moto tutto dentro di te: fantasia, emozioni, sentimenti. È un’apertura dei sensi verso il mondo, è un vedere e riconoscere cose che ti appartengono e che rischiano di non essere viste. Ci fa riscoprire l’anima delle cose. Leggere significa trovare le parole giuste, quelle perfette per esprimere ciò a cui non riuscivi a dare una forma. Trovare una descrizione a ciò che tu facevi fatica a riassumere. Nei libri le parole di altri risuonano come un’eco dentro di noi perché c’erano già. …. Non importa se il lettore è giovane o vecchio, se vive in una metropoli o in un villaggio sperduto nelle campagne. Così come è indifferente se l’argomento di cui sta leggendo riguarda un’epoca passata, il tempo presente o un futuro immaginario; il tempo è relativo e ogni epoca ha la sua modernità. E poi leggere è bello, punto. Io a volte dopo aver letto un libro mi sento sazio, appagato, soddisfatto, e provo un piacere fisico” (90)

“I personaggi, le frasi e le parole trovate nei libri sono come ponti che ti permettono di spostarti da dove sei verso dove vuoi andare, e quasi sempre è un ponte che unisce il tuo vecchio io a quello nuovo che ti attende” (130)

Pensieri che non potrei esprimere meglio.

Comunque, abbiamo passato il solstizio d’estate, stagione cui dovremmo essere quindi entrati a pieno diritto. Anche perché si svolta passando per un onomastico fondamentale, ed un ricordo di una delle mie più care zie, che seppur da tempo ci ha lasciato, oggi avrebbe doppiato la boa dei novanta anni. Ah, quanto speriamo di potere, io e voi, continuare a lungo con la nostra testa sulle spalle. Per ora ci si accontenta di pensare che, pur onusti, si prova ad andar per il mondo. E non è poco. 

domenica 18 giugno 2023

Una Battaglia per ... - 18 giugno 2023

Avrei continuato con una felice battuta (per Tuti …), ma sarebbe stato troppo facile per voi smaliziati lettori arrivare alla soluzione. Quindi lascio i puntini e confesso di aver letto i libri di Ilaria, dopo aver visto lo sceneggiato, interessante seppur non eccelso, con un’ottima interpretazione di Elena Sofia Ricci. Comunque, una buona lettura che presto continuerò con altre opere della scrittrice. Questa volta contornata da un altrettanto buon libro di Massimo Carlotto, che sapete per me parte sempre con un libro di vantaggio. Mentre rimangono defilati un giallo un po’ troppo “mixed” di Pulixi ed una storia d’annata di Facco de Lagarda (anche se poi ne sottolineo la trasposizione in immagini).

Piergiorgio Pulixi “Lo stupore della notte” Corriere Profondo Nero 17 euro 7,90

[A: 06/11/2019 – I: 09/06/2022 – T: 10/06/2022] && 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 361; anno: 2018]

Avevo conosciuto il nome di Pulixi quando scriveva nel collettivo “Mama Sabot”, un collettivo di scrittori nato sotto l’egida di Massimo Carlotto. Non ne avevo però seguito le tracce quando, diventato autore indipendente, ha messo in scena alcune scritture seriali che i conoscitori del genere ritengono interessanti. Lo ritrovo ora con un’opera compiuta ed isolata, con una scrittura interessante nella prima parte, ma con una troppo complicata e veloce discesa nel finale verso soluzioni dei drammi inscenati forse poco risolti.

La trama si sviluppa quasi come in un “procedural thriller”, con un’attenzione abbastanza corale, sia a chi indaga sia a chi è indagato. Anche se una speciale attenzione è dedicata a Rosa Lopez, ispettrice di polizia, da sempre impegnata nella lotta contro il crimine.

La vediamo nel prologo, con la sua squadra, ingaggiata in una lotta contro la ‘ndrangheta calabrese. Un prologo un po’ sbilenco, che avrà un senso molto più avanti nella trama. Poi, con un forte salto temporale di circa 15 anni, la troviamo a capo di un’unità Speciale della lotta al terrorismo, all’interno della DIGOS di Milano.

La difficoltà, e poca appetibilità, del narrato è che, per seguire le varie piste delle procedure poliziesche e delle trame terroristiche, si salta di palo in frasca capitolo dopo capitolo, una tecnica narrativa che, se non ben padroneggiata, a volte lascia qualche dubbio nel lettore. Chi agisce qui? Mi sono perso qualche attore del dramma? In che parte della città siamo?

Abbiamo quindi dei nuclei narrativi differenziati. C’è la squadra calabrese di Lopez, che compare nel prologo, e che, salvo qualche telefonata, scompare dal racconto. C’è la squadra milanese, che, lottando contro terrorismi islamici, parla correntemente l’arabo. Ognuno con una sua caratteristica: il portavoce ufficiale, che Rosa non ha dimestichezza con il grande pubblico, l’esperto informatico, reduce da oscure campagne mediorientali, ed il vice di Rosa, che ne è anche innamorato, pur non ricambiato. C’è il pool di amanti – amori di Rosa: Rocco, suo capo in Calabria, ucciso a suo tempo dalla banda calabrese; Giulio, a suo tempo secondo di Rosa, in coma d due anni per un attentato (non si sa di chi); Alessandro, il medico straricco e nuovo amante di Rosa. Ci sono i vari dirigenti delle varie sezioni poliziesche, che ci perderemo a seguirne nomi e azioni. C’è infine il gruppo americano, emanazione più o meno diretta dei Servizi Segreti, con una base di “interrogatori speciali” a Milano, e vi lascio immaginare cosa voglia dire.

Dall’altra parte, ci sono i “cattivi”. Terroristi o affiliati, ognuno con delle storie alle spalle, che Pulixi ci narra, un po’ asetticamente, senza entrare in giudizi particolari (e questo è un bene per la narrazione), ma anche senza farci entrare in nessun rapporto con le loro vicende pregresse. Narrate ma non sempre decodificabili. Su tutti, il burattinaio, chiamato il Maestro, che tira le file dei terroristi e che sta organizzando uno o più attentati sul suolo italiano. Maestro abile, conoscitore di più cose di quante si possa immaginare. E con un’acuta mente criminale.

Di sfuggita, Pulixi afferma che ci sono pochi attentati in Italia per una sorta di filo rosso delle armi e dei sostegni per cui qualcuno, non si sa dove né perché, fornisce coperture ai terroristi. Quasi che in Italia resistesse il filone “né con lo Stato né con le BR”.

Dopo circa trecento pagine di preparazione, al fine l’azione si fa intensa, ma anche assai affrettata. Riusciranno Lopez ed i suoi a sventare le minacce? Si scoprirà chi sia il Maestro? Si capirà perché si parlò di Calabria? Ed altre domande che mi sono fatto, ma che lascio alla dinamica narrativa di farvi scoprire. La scrittura di Pulixi non è di certo consolatoria, ma crudele e reale, come lo è il mondo in cui viviamo. Tuttavia, la trama, che vuole essere aderente alla nostra realtà, alla fine non prende molto. O non mi prende molto.

Come non mi ha preso dover aspettare centinaia di pagine per capire il senso del titolo, che fin dall’inizio ho collegato alla bellissima canzone di Mina su testo di Maurizio Costanzo, ma che, appunto non si riusciva a collegare a nulla.

Massimo Carlotto “La signora del martedì” E/O euro 16,50 (in realtà, scontato 11,50 euro)

[A: 30/01/2020 – I: 22/12/2022 – T: 23/12/2022] &&&   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 212; anno: 2019]

Siamo alla mia lettura del venticinquesimo libro di Carlotto, uno degli autori più presenti nella mia libreria. Con un romanzo che risale la china delle ultime uscite, anche se non si raggiungono ancora le vette toccate dalla serie dedicata all’Alligatore (di cui non parlo, che chi l’ha letta mi capisce) o delle puntate “politiche” in Argentina.

Anche perché si sa, ed io ne ripeto poco, la mia propensione personale per questo autore, sia per le sue vicende giudiziarie, sulle quali entro poco, e solo per quanto concerne questo libro, sia per le sue scritture quasi trentennali, sia infine per quell’incontro, all’inizio della sua carriera, in una presentazione presso la libreria Odradek di Roma. Si era in pochi, ed alla fine si parlò amicalmente a ruota libera. Una bella serata ed un buon ricordo.

Come spesso nei libri del nostro amico patavino, anche in questo romanzo i personaggi sono molto “grigi”. Non nel senso che siano tristi ed incolori, ma che hanno quella mescolanza di buono e cattivo, che porta ad un effetto misto. Ricordo ancora il mio piccolo amico Giansi che quando gli spiegai il buono ed il cattivo, lo yin e lo yang, mi rispose illuminato, “Ah, lo zozzo e il pulito!”.

Forse il meno “mixed” è Bonamente, un attore porno sulla via del ritiro dalla professione, che anche solo quarantenne ha avuto un ictus. Gli rimane l’attività di riserva come gigolò, nonché il fatto di essere accudito dal signor Alfredo, un travestito che gestisce una pensione, ora anch’essa in declino, ed a suo tempo frequentata da molti simpatici gay.

Al nostro eroe del letto rimane solo una luce positiva. Il martedì, dalle 15 alle 16, una giovin signora usufruisce delle sue prestazioni. Da ben nove anni, prima come una routine, poi sempre con più trasporto, da parte di Bonamente, mentre la signora, a parte delle interessanti divagazioni sui superalcolici, sembra rimane attestata su di una routine e basta.

Inciso, anch’io, come l’autore, mi perito di ringraziare Silvia Rota che ha fornito a Massimo utili suggestioni non solo sul whisky, cosa abbastanza semplice, ma anche su rum e gin. Buone giuste bevute a tutti.

La routine si spezza in seguito ad una serie di concatenazioni possibili se non probabili. Come detto Bonamente, post-ictus, è accudito dal signor Alfredo, che a sua volta sta invecchiando, ed ha paura di rimanere solo, o che la signora del martedì faccia soffrire il suo protetto. Per cui, segue la signora, scopre che vive con un maturo avvocato, che affronta e dopo un alterco, investe ed uccide.

Ciò ci dà modo di entrare nel vivo di altri due personaggi: Alfonsina detta Nanà, la signora del martedì, e l’investigatore dagli stivali texani, mai indicato per nome, ma che assume il ruolo di Harvey Keitel come Mr. Wolf in “Pulp Fiction”.

Nanà è un’ex-prostituta, balzata agli onori della cronaca come possibile assassina del suo anziano protettore. La gogna mediatica la condanna, ma lei viene assolta, pur se non pienamente. L’avvocato che sa chi è il colpevole, ma non può parlare, preso dai sensi di colpa, la prende sotto la sua ala protettrice. Diventa un padre per lei, e sotto di lui Nanà rinasce. Trova una sua strada, ma per il sesso si rivolge a Bonamente.

Tuttavia, quando Nanà scopre le malefatte involontarie del signor Alfredo, sarà il texano a trovare il modo di cancellare tutte le prove e gli indizi. Meno uno, cui provvederà il travestito, ma che per quello dovrà fuggire e tornare nel suo amato Portogallo (tant’è che la pensione si chiamava “Hotel Lisbona”).

E sarà sempre il texano, dopo più di un anno di quiete, a trovare il modo di risolvere gli ultimi problemi di Nanà e Bonamente.

Ripeto, i personaggi di Carlotto non sono mai limpidi, anche se, spesso, sono “travolti da un insolito destino”. Sono tutti sul sottile filo tra la luce e lo scuro, che la vita non consente (spesso) di aver sempre la fortuna dalla propria parte. In più, in questo libro che esce più di 40 anni dopo i fatti di Padova, Carlotto fa finalmente anche i conti con la carta stampata, accusata di volere la gogna mediatica di un imputato a prescindere dalla sua colpevolezza o meno. Ma anche fa i conti con certo potere giudiziario, che usa i giornali per pilotare le inchieste.

Carlotto, e fa bene, si leva qualche sassolino dalle scarpe. A me, nel fondo, non dispiace che anche in questa prova, pur senza strafare, riesce ad instillare il dubbio su chi sia veramente colpevole, e quanto circostanze indiziarie possano portare a stravolgere la realtà.

Ugo Facco de Lagarda “Il commissario Pepe” Corriere Noir 20 euro 8,90

[A: 16/12/2022 – I: 20/01/2023 – T: 21/01/2023] && e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 124; anno: 1965]

L’ultimo titolo proposto da Carlo Lucarelli per una selezione di “Noir” pubblicati dal Corriere della Sera. Una selezione di venti titoli, non tutti veramente dello stesso livello, e spesso molto altalenanti. Come questo, che credo sia stato inserito per il suo valore filologico e storico, piuttosto che per un grande momento “noir”.

Anzi, a voler essere pienamente sinceri, direi che il noir è praticamente assente, mentre si svolge una storia che dipinge, qui sì con capacità ed ironia, un tipico aspetto dell’Italia del boom economico. Siamo infatti nell’aprile del 1964 quando il libro entra nel vivo, per poi uscirne poco dopo il mio undicesimo compleanno.

Di certo, tuttavia, è un libro complesso, scritto in un italiano forbito e colto, tanto che, andando a cercare dell’autore, si scopre che per anni è stato direttore di banca. Ma anche scrittore di poesie di stampo carducciano, nonché partigiano durante la Resistenza, arrestato dai nazifascisti verso la fine della guerra, fortunatamente salvatosi. Tra l’altro, molto legato al Veneto, dove vide i natali a Venezia, e dove ambienta molte opere, tra cui questa che, seppur nessun luogo è citato, per la descrizione generale sembra proprio possa trattarsi di Vicenza.

Perché parlo di un buon libro, ma non di un buon libro giallo? In effetti, non è che, data l’assenza di morti, si debba per forza escludere il genere. È che, in realtà, seguiamo il commissario Pepe nella sua indagine, ne vediamo i passi, le difficoltà, la raccolta di testimonianze. Ma tutto velato da un senso di altro. Tanto che ho il sospetto che l’autore sia stato più interessato appunto a questo “altro”, piuttosto che a scrivere un giallo. Che tra l’altro, venendo poco dopo Gadda, sembrava avere tutte le possibilità per inserirsi in un filone inedito, uno spaccato dell’Italia vista da un’ottica istituzionale, o quasi.

Personaggio centrale e cruciale, è il commissario Gennaro Pepe, nordicissimo nonostante il nome poco veneto, dovuto ad un’immigrazione che si perde nella notte dei tempi, e ad un uso di riproporre nomi aviti ai nuovi nati. Gestisce il commissariato senza voler troppo dannarsi, aiutato dal vice Cerveteri e dal maresciallo Zanon. Pepe è dedito al basso profilo, solo accontentandosi di periodiche visite alla signora Matilde, signora benestante e compiacente alle reciproche voglie.

In tutta una prima parte, lo scrittore ci immerge nel clima di questa cittadina, governata da cinque miliardari e da un Vescovo, ma che presenta tutti gli strati della popolazione italiana. I potenti appunto, economicamente o per ceto, una borghesia che si sta arricchendo, ed uno strato popolare che, a volte, stenta ad arrivare alla fine del mese, con conseguenti arrangiamenti vari. Insomma, una tipica cittadina italiana negli anni del boom economico.

Qui, appunto, il 30 aprile 1964 scoppia la bomba. In base a denunce anonime, Cerveteri e Zanon presentano al commissario un dossier su presunti scandali sessuali. Due luoghi di scambi di favori, a fronte di compensi vari, “Villa Norma” frequentata dalla buona società e “Piazza Cavour 113” ritrovo della piccola e media borghesia.

Il commissario indaga, chiedendo ospitalità alla sua Matilde per aver mano libera nelle indagini senza dover passare per una questura che avrebbe messo tutti in difficoltà. Il romanzo trascorre le sue pagine seguendo le indagini del commissario, gli interrogatori, le ammissioni, e le scoperte anche più sorprendenti. Festini con giovanotti vestiti da donna, case d’appuntamento in cui sono coinvolte delle minorenni, industriali pederasti, sportivi sessualmente compiacenti, contesse trasformatesi in tenutarie. Un gran calderone dove tutti sono coinvolti, anche parenti prossimi dei suoi sottoposti.

Pepe è combattuto tra far scoppiare la bomba o tacere. Prenderà la sua decisione in base a due elementi che sopravvengono nella seconda metà del breve testo. La scoperta di una sua possibile brutta malattia e quella di foto osé della sua Matilde. Ovvio che non vi dico quale sarà la sua scelta.

Ribadendo la buona scrittura, ma anche la poca ricettività che ebbe all’epoca della sua prima uscita, forse perché toccava tasti troppo dolenti dell’Italia in crescita (Facco de Lagarda non risparmia proprio nessuno), lo considero in ogni caso un buon libro, poco noir.

Non è quindi un caso che l’attento Ettore Scola ne fece un bel film nel 1969, interpretato dal sempre solido e nella parte Ugo Tognazzi. Dove contesto a Scola aver scelto di cambiare il nome di Pepe da Gennaro ad Antonio, ma plaudo al regista nella scelta di affidare la colonna sonora ad Armando Trovajoli.

Ilaria Tuti “Fiori sopra l’inferno” Corriere Profondo Nero 9 euro 7,90

[A: 13/09/2019 – I: 13/02/2023 – T: 15/02/2023] &&&   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 363; anno: 2018]

Visto che è cominciata la relativa serie TV, mi sono affrettato a leggere il primo libro dei casi di Teresa Battaglia, che sono sempre curioso di capire la trasformazione di un libro in un prodotto diverso. Anche se probabilmente dovrò rimandare il giudizio comparativo a quando tutto il serial sarà stato trasmesso.

Allora, per ora, ci possiamo dedicare al libro, alla scrittrice ed ai personaggi.

Ilaria Tuti, intanto, mi stava già simpatica essendo friulana di Gemona (oltre ad essere giovane, e quindi, spero, promettente scrittrice). Secondo motivo è la vicinanza con la mia amica Luana, che anche Ilaria comincia come illustratrice, sia di fumetti che di libri per ragazzi. Per poi arrivare al successo ed alla (giusta) fama con questo libro, e con i seguenti dove imposta una miniserie (per ora di quattro libri) imperniata sul commissario – profiler Teresa Battaglia.

Essendo il primo volume, anche se in maniera non lineare, cominciamo a conoscere i protagonisti, anche se su Teresa torniamo poi. Il più importante sembra essere l’ispettore Massimo Marini, che ha chiesto il trasferimento dal sud Italia per (ad ora) imprecisati motivi, e che si muove come un elefante in un negozio di cristalli. Si veste da città pur dovendo lavorare in montagna, effettua sempre (per ora) interventi fuori misura, mettendosi in urto con Teresa. Anche se capiamo che il commissario è burbero, scontroso, ma non stupido. Certo, quando Marini non si domanda se il commissario possa essere la donna che ha davanti o quando porta a Teresa bignè fritti, non sapendo lei essere diabetica, fa un po’ una figura barbina. Tuttavia, se instradato e diretto, può rivelarsi un buon cane da tartufi.

Poi ci sono i poliziotti, Parisi e Di Carlo (che nel film saranno uniti in un unico personaggio di simpatica spalla), il patologo Parri, illuminante nelle sue brevi parole sulle morti, ed altri contorni per ora poco evidenziati.

Veniamo ora al commissario. La figura è discretamente potente, intuitiva, ma anche sufficientemente fragile. Dal punto di vista “thriller”, è un buon commissario, ma soprattutto un ottimo profiler, che non si perita di mandare avanti le proprie opinioni, anche con pochi elementi analitici. È chiusa e burbera, forse per mantenere un distacco con il mondo, che sicuramente l’ha ferita. Da alcune parole, direi che deve essere stata sposata con un marito violento, che, probabilmente, a base di percosse, l’ha fatta abortire. Ma queste sono mie illazioni. Deve anche gestire due grossi problemi fisici: è diabetica, ma tende ad ignorare i controlli, tanto da rischiare, a volte, di avere shock ipoglicemici, e, ipotizzo, sta avendo un inizio di malattia degenerativa, probabilmente Alzheimer, che ogni tanto scorda nomi e cose, rimanendo confusa (ed indifesa). Fortunatamente, ha collaboratori che la sostengono, dove, credo, ben presto si inserirà anche il giovane Marini. 

Per quanto riguarda invece la trama gialla, abbiamo un po’ di alti e bassi. In un piccolo paese a nord di Udine, verso l’Austria, si verificano fatti inquietanti. C’è un morto, poi ci sono alcuni attacchi verso altre persone che portano a mutilazioni più o meno profonde. Senza tuttavia, in una prima e lunga fase, riuscire a trovare un nesso significativo.

Come contraltare delle vicende “nere”, seguiamo invece l’amicizia di quattro ragazzini che avranno dieci o forse undici anni. Mathias che ha un padre violento, una madre succube ed un fratellino nato da poco. Diego figlio di un ingegnere di rigidità estrema che ne tarpa qualsiasi moto di indipendenza, con una madre che si sta allontanando verso probabilmente nuove soluzioni di vita. Lucia con una madre che l’ha avuta sedicenne e che è completamente anaffettiva ed un padre discretamente tossico. Oliver, il piccolo, balbuziente, preso di mira dall’orrendo bidello della scuola.

Quando Teresa si accorge che il primo morto è il padre di Diego, che i menomati sono la madre di Lucia ed il bidello, e quando viene rapito il fratello di Mathias, capisce anche che sono loro, i ragazzi che devono essere il filo rosso della trama. Un filo che, e qui devo dire che, al solito, i flashback in corsivo risultano anche troppo espliciti, risale al passato ed a qualcosa che è di sicuro successo tra l’Austria, il paesino, le menzogne che vi girano ed uno strano convento di suore di clausura.

Sarà la capacità di empatia di Teresa e la dedizione alle indagini tradizionali di Massimo che porteranno alla soluzione del caso, aspettata ma in un certo senso anche nuova.

Mentre tutta la prima e seconda parte si regge, e stimola anche il lettore ad entrare nella trama, la risoluzione del caso risulta un po’ troppo scontata (anche se potrebbe aprire scenari per le successive puntate, vedremo).

Ilaria Tuti “Ninfa dormiente” TEA euro 9,90 (in realtà, scontato a 4,45 euro)

[A: 26/08/2020 – I: 19/02/2023 – T: 20/02/2023] &&&   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 475; anno: 2019]

Spinto dalla serie televisiva, non ho potuto fare a meno di passare subito al secondo libro di Ilaria Tuti, per avere caldo il pensiero sulle imprese di Teresa Battaglia, commissario di polizia. Un risultato, in questo secondo passaggio, interessante, di buon livello, con alcuni squarci positivi, ma anche con alcune zone d’ombra aumentate. Il bilancio è sempre in attivo, ma, sinceramente, mi aspettavo qualcosa in più.

Intanto c’è il mondo privato dei protagonisti che sempre più “invade” la quotidianità del racconto. Rimangono i due poliziotti supporter che sanno e non parlano, Parisi e Di Carli (ricordo che nella serie, per economia, vengono unificati in un solo personaggio). Ci sono patologi e medici vari, con un loro ruolo, ma sempre sullo sfondo. Ovvio che c’è l’alter ego di Teresa, l’ispettore Massimo Marini, di cui cominciamo a scoprire le ombre che sapevamo esserci, che lui stesso, con il suo comportamento, ci fa capire che ci siano. La strana morte del padre, di cui si sente colpevole tanto che è fermamente convinto di non avere interesse a proseguire la stirpe dei Marini. La presenza di Elena, già sua fidanzata, ma prima lasciata per i sensi di colpa relativi al rapporto con gli altri, poi qui ripresa quando si presenta a Udine, innamorata ed incinta. Andrà avanti la gravidanza? Andrà avanti il rapporto? Di questo leggetene.

C’è una new entry nel clan Battaglia, anzi una doppia entrata. Sono Blanca e Smokey. Lei ipovedente, lui cane da ricerca reperti insanguinati (nonché cane-guida di Blanca). Certo, un po’ sembra quasi volerci far entrare la simpatica Blanca di Patrizia Rinaldi (che ne pubblicò la prima puntata nel 2009 e che nel 2021 era l’eroina di una interessante serie televisiva). Fatto sta che Blanca è sicuramente problematica, ma, come tutti i ciechi, ci vede meglio di molte persone cosiddette normali. Darà una mano decisiva alle indagini, e penso (spero) ci sarà nelle altre avventure di Teresa.

Infine, c’è lei, il commissario, con tutti i suoi problemi attuali (diabete e sospetto di inizio di Alzheimer) ma anche con quelli passati (ex-marito violento che la malmenava e che le ha procurato l’aborto di cui porta dentro di sé tutti i segni). Proprio sull’aborto e sull’ex-marito si appunta l’attenzione quando compare un nuovo magistrato inquirente, Alberto. Noi si sospetta sia l’ex, ma lei nega. Tuttavia, il rapporto conflittuale tra i due è palese e molto forte.

La storia parte dal ritrovamento di un quadro che tutti credevano smarrito: la “Ninfa dormiente”, dipinto il 20 aprile 1945 dall’allora giovane Alessio Andrian. Un dipinto bellissimo, che colpisce tutti quanti, ma che è al centro della dolente storia del romanzo. Dalle analisi, risulta dipinto con il sangue, e dalle fattezze si risale all’identità della donna, Aniza, una valligiana scomparsa proprio al tempo del dipinto. Alessio potrebbe svelare i retroscena, ma da quel giorno non dice più una parola, restando seduto in poltrona a guardare il bosco in cui dovrebbero essere avvenuti i fatti.

Si risale così fino ai tempi della guerra e dentro la bella valle che fa da contorno alle indagini. Bella come tutte le valli friulane, e carica di significati, come poi torneremo più avanti.

I nostri indagatori si trasferiscono allora in Val Resia, per portare avanti le indagini. Lì trovano Alessio, muto, e ne sanno la storia. Partigiano con le bande di montagna, ma anche grande talento pittorico. A raccontare le storie c’è Raffaello, il fratello di Alessio, bimbo di sei anni all’epoca dei fatti, che lo avevano coinvolto insieme alla sua coetanea Ewa, nonché sorella di Aniza, che risulta morta da poco tempo. Come è morta Hanna, la figlia di Ewa. Nelle valli si aggirava anche un altro partigiano, grande solista di violino.

Dai racconti, si scopre che la loro cittadina nativa era stata anche teatro di tragici eventi. Un tedesco era stato quasi ucciso da un accidentale colpo di fucile, e come rappresaglia i nazisti avevano sconvolto la cittadina, uccidendo un innocente, ma soprattutto alla ricerca di un’icona che i nazisti stavano trafugando. Icona che vorrebbe il violinista, ma che scompare, e di cui solo Raffaello ed Ewa, forse, sanno qualcosa.

Nella notte di tragedia, Aniza cerca di raggiungere Adrian, mentre tutti gli altri, il violinista, Raffaello, Ewa, si aggirano per i boschi, anche se ognuno per suo conto. Poi, e voi scoprirete come, Aniza muore, Adrian la dipinge sotto le fattezze della ninfa e si chiude nel mutismo, e gli altri attori si dileguano. Chi, come il violinista, torna alla sua città. Chi come Raffaello farà un percorso di aiuto al fratello. Chi, come Ewa, continuerà a vivere nella valle, portando avanti (e qui il testo di Ilaria si fa un po’ fumoso) il matriarcato imperante nella valle stessa.

Affrontando i propri demoni, con l’aiuto di Blanca che troverà i resti di chi serve trovare, con un colpo di scena che coinvolge la figlia di Hanna, nonché nipote di Ewa, nonché sosia vivente di Aniza, con il sostegno di Massimo nei momenti difficili, Teresa troverà come ovvio il bandolo, mettendo (forse un po’ velocemente) i puntini finali alla storia.

Una storia che ovviamente sembra preludere ad altre avventure.

Ho lasciato per ultimo il ritorno nella valle. La Val Resia è in effetti una valle particolare, dove nel sesto secolo si insediarono popolazioni slave, che, restando a lungo isolate, svilupparono una cultura autoctona. Comprensiva di una lingua, riconosciuta dall'UNESCO come lingua in via di estinzione, ed un patrimonio musicale singolare. Musica che viene suonata ora nelle feste, utilizzando chitarra e violino modificati, che appunti si chiamano zitira e bunkula, ed è suonata su tempi dispari invece che pari. Ma soprattutto è la lingua la sua particolarità. Dove, ad esempio, il termine “patata” si dice “kartüfule” e la cittadina di San Giorgio si chiama Bilä. Inoltre, come in molte culture montane, è forte la presenza come ruolo sociale centrale della donna. La donna porta nuova vita, e quando si è isolati di certo è fondamentale.

Come detto, comunque pur con qualche riserva su di una certa omogenizzazione dei personaggi, che non sempre risultano delineati autonomamente, una buona lettura. Vedremo. 

Visto che Massimo Carlotto è presente anche come autore esaminato, mi piace tirare fuori alcune citazioni dal suo libro “La terra della mia anima”. Citazioni legate all’età: “Certe cose vanno fatte al tempo giusto… Ho vissuto 65 anni senza preoccuparmi di mettere a posto le cose nel mio cuore e nella mia testa” (33), Citazioni legati al vissuto: “Ero insoddisfatto e infelice ma non lo davo a vedere. Mai. Non avrei saputo spiegarne i motivi e tantomeno avevo voglia di affrontare il discorso. Temevo che l’anestesia si trasformasse in disperazione… Ogni mattina … mi guardavo allo specchio… e dicevo a voce bassa: Non voglio vivere così.” (132). Ma soprattutto una citazione sulla lettura che condivido in pieno: “Enrico diceva sempre che leggere certi libri ti dà la possibilità di diventare un uomo migliore” (38).

Per il resto sapete già che a luglio si prospetta un breve viaggio turco, sulle tracce di un Capodanno di quindici anni fa. Mentre continuano festeggiamenti di amici (vero Pietro?), e si intravedono altre possibili celebrazioni. Io traguardo la possibilità di avere presto un mese di riposo campagnolo, per cui continuo ad essere allegro nell’abbracciarvi. 

domenica 11 giugno 2023

Donne e Nobel - 11 giugno 23

Una settimana dedicata alle donne, cui casualmente il nome comincia per “A”. Ma soprattutto imperniata su alcune letture del premio Nobel Annie Ernaux. Dei libri che mi sono stati regalati, “Gli Anni”, oltre che letto in originale che ha dato un bel senso alle parole, si stacca di molto dal resto. Penso che se leggerete quanto ne scrivo, si capirà.

Ma anche l’Islanda e l’India sono qui ben rappresentati da due scrittrici di buon calibro e di ottima riuscita. Non sorprende Auđur, di cui ho già letto altro ed apprezzato. Un po’ invece il libro di Anita, ambientato nei treni indiani, che anche io ho usato e ne conservo ricordi.

Auđur Ava Ólafsdóttir “Hotel Silence” Einaudi euro 12

[A: 14/07/2021 – I: 18/08/2022 – T: 20/08/2022] &&& e ½  

[tit. or.: Ör; ling. or.: islandese; pagine 188; anno 2016]

Sembra quasi una coincidenza casuale, ma ogni volta che mi avvicino all’Islanda, subito prima o subito dopo, mi imbatto nella lettura di un libro di Auður figlia di Olafus e di Sigríður. Fu così nel 2013, con “Rosa candida”, che avevo commentato, tra l’altro, dicendo che anche quando si svolge fuori d’Islanda, l’isola è presente. Fu ancora così nel 2016, con “La donna è un’isola” dove, profeticamente, avevo ribadito la mia volontà di percorrere ancora una volta il Ring.

È stato così con il mio terzo viaggio, a valle del quale ho letto il presente libro. Imparando a conoscere meglio anche Auður, non solo storica dell’arte e scrittrice, ma anche conoscitrice dell’Italia e della nostra lingua, avendo studiato a Bologna una quarantina d’anni fa.

Venendo al testo, devo dire che, pur restando su livelli elevati, rimane un filo sotto i due precedenti. Sono sempre convinto che ci sia sempre la capacità della traduzione di rendere il testo a far pendere qualche mezzo voto qua e là. Qui, al solito, c’è anche il titolo. Che in originale sta per “cicatrice”, come ben riporta la seconda delle due parti del romanzo, la prima essendo intitolata “carne”. Gli editori internazionali (non solo gli italiani) hanno invece preferito intitolarlo ad uno dei siti dove si svolge il romanzo, lo strano, inquietante, ma alla fine anche co-protagonista del testo, l’Hotel Silence.

Un’altra particolarità, che si intuiva dalla scrittura, ma che ho scoperto a posteriori, è che doveva essere un testo teatrale. In effetti, per quasi tutto il testo assistiamo al flusso di coscienza, anche se ben organizzato, di Jonás. Abbastanza facile vederlo in commedia, anche se la seconda parte prevede più personaggi, più movimenti. Comunque, il libro è diventato teatro dopo essere uscito, quindi, ora, lo prendiamo così com’è.

Un testo sul disagio, sull’amore, sulla morte. Elementi che sembrano sempre presenti nella letteratura islandese. I primi due molto legati, che dove c’è disagio si cerca (a volte) di superarlo con l’amore. Anche se un malsano rapporto tra i due termini porta più disastri che benefici. La morte, ed il suicidio in particolare, sono poi una costante presenza di molta letteratura nordica. Chi ha visitato quei posti, chi ne ha conosciuto gli abitanti, ne può capire il senso. Spesso, quando c’è disperazione, l’isolamento, la mancanza di connessioni tangibili con l’altro, porta a decidere che, forse, è meglio togliersi di mezzo.

Che è quello che vorrebbe fare Jonás. Ha quarantanove anni, una madre con la demenza senile, un matrimonio andato a rotoli, ed una figlia non biologica. Anzi il matrimonio, già traballante di suo, ha proprio cessato di essere quando la moglie Guðrun gli confessa che la figlia che ha cresciuto, Guðrun anch’essa come la nonna, è frutto di un rapporto casuale di poco precedente al loro incontro.

La prima parte è un po’ pallosa, con Jonás che ci racconta i mille modi in cui vuole farla finita, decidendo al fine che è meglio morire lontano da casa, così che la figlia non sia costretta a trovare il suo corpo senza vita. Decide così di partire per un paese in cui da poco è finita una guerra civile (se non fossimo negli anni ’10, poteva essere la Bosnia, ma in fondo, vale per ovunque, anche per l’Ucraina tra qualche tempo), verso quell’Hotel Silence del titolo.

Lì si trova a confrontarsi con realtà diverse, che hanno vissuto la morte da vicino, con mariti, figli, mogli, uccisi da bombe o massacrati da soldati senza regole. Si trova a doversi confrontare sia con altri stranieri (un’attrice, un depredatore di reperti archeologici), sia con i locali martoriati. In particolare, con i due fratelli che gestiscono l’hotel, Fifì e Maí e con il piccolo Adam. Jonás, di poche parole (e qui, in terra straniera, nessuno conosce l’islandese) lavorava in una ditta di aggiustatutto. Qui, per necessità e costrizione, si trova ad essere richiesto di metter mano a quella sua (unica) abilità.

Così, ricostruendo docce, lampade, mobilio, pagina dopo pagina, assistiamo alla ricostruzione di sé stesso. Una ricostruzione che parte usando la cassetta degli attrezzi che aveva portato con sé, con un trapano, una corda, chiodi e nastro adesivo, per costruire l’ingresso nel regno dei morti. Ricostruzione non solo morale, anche fisica, quando riuscirà, dopo otto anni e cinque mesi, a fare di nuovo all’amore (certo non vi dico con chi). Ricostruzione che passa anche accettando la malattia della madre, ed accogliendo la figlia che lo convince, da lontano ma con parole da sottolineare, come lui e soltanto lui è e possa essere suo padre.

Il libro comincia il 5 maggio (e già questo è da sottolineare) e termina il 17 giugno, con una svolta forse diversa da quella che ci si aspettava per tutto il testo, ma da leggere.

In realtà, poi, è molto più poesia che teatro, ed è comunque un inno alla pace, un invito a riscoprire tutto l’umano che è in noi. Soprattutto ora, da poco usciti da una dura pandemia e da sei mesi piombati nell’orrore di una guerra.

Ma soprattutto, è intrinsecamente islandese. Anche lontano dall’isola, Jonás incarna con forza l’anima isolana: bricolage, che dove tutto manca bisogna saper fare, solitudine, introspezione, difficoltà quindi nel rapportarsi all’altro in maniera profonda. Si beve birra insieme, ma si riesce ad essere amici? Ed anche capacità, una volta scoperto che non vuoi ferirmi, di entrare in sintonia, di essere per l’altro.

Mi piace, Auður e continuerò a leggerne, anche se, come detto, la prima parte del testo è un po’ lenta ed incartata. Fortuna che ci sono le cicatrici, di Jonás, di Guðrun, di Maí che, come nel giapponese “kintsugi” non vanno nascoste, ma sottolineate con l’oro.

Anita Nair “Cuccette per signora” Guanda euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)

[A: 27/01/2020 – I: 11/12/2022 – T: 13/12/2022] - &&& e ½ 

[tit. or.: Ladies Coupé; ling. or.: inglese; pagine: 332; anno 2001]

Anita Nair è un’interessante scrittrice indiana, di cui ho letto qualcosa nella scorsa decade. Nata in Kerala, stato del sud indiano che ho trovato molto interessante visitare, da sempre vive a Bengalûru (che sarebbe il nome indiano di Bangalore). E lì ambienta la quasi totalità dei suoi romanzi. Come questo, che in effetti è il suo secondo romanzo, ed è ancora pieno dei suoi fermenti giovanili (benché scritto già oltre trentenne).

Un cenno merita l’intraducibile titolo inglese. In effetti, sino al 1998, in coda ai treni, specialmente notturni, erano posti dei vagoni chiamati in inglese “Ladies Coupé”. Intraducibile indicazione, che in tutte le traduzioni del libro in giro per il mondo viene tradotta con “Cuccette per signora”, ad indicare appunto uno scompartimento dedicato all’uso solo di donne. Io lo avrei posto al plurale, che sono vagoni letto a sei posti, che anche io ho utilizzato nei miei viaggi indiani (ora non più riservati alle donne). C’è un sedile-cuccetta in basso, uno in alto, e lo schienale del sedile in basso diventa la cuccetta di mezzo.

Di passaggio ricordo che non è una caratteristica solo dei treni, ma, ad oggi, esistono, nelle ore di punta, vagoni riservati alle donne nelle metropolitane. Io ne ho incontrati a Delhi e Cairo.

Tornando al testo, Anita Nair ci narra la storia di Akhilandeshwari detta Akhila, che a 45 anni, dopo una vita dedicata alla famiglia, decide di intraprendere un viaggio. Prima di 4 figli, a 19 anni, morto il padre travolto da un autobus nel caotico traffico indiano, ne eredita il posto all’Ufficio delle Tasse, e con il suo stipendio mantiene la famiglia. I fratelli si sposano, lei ha una piccola storia d’amore che non porta a compimento per non lasciare la famiglia, muore anche la madre. Così Akhila si trova avanti negli anni, per la società indiana, e zitella.

Ponendosi allora la domanda cruciale che permea il libro (“una donna ha bisogno di un uomo per completarla o può rimanere single e felice?”), decide di intraprendere un viaggio, sola e verso il Sud, puntando ad arrivare a Kanyakumari nel Tamil Nandù, la punta più meridionale dell’India. Un viaggio che ora, venticinque anni dopo e con treni più moderni, consta di circa 13 ore di treno. Viaggio che intraprende appunto nelle cuccette a 6, dove incontra cinque donne. Nel corso della lunga notte e del primo mattino di viaggio, le donne parlano, si confessano, stimolate da Akhila che si appende sempre a quella domanda.

Il libro a questo punto diventa una sorta di raccolta di piccoli racconti. Dieci capitali, dove i dispari narrano la vita nel treno, ed i pari sono dedicati ognuno ad una delle donne.

Così nella ricerca della propria identità Akhila incontra Janaki, una donna anziana che si è completamente annullata dietro l’ombra protettiva del marito. Quindi è la volta di Margaret Shanti, brillante insegnante di chimica che fa un matrimonio sballato con il suo preside, che scopre tiranno, ma che riconduce alla ragione riempiendolo di cibo (e facendole ingrassare oltre misura). C’è poi Prabha Devi che narra la sua vita di madre e moglie perfetta, fino a che non scopre l’esistenza di una piscina che cambierà la sua vita.

I racconti terminano con le più giovani. Prima la quattordicenne Sheela, che vede negli altri quello che gli altri non vedono. Un dono che le servirà per accudire la nonna negli ultimi istanti della di lei vita. Finendo con Marikolanthu, ragazza di belle speranze, la cui vita viene distrutta da uno stupro, cui seguono a cena altre conseguenti disgrazie. Inciso fuori contesto, il nome della protagonista di questo ultimo racconto è il termine sanscrito per indicare la maggiorana.

Sarà nell’ultimo e undicesimo capitolo che finalmente Akhila parla in prima persona, prendendo consapevolmente alcune decisioni, alcune condivisibili, altre meno, ma, alla buona ora, fatte in prima persona. Anche qui, facciamo una piccola digressione dal sanscrito dove Akhila indica l’Universo, ed il termine complesso Akhilandeshwari indica una divinità conosciuta come “Lei che non può essere mai spezzata”. Forse la scrittrice voleva dirci qualcosa con questi nomi?

Come detto, la costruzione del testo non è fluida, che i racconti spezzano assai il corso della narrazione. Ma da tutte si evince il filo rosso del testo: in tutte e situazioni descritte le donne contano poco, sono sempre colpevoli (stuprate perché vestono alla moda, impedite negli studi, ed altro che potete immaginare). Di certo esce con forza una fotografia non certo postivi della società indiana, dove la donna deve, nell’ordine, accudire la casa, cucinare, sottostare ai comandi dei maschi di casa, e, laddove mancano, forse trovare sostentamento solo vendendo il proprio corpo.

Purtroppo, e lo vediamo quotidianamente, pur con le dovute modifiche dovute ai tempi ed ai luoghi, non è che anche nella società occidentale la donna sia trattata in modo migliore. In ogni caso, oltre alla fotografia della pessima considerazione del mondo femminile, abbiamo alcuni risvolti etnograficamente positiva che escono fuori dal narrato. Il modo di vestire, ad esempio, con i diversi colori e tessuti delle sari (ora, il mio dizionario riporta “il” sari mentre in tutto il testo viene indicato con “la” sari; mistero). Le cavigliere portate solo se si cerca marito. E la meravigliosa cucina dell’India del Sud, dove, con grande intelligenza, viene riproposto in finale di libro, un piccolo ricettario delle principali pietanze citate.

Un libro che forse ha qualche anno, che forse non scorre sempre al meglio, ma che ha il merito, per chi ne sa intraprendere una lettura non superficiale, di farci riflettere. Forse poco cambierà che chi legge il libro ha già una mente più ordinato, e chi maltratta le donne non leggerà questo libro. Ma c’è sempre una piccola speranza in fondo al cuore.

“Spesso succedeva che, come sua madre pensava qualcosa, suo padre esprimesse ad alta voce esattamente quello stesso sentimento nel giro di una frazione di secondo e sua madre allora diceva ‘Stavo per dirlo’” (18)

“Allevare una figlia è un’occupazione a tempo pieno.” (201) [se ne può parlare]

Annie Ernaux “Il ragazzo” L’Orma editore s.p. (Natale degli Arabini)

[A: 25/12/2022 – I: 29/12/2022 – T: 29/12/2022] - &&&

[tit. or.: Le Jeune Homme; ling. or.: francese; pagine: 58; anno 2022]

In effetti, da quando ha ricevuto il Nobel, a me ronza nell’orecchio l’idea di leggere uno dei suoi libri, ma qualcosa mi aveva sempre frenato. Un retropensiero che rumoreggiava dicendo guarda è troppo intimista, è troppo basata su ricordi, sembra fredda. Fatto sta che, invece, i nostri amici delle lezioni ventennali di lingua, che si riuniscono (almeno) una volta l’anno in dolce convivio, hanno regalato, a me ed Ale, ben due libri della scrittrice francese.

Come tante altre cose, io e Ale abbiamo deciso di condividere questi regali, senza etichettarli come regalo mio da parte di, o simili banalità. Sono regali della nostra combriccola amicale, e noi li leggeremo così. poi, io ne parlerò.

Ed è proprio così che in questa fine d’anno campagnolo, dopo essere passato nelle sue mani, che non ne sono state entusiaste, lo leggo io. È il più agile e scorre via, mentre preparo la colazione per iniziare degnamente uno degli ultimi giorni di questo 2022.

Il testo scorre in un battibaleno, anche perché, per raggiungere le 58 pagine, al testo, sono stati aggiunti tre interventi fatti dalla scrittrice tra il 2013 ed il 2016. Questi testi posticci non aggiungono molto al panorama generale, se non il primo, “Scrittura e memoria”, che disegna un utile ed interessante ponte tra il ricordo, sempre presente in ognuno di noi, e la scrittura che Annie riesce a produrre, ad esempio riandando spesso nella natia Yvetot, sovente citata solo come “Y.”, e riuscendo a narrare di sé facendone diventare una scrittura dove ognuno si può ritrovare. Una scrittura dove, a ben guardare, si parla di noi, della nostra vita in città, dagli anni della scuola e dello studio al lavoro, dai matrimoni ai divorzi, dai figli avuti e da quelli non avuti. Capisco, sentendo questo intervento letto a Roma al mitico “Festival delle Letterature”, come e perché la scrittrice sia stata insignita del Premio Nobel.

Il breve testo, che si riduce al fine in una trentina di pagine, stampate anche a caratteri larghi, ha la prima difficoltà nel titolo italiano. Laddove, per noi, “ragazzo” si intende un individuo che sta varcando la soglia della fanciullezza per percorrere il breve tratto dell’ultima giovinezza. Al contrario, “jeune homme” indica piuttosto un giovanotto, così come in effetti risulta dal testo. Non ne consociamo il nome, ma solo la funzione, quella di spalla alla matura narratrice.

Chi scrive è oltre i cinquanta, mentre il giovanotto lo collocherei tra i venti ed i venticinque. Il rapporto tra i due è decisamente squilibrato, anche se Annie si sente mentore più che madre. Ma nelle poche pagine analizza i vari stati d’animo. Il bisogno, la necessità di sentirsi giovane, e di sentirlo scrivendo. Ma scrivere è un’attività faticosa, e solo dopo un sano incontro di sensi, lei si sente in grado di abbassare le difese e por mano alla penna.

Tuttavia, è anche con lo sguardo di chi fotografa la realtà che sta vivendo, che vede sé stessa in compagnia del giovane amante, e soprattutto, nei convivi con i coetanei di lui. Se trasportiamo il tutto in questi anni Venti, come vedete una persona matura che si accompagna con giovani attenti soltanto a mandare messaggi, fare selfie, ed utilizzare il mondo social per comunicare, scordandosi che, forse, esiste anche la parola per scambiarsi le impressioni sul mondo. Straniante. Come estranea sente lei quel mondo.

Eppure, è bello sentirsi vivi, anche quando gli sguardi altrui son pieni di rimproveri e domande. Nel breve termine delle poche pagine, si svolge tutto il mondo, ed il mondo di Annie, quel mondo, termina quando Annie riesce a produrre uno dei suoi libri più dolenti. In quel finale dello scorso secolo, quando riuscì a parlare del suo aborto e delle sue sofferenze. Ponendo fuori da sé quel testo, capisce anche che la storia con il giovane amante è giunta al suo termine naturale, consentendole di andare avanti.

Consentendole di scrivere una frase che starebbe bene anche sulla pena di Garcia Marquez: "Se non le scrivo, le cose non sono arrivate fino al loro termine, sono state solo vissute". Ora sono vivo e sono buone per essere raccontate. Una frase che racchiude molto del mondo di Annie Ernaux, meglio di quella posta nella quarta di copertina, quasi tesa ad accalappiare incauti lettori: “spesso ho fatto l'amore per obbligarmi a scrivere”. Non commento di più, che poi dite che sto diventando un acido anziano.

Comunque, come prima prova di lettura, pur non esaltandomi come altri scrittori che avrebbero meritato il Nobel e non l’hanno avuto (come il mio amato Oz), è in ogni caso una scrittura che, nella sua semplicità sembra possa aprire mondi. Staremo a vedere.

Annie Ernaux “Guarda le luci, amore mio” L’Orma editore s.p. (Natale degli Arabini)

[A: 25/12/2022 – I: 04/01/2023 – T: 05/01/2023] - &&+

[tit. or.: Regarde les lumières mon amour; ling. or.: francese; pagine: 107; anno 2014]

Secondo libro dell’ultimo Nobel, ma ancora lontano dalla voglia di leggere i suoi libri maggiori (e in particolare “Gli anni” che prima o poi affronterò).

Dopo il breve assaggio del veloce “Il ragazzo”, qui siamo ancora in una dimensione diversa del raccontare. Il testo nasce da una richiesta dell’editore Seuil, che propone una collana dal titolo “Raccontare la vita”. Annie prende la sfida al balzo e decide di impiantare un racconto diaristico sulle sue periodiche visite ad un supermercato. Siamo a Clergy, una ventina di chilometri a nord di Parigi. C’è un centro commerciale, “Les Trois fontaines”, con tutti i negozi tipici di un tale centro. Librerie, parafarmacie, ma soprattutto Auchan, con tutto il fulgore e la prosopopea consumistica di un supermercato di livello. Non nel solo senso che sia per persone agiate, ma perché riesce a diversificare i suoi scaffali per ogni livello di consumistico frequentatore.

Dal suo diario di un anno, circa, di frequentazione, la scrittrice estrapola brani, impressioni, descrizioni, parole (che quelle sono la sua merce), ed attraverso le sue osservazioni noi entriamo nel suo mondo, ma anche facciamo un salto nel nostro. Che noi, spesso, si va a fare la spesa nei supermercati, anche se questo ipertrofico Auchan non è sempre alla nostra portata. Ma io ne ricordo. Dal normale Auchan di Portonaccio in Roma, a visite a esempi mirabili del consumismo mondiale. Dai Tesco in Scozia alle Galeries Lafayette a Parigi, ma soprattutto a quello che per me rimane l’emblema massimo, la catena Walmart in America. Lì dove ho visto vendere di tutto (che le descrizioni della Ernaux ne sono un pallido piccolo esempio), pieno lì si di tutto il mondo possibile. Ma, e rimarrà per sempre nel mi immaginario personale, non scorderò mai la sezione dedicata alle armi. Tu entri in un Conad americano, come Walmart, ed esci con un fucile funzionante ed una scatola di munizioni. Ci sarebbero fiumi di parole da spendere, ma per me queste parole sono state sufficienti a rappresentarmi cosa siano, realmente, gli Stati Uniti d’America.

Torniamo però allo scritto che stiamo leggendo. Non ho molti termini di paragone per accostarmi alla scrittura della Ernaux, ma di certo è di una feroce abilità quando, partendo da sé e dalle sue scorribande all’Auchan, le sue parole prendono il largo e diventano manifesti, esortazioni, analisi critiche. C’è una sottile abilità che le fa passare dal particolare al politico senza che noi lettori se ne senta il salto quantico. Detto ciò, il testo in sé non mi ha entusiasmato, non l’ho trovato una lettura coinvolgente. Bella, interessante, cerebralmente stimolante, ma quasi (anche se non lo è) da saggio culturale.

Il potere delle parole ci ammalia sin dalle prime righe, quando insieme ad Annie entriamo nel grande parcheggio, cercando non solo di trovare un posto libero, ma di trovarlo vicino all’entrata, un’esperienza che tutti abbiamo fatto. Poi entriamo, giriamo, sentiamo le voci. C’è la fila alle casse, dove scegliamo sempre quella più lenta, e malediciamo la signora che mette lentamente i suoi oggetti sul nastro. Oggetti che poi rivelano le nostre scelte di vita, che rivelano al mondo la nostra natura. Gente che vede gli yogurt piuttosto che gli alimenti per celiaci che poniamo sul nastro in attesa del bip del commesso. Le chiacchiere con la cassiera (io preferisco servirmi con il personale femminile), ma anche il passaggio verso lo straniamento: le casse automatiche impersonali che ci intimano di scansionare il prodotto.

Cosa dire poi dei cartelli? Quelli bonari, nei reparti di lusso, quelli esortativi nella libreria (non sfogliate i libri, le riviste, compratele), quelli intimidatori nelle parti discount (non consumate il cibo all’interno del supermercato). C’è tutto il potere della grande distribuzione, che si esercita, anche, nelle scelte verso le grandi feste. Il Natale che spesso comincia già a ottobre, la Pasqua che inizia a Carnevale, ma, con un sottile occhio alla multietnicità ormai presente, i sempre maggiori reparti “sushi”, le offerte per il ramadan (anche se questo aspetto è più presente in Francia che da noi).

Annie Ernaux, poi, è sempre pronta ad un orecchio mirabilmente politico. Non solo per quanto detto sulla scelta della distribuzione, ma sulle dimensioni personali, ad esempio partendo da sé stessa, etichettata come “signora anziana che va a fare la spesa”. Passando poi a ricordare anche avvenimenti lontani che dovrebbero risuonare da monito: una fabbrica che crolla in Bangladesh dove troviamo etichette Carrefour o Auchan tra le macerie.

È un viaggio che si accompagnerebbe egregiamente con la lettura dei “Nonluoghi” di Marc Augé. Anche se noi ci accontentiamo di girare con il nostro carrello tra gli scaffali di Conad.

Un elemento, anch’esso molto politico, mi ha poi colpito in contropiede. A pagina 28 parla di una donna nera davanti al banco del pesce. Da lì parte un lungo inciso sul politicamente corretto, su come “etichettare” i non-bianchi, con la conclusione che la cosa migliore è usare le parole che usiamo in genere, senza troppi infingimenti. Ebbene, il contropiede è partito che io, alla lettura di “donna nera” non avevo associato una signora di colore, ma molto più banalmente una signora vestita di nero. Che scherzi fa il nostro cervello.

Vorrei finire con un tocco di leggerezza, che tutto questo parlare di supermercati, mi ha fatto tornare in mente uno dei brani più leggeri, indovinati, comici ma anche no, di Aldo, Giovanni e Giacomo, nella scena del supermercato di “Chiedimi se sono felice”. Laddove, spingendo un carrello tra i latticini, Aldo cerca di indottrinare Giacomo sull’amore e sul manuale eponimo dei testi amorosi, la canzone “Teorema” di Marco Ferradini. Una scena mitica, in un supermercato, perché è lì che si può svolgere la vita. Perché Annie ci dice che non vedrebbe Françoise Sagan fare la fila alle casse, mentre scorge, e noi con lei, Georges Perec tra gli scaffali.

Spero di leggere altro del recente Premio Nobel, che queste due prime letture, pur soddisfacenti, non sono state del livello che mi sarei aspettato. Una facilità ed una capacità di portare il particolare a livelli di esempi alti, ma nessuno dei due realmente coinvolgente “di pancia”.

Annie Ernaux “Les années” Folio s.p. (Regalo di Alessandra)

[A: 22/01/2023 – I: 08/02/2023 – T: 10/02/2023] - &&&&

[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 254; anno 2008]

Dopo aver girato in tondo alla scrittrice premio Nobel 2022, approfittando di una benedetta gita nella Ville Lumière, ho avuto in dono questo che viene riconosciuto come il punto più alto e cruciale della scrittura di Annie Ernaux. Giudizio che mi sento di condividere in pieno, anche se con qualche piccolo distinguo e qualche commento marginale.

Soprattutto ritengo che le ultime 15 pagine siano da incorniciare, per la lucidità con cui spiega il suo modo di scrivere ed il perché lo scriva e ne scriva. È riuscita a costruire un racconto autobiografico di tutta la sua esistenza, senza utilizzare “io” e “me”, ma autoriferendosi in terza persona (modo di scrivere). È riuscita ad inserire la sua vita nel contesto del mondo in cui ha vissuto, con un’operazione da saggio sociologico di rara finezza. È riuscita infine in un’ultima cosa su cui tornerò più avanti.

I piccoli punti cui mi riferivo sopra sono da un lato legati alla difficoltà, per le pagine iniziali, di penetrare il metodo e quindi di entrare in sintonia con lo scritto. Non so se alcune delle righe finali fossero inserite nei primi commenti alle foto, avrebbero potuto facilitare questo processo. D’altro canto, è stata una sua scelta, e quindi, per lei, è giusto così. Ed io mi adeguo.

Dall’altro, mi domando se, non conoscendo nulla della vita della scrittrice, la forza delle sue parole sarebbe stata la stessa. Domanda senza controprova, che io, pur non sapendone tutti i punti, ne avevo già una visione parziale ma discretamente puntellata di caposaldi, così che per me è stato agevole seguirne l’evoluzione. Ed altrettanto agevole comprendere le scorribande politiche e sociologiche che sostanziano il testo con una robustezza oserei dire granitica.

Annie confessa di avere da tempo, anche prima di immergersi in questa scrittura, avuto l’idea di scrivere di sé e del suo mondo, e di aspettare quella scintilla che le permettesse di capire quale fosse il (suo) modo giusto di parlarne. Scintilla che scatta compulsando scatole di fotografie. Nasce così il suo percorso, seguendo le sue foto, commentandole, scrivendole, e raccordandole con gli avvenimenti che intercorrono tra l’una e l’altra.

Da questi fili intrecciati nasce quindi da un lato il percorso di Annie, nata nel 1940 (lo stesso giorno di Franco Bitossi, tanto per dare un tocco personale) e verso la soglia dei settanta anni quando termina il libro. Attraverso le foto, prima in bianco e nero, poi virate, poi a colori, attraverso i primi filmini, per finire con le espressioni digitali, si racconta e ci racconta. La scoperta di una sorella morta qualche anno prima della sua nascita, l’evoluzione personale e privata dal mondo contadino prima al mondo commerciale del suo universo familiare. Poi il suo distacco attraverso gli studi, l’emancipazione (vera? effimera?), gli studi universitari, il matrimonio e la nascita di due figli. Il lavoro come insegnante, la difficoltà (impossibilità) di conciliare la gestione privata della vita con le proprie aspirazioni. Il divorzio dopo diciassette anni di matrimonio, la (forse) riconquistata voglia di vivere, gli amanti (il russo, il giovane, e poi altri). L’aborto, ferita mai rimarginabile. Il pensionamento, il senso attuale del vivere e dell’essere, forse sconfitto, di certo non domo.

Tutto ciò scandito, anche, da una lunga sequela di pranzi di famiglia, che si evolvono anche loro con il tempo. I pranzi rigidi familiari della giovinezza, le riunioni con gli amici, i figli piccoli, l’aria piena di fumo, i pranzi dell’abbandono e della solitudine, quelli recuperati con i figli cresciuti, i loro amici, le loro compagne. Si nota, palpabilmente, la variazione di senso di ogni pranzo. Di come non sarebbe stato possibile, con i genitori, portare a tavola persone conviventi non sposate. Di come sarebbe ora anacronistico fissare regole e comportamenti verso gli altri, fossero i figli stessi, che l’autoregolazione ed il rispetto sono diventati una chiave imprescindibile del vivere odierno.

L’altro filo parallelo ed imprescindibile è la Storia, che man mano diventa anche la nostra storia. Nei primi venti anni è solo il progredire dal mondo chiuso della costa normanna verso le città, per poi finire, immancabilmente, a Parigi. Poi, quasi senza accorgercene, entrano altri filoni. Il marzo del ’53 con quell’annuncio straniante (Stalin è morto). L’Ungheria del ’56, la Cuba del ’63, la morte di Kennedy. La deflagrazione del “Mai 68” (lo lascio in francese, che “mai” non è il nostro “maggio”, è qualcosa di altro seppur uguale). Lo sbarco sulla luna, la politicizzazione degli anni Settanta, l’inizio del consumismo che dagli anni Ottanta ad oggi stravolge usi e costumi per portarci all’oggi digitale (o al quasi oggi visto che ci si ferma a quindici anni fa).

Ci sono, ovvio, molte cose prettamente francesi: Mitterand, Chirac, Colouche tanto per citare qualche politico, ma anche Sylvie Vartan, la Gréco, Brassens, Brel ed altre canzoni, o Sarte e Simone, ed altri eminenti francesi (non sempre decrittabili da noi cugini d’oltralpe).

La memoria e la penna della scrittrice vaga anche ad ondate, saltando passaggi, tornando su temi già detti, ma da ripetere, attraversando guerre, politica e società, usi, costumi, tecnologie, per raccontare le trame di una vita che è molte vite, che, in parte (anche grande) è anche la nostra vita. Per realizzare, infine, che il tempo è passato, la vecchiaia è vicina, le disillusioni tante e cocenti.

Poi quello scatto di reni, che serve a salvare brandelli di memoria che sono e saranno irripetibilmente nostri. Questo è l’ultimo filo che avevo lasciato in sospeso all’inizio. Un filo ora mia, delle notti di Assisi, del pane e cioccolato, degli angoli nascosti al Pére Lachaise, della cena di 52 mezzé a Beirut con il mio amico Paul, delle discussioni al casale, dell’ultimo piano di Piazza Mazzini con zia Lisa, dei Natali con Nonna Bianca e tutta la tribù, del caldo di Siviglia o del freddo a Capo Nord, degli aerei presi all’ultimo momento e di quelli persi, dei tanti viaggi e dei tanti ritorni, di commozioni grandi nelle foto con i miei fratelli piccoli, della felicità di sedere davanti ad un prato, con Alessandra accanto.

Grazie, allora, madame Ernaux, di aver scritto questo libro e di aver innescato onde che non si placano. Hai fuso al fine la tua memoria, con la mia e con quella del nostro mondo martoriato.

“Elle … a lu … comme si seuls les livres récents étaient capables d’apporter le regard le plus juste sur le monde d’ici et maintenant.” (91) [Lei... leggeva... come se solo i libri recenti fossero in grado di fornire la visione più accurata del mondo, qui e ora]

“Je vais avoir cinquante ans, il serait bien temps de me connaitre.” (215) [Sto per compiere cinquant'anni, è ora di conoscere me stesso] 

“Sauver quelque chose du temps où nous ne sera plus jamais.” (254) [Salvare qualcosa dal tempo in cui non ci saremo più]

Come contraltare di una settimana al femminile, un po’ di ironia ligure con lo scrittore psicologo Lorenzo Licalzi, che, ne “Il privilegio di essere un guru” ironizza prima con l’atteggiamento da macho del protagonista: “Non vorrei passare per un presuntuoso ma esercito un certo fascino sulle donne. Eppure, non sono poi tutta questa bellezza, sono passabile, diciamo, intrigante, forse, ma niente di più. L’esperienza, d’accordo, la tecnica sopraffina che ho perfezionato negli anni, non bastano a giustificare l’interesse che spesso suscito nelle donne. All’inizio magari no, mi serve qualche ora, talvolta qualche giorno, raramente addirittura qualche settimana di duro lavoro, ma poi lo sento che in loro scatta qualcosa, che incominciano a guardarmi con occhi diversi” (10) e “Negli anni mi sono fatto una certa cultura, ci sono materie su cui sono più preparato (quelle che hanno maggior ascendente sulle donne: arte, poesia, letteratura, filosofia, psicologia, medicina) e altre su cui zoppico un po’, ma non c’è argomento sul quale non potrei fingermi un esperto. La cultura è uno strumento di lavoro irrinunciabile, chiunque ti capiti, serve sempre, l’ignorante la stupisci, la colta si stupisce” (12).

Per finire con quella massima che ovviamente sottoscriviamo: “Era un estimatore della donna cuciniera … mi ricordo che diceva: ‘femmina piccante pigghiatela come amante, femmina cuciniera pigghiatela come mugliera’” (119).

Per il resto, si conferma per metà luglio una settimana turca, e si confermano gli auguri a tutti i miei coetanei che stanno compiendo augusti genetliaci, a tutti gli sposi nuovi o novelli, ed a tutti i miei amici, sempre e comunque.