domenica 26 aprile 2015

Noir Italia – quinta parte - 26 aprile 2015

Fine aprile, dopo un bellissimo viaggio ancora una volta in Perù (ed un poco in Bolivia), con ancora negli occhi le Ande, Machu Picchu e i Salares boliviani, abbraccio di nuovo i miei amici lettori, ritornando alla quinta parte della collana del Sole 24 ore sul nero italiano. E, mediamente, con un livello migliore delle ultime uscite. A parte Genzini, che tutto sommato eviterei, e Cacopardo, di cui vorrei leggere altro prima di dare un giudizio definitivo, Pandiani ha uno spessore che si corrobora dagli altri libri da lui pubblicati. Anche Maria Teresa Valle ed Esposito, poi, si collocano un gradino sopra la media. Una collana che ho seguito fino al quarantesimo libro, e che ritengo una delle più oneste uscite in Italia nel settore.
Filippo Genzini “L’uomo che si sciolse come neve al sole” Sole 24 ore – Noir Italia 13 euro 6,90
[A: 08/10/2013– I: 05/10/2014 – T: 08/10/2014] - &&   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 407; anno 2011]
Pur essendo uno tra i primi volumi dell’onesta serie del Sole 24 ore, si colloca nella fase calante delle ultime uscite. Un prodotto se vogliamo con delle formali capacità strutturali, ma che ha anche molte pecche. Nella trama, nella tensione e nella confezione. Non conosco l’autore, che mi si dice esperto di marketing, ma oltre a saper scriver, non mi sembra che questo scritto sia in linea con le sue capacità professionali. Infatti, pur con dei punti accattivanti, non attira. È certo simpatico il commissario Zarotti, trasferitosi da Milano a Cremona dopo il divorzio, un ispettore degno della grande tradizione italiana, riflessivo e propositivo. Accattivante, seppur trattata molto trasversalmente, la sua storia d’amore, che gli apre prospettive nuove e nuovi slanci. E di sicura presa, per me, l’ambientazione cremonese, città che non conosco e che qui ho imparato a vedere con gli occhi di chi, invece, ben la conosce. Tuttavia, l’ambientazione risale al 1994, per cui mi fido sia delle descrizioni datate sia degli aggiornamenti che l’autore cita in prefazione. Che tuttavia avrei ridotto ad un semplice cenno, per poi svilupparla in una post-fazione magari più articolata. Diffido sempre di chi spiega prima di iniziare. La prima cosa che poi risulta evidente, venendo allo specifico, è di nuovo (come spesso accade negli ultimi libri che ho letto) l’uso intensivo del flashback. Un vezzo di molti nuovi autori, quasi a far vedere che io scrittore so di cosa parlo e vada su e giù per la scala temporale. Qui, tuttavia, è usata in campo stretto e rende molto difficoltoso seguire la vicenda. Che si salta di giorni all’interno dello stesso mese. Poi di mesi a cavallo di due anni. E non volendo scoprire le carte quando si salta in avanti, si perde il filo quando si salta indietro. Anche perché ci sono tanti personaggi, tanti nomi che entrano ed escono. E se nel filo del tempo si avrebbe la possibilità di memorizzarli, qui ogni volta mi domandavo: e questo chi è? Da dove salta fuori? È uno dei buoni, dei meno buoni, dei quasi cattivi? Insomma un po’ di confusione. In una trama che poi non è che sia vivacissima. Si inizia con una partita di poker, dove il personaggio centrale vince una barca di soldi. Che riscuoterà solo dopo un mese, lo stesso giorno che scompare. Generoso (questo il nome del personaggio) è un tipo strano, che si finge un po’ tonto, ma che non lo è affatto. Che si scopre maneggiare soldi a profusione, motivo per cui il commissario sospetta un suo coinvolgimento con qualche mafia. Oltre a scomparire quando riscuote i soldi, scompare anche per non comparire in un processo dove avrebbe potuto fare nomi eccellenti. E Zarotti sospetta. Ed oltre a sospettare, avvia diverse indagini per andare a fondo al problema. Mentre la città di Cremona è anche colpita da una strana banda di rapinatori di gioiellerie. Due mesi dopo si scopre un cadavere che tutto fa supporre essere di Generoso. Una perquisizione mirata del commissario, aiutato dai suoi collaboratori (e soprattutto Bartoli che scoprirà molti dei rivoli della grande confusione) porta a scoperte importanti sull’uso dei soldi da parte di Generoso. Che sapendo di essere in pericolo, cela in una cassaforte segreta le tracce del malaffare, cosa che porterà allo scioglimento di un pericoloso intreccio di riciclaggio di denaro sporco. Però non si svela il mistero della morte di Generoso. E di come il suo sfortunato compagno di poker abbia trovato 300 milioni di lire in un mese. Altre fortuite coincidenze portano Zarotti a sospettare un intreccio tra quest’ultimo ed i rapinatori. Intreccio che diventerà manifesto scoprendo tre cadaveri nei dintorni cittadini. Ma Generoso era anche un ricattatore di clienti delle lucciole. Ed in questo ambiente Zarotti troverà l’ultimo bandolo dell’intricata matassa. Peccato che, forse, Generoso non sia morto ma, forse (ed abbondiamo con i dubitativi) sia solo voluto scomparire. Questo lo lascio in mano a chi avrà voglia e pazienza di leggere il libro. Che ha anche altre storie che servono a coprire le quattrocento pagine (ma solo quella di Anna e Marco, due liceali innamorati, è degna di nota; anche per il rimando al grande Lucio Dalla). Che dire infine della confezione? Ora, è vero che l’autore si trincera dietro la retrodatazione della vicenda. Ed è anche vero che all’epoca cominciavano ad esserci cellulari (anche se ancora non diffusi). Ma una macchina con il vivavoce la trovo un po’ avvenieristica. Poi, seppur diffuso in Nord Italia, si dovrebbe dire “sala da biliardo” e non “da bigliardo”. Che dire infine quando, con accenni di fisiognomica, Zarotti si domanda se sta diventando un seguace “dell’Omborso”! Forse un normale rilettore di bozze avrebbe potuto riportare al corretto Lombroso (Cesare, il pioniere degli studi sulla criminalità). Insomma, la solita incuria della confezione, indice macroscopico della poca cura che l’editoria italiana pone a questo problema. Speriamo in meglio.
“Non aveva bambini tra i piedi, che tra asilo e scuola le malattie le prendono tutte.” (114)
Enrico Pandiani “La donna di troppo” Sole 24 ore – Noir Italia 15 euro 6,90
[A: 18/10/2013– I: 16/10/2014 – T: 18/10/2014] - &&&&   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 313; anno 2011]
Quando il manico è robusto si vede subito, in qualsiasi collana si collochi. E Pandiani è uno che, per quanto poco ne abbia letto, il giallo lo sa maneggiare discretamente. Anche utilizzando registri diversi. Infatti, non siamo più nell’hard-boiled mozzafiato che abbiamo conosciuto con “Les Italiens”, ma siamo in un giallo ragionato, a volte quasi d’atmosfera. Dove però, e non potrebbe essere diversamente, ogni tanto Pandiani fa vedere la sua capacità di affrontare situazioni con molti spari e molte morti. Fortunatamente, la trama regge, si dipana con eleganza, e si chiude in modo non direi inaspettato, ma certamente non usuale, con i soliti bacetti finali e tutti felici e contenti. Ci saranno certo, felici e contenti, ma l’atmosfera è più sul tipo “la vita è così, forse l’unico modo di viverla è non perdere troppo”. Intanto Pandiani introduce una nuova protagonista, la detective Zara, ex-ispettrice di polizia nel Friuli, ed ora occhio privato in una ben descritta Torino. Con un bel rapporto con il nero François, patron di un bar alla moda, “Le Cosmopolitan”, che ha un non chiarissimo passato a Marsiglia. Tuttavia, in questa storia iniziale il loro è un bel modo di stare insieme ed aiutarsi a vicenda. Nello scacchiere torinese ci sono poi le forze dell’ordine, coordinate dall’ex-collega di Zara, Michele. E coadiuvati da una squadra anti-droga guidata dall’ambigua Concetta. Sull’altro lato, lo squadrone che si aggira intorno alla famiglia Dalmazzo. C’è Leone, il fratello anziano, a capo di una società plurinazionale molto redditizia. C’è la sua venticinquennale amante Valeria, madre, ma nessuno lo sa, di Filippo. C’è l’ex-moglie Lucrezia, ex-modella, ora sposa al fratello più giovane e senza successo alcuno. C’è Filippo, diciasettenne arrabbiato, una volta legato alla bella Orsetta, che lascia per infilarsi in  un’avventura erotica con la sensuale trentenne Ambra (che poi scopriamo essere la sorella di Valeria, e quindi, in realtà, zia di Filippo). Ci sono l’ambiguo factotum ed il pilota della flotta privata dei Dalmazzo, lo sloveno Ramos. La situazione inizia con la morte, anzi l’uccisione di Leone. E la scomparsa di Filippo, a quel punto erede della fortuna di famiglia, e che molti, Lucrezia in testa, vorrebbero veder non comparire. Lucrezia, consigliata dal russo amico di Leone, ingaggia Zara per ritrovare Filippo. Mentre il segretario prende contatto con un malavitoso di mezzatacca, Viviani, che fungerà da variabile impazzita per tutta la vicenda. Utilizzando bene l’ambientazione torinese, tra i suk di Porta Palazzo e le ville in collina, scorre e si complica giorno dopo giorno tutta la vicenda. Due albanesi si auto-accusano della morte di Leone, ma nessuno crede loro. Lucrezia licenza Zara, che viene contattata da Filippo stesso per continuare le indagini, lui sempre latitante. Mentre la polizia brancola, si innesta il filone droga, doce pare che l’entourage dei Dalmazzo sia coinvolto in qualche modo. E le situazioni precipitano. Zara e Viviani, indipendentemente capiscono che Filippo è nascosto da Ambra. Ma quando Zara arriva Ambra è morta in una colluttazione con Viviani. Gli albanesi, poco credibili, sono rilasciati. E quando Zara va ad interrogarli, li trova entrambi morti. Come detto, il senso del sangue di Pandiani spesso viene a galla. Viviani ricatta il segretario, riesce a trafugare montagne di euro, e decide di continuare da solo la ricerca di Filippo dalle uova d’oro. Zara, aiutata da Concetta, scopre il traffico di droga di Ramos. Purtroppo viene intrappolata insieme all’incauto Filippo nelle ghiacciaie sotto Porta Palazzo. Sembra tutto fatto, che arriva Concetta, ma questa si scopre essere una variabile impazzita, che vorrebbe i soldi e la droga per lei. Altra sparatoria, che sbucano due marsigliesi amici di François a salvare la nostra detective, e dove muoiono Concetta e Ramos. Quest’ultimo ucciso da Filippo, prima che potesse chiarire i motivi della non usabilità dell’elicottero, primo passo che portò alla morte di Leone. Esce dall’ombra allora Viviani, che riesce a mettere fuori combattimento Zara e Filippo, inscenando un grosso ricatto verso Lucrezia. La quale si presenta con i soldi del riscatto, ma con la richiesta di uccidere Zara e Filippo, in modo da diventare lei l’erede dell’impero Dalmazzo. Solo a questo punto Zara si riscatta, ed utilizzando le tecniche di arti marziali di cui è cintura marrone, riesce a capovolgere la situazione. Muore Viviani. Muore Lucrezia. Zara e Filippo hanno un lungo confronto chiarificatore, che finalmente anche a noi chiarisce tutte le complesse sfaccettature della vicenda. E mentre Zara chiama Michele per far finire tutto come da regole poliziesche, arriva il russo amico di Leone, che si prende Filippo, e lo porta in Russia, dove insieme faranno risorgere l’impero della Global Medics. Spero di essere riuscito a non dirvi tutto, che il libro ha la dignità di essere letto. Anche per la buona “torinesità” che non guasta, e per i rapporti umani che s’intrecciano, che sono ben trattati. E per il modo di vivere di Zara, simpatica new entry nel mio personale pantheon del giallo italiano. Insomma immaginavo Pandiani essere uno scrittore da seguire, e questo secondo romanzo letto, lo conferma.
Maria Teresa Valle “L’eredità di zia Evelina” Sole 24 ore – Noir Italia 29 euro 6,90
[A: 24/01/2014– I: 22/10/2014 – T: 23/10/2014] - &&& e ½    
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 220; anno 2012]
Un solido ed onesto prodotto scovato dalla ormai ben nota serie del Sole che sto tramando da mesi, ed un’altra scrittrice della fucina originata dai Frilli Editori di Genova. Mezzo libricino in più perché l’autrice confessa a pagina 68 di essere una sfegatata fan di Kathy Reichs e di Temperance Brennan (che io ho nell’edizione integrale italiana!). Come spesso accade negli scrittori proposti da questa serie, il personaggio centrale è, bene o male, un clone di chi scrive. Come in questo caso che la dottoressa Valle è biologa ed ex-dirigente dall’ospedale di Genova. E la nostra dottoressa Maria Viani (stesse iniziali…) è biologa e si aggira nelle langhe piemontesi, insieme ad un marito presente ma non opprimente (ricorda un po’ le prime puntate della Oggero) e ad una simpatica gatta. L’unica cosa poco comprensibile è come facciano a guadagnare denaro (probabilmente dovuto al fatto che il libro è un seriale, credo il quarto, per cui si suppone che si sappia chi siano e cosa facciano Maria e Francesco). Il romanzo in realtà poi è diviso in tre parti temporalmente concomitanti ma senza intersezioni, a parte il fatto che tutto avviene dopo la morte della simpatica zia Evelina. C’è il cagnetto Lampo che nella cantina della zia trova le ossa di un cadavere. Dove leggendo le carte lasciate dalla zia, Maria con la nipote Laura, scopre che il morto non è altro che il marito di Evelina, dato per disperso in Russia durante la guerra. Invece tornato e morto in una colluttazione con un partigiano che ha preso il suo posto nel cuore e nel letto di Evelina. Tralasciando il fatto che siamo solidali con zia Evelina e chi ne legge capirà perché, questi fatti avvicinano zia e nipote, secondo filone delle storie. La nipote Laura al primo anno di liceo ha una grossa sbandata che la madre Anna, sorella di Maria, non riesce a gestire. Anche perché anche Anna ha una sbandata per un amante che per ora non compare, anche se ne sappiamo le gesta. Di Laura, la sbandata si scopre essere dovuta a micro prestazioni sessuali gestite all’interno della scuola da ragazzi più grandi. Micro che poi diventano grandi, che invadano spazi internet (tipo foto osé postate sul web). Laura non sembra convinta (anche se ha una discussione su sesso e amore dopo che scopre che anche la zia fa sesso con il marito), poi ha una crisi verticale alla notizia di una sua amica di scuola che, coinvolta nel suo stesso giro, si è buttata dal quinto piano. Storie che purtroppo non sono da romanzi che ben conosciamo leggendone non spesso ma con continuità sui giornali. E partendo da lì, aiutata dalla zia, ma anche dalla madre e dal maresciallo Croce, riesce a sbloccarsi. Maresciallo che, anche obtorto collo, viene necessariamente coinvolto dalla nostra intraprendente biologa per il terzo e più fitto mistero del romanzo. La scomparsa di Viktoria, sorellastra di Alina la badante di zia Evelina. Entrambe ucraine, ma Alina con permesso. Viktoria, giovane e senza, per restare in Italia si dedica anche lei alla professione più antica del mondo. In un bar gestito dal manesco Tito (così chiamato perché gestisce il traffico delle slave), dove lavora il giovane Michele (probabilmente innamorato di Viktoria) e che frequenta Emanuele (coetaneo di Maria con cui ebbe una storiellina in gioventù, troncata dalla di lui violenta indole, ora ex-vicino di zia Evelina, esperto di vini, ma sempre dedito a giochi d’amore molto spinti). Dopo alcune vicende di illusoria comparsa e scomparsa, sarà Lampo che scavando nel giardino di Emanuele troverà i resti di Viktoria. Saranno i carabinieri a scovare nella cantina dello stesso un completo armamentario di bondage e sesso estremo. Sebbene tra i più sospetti, il nostro maresciallo non è convinto della colpevolezza. In base ad altri indizi, la ricerca si restringe ai tre di cui sopra. E tutti e tre con alibi, seppur non solidissimi. Sarà ovviamente un’idea di Maria che metterà le forze dell’ordine sulle tracce del vero colpevole. Questo come ovvio non ve lo dico, lasciandovi un po’ del piacere della lettura. Calmo ripasso di atmosfere piemontesi, tra Alba e Asti, mettendo un CD di Paolo Conte. Spilluzzicando un formaggio saporito, sorseggiando un vino dolce e liquoroso. Niente di impegnativo, tuttavia con un buon ritmo che tiene legati alla pagina, e all’immaginare il prima ed il dopo della vita di Maria Viani. Bellissima, infine, la citazione di Nuto Revelli a pagina 119.
Andrea Esposito “Il paese nasconde” Sole 24 ore – Noir Italia 18 euro 6,90
[A: 08/11/2013– I: 01/11/2014 – T: 05/11/2014] - &&& e ½    
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 488; anno 2012]
Un altro e più che sufficiente esempio della lettura “noir” della provincia italiana. Con una altrettanto convincente descrizione dei luoghi delittuosi che avvengono nell’isola di Ischia. E per la precisione a Forio, che, durante tutto il romanzo, riusciamo a visitare con dovizia di particolari, e con piacere (visto che una parte della trama è una specie di filo rosso che unisce i monumenti dell’isola, in particolare le chiese, nonché le statue di gesso di Giovanni Maltese). Segnato questo punto a favore, ne registriamo subito uno in negativo, laddove in copertina si parla delle indagini del commissario Senese. Che ovviamente è uno dei protagonisti del libro, ma le indagini sono portate avanti anche (e dalla metà del libro in poi, quasi esclusivamente) dal commissario Marco Ranieri e dalla sua creatura, l’UCS (Unità Crimini Seriali). I due sono amici e vanno anche di conserva, tuttavia, seppur apprezziamo alcune irruenze di Senese, è la metodica inchiesta di Ranieri, coadiuvato dalla patologa Penelope (bella, ed ovviamente con una tormentata storia con il nostro) e dal profiler Sir James, lo studioso inglese che alla fine annoderà i fili sparsi della trama. Una trama che, avendo due commissari, ha anche due aspetti polizieschi, anche se spesso intrecciati e intersecantesi. C’è una catena di morti, anzi di donne uccise, e c’è la lotta per il controllo della droga. Senese arriva sull’isola per questo secondo problema, essendo stata segnalata la presenza di uno dei super-boss salvadoregni della droga, Juan Glem detto El Rey Supremo. Seguendo la pista di Glem, Senese si imbatte in un nucleo di “lepenisti” del Sud, che cerca di farsi giustizia da solo verso l’immigrazione selvaggia dai paesi latino-americani. E si imbatte anche nella prima uccisione: Alba, una ragazza esuberante (questo il termine usato per una donna che non accetta di rimanere chiusa in casa ad accudire un marito manesco), che segue da vicino il gruppo di studio del prof. Antonelli, uno storico dell’arte che sta scrivendo con i suoi ragazzi un libro sulle bellezze monumentali di Ischia. In base alle vicende che si intrecciano, ben presto abbiamo sulla scena tutti i protagonisti. Oltre agli investigatori di cui sopra, ci sono il vice-commissario Rusciano, che cerca di far mantenere un basso profilo a tutti gli avvenimenti nell’isola, lo scultore Catalano detto Bellini, la cui storia ricalca un po’ quella del suo mito (il Maltese di cui all’inizio) e che si trova sempre in mezzo quando succede qualcosa, la sua ex-moglie (anch’essa discretamente esuberante) Monica che ha una relazione con Marco Coiano, il numero due dell’equipe di Antonelli, con la madre Lena, architetto i cui disegni si trovano sui luoghi dei delitti, e che è anche la sorella di… E qui non vi dico di più, anche se poi c’è Antonelli stesso, dal passato misterioso e che forse non è né professore né italiano, c’è l’avvocato Aymara detto Bolivar, il difensore (ma sarà sempre vero?) degli immigrati, i lepenisti di cui sopra, guidati da Leonardo detto ‘U Toro, e, per non farci mancare nulla, anche dei rumeni che guidano un cartello di smercio di droga ed altri prodotti illegali. Le situazioni si complicano dopo che prima muore Mikela, un’altra donna esuberante che aiutava il gruppo di Antonelli nella redazione finale del libro, poi scompare Antonelli stesso, finché c’è l’ultima uccisione efferata, quella di Libera. Purtroppo, dopo una prima metà di buon ritmo, l’autore comincia ad incartarsi un po’. Prima di tuto, che vuole mescolare tutte le trame, senza troppo successo, per cui seguiamo a ritmo alterno problemi di droga e spietati omicidi. Poi, per aiutare lettore e polizia, comincia a seminare indizi fin troppo palesi, che, ovviamente, il lettore coglie e la polizia no. Ad esempio, quando, sul disegno di una chiesa, la Chiesa della Madonna della Libera, viene cerchiato l’ultimo nome. Nessuno protegge però la studentessa Libera Russo, che, infatti, viene uccisa. Noi lettori lo sapevamo, possibile che i poliziotti non abbiano fatto ilo collegamento. Così come quando Lena Coiano dice a Penelope di essere la sorella di …, possibile che Pen non riesca a parlare mai né con Senese né con Ranieri, prima del triste epilogo della vicenda. Che alla fine, Senese, utilizzando sia ‘U Toro che il rumeno, sbaraglia il cartello della droga salvadoregna, in una mattanza finale in cui muoiono molte persone, tra cui Antonelli che, come si sospettava da tempo, era invece … Non vi posso dire tutto, ma contemporaneamente anche la vicenda delle donne massacrate si porta a compimento con una soluzione complessa che vede un teorico degli omicidi ed un esecutore materiale, cui si punta alla fine perché tutti gli altri non potevano essere stati. Come diceva il buon Conan Doyle, quando tutto l’impossibile è scartato, ciò che resta, anche se improbabile, deve essere la verità. In conclusione, un romanzo dalle buone premesse, che si perde un po’ per via, ricalcando alla fine sentieri di trama già troppo percorsi. Ma l’autore ha, sebbene prolissa, una buona penna in mano. 
Domenico Cacopardo “Agrò e la deliziosa vedova Carpino” Sole 24 ore – Noir Italia 20 euro 6,90
[A: 22/11/2013– I: 07/11/2014 – T: 10/11/2014] - && e ½    
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 237; anno 2010]
Anche se l’ultima pagina dell’impaginazione fatta da “Il Sole” sembra suggerire che questa sia la prima storia del magistrato Italo Agrò, devo avvertire i miei distratti lettori che questo non è vero. Ne è, infatti, la terza. Questo perché spesso l’opera del quasi ottantenne ex-magistrato Domenico Cacopardo è avvolta in aloni strani, tra reticenze e rimozioni. Sovente, soprattutto nelle prime opere, si è auto-prodotto. Sovente, e molto ultimamente, si è auto-incensato. Tutto questo per delimitare un campo che, al contrario, è di sicuro interesse. La collocazione spaziale del romanzo è gradevole e coglie quegli aspetti peculiari della città che amo (e soprattutto ne coglie punti in un intorno che ben conosco essendo uno dei perimetri cittadini ove trascorro la maggior parte del mio tempo). La descrizione di questo magistrato, appena trasferito a Roma dalla procura di Biella, che guardo fin dall’inizio con simpatia, quando al mattino esce di casa per la sosta al bar, con caffè e giornali (infatti, prima di recarsi in Procura, legge “La Repubblica” e “Il Manifesto”). Il contorno generale della trama, ambientata per gran parte nell’ambiente degli ebrei romani (tanto che il nome della signora va letto Càrpino e non Carpino). Quello che un po’ stona è il contesto generale, laddove Cacopardo cerca di delineare la Procura e gli ambienti giudiziari romani, con il contorno immancabile di avvocati traffichini. Rimane un po’ senza mordente, come se questa parte fosse un compitino che bisogna mettere perché senza corruzioni e potentati non si riesce a delineare il campo d’azione. La storia, linearmente, prende le mossa dalla morte di Abramo Carpino, in un primo tempo segnata come naturale, ma che lettere anonime ed altre illazioni, fanno ritenere poco probabile. Abramo, sposato con la signora Felicita, è uno che corre molto verso altre gonne, ed anche la moglie non sembra aliena dall’avere avventure. Soprattutto con il chirurgo plastico Diego Parlagreco. Agrò, aiutato dal vice-commissario Scuto, un personaggio complementare e sicuramente simpatico e capace, cerca di far quadrare i conti, indagando (pur a due mesi dal fatto, cosa che non rende facile trovare prove e riscontri). Inoltre, Abramo muore per un sovradosaggio di Coumadin, che ovviamente fa scoppiare la sua acclarata fragilità capillare. È il fratello Aaron che lancia la pietra nello stagno del mistero. L’onda però lo travolge ben presto, che si scopre essere stato lo stesso Aaron ad inscenare un palese indizio di uccisione, proprio per far riaprire le indagini. Il tutto complicato dalla segretaria di Abramo, Oana, piacente e sicuramente una delle amanti, anch’essa capitata nel giro dei ritocchi di Diego (a lei riduce il seno, che a Felicita invece ingrossa). Dopo una serie di finte scoperte, di ingerenze palesi (illuminante ma poco funzionale la scena della conferenza stampa del capo di Agrò, tutta tesa ad avere pubblicità gratuita non a far progredire le indagini). Il mistero è tuttavia sempre celato dalla tempistica delle azioni. Abramo era a Tarquinia, da dove torna a Roma, ed arrivato davanti a Palazzo Taverna dove abita, muore. Non c’è stato tempo di fargli iniezioni di Coumadin. Ed inoltre, stava venendo a Roma per andare dal notaio a cambiare testamento, cosa che non farà causa decesso. La fine, purtroppo, è molto affrettata, che una volta scoperte le linee principali, per cause fortuite, Agrò riesce a convogliare tutti gli attori della vicenda in una villa del parmense. E lì, con un finale che si vorrebbe alla Maigret ma non ne ha l’altezza, il nostro svela motivi, modalità e conseguenze delle azoni criminali, smascherando ed incriminando i colpevoli. Che non vi dicono che siano. Questo della fretta è sicuramente il lato più negativo, che si riflette non solo nella fine affrettata, ma anche in altre situazioni di contorno. Agrò ha una storia che sembra interessante con una ex-compagna di Università, che ad un certo punto, dopo una telefonata mancata, abortisce senza una vera spiegazione. Ed il nostro si “consola” con la simpatica Roberta (simpatica soprattutto in quanto matematica). Non si capisce perché lascia Tea, si capisce perché abbia un debole per Roberta, ma rimane irrisolto il mistero del cambio di “letto”. Altrettanto affrettata (o senza cure editoriali) è una certa consecutio dei tempi. L’azione comincia sabato 1 dicembre 1990. Dopo poche pagine passiamo al martedì, che è etichettato come 5, invece è il 4 di dicembre. Abramo muore il 19, Aaron scrive una lettera il 24 sempre di dicembre. A gennaio, quando Agrò prende in mano il fascicolo, la lettera (e da allora sarà sempre indicata così) risulta datata “24 dicembre 1991” (cioè un anno dopo). Si riscatta solo con le azioni descritte il 17 febbraio dello stesso anno, dove come mi risulta, si svolse a Roma la partita di calcio tra Roma ed Inter, che finì, come scritto con un pareggio per 1 a 1 (e per la precisione con vantaggio dell’Inter con goal di Berti e pareggio della Roma a 10’ dalla fine con Rizzitelli). Ma si sa io sono un po’ pignolo. Peccato, in generale, per il tono poco amichevole di Cacopardo e per le affrettate conclusioni. Vedremo.
“Italo … confessò di non possedere un televisore … Un bel libro è meglio di cento spettacolo televisivi.” (166)
Dopo una Pasqua dedicata al recupero, vi allego una nuova puntata di libri e malattie, questa volta anche in tema con i viaggi (e le maledizioni della “turista”, come dicono in Francia). Dedicando adesso, il tempo del riposo, a mettere un poco d’ordine a tutto quanto lasciato di corsa per l’affrettata, ma gradita, partenza. 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

APRILE 2015
Questo mese andiamo sullo spinto e sui ricordi di molti viaggi in cui il Dissenten la faceva da padrone. Ma al bagno, potete leggerne anche senza stare in viaggio.

DIARREA, I DIECI MIGLIORI ROMANZI DA LEGGERE AL GABINETTO

Non perdete un istante. Scegliete un romanzo da questo elenco. Non importa se li leggerete a salti e frammenti durante le vostre sedute, scegliendo, volta per volta, un capitolo breve o uno lungo. Organizzate uno scaffale apposito, nella stanza più piccola della vostra casa.
Saul Bellow                   Il re della pioggia
Charles Bukowski           Post office
William S. Burroughs      Pasto nudo
Raymond Chandler         Il grande sonno
J. M. Coetzee                Diario di un anno difficile
Heimito von Doderer       Le finestre illuminate
Ralph Ellison                  Uomo invisibile
Bjorn Larsson                La vera storia del pirata Long John Silver
Michael Ondaatje           Le opere complete di Billy the Kid
Simon Vestdijk              Il giardino dove suonavano gli ottoni

Bugiardino

Premesso che ritengo anche il gabinetto un luogo ameno dove si possa leggere in momenti di difficoltà, la scelta dei dieci libri da collocare in emergenza non è certo facile. Non parlo di Burroughs ed Ellison che lessi più di venti anni fa e che ricordo con alterna simpatia. Il primo l’ho sempre ritenuto illeggibile, il secondo, pur meglio scritto, mi rimanda a momenti che si perdono nelle nebbie. Dei tre che invece ho letto di recente, ritengo poco a me congeniale l’etilico Bukowski, e, al solito, non riesco a farmi piacere il pur sapiente Bellow. Di Chandler non dico nulla, che è uno delle mie stelle fisse (grazie Humphrey).
Saul Bellow “Il re della pioggia” Mondadori euro 9,50 (in realtà scontato a 8,08 euro)
[trama del 20 febbraio 2015]  
Gli avrei dato un solo libricino di gradimento, ma il Nobel del ’76 comunque sa scrivere, anche se questo libro non mi è piaciuto, ed allora mettiamoci anche quel mezzo punto in più. Tuttavia, dico e ribadisco che l’ho trovato un libro veramente dannoso. Dopo averlo (faticosamente) letto ho cercato in giro, tra scritti e rete, di capirne di più, di tirarne fuori lati positivi immaginari. Si dice sia una critica dell’uomo americano, del suo ottimismo, del suo credersi centro del mondo. Ora, può anche essere vero, e sicuramente se guardiamo il libro in prospettiva storica della data di scrittura, c’è sicuramente più di una punta di verità. Ma, e questo l’ho sempre detto e ribadito, un libro che è bello e ben scritto resiste, sempre e comunque, al passar del tempo. Se per esempio un oscuro libro di Winnifred Winston degli anni Trenta è ancora godibile oggi, vuol dire che affronta temi sempre attuali, e li affronta in modo da non essere intaccati dal tempo. Bellow, no. Lui è immerso nella fine degli anni Cinquanta, è immerso nelle paure e nelle fobie americane di quegli anni. E non ne esce. E non penso mi debba piacere solo perché, in ogni caso, una penna in mano la sa ben tenere. A parte il vezzo tutto italiano di mozzare i titoli, per cui sparisce il nome Henderson, e rimane il re della pioggia. Che se tu leggi un bel cognome anglo-sassone davanti ad un titolo così, o ti viene in mente l’autistico Dustin Hoffman oppure pensi che ci sia dell’intrigo lì sotto. Infatti di intrigo si tratta. Il nostro esimio scrittore prende un bell’esempio di maschio americano inutile e gli fa percorrere le oltre trecento pagine senza che un solo avvenimento di quelli che gli capitano scalfisca il muro di inutilità del suo essere, appunto, americano puro e duro. Ma mentre nelle parti in flashback, qualcosa si salva, qualcosa che ci illumina sulla sua storia (e poi ci si ritorna), quando poi si trasferisce in Africa e da inizio alle sue avventure con i selvaggi, beh lì veramente ci si perde e ci si addormenta. Passiamo quindi subito a questa parte, dove, per insipienza, ignoranza o altro, il nostro Eugene (Gene) Henderson si inoltra nel cuore africano (quasi fosse un novello Livingstone), ed incontra due tribù con le quali si scontra il suo essere occidentale. La prima è pacifica, quasi in stato di inedia, in un  luogo dove non piove e non c’è acqua. Henderson, facilone occidentale, pensa di liberarli da questa schiavitù, con il risultato che fa saltare in aria l’unica cisterna di acqua disponibile, per cui gli africani non potranno che continuare a morire. La seconda è invece bellicosa, ma descritta con gli occhi di un occidentale che non ha mai visto una tribù africana. Dedita al sesso ed alla morte, a giochi pericolosi ed a reincarnazioni fasulle. Intrisa di giochi di potere che fanno impallidire Amleto ed i suoi sodali. Direi che sembra tutto talmente falso che non si capisce se Bellow ci creda o sia ironico. Fatto sta il nostro Gene viene coinvolto in questa sarabanda, ha lunghi colloqui con l’unica persona che sa d’inglese (il re). Ma questi viene travolto dai giochi di cui sopra (e che tralascio per la loro inutile lungaggine). Il nostro americano “idiota” (nel senso dostoevskiano) dovrà decidere se lasciarsene anche lui coinvolgere, oppure (ma avrebbe dovuto farlo centinaia di pagine prima), tornare alla sua inutile civiltà ed inutile famiglia. Un’inutile storia che è invece quella a ritroso che più apprezziamo. Che Bellow ambienta nei posti a lui noti di città e province americane. Con gli Henderson che sono una stirpe di americani arricchiti, e dove lui, Gene, è l’ultimo rampollo di quella stirpe. Non ha bisogno di lavorare, che vive di rendita. Ma fa di tutto per rappresentare il peggio dell’americanismo. Si sposa senza amore, tradisce (sempre e comunque) le sue donne. Con la prima moglie fa tre (o forse quattro) figli, che non riesce ad allevare (e si meraviglia che uno dei suoi figli si voglia sposare con una immigrata, tanto è razzista dentro). Ha fatto la guerra in Italia, ma non ne ha capito né il senso né le conseguenze. Ha un lungo e tormentato rapporto (lungo per lui, tormentato per lei) con una donna che diventerà la sua seconda moglie. Decide di vivere nella sua casa di campagna allevando maiali. Decide di imparare a suonare il violino come faceva il padre. Si immerge in pensieri che ritiene alti mentre va dal dentista in metropolitana. Si infatua dei dottori missionari in Africa, per cui, quando ne ha la possibilità, molla tutto e attraversa l’Oceano. Per poi avere tutte le storie di cui sopra. Che si leggono come una rottura di cabasisi colossale, senza che ci sia di ritorno un briciolo di piacere, neanche intellettuale. Insomma, ho sempre supposto che i grandi scrittori americani, dopo un po’, mi avrebbero rotto. Ed è così, con Bellow, con Roth, e molti altri. Un caso? Un mio essere legato all’Europa e non capire l’America? Ai postumi (di una sbronza) l’ardua sentenza. Per ora continuerò a leggerne, ed a dire, con forza, che Saul Bellow non mi pace.
“Succede sempre così … combino sempre qualcosa che non va, rovino tutto.” (107)
“Tu non conosci il significato del vero amore, se credi che lo si possa scegliere deliberatamente. Si ama e basta.” (249)
Charles Bukowski “Post Office” Repubblica Novecento euro 4,90
[trama pubblicata il 6 aprile 2012]
Continuo ogni tanto a leggere qualcosa del vecchio ubriacone Americano. E continuo a non essere del tutto convinto. A parte che alla fine del libro esci fuori ubriaco come una cucuzza. Non di parole, purtroppo. Ma proprio di alcool. Che il vecchio Charles non passa pagina che non si attacchi a qualche liquido. Birra, whiskey e tutto quanto possa avere dai 40° in su. Tanto che alla fine vive in un perenne stato etilico. Se poi togliamo tutto questa sovrastruttura alcolico – anarchica, cosa rimane del testo? Una lunga galoppata di circa 20 anni, dentro e fuori la società americana, cercando di trarne qualche beneficio (posto fisso, stipendio) ma mal sopportandoli. Uscendone appena possibile. Per giocare ai cavalli (passione che spesso ritorna in Bukowski) e vivacchiare di quello. E soprattutto, spendendo tutti i soldi e tornando sempre al punto di partenza. Quello di dover trovare un lavoro. E di rodersi il fegato di lavorare come dipendente di qualcuno. Ogni tanto Harry, il protagonista alter – ego dello scrittore (non ha caso lo battezza Cinaski per assonanza), fa qualche incontro. Soprattutto con alcune donne. Ma anche lì, passa il tempo a bere (tanto che Betty morirà di cirrosi epatica), a scopare (ma poi non è che anche lì sia sempre pronto, tanto che si lascia con Joyce la ninfomane), anche a fare figli (con Fay, che lo lascia per andare a vivere con la figlia). Lui si fa passare tutto sopra. Perché deve mantenere il posto fisso. Quello alle Poste. E le poste sono un’istituzione in America. E deve fare fronte alle angherie dei superiori. E alle rotture dei colleghi. E quando fa il postino itinerante, anche ai cani, alle vecchie signore, ed a tanti personaggi che incontra lungo le vie della città. Sempre in ritardo, sempre in affanno, sempre pronto, se c’è la possibilità, a fermarsi da qualche parte a bere un goccio (ma va, direte voi, non lo avevamo capito!). La sua penna è comunque mirabile, ci regala in poche righe bozzetti affascinanti del degrado della vita americana. Della fine del grande sogno americano nelle strade bagnate della città. Della lotta per la sopravvivenza. Delle storture dei sistemi di controllo del lavoro (esempi spiccioli di taylorismo applicati allo smistamento delle lettere per codice postale). Per essere un libro che ha 40 anni, non serve spostare una virgola per fotografare qualsiasi situazione lavorativa. Chiudendo un poco gli occhi, si potrebbe leggerne in controluce la trama di quel film italiano sui Call Center (quel “Tutta la vita davanti” di Virzì, tra l’altro trattato dal bel romanzo di Michela Murgia) senza quasi cambiare una parola. Ma, va bene, hai descritto un mondo che va male. Hai descritto le persone alla deriva, sia che accettino quel mondo (come il postino che poco prima di andare in pensione esce di senno davanti allo smistatore di cartoline) sia che non lo accettino (come Betty e la sua bottiglia eterna). Hai descritto il tuo tragitto in quel mondo, cercando di prenderne il buono (i soldi, la sicurezza) senza mai fare un compromesso. Tipo continuare a bere e scopare tutti i giorni fino alle due di notte per poi alzarsi alle 5 ed andare a distribuire lettere. Tu, Bukowski – Cinaski non ti sei piegato, ed alla fine ne hai scritto e lo hai esorcizzato. Ma è una battaglia tutta tua, anarchica come dicevo prima. Non c’è salvezza collettiva. E forse nemmeno personale. C’è solo la possibilità di scavarsi un buco solitario e viverci dentro, fregandosene di tutto, anche di tua figlia Marina. Per poi? Per poi attaccarsi ad una bottiglia e giocare ai cavalli. No, non mi convince. La filosofia, la scrittura, il messaggio, anche la descrizione del mondo. Procedo a macchie, ma niente più. Ecco perché alla fine, non mi è piaciuto. L’ho letto, va letto (o forse andava letto qualche decennio fa). Ma non mi sento di consigliarlo.
Raymond Chandler “Il grande sonno” Repubblica Giallo euro 5,90
[trama pubblicata il 3 agosto 2011]
La nascita di un mito. Chandler ha cinquanta anni ed è al suo primo romanzo. Certo, sono cinque – sei anni che scrive racconti. E la sua vita non è stata “pipe e pantofole” sino ad allora. Americano emigrato in Inghilterra, dove studia e si accosta ai classici, partecipa alla prima guerra mondiale combattendo in Francia, e poi mille altri mestieri di ritorno in America. Da qui, in poi, il successo. Hollywood, fama, denaro, e alcool, molto alcool, sino alla morte settantenne per polmonite alla fine degli Anni Cinquanta. Ma è qui, in questo romanzo, che getta le basi non solo della sua fortuna, ma di tutta una letteratura che allora sembrò solo di genere (hard boiled veniva chiamata, per la crudezza delle rappresentazioni della vita quotidiana, le morti, la vita al limite e spesso al di là della legge), ma che riletta attentamente è stata anche giustamente accostata al modernismo. Quel filone di rinnovamento del romanzo mondiale che nei primi 40 anni del secolo scorso aveva come alfieri Pirandello, Kafka, Hemingway, la Woolf e tanti altri. Accostata, che Chandler non è “solo” modernista. Mette in scena quello che vede (e che sente) nei bar e nei bassifondi di Los Angeles, ma anche nelle ville dorate della California con gli stanchi ricchi che non sanno come spendere il loro non sudato denaro. E segue il tutto con gli occhi di un investigatore privato. Non tanto uno che cerca di guadagnarsi la vita inseguendo divorzi e piccole frodi. Ma qualcuno che vive la vita quotidiana della città, ne conosce gli alti e i bassi. E soprattutto, mette in campo questo Philip Marlowe che ci sorprende ad ogni piè sospinto per la presenza di una sua etica. Non diciamo una dirittura morale, che sarebbe impropria, ma un’etica sì, basata sul rispetto del cliente, sulla convinzione che, pur esistendo un lato in ombra in ognuno, non si possa andare oltre un certo limite. Ed imbastisce una storia, forse datata in alcune parti, ma certo molto meno confusa, leggendola, di quello che se ne dice senza conoscerla. O conoscendo solo i suoi risvolti cinematografici. Certo, Marlowe è molto Bogart, con l’impermeabile beige e la sigaretta in bocca, e la non curanza con cui guarda una donna senza vestiti ma che non tocca (etica, etica, ed altro). Ma, per me, è anche stemperato da una punta di Elliot Gould, piuttosto che intristito nella vecchiaia di Robert Mitchum. E molta della confusione viene proprio dal film, che, sì, è quello confuso, perché nel film vengono fusi due romanzi di Chandler, e se ne affida la sceneggiatura a quel mostro di bravura letteraria che era William Faulkner. E viene messa più in positivo di quanto sia nel libro la figura di Vivian, che è stupendamente interpretata da Laureen Bacall, al tempo del film ancora moglie di Humphrey. Con l’invenzione del finale pirotecnico della morte del cattivo Eddie Mars. Tutto questo non c’è nel libro. Che parte dalla ricerca della soluzione di un ricatto ai danni del padre di Vivian da parte di Marlowe, prosegue con la ricerca dello scomparso marito di Vivian stessa, e con la soluzione di questi due misteri. Certo, compare Eddie Mars, che comunque è il re dei cattivi di Los Angeles, e compare la lotta senza quartiere tra lui e Marlowe. Ma qui, nel libro, non si va oltre la soluzione dei misteri proposti. Lasciando ad altri libri cosa succederà, forse, dopo. Nel libro non possiamo far altro che seguire Marlowe che, passo dopo passo, svela le magagne che si presentano, fa un po’ il buon samaritano con la bionda che si sta perdendo ma forse no, beve a tutto spiano. E seguiamo l’uso sapiente del dialogo, questo puro elemento di novità che Chandler maneggia benissimo, un po’ sulla falsariga di come scriveva il giovane Hemingway (che aveva 10 anni meno di lui). E l’uso asciutto delle descrizioni, un po’ paradossali ma efficaci (come quella che cito sotto), inseguendo le citazioni trasversali che l’intellettuale Chandler mette qua e là, anche se pochi se ne accorsero al tempo. Come, quando, mirabilmente, per spiegare il comportamento poco ortodosso della sorellina Carmen, risponde, mozartianamente, “Così fan tutte”.
“Un uomo grasso, di mezza età, con un paio di occhi color cielo che si ingegnavano a far passare una mancanza d’espressione per un’aria amichevole.” (107)

Conclusioni

Avendo letto solo la metà dei libri proposti, per quello che ne vedo, toglierei Chandler da una possibile lista “da toilette”, mentre gli altri possono restarci, che magari, con la loro poco presa, riescono a far dimenticare il luogo ed il momento. Buona seduta a tutti.

venerdì 3 aprile 2015

Scerby-noir - 04 aprile 2015

Una Pasqua dedicata al grande maestro e capostipite del nero italiano. Una Pasqua per l’italo-ucraino Giorgio Scerbanenco, di cui ho quasi finito di leggere il molto pubblicato ultimamente. E se sui romanzi, le sue atmosfere ancora prendono e coinvolgono, i tre libri di racconti non mi hanno convinto. Per le scelte editoriali, per alcune brevità ingiustificate, per l’eterogeneità dei racconti stessi. Ma se con il primo titolo si parla di spie, io confesso che comunque amo questo autore e le sue storie disperate e disparate.
Giorgio Scerbanenco “Le spie non devono amare” Corriere della Sera 15 euro 6,90
[A: 25/02/2014 – I: 24/06/2014 – T: 26/06/2014] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 199; anno 1971]
Non ripetendo, per ovvi motivi di concisioni, quanto detto nelle varie intro agli ultimi libri di Scerby, affrontiamo questo quindicesimo volume della meritoria opera del Corriere della Sera. Uno Scerby più di atmosfere che di misteri. Non è un giallo, ma rimane comunque pieno del senso amaro della vita che a profusione emana dagli scritti del nostro. Non perché non ci sia possibilità di finali felici, ma sembra sempre che la catastrofe ci aspetti appena dietro l’angolo. E come non aspettarsi una catastrofe dalla storia che, in prima persona, narra la bella Ornella Dallas? Lei, appunto, bella, giovane, traduttrice simultanea plurilingue, si innamora, riamata, del bello e tenebroso Falk. Il quale, prima di chiederla in sposa, le rivela la tragica verità: lui è una spia. Ora non sappiamo di che spia si tratti, perché nelle sue vicende sembra dare un colpo al cerchio ed una alla botte. Capiamo di sguincio che nelle sue trame ricascano uno scienziato ungherese ed un diplomatico portoghese (nonché una strana puntata in Svezia). L’azione più “divertente”, poi, è quando, per non far cadere un messaggio in mano ai loro nemici, lo fanno imparare a memoria ad una squinzia francese. Ma non in una lingua qualsiasi, bensì traducendolo in finlandese. Ed è carino veder nascere frasi per noi insensate in una lingua che sentimmo estati fa, e che ci rimane ad oggi incomprensibile. Come ad esempio il bellissimo scioglilingua “Tottelemattomuudestansa”, che significa soltanto “Egli era disubbidiente”. Anche se questo ci dovrebbe far propendere per il fatto che Falk sia una spia d’oltre cortina, che altrimenti i russi avrebbero potuto capire presto l’origine del finlandese. Ma ci sono pochi elementi “alla James Bond” nella storia, che servono più che altro a connotare meglio l’affetto “oltre ogni limite” che lega i due (tra l’altro, di Falk non sapremo mai il nome). Come quando Falk è costretto a circuire la moglie dello scienziato ungherese (facendo ingelosire Ornella) o come quando Falk chiede ad Ornella di fare la svenevole con il diplomatico portoghese. Entrambi poi finiranno male (suicidi o suicidati), cosa che metterà sempre più in crisi Ornella. Che si confida con l’amica Lorely, la quale verrà prontamente fatta fuori. O come quando si affidano a Karl e Marta, di cui non vediamo, ma immaginiamo, la fine. Ma non è tanto l’attività di spionaggio al centro dell’idea romanzesca di Scerby. Quanto, invece, l’assunto del titolo e la derivazione che ne viene nel momento in cui, amando, si cerca di non essere più una spia. Ma come direbbero i baci perugina, una spia “è per sempre”. Insomma, tutta la storia cardine del romanzo è il tentativo di Falk di “dimettersi” dallo spionaggio senza dimettersi dalla vita. Prima tenta con le buone, i suoi capi facendo finta di accogliere la richiesta, per poi tentare subito dopo, di farlo fuori. Falk capisce allora che bisogna attuare un piano più ardito. Allora, tramite Ornella, riesce a far avere alla polizia (ma in modo quasi naturale, senza che si capisca possa essere un piano studiato) dei fogli di carta ed una rubrica. E mentre la polizia li decifra ed inizia a smantellare, con l’aiuto degli omologhi servizi segreti, la rete spionistica di Falk, lui ed Ornella spariscono nel grande continente australiano. Altro mito del nostro ucraino negli anni Settanta. Per sparire, solo due mete: il Messico o l’Australia. Ma prima di perdersi nell’outback, con un grande colpo di “sfortuna” uno dei cattivi che li stanno cercando, incrocia la coppia all'aeroporto di Calcutta. Ti pare più sfiga di così? Uno volta scovati anche in Australia, Falk deve concepire un piano ancora più audace per cercare di spezzare i legami con lo spionaggio. Ed è seguendo questo piano in tempo reale che Ornella poi descrive in flash-back la sua storia con Falk. Non ha molta importanza questo piano, sarebbe quello che ognuno di buon ragionamento avrebbe suggerito ai due per avere un lieto fine, vivere felici e contenti da qualche parte, senza il rischio né di essere uccisi né di passare un paio di vite in carcere. Falk però ci mette quasi 200 pagine per arrivarci. E Ornella ci arriva solo perché portata di peso da Falk e dal suo amore. Quale sia questa soluzione, non ve lo dico, rimanendo il solo, piccolo, elemento di suspense della storia stessa. Che, come dicevo, è poco importante come suspense o giallo o thriller, ma più come atmosfera. Che Scerby, con due tratti di penna, ti cala dentro la storia. Con la sua abilità da sceneggiatore (anche se mai lo fu) ti costruisce intorno un film, che alla fine non puoi non andare a vedere, tanto risulta attraente nelle prospettive. E nelle inquadrature, che il nostro ti porta con mano da Roma a Parigi, da Göteborg a Melbourne, da Budapest a Napoli. Confesso, che ho letto di lui cose più avvincenti e con meno speranza, storie di disadattati e disfunzionali alla società che ti prendevano allo stomaco e non ti lasciavano più. Qui si legge, e si nota con piacere l’evolversi della storia. Un solo punto di biasimo è quando, ad un certo punto, esce fuori la parte molto maschilista di Scerby, che fa dire ad un uomo “Tu sei una donna e non puoi capire”. Nel contesto può avere tanti significati, ma io non l’avrei espressa così.
“Quando un uomo ha veramente in testa una donna, non se la può levare più dalla testa, mai, qualunque cosa faccia. Tu sei la donna che ho in testa e non ci posso fare niente: m’interessi solo tu.” (51)
Giorgio Scerbanenco “I sette peccati capitali e le sette virtù capitali” Corriere della Sera 11 euro 6,90
[A: 01/02/2014 – I: 18/07/2014 – T: 20/07/2014] - && e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 252; anno 1974]
Premessa n°1: non sono un grande estimatore del racconto, che non sempre soddisfa la mia voglia di coinvolgimento nella storia. Premessa n°2: sto diventando negli anni un estimatore di Scerbanenco, “la macchina che scrive storie” come lo definì Oreste Del Buono. Conseguenza: ho letto con interesse questi 14 racconti riuniti in un (presunto) filo logico, e ho trovato conferma delle premesse. Alla fine non sono stato entusiasta, ma Scerby riesce veramente in poche righe a farti entrare nella scena, a farti conoscere i personaggi e le situazioni, insomma a coinvolgerti. Anche se qui, non ci sono misteri, gialli, polizieschi. Forse sono classificabili come noir ambientali, certo è che descrivono, fotografano alcuni momenti dell’Italia che si evolve, che passa dal fascismo, alla guerra, al dopoguerra, al boom economico. Poi purtroppo nel ’69 il nostro muore a soli 58 anni, lasciando una notevole messe di scritti (chissà se qualcuno prima o poi riuscirà a produrre una bibliografia completa), sparsi tra libri, riviste e giornali. Qui vengono ripresi appunti alcuni racconti, ipotizzo (soprattutto per alcune ambientazioni) scritti in epoche diverse, e pubblicati postumi nel 1974. Con un titolo che mi soddisfa parzialmente, che di certo i sette peccati capitali, ci sono e sono ben rappresentati. Pur avendo la voglia di interrogarvi, se ve li ricordate, vi aiuto ripassandoli insieme. Ci sono la lussuria (con la descrizione di un processo ad un lussurioso che verrà assolto dalle malefatte ma trascinato nel ridicolo per le cose che ha fatto, quando ancora c’era il senso del ridicolo in Italia, e non ci torno più sopra), l’accidia (che comunque è un peccato che non ho mai ben focalizzato, ma che il nostro dipinge nel rapporto tra la signorina di gaie frequentazioni e l’integerrima vicina di casa, che però sarà l’unica a comprenderne il dramma), la superbia (dove una donna decide di rimanere ancorata ad un matrimonio finito per aspettare che il fedifrago torni da lei), l’avarizia (uno dei migliori, con la stellina del cinema, gretta ed avara, che per mettere da parte una lira perderà gloria e futuro, e dove Scerby facendo un elenco delle grettezze della bella fa anche un elenco delle storture che da lì a poco diventeranno sistema), l’ira (un ambiente di guerra, con l’iracondo caporale che distrugge la vita ed il futuro del possibile cognato), l’invidia (dove assistiamo alla corrosione interiore della bella Isabella verso la più fortunata Francesca), la gola (dove il conte Damiasi rifiuta una pletora di possibili mogli perché non illibate, per poi cadere nelle “grinfie” di una superba cuoca, peccato sia, con parola attuale, una “escort” di lusso, ma alla sua tavola il conte non riuscirà a resistere). Invece rimango perplesso sulle virtù. Ora mi suonano nella testa le virtù teologali (fede, speranza e carità) e le virtù cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza). Ma da nessuna parte trovo virtù capitali. Un tentativo di ossimoro? Un frizzo che non riesco ad interpretare? E cosa, secondo il curatore, vengono riunite sotto questo titolo? Abbiamo la purezza (dove una ragazza violentata viene sposata per riparazione, ed assistiamo al suo calvario di lontananza, nonché alla sempre feroce lotta tra potenti e poveri, ed indovinate chi vincerà), il coraggio (dove tornano le atmosfere di guerra, ed il sacrificio, forse inutile, ma quanto umano del caporale Lusitrani), l’amore fraterno (dove la sorella sacrificherà tutto, anche l’amore, per il fratello scapestrato, che però alla fine …), la speranza (anche qui lotta di caste, e lungo percorso verso l’amore del povero ma ingegnoso con la ricca forse viziata), la generosità (con il vecchio e ricco, incapricciatosi della giovane povera, che gode della sua vicinanza, finché riuscirà ad averla accanto, ma non soffrirà quando lei lo lascerà), la rassegnazione (dove una donna sfigurata da un incidente di macchina ha una tenera storia d’amore con un giovane tisico), la volontà (quella di Matilde, che dopo la morte del suo bambino, decide, nonostante tutto e tutti, di lasciare la vita da prostituta e di fare qualsiasi cosa, ma lontano da quel mondo, e forse…). Come unica cifra costante, Scerby rivolta sempre i giochi, ponendo a volte delle vicende ipoteticamente buone tra i vizi, e decisamente cattive tra le virtù. Il suo tentativo, comunque, ed è quello che più si ammira, è la descrizione del reale. E questo viene, con quelle due frasi, quel muovere una mano, la descrizione di una camminata, di una gita in macchina. Pur tuttavia, non sono tutti racconti forti, hanno molti su e giù di presa, motivo che mi hanno convinto a dare poco sotto la sufficienza al volume in generale. Che tuttavia, pur non essendo eccelso, prenderei sempre ad esempio se dovessi indicare un testo per una scuola di scrittura. Provate a rappresentare in 10-20 pagine al massimo gli universi di Scerby. Non è mica così facile, sapete. Speriamo solo di tornare presto alle sue atmosfere più nere, dove ancor meglio si esaltano le capacità indubbie del nostro amico scrittore.
Giorgio Scerbanenco “Un treno per l’inferno e altri racconti neri” Corriere della Sera 12 euro 6,90
[A: 01/02/2014 – I: 29/11/2014 – T: 22/12/2014] - && e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 237; anno 2005]

Giorgio Scerbanenco “Diario per un assassino e altri racconti neri” Corriere della Sera 13 euro 6,90
[A: 07/02/2014 – I: 06/01/2015 – T: 08/01/2015] - && e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 237; anno 2005]
La data di pubblicazione dei due volumi è recente, in quanto si riferisce alla prima volta della pubblicazione in volume unico. Li ho anche uniti nel commento, in quanto originariamente pubblicati appunto in volume unico da Garzanti, con il titolo “Racconti neri” e con una prefazione, che mi dispiace aver perso, di Carlo Lucarelli. Sono in totale 34 i racconti compresi nei due volumi. I 15 racconti della prima parte di questa riedizione del Corriere della Sera  sono stati pubblicati, dal ’59 al ’69, su Novella 2000 (9 racconti), Annabella (5 racconti) e Stampa Sera (1 racconto). Anche in questi racconti l’atmosfera, le descrizioni, sono quelle classiche che Scerbanenco infonde in tutti i suoi scritti. Non hanno però, come già detto, quel respiro del poliziesco, quell'andamento che attraversa in diagonale la vita, tirandone fuori molti lati oscuri. Hanno voluto mettere nel titolo quel riferimento a “racconti neri”, ma solo perché succedono rapine, morti, ed altre attività ai limiti della legge. Non hanno però quel mordente delle sue opere migliori. Sono dei piccoli acquarelli che a volte toccano corde intense, altre scivolano via, senza troppi coinvolgimenti. D’altra parte si nota pure il luogo dove vengono pubblicati, per la maggior parte giornali allora definiti “femminili”, che spesso chiedevano a Scerby qualche racconto edificante, con forse una morale dietro. E lui un po’ ne mette, riuscendo sempre, tuttavia, in quella sua sapiente opera da fotografo della realtà: così succede nella vita, te lo faccio vedere, te lo narro, ma non dò giudizi. E tanta umanità passa sotto la lente di Scerby in queste pagine. C’è qualcosa che rimanda alle guerre ed alla solitudine (il centro dei primi racconti, soprattutto quello che narra la finta fucilazione del militare tedesco volta a salvare una contadina accusata di collaborazionismo ed il suo ritorno sui monti italiani per ritrovarla). Le prove d’amore e d’amicizia (una borsa con dei soldi che scatena la vera anima di un finto amore, una scappatella con morso di vipera e la serata di gala che va a monte, il poliziotto che è pronto a tradire l’arma ed i suoi ideali per l’amicizia di uno sbandato, il suicidio della biondina tedesca turlupinata da un cascamorto riminese che si toglie la vita buttandosi con la sua auto contro il muro di Berlino). Ci sono ovviamente morti (nella rapina al pittore porno, nella breve storia di spionaggio su spie cecoslovacche e segreti della Nato, e che forse è tra le meno riuscite, ed in particolare nella lunga ricerca per le strade di Francia di un  lanciatore di coltelli che, facendo finta di sbagliare, gli uccide la sorella che non voleva prostituirsi, e che lui finalmente ritrova ed uccide, ovviamente con un coltello). C’è anche amore nella strana storia ambientata in Grecia, dopo le lunghe indagine di un poliziotto risolvono il mistero della strana morte di un falso corriere della droga che in realtà è un vero poliziotto italiano della narcotici. C’è desolazione nella storia della madre che non si rassegna alla morte della figlia, e ritorna periodicamente in questura a denunciarne la scomparsa. O nella storia dell’intervistatrice assalita dal ragioniere allupato e salvata da una signora che per consolarla rinuncia al suicidio. C’è anche ironia nell'assalto al treno da parte dei poliziotti per arrestare un assassino, che conosce a memoria l’Inferno di Dante. Quelli che si alzano un po’ sugli altri, poi, sono la lunga storia, quasi un romanzo breve, del tecnico di ritorno dal polo e del giocatore suicidato. Nel primo lui torna dopo quattro anni al polo, e trova il suo vecchio amore sposato e con figli; si rifugia in sé stesso e nella sua solitudine, da dove viene tirato fuori perché deve salvare dall'avviarsi alla perdizione di una coppia di giovani, fuggita da Roma per amore, ma che si ritrova a Ferrara, sulla sua strada senza soldi né futuro. E salvandoli, rimargina alcune ferite, che curerà in un curioso finale, intervistato da una geologa senza futuro, che è costretta a fare la giornalista per sbarcare il lunario. Nel secondo, infine, abbiamo forse il solo filo di suspense poliziesca, che ruota intorno al finto suicidio di un industriale rovinato dai soldi e dai biscazzieri (che però non sapevano essere lui mancino). Nel secondo volume, invece, sono raccolti 19 racconti che furono anch'essi (a parte gli ultimi tre inediti) pubblicati su Stampa Sera (7), Sogno (8) e Novella 2000 (1). Inoltre, sottolineo che tutti quelli di Sogno sono apparsi postumi a partire dal novembre 1969, in quanto il nostro era morto il mese precedente a soli 58 anni. Anche in questi si continua sulla falsariga del primo volume, forse con una maggiore attenzione al lato “nero” rispetto alla prima parte, ma anche con una maggiore attenzione agli incontri casuali, alle svolte impreviste. C’è un unico esempio (quasi) di critica civile, dove un ricco siciliano pentito di mafia viene protetto dai poliziotti ma continuamente preso di mira dai mafiosi che ha denunciato, finché decide, per salvare la giovane moglie, di farsi uccidere. Gli altri li potremmo invece riunire in categorie: uccisioni programmate, morti misteriose, follie di donne e incontri e riscontri. Nelle uccisioni programmate, la penna del nostro si scaglia su di un ospedale che, a pagamento, uccide vecchi bacucchi (generalmente colpiti da malattie alla prostata) per conto di giovani moglie (che ereditano). Poi c’è il maniaco delle armi che assolda un anziano per poterlo cacciare, finché questo, malato, fa un’assicurazione sulla vita, e si fa uccidere. C’è l’esilarante viaggio attraverso l’Europa di una macchina che deve trasportare un morto da Londra a Zagabria, e delle due diverse personalità che la guidano: il giovane che cerca il suo amore, e che si ferma in Francia, lo sbandato che, per non farsi prendere, cerca di forzare la frontiera, e viene ucciso. Chiudono il gruppo due strani racconti spostati: un giovane si fa arrestare per essersi denudato in pubblico, ma lo fa per sviare i sospetti sul fatto che ha appena massacrato una quindicenne; e tuttavia il poliziotto greco riesce a smascherarlo. Un medico imposta tutta una messa in scena verso la moglie, inducendola a credere di avere un tumore, così che questa si uccide, e lui potrebbe rifarsi con la sua amante se anche qui l’astuto poliziotto non riuscisse a ricostruire i passi della vicenda. Il secondo gruppo delle morti misteriose è aperto dall'uccisione di un emigrato in Germania, con una messa in scena per far credere sia un delitto tra italiani, ma (come nel giocatore del primo volume) l’assassino non sa che il nostro non gioca a carte. Poi c’è l’altrettanto misteriosa morte di una donna molto brutta, uccisa con del napalm nascosto in un mazzo di fiori; ma lei non usciva con nessuno, ed il napalm non è che si trovi dietro l’angolo. Infine c’è la giovane sposina che giunge in montagna un giorno prima del marito, ed è brutalmente uccisa da uno dei clienti preso da un raptus e smascherato dal solito arguto tutore dell’ordine. Il misogino Scerbanenco trova anche modo di dare qualche bottarella all'universo femminile, anche se in fondo qualcosa salva. Siamo ancora lontani dalla legge sull'aborto, e ci sorbiamo un raccontino morale su di un medico che non aiuta la prima ragazza ad abortire e questa si uccide, poi aiuta la seconda e questa muore. C’è un racconto in minore su di uno psichiatra che cura e salva una ragazza dalla follia (e dall'ospedale psichiatrico). C’è la ragazzina tredicenne che viene rapita, avviata alla prostituzione, e salvata da un cliente che, per tirarla fuori dal giro, uccide un uomo e finisce in prigione. C’è una donna bianca, anch'essa rapita, portata nel deserto, venduta schiava agli arabi, che muore colpita da una bomba mentre un giornalista italiano la intervista. C’è l’ennesima storia di una donna perduta che, con un colpo di genio, anzi di sirena, salva il suo ultimo amore dall'arresto. I racconti migliori, per me, sono quelli dove incontri casuali e svolte impreviste mettono bastoni tra le ruote di improbabili assassini o di imprevisti amori. C’è un assassino in pectore che cerca di uccidere la ex moglie (che per incuria aveva fatto morire il loro figlio), ma la madre di lui, di nascosto, toglie le pallottole dalla pistola. C’è un altro che vuole uccidere una donna che lo ha tradito, ma viene preceduto da un’altra vittima dei tradimenti della fedifraga. Ci sono due gemelli che rapinano una bella benzinaia, che poi si innamora di uno dei due (ovviamente il più scapestrato) che pensa bene di farsi uccidere, ma lei si consolerà con il gemello che invece si redime. C’è una donna-poliziotto che prova pietà per una detenuta francese, e questa la ripaga salvandola dal disonore e facendole, inaspettatamente, ritrovare un suo vecchio amore. Infine c’è la storia della fidanzata di un emigrato, che lo vuole riprendere dalla clinica svizzera dove è ricoverato per un incidente provocato da una bella ereditiera, ma la vita è piena di contrattempi, così che alla fine la bella si riprende il fusto, e la nostra troverà il vero amore in un altro emigrato. Ripeto, il nostro scrittore è bravissimo nel mostrarci l’Italia degli emarginati e delle miserie, lui che per anni si aggirava nei meandri milanesi, notturni e disperati, da dove traeva linfa per queste sue storie. Che non sono nere o gialle o d’altro colore. Sono la fotografia (o meglio, come si direbbe ora, il video clip) dell’Italia del miracolo economico, dei primi anni Sessanta. Dove tutto sembrava correre verso il benessere. Purtroppo ci siamo accorti, e sappiamo bene come, che non era così. Grazie per questa nuova prova, anche se non delle tue migliori, grande Scerby.
Prima trama del mese, ed ecco i pochi e sparuti libri letti nell'ultimo mese di gennaio, che, come molto negli ultimi sei mesi è stato più dedicato ai viaggi che alle letture. Libri di medio accoglimento, con lo Scerbanenco che tramo poco sopra ed illuminati da un bellissimo simil-giallo dello svedese Larsson

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Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Cormac McCarthy
Non è un paese per vecchi
Einaudi
12
3
2
Andrea Camilleri
La bolla di componenda
Sellerio
7
2
3
Giorgio Scerbanenco
Diario per un assassino e altri racconti neri
Corriere della Sera
6,90
2
4
Björn Larsson
I poeti morti non scrivono gialli
Iperborea
17
4
5
Beppe Fenoglio
Una questione privata
Einaudi
s.p.
3
6
Vikram Seth
Il ragazzo giusto
TEA
16
3

Come molti sanno, senza grande preavviso, sono di nuovo in partenza. Allora, per lasciarvi qualcosa da leggere mentre io volo verso il Sud America, vi lascio anche l’allegato delle libropatie, dedicato questa volta al recupero di libri letti dopo aver indicato la cura. Un grandissimo saluto a tutti, un augurio di buona Pasqua.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

PASQUA 2015
In occasione di un nuovo viaggio, e non avendo, per ora, molto tempo per nuove recensioni, approfitto di questo piccolo “buco temporale”, per recuperare alcuni nuovi autori di cure già descritte. Perché la mia biblioteca aumenta di libri, e qualche volta si inizia a leggere, per queste cure, qualcosa che, come malattia ho già descritto.

RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE GIÀ DESCRITTE

  1. Adolescenza - Giorgio Bassani           Dietro la porta
  2. Arroganza - Elizabeth Taylor           Angel
  3. I dieci migliori romanzi per chi è molto triste - Gabriel Garcia Márquez La incredibile storia della candida Erendira e della sua nonna snaturata

Bugiardino

Non torno sulle malattie, ricordando solo, ai pochi disattenti lettori che l’adolescenza è stata trattata nella CURA di Febbraio 2014, l’arroganza nella CURA di Luglio 2014 ed i romanzi per chi è molto triste nella CURA di Marzo 2015.
Giorgio Bassani “Dietro la porta” Feltrinelli euro 7 (in realtà scontato a 6,30 euro)
[trama pubblicata il 1 marzo 2015]    
Pubblicato due anni dopo il magistrale “Giardino dei Finzi-Contini”, Bassani continua con questo racconto lungo il grande ciclo degli scritti dedicati a Ferrara, sua città natale. Scritti in cui, con vari momenti e con varie trasposizioni, ripercorre la sua personale biografia della città estense. Questo non è certo il migliore, rispetto, oltre al giardino citato, anche al dolente “Gli occhiali d’oro”. Tuttavia mi ha preso nella descrizione dei dolenti momenti del liceo. E pur nel fatto che il suo liceo (classico, ovviamente) si svolge una quarantina d’anni prima delle mie esperienze al grande Liceo Scientifico Augusto Righi in Roma, riesce, con quella immortalità dovuta ad una scrittura sapiente e partecipata, a far rivivere (mutatis mutandi) sensazioni e momenti. L’inizio del libro, tra l’altro, risente, anche qui con giusta trasposizione, di quel bruciante attacco di Paul Nizan in “Aden Arabia” (il francese iniziava il libro con la storica frase “Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”, Bassani ricorda come il primo anno di liceo, fra i tanti momenti infelici della sua vita, fosse stato uno dei massimi). E noi entriamo subito in sintonia con il soggettivo protagonista, che si trova nella nuova classe, con nuovi e diversi compagni da affrontare. La falcidia dell’ultimo anno del ginnasio (che lo priva del suo scudiero fidato, purtroppo bocciato) unisce due diverse classi. Il capitolo in cui entriamo per la prima volta in classe, in cui con sapienti tocchi ci descrive i suoi futuri compagni di scuola, l’indecisione su dove andare a sedersi. Le alleanze e le guerre. E subito trova il suo contraltare. Lui, introverso ed ebreo, ha di fronte Carlo, cattolico e sicuro di sé. Potrebbe nascere un’amicizia tra persone complementari. Il nostro però non si piega ad essere una semplice spalla. Ben conosciamo le scaramucce che ci hanno accompagnato in quegli anni. Io, un Bassani allo specchio, bravo in matematica e deboluccio in latino e (almeno all’inizio) anche in italiano. Compiti che si passano, interrogazioni, cadute e risalite. Sempre con la sensazione di essere alla rincorsa. Ma di cosa? Di chi? Non c’erano certezze, non c’erano sicurezze. E poi ero fuori zona, quindi tagliato dalle frequentazioni pomeridiane. Bassani trova uno strano alleato nel misero (di animo) Luciano, catapultato dopo Natale nella nuova scuola, che il nostro aiuta, e di cui Luciano diventa un po’ “il cavalier servente”. Ma Luciano, figlio di medico condotto e di famiglia non abbiente, non potrà essere di sostegno allo scrittore, ne sarà sempre la ruota di scorta, beandosi dell’aura riflessa. Vediamo affiorare, a poco a poco, le sensazioni meschine di Luciano, e quel suo quasi prendere in giro le ingenuità, soprattutto sessuali, del nostro. Che non va a donne, che non si innamora, che non si masturba. Certo pulsioni sessuali ci sono (sono sedicenni, che diamine), ma nello scrittore si sublimano. Pensiamo ai sogni erotici ingenui, ai nudi dell’arte, alle letture quasi proibite di autori al limite della pornografia (anche se nei lontani anni Trenta, forse, erano solo erotismi di maniera, come “I promessi sposi” di Guido da Verona). Si arriverà così allo scontro finale, dove l’autore non potrà che uscire sconfitto. Carlo lo convince che Luciano parla male di lui alle sue spalle, e lo fa assistere “dietro la porta” al tradimento del presunto amico. Ma non è che Carlo sia da meno, cioè il suo intento non è salvare l’autore ma, in un certo senso, farlo sentire ancora più isolato, ancora più sconfitto. E sconfitto ed infelice, come dice all’inizio, lo sarà e ne resterà il segno nella tristezza che noi immaginiamo grande che porterà appresso per molta parte della vita. L’autore è solo, ed i suoi supposti compagni si perderanno nel resto della vita. Luciano il traditore cambia di nuovo città. Carlo rimarrà il primo della classe fino alla maturità, e poi non sapremo più nulla di lui. L’autore andrà avanti, portandosi appresso la tristezza di non essere riuscito ad incidere nella vita, di essersi lasciato scorrere addosso quest’anno terribile, senza reagire, senza polso. E noi si ripensa alle nostre tristezze scolastiche, ai lunghi momenti di incertezze e insicurezze. Bassani riesce magistralmente a farmi sentire, pur con il carico d’anni che ci si porta appresso, come se fossi ancora nei banchi di scuola, con i calzoni lunghi, la pipa corta, e nessuno con cui fare comunella. Una bella scrittura, un lavoro da tenere presente nelle rimembranze. Leggere e ricordare, entrambi, comunque per andare avanti. Che se quelli furono anni duri, ora c’è l’ottimismo della tarda età che ci sorregge.
Elizabeth Taylor “Angel” Beat euro 9
[trama del 19 febbraio 2015]    
No, non è l’attrice dagli occhi bellissimi, ma una bravissima scrittrice inglese del Novecento molto amata in patria, casualmente omonima, e sfortunatamente ormai morta da quaranta anni. Non la conoscevo, e devo dire sempre grazie alla fucina delle cure con i libri se mi fa scoprire nuovi autori, nuovi libri di vecchi autori, ma anche libri che non mi piacciono di autori nuovi o vecchi. Ogni lettura porta sempre con sé qualcosa (e d’altra parte, come non potrebbe essere così, dal momento che ogni viaggio porta con sé qualcosa, e chi legge è un viaggiatore, come sostiene Ale). Ma torniamo alla Taylor. Non fu una scrittrice prolifica (si citano una decina di titoli) e molto riservata (una sua amica incaricata di scriverne la biografia rinunciò dicendo che non c’erano avvenimenti tali da poter sostenere il peso di un libro). Amata, ed anche qui lo riporto, anche per alcuni suoi libri per l’infanzia. Venendo a questo libro, è una lunga carrellata della storia della vita di Angelica Deverell, detta appunto Angel. La vediamo adolescente che non riesce ad interagire con i suoi coetanei, immaginandosi una vita altra, piena di ricchezza e signorilità, lei che vive in una sperduta campagna inglese, che non ha conosciuto il padre, e con la madre titolare di un negozio di alimentari. Angel si sente diversa, sente che ha un mondo di “lustrini, begli abiti e grandi signore aristocratiche” dentro di sé. E per sfuggire la sua triste vita, decide di scrivere, di mettere sulla carta questo suo mondo sensazionale. Qui scatta la cifra forte della su vita, la sua arroganza infinita, per cui è certa di scrivere i migliori romanzi che possano essere pubblicati. Romanzi sensazionali, ambientati in quel mondo dorato di aristocrazia e fasti di cui lei ha solo immaginazione, ma che ben si attaglia al primo decennio del secolo scorso, epoca in cui parte la vicenda. Trova anche un editore, che gli rimarrà amico per tutta la vita, che nonostante i pareri contrari della sua casa editrice, decide di pubblicarla. Proprio quel suo mondo fantastico, in un mondo che invece sta declinando, le porta quel successo cui lei era sicura di arrivare. Ma ci sarà sempre una crasi fra il suo mondo, la sua vita, ed il resto dell’umanità. La scrittura le porta fama, e soldi, e benessere. Ma i critici considereranno i suoi lavori come assurdi e illeggibili (sottofondo: come fare tanti soldi pubblicando romanzi di genere…). Ed anche la sua vita sarà sempre destinata all’isolamento ed alla delusione. Si compera una prima villetta, dove relega la madre a ruolo di governante, ruolo che porterà la genitrice ben presto verso la tomba. C’è Nora, una giovane che si infatua dei suoi libri, e che prenderà il posto della madre, rimanendo con lei per tutta la vita (quasi presa da un affetto lesbico, anche se mai rivelato). Angel in un primo tempo accetta Nora solo perché sorella di uno scapestrato pittore di cui lei si è invaghita. Non solo, ma Angel ha deciso che lo ama, e, con una serie di trovate strane, riuscirà anche a farsi amare e sposare da lui. Siamo nel momento alto, i soldi sono ancora tanti, e lei compera la grande tenuta di “Paradise House”, il sogno della sua infanzia.  Da qui comincerà la china, di cui lei, nel suo incosciente isolamento interno, per cui legge la realtà solo per quello che si accorda con il suo volere, non si accorgerà mai. Il marito la tradisce, ma lei non se ne accorge. Scoppia la guerra, e lui parte per il fronte, da cui tornerà senza una gamba, sempre più depresso, tanto da morire poco dopo annegato in un laghetto della tenuta. Ma Angel non si accorgerà di nulla, e lo porterà sempre in palma di mano, ripetendo a tutti quanto sia stata bella ed intensa la sua storia d’amore. La guerra porta anche ad un repentino calo delle vendite, e della sua ricchezza, nonostante gli sforzi di Nora di gestire al meglio il poco che entra. Tutti invecchiano, l’editore va in pensione, i suoi libri cadono nell’oblio e la vita a Paradise House si trascina piena di stenti. Senza che lei se ne abbia cura. Ed isolata nel suo mondo dorato, morirà accudita dalla sola Nora, l’unica che sempre le rimarrà vicino. Isolata sempre e comunque, perché gli altri saranno incapaci di conformarsi alla sua visione non realistica della vita. Una figura che ha del grottesco, con punte di patetico e fondi di grande tragicità. Il tutto reso dalla Taylor con una scrittura che ti tiene sempre lì sulla pagina, che non stanca, che ti porta a vedere contemporaneamente queste due facce: la sua realtà e quella di chi gli sta vicino. Ci sono anche alcuni momenti, direi intensamente personali, quando Angel pensa alla sua scrittura, e la confronta con i critici, con accenti che la Taylor avrà senz’altro sentito durante anche la sua, di scrittura. Ma il libro è bello, dolente, e letto con piacere ti da un balsamo per curare le ferite di quando si pensa troppo a sé stessi, incuranti di quanto succede nel mondo.
Gabriel Garcia Márquez “La incredibile e triste storia della candida Eréndira e della sua nonna snaturata” Mondadori euro 8,50
[trama del 13 marzo 2015]    
Sono sicuro che se avessi letto prima questi racconti, non avrei affrontato i “Cento anni” con lo stesso piglio, e letti con lo stesso piacere. Perché questi sono racconti, e già si sa che mi pongo verso questa forma espressiva sempre in forma problematica. Sono poi intrisi di quel realismo magico, come viene chiamato, di cui sono pieni gli scrittori ispano-americani. Ed anche qui io mi trovo in difficoltà. Non trovo qui, se non elementi postumi di quelle costruzioni cui mi aveva assuefatto la famiglia Buendía. Né tanto meno quelle dosi di vita descritta e partecipata, come poi mi avrebbe entusiasmato la tarda lettura di “Cronaca di un naufragio”. Infine, purtroppo, il libretto Mondadori non è corredato da note ed esegesi, come altri libri dello scrittore colombiano, per cui ci si trova davanti al testo, anzi ai testi, con la sola indicazione dell’anno di scrittura. Che almeno mi ha dato una chiave di lettura. Qui infatti, abbiamo 7 racconti, di cui i primi 6, brevi, sono precedenti a “Cento anni”, mentre solo l’ultimo, quello del titolo (e non a caso) è posteriore (scritto nel 1972, mentre ricordo che il suo capolavoro è del 1967). Dicevo non a caso, perché la triste istoria è quello che solo si salva dal naufragio annunciato degli altri. Dove abbiamo un vecchio (forse un angelo anziano) che cade con le sue grandi ali in un villaggio di mare. Un mare che profuma di rose e porta disgrazie. Un morto annegato bellissimo e grandissimo. Una nave fantasma che il ragazzo incredulo porterà definitivamente a naufragare. Un venditore di fumo e la sua storia di raggiri narrata dal suo allievo, e poi carnefice. Nonché (e forse l’unico che un po’ si stacca dai precedenti), la fine anch’essa annunciata di un senatore sulla via della morte per tumore ed il suo ultimo sprazzo d’amore. Rispetto a questi, che non vanno mai oltre le dieci pagine, piene si di descrizioni, ma che, a me, non prendono, la candida Eréndira ha un piglio più complesso e più partecipato. Si sente che Aureliano è passato sotto i ponti, e che la penna di Gabo è più scorrevole ed incisiva. C’è lei, giovane, bella e “cenerentolata” dalla nonna tiranna. Anzi, come dice il titolo, crudele. Nonna un tempo bellissima, sposata al contrabbandiere Amadìs, ricca di casa ed altre scorie della vecchia stagione avventurosa. Con Eréndira che la serve in tutto e per tutto. Peccato che la piccola si dimentichi candele accese, che un colpo di vento notturno potano a bruciare tutti i beni della nonna. Che decide di farseli ripagare sfruttando il corpo della giovane. Insomma, vendendolo a pochi pesos qua e là per il paese. Assistiamo al girovagare, al degrado, alla lotta con le istituzioni (soprattutto la chiesa) che vogliono portar via la giovane per sfruttamento minorile. Ed altre imprese minori, che hanno però la fantasia di coinvolgere elementi delle mini-storie precedenti. Abbiamo così un olandese che forse ha perso le ali da giovane. Abbiamo un senatore che scrive una lettera di raccomandazioni per la nonna. Abbiamo il venditore di fumo che si sbraccia nella piazza accanto al tendone dove la nonna vende il corpo di Eréndira. Non manca poi il giovane Ulisse che si innamora della nostra bella ragazza. E tenterà di salvarla dalla nonna, cercando in molti modi di ucciderla (con bombe e con veleni) senza riuscirci. Tanto che Eréndira si spazientisce non poco. E quando finalmente Ulisse riuscirà nel suo intento, ma solo con il pugnale, Eréndira, finalmente liberata, fuggirà anche da lui. E se ne andrà verso il mare. Mare che ritorna, bene o male, in tutti e 7 i racconti, quasi fosse una calamita che attira la penna di Gabo, lui che nacque là sulla Sierra colombiana, che vedeva il mare laggiù, a pochi, ma irraggiungibili chilometri. Ed in questo racconto troviamo anche un legame ideale con “Cento anni”, dove, se ricordate, ad un certo punto Aureliano Buendía entra sotto la tenda di una mulatta adolescente costretta a prostituirsi per ripagare alla nonna i danni di un incendio. Non ho però trovato altri stimoli, altre voglie di far girare le poche sinapsi rimaste. Preferisco Gabo, lo ribadisco e lo sottoscrivo, quando si avventura in storie più complesse. Vedremo cosa ci riserverà il mio futuro di lettore.

Conclusioni

Non ne traggo neanche particolari conclusioni, ricordando solo che Bassani e la Taylor hanno avuto quattro librini di giudizio abbondanti, cioè raggiungono il loro scopo, mente il premio Nobel non arriva a due, e mi è decisamente poco piaciuto. Inciso di metodo, quando indico pubblicata, è una trama uscita nelle settimanali. Altrimenti ne indico la data di scrittura.