domenica 24 marzo 2019

Ma il 47 parla? - 24 marzo 2019


Torno con piacere al mio amico Bissattini ed alla sua seconda prova, che come leggerete, mi ha convinto meno della prima. Anche con quel piccolo “affronto” alla smorfia napoletana, dove il morto che parla è il 48. Ma Emanuele è in buona compagnia, in ogni caso. Distanziando di gran lunga uno stagionato Varesi ed il suo commissario Soneri, ed incollandosi alle calcagna di Emilio Martini ed il suo commissario Berté. Tanto il nostro non mette in scena né commissari né vicequestori.
Valerio Varesi “Il commissario Soneri e la strategia della lucertola” Pickwick euro 10,90
[A: 05/07/2016 – I: 01/10/2018 – T: 03/10/2018] - & +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 312; anno 2014]
Un vero dispiacere. Un libro che mi aspettavo solcasse il mare con un suo placido andare, come gli altri di Varesi, con in mente Barbareschi-Soneri. Invece, al primo scoglio, un naufragio terribile. Capisco perfettamente il clima di disappunto che un giornalista di matrice “Repubblica” sia a disagio (e non è il solo) in questo momento storico. Capisco anche la necessità interiore di esternare questo disagio imbastendo una storia che si basi sulla scomoda realtà attuale. Tuttavia, seppur condivisibili i giudizi e le analisi, pur non approfondite, che Varesi sparge per tutto il libro. Ma alla fine, non diventa né un libro di denuncia del malaffare italico (e parmigiano in particolare) né un libro giallo con una sua trama da decifrare, da scoprire chi sono i morti e chi li ammazza. Certo, Soneri per tutto il libro non fa che parlare del contesto, di questo zibaldone estremo in cui tutto è immagine, tutto è affari, tutto è votato al benessere personale ed alla disgregazione di tutte le conquiste sociali degli ultimi cinquanta anni. Ma non se ne esce in nessun modo. Cosa ci descrive Varesi in questa Parma di finzione (che però non può scordare la Parma reale)? Un sindaco eletto per la sua immagine, manovrato da politici e affaristi. E quando non ce la fa più a mantenere il suo ruolo, bellamente fatto fuori. Affaristi capeggiati dal perfido Ugolini, strafatto di coca, che compra a più non posso quadri falsi e li rivende come veri, che fa crescere piccole aziende che operando con un impianto camorristico sbaragliano la concorrenza, diventando, in ogni ramo, leader del settore ed imponendo propri metodi e proprie soluzioni economiche. Ci sono magistrati che indagano, ma per un timbro o per una carta mal messa vengono esautorati, prima di autorità e poi di posto. C’è la polizia e ci sono i carabinieri che indagano, ma con i vertici collusi con le autorità finanziaria, ben presto si trovano inchieste insabbiate. Così che in carcere ci vanno pesci piccoli, che poco avranno di condanna, mentre da Roma si alza la canizza che continua a ripetere: tutti rubano, quindi nessuno ruba. Da cui il titolo, dove appunto si paragona il sistema affaristico malavitoso alla lucertola, che, quando è in trappola e piò essere uccisa, preferisce tagliarsi la coda e fuggire. Tanto poi la coda ricresce. Un paragone molto, troppo, semplice o semplicistico. Soneri si trova di fronte questo muro omertoso, mentre alcune piccole anomalie si presentano sul tappeto. C’è un anziano che viene ucciso con una dose elevata di medicine anti-demenza. C’è un telefonino che suona nella notte sulle rive del fiume. Ci sono cani imbottiti di droga che spariscono. C’è un canaro che risulta amico del morto, impelagato nella tratta dei cani, e che, sul più bello, si appende ad una trave. C’è il sindaco che vorrebbe ritirarsi dalla contesa, ma che sparisce anche lui sul più bello. Poi si scopre che il primo morto era anche un galoppino segreto del sindaco, che aveva perso una borsa compromettente. Trovata la quale, i cattivi di turno prima fanno fuori l’anziano, e poi anche il sindaco. Il telefonino poi si trova appartenere al capo di una cooperativa rossa, colluso con i cattivi e ben presto anche lui in prigione. Soneri scopre anche i rumeni che facevano i corrieri dei cani-cocaina, senza però essere coinvolti nella droga. E tante altre piccole microcriminalità, tutte collegate ad una grande criminalità. Avrete certo ben visto che non c’è niente di nuovo sotto il sole. A meno che Varesi voglia parlare a nuora perché suocera intenda. Ma il discorso è troppo generico e la suocera avrà vita facile dimostrando di non capire cosa dica la nuora. Anzi, dicendo che poi, alla fine, manco nuora è. L’unico motivo di allegrezza in tutto questo calderone illeggibile (perché purtroppo, preso dal furore della denuncia, il tono e lo scrivere si fanno sempre più involuti) sono i piccoli spunti del commissario con la sua Angela, le loro mangiate (soprattutto di grana fresco), le puntate alla trattoria che ancora propone piatti tipici senza il vezzo di nouvelle cuisine o altre baggianate, passeggiate sul greto del fiume, camminate notturne in una Parma cui si dovrà tornare prima o poi. Ma sono minuzie, piccoli dolcetti che non riescono a ribaltare il frittatone di trecento pagine che alla fine, come direbbe un bravo cuoco, non sono né carne né pesce. Per non dimenticare che, avendo nell’immaginario anche televisivo, associato Soneri alla faccia del bravo Barbareschi, ben difficilmente si riesce ad immaginare l’attore recitare una parte tanto distante dal suo essere e dal suo stile. Insomma, tutto da rivedere, ma tra molto tempo.
“Angela … diceva che mancava del senso del tempo. Lui ribatteva che non si riteneva un disadattato, piuttosto era il mondo intero ad andare male.” (2)
“Era questo il segno più inquietante dell’età di mezzo: il rarefarsi del proprio mondo, il suo sbiadire lento come un affresco assorbito giorno dopo giorno dalla calce.” (130)
“La colpa della nostra generazione è questa. Pensavamo che le conquiste fossero per sempre e invece vanno consolidate, difese. Ci è mancata la manutenzione delle nostre idee.” (201)
“Il bello di conoscersi è sapere come rendere felice l’altro.” (251)
Emilio Martini “Doppio delitto al Grand Hotel Miramare” Fanucci euro 9,90 (in realtà, gratis con l’offerta “Mondadori Store 2x3”)
[A: 15/11/2016 – I: 03/12/2018 – T: 05/12/2018] &&&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 253; anno: 2015]
Eccomi qui, dopo ben sei anni, a riprendere in mano le avventure del commissario Berté (ma come lui ripete a piè sospinto, vicequestore). È vero che tra le prime tre puntate e questa, nella scrittura, sono passati solo quattro di anni, ma si sa che io ho anche tempi lunghi di lettura sui libri accumulati. Questo però ha fatto sì che almeno un mistero, che adombravo nella prima trama a lui dedicata, sia stato nel frattempo risolto. Emilio Martini, lo pseudonimo che pone domande oscure su chi fosse e cosa facesse, non è più un mistero. È certo uno pseudonimo, ma dietro al quale si celano le sorelle Elena e Michela Martignoni, appassionate di gialli e devo dire, con una buona riuscita nella loro produzione. Contento di aver svelato il mistero, dispiace che sia caduto quel gioco di cui parlavo nel primo libro su di un poliziotto che scrive romanzi su di un commissario che scrive racconti. Intanto, per riprendere le fila, troviamo sempre al centro Gigi Berté, calabrese di Milano confinato disciplinarmente in Liguria. Sempre alle prese con il suo progressivo innamoramento verso Marzia, la proprietaria della pensione a Lungariva, tuttavia sposata con lo spesso assente capitano Pestarino. Sempre con la sua coda di cavallo, i suoi novanta chili, il piacere della buona cucina. Ma anche un grande fiuto investigativo. Il romanzo inizia sornione, con Berté che pensa e passeggia, ma viene di corsa inviato al Grand Hotel, dove Roberto e Ornella vengono trovati in pose “sconvenienti”, ma tuttavia morti. Entrambi erano alla dipendenza della ricchissima contessa italo-sudafricana Van der Meer. Una pistola con silenziatore sul letto sta ad indicare le modalità, insieme ad un inopinato passe-partout. Al solito, Berté (un po’ Maigret ed un po’ Poirot) cerca di entrare nel mondo delle vittime. Chi sono i due? Chi è la contessa? Quali storie personali sono dietro la scena? Soprattutto è affascinato dalla seppur non più giovane ma interessante contessa. Imperturbabile ma forse con qualche altarino da celare. C’è un oscuro periodo in Argentina, prima che la nostra avventuriera sposi il magnate dei diamanti. Mentre l’inchiesta prosegue, Berté è anche alle prese con le sue vicende personali. Si sta sempre più avvicinando a Marzia, dolce e morbida ligure, dispensatrice di manicaretti ed haiku. Ma parlando e cercando, scopre la presenza di diverse persone, almeno tre, anch’esse alloggiate al Grand Hotel, che potrebbero essere attinenti al delitto. Anche perché, la contessa sembra avere più di qualcosa da nascondere. Escono fuori lettere, escono fuori documenti improbabili, escono fuori foto. Chi è questa Licia con cui sempre si accompagnava? Perché partono in due per l’Argentina e tornerà solo una? Unendo i vari pezzi del puzzle, non disgiunto dal fatto che la contessa era anche amante del Roberto ucciso, Bertè troverà le fila del delitto, scoprendo modalità, colpevolezze ed altre contingenze. Forse non tutto verrà alla luce del sole nei documenti dell’inchiesta. Ma noi siamo grati alle autrici di averci delucidato il mistero. Siamo un po’ meno grati del racconto intramezzato all’inchiesta, come è tratto caratteristico della serie. Che Berté appunto si sente più scrittore che questore. Il racconto è un “a sé” che serve a Berté per chiarirsi le idee durante l’inchiesta, ma che non ha un suo vissuto autonomo, come in altre interpunzioni. Anche perché sono personalmente un po’ stufo di queste scritture a singhiozzo, come i discorsi di Rocco e la sua bella nei libri di Manzini ed altre interruzioni delle emozioni narrative (questo, ripeto, è una mia presa di posizione molto particolare e forse scarsamente condivisa da altri). Rimaniamo in attesa che Berté decida del suo futuro personale, che la strada è chiara (per noi) ma non per lui, né forse per le autrici che magari vogliono tenere qualche nuova sorpresa in serbo. Un ultimo accenno ad una chicca di cui ringrazio le sorelle Martignoni. La citazione, a pagina 33 del libro “L’albergo delle Tre Rose” uno dei migliori e più interessanti gialli italiani di epoca pre-mondadoriana, scritta dall’ottimo Augusto De Angelis nel 1933 e recentemente ripubblicata da Sellerio. Un giallo complesso, pieno di nomi e di rimandi. Ma che, se lo conoscete, potete vedere facilmente i rimandi tra i due libri, e cercare di tirare le fila di questo romanzo sin appunto da pagina 33.
“Si matura e i gusti cambiano. Invecchiava e aveva voglia di semplicità.” (86)
Emilio Martini “Il mistero della gazza ladra” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 27/05/2017 – I: 06/12/2018 – T: 07/12/2018] &&&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 227; anno: 2016]
Come al solito i Martini vengono a grappoli (o meglio ad olive snocciolate, come direbbe un barman) ed eccoci subito al quinto episodio della serie. Non penso di tornare sui contorni del libro, sul suo contesto direi, visto che ne ho appena parlato. Niente di nuovo sulle autrici. E niente di nuovo sul personaggio centrale, il vicequestore Luigi (Gigi) Berté. Due soli elementi che non avevo rilevato o sottolineato precedentemente. Il nostro Gigi, oltre alle altre sue caratteristiche fisiche e morali, propende per una netta incapacità sia nello scegliere i regali per le sue donne, sia nel tentativo sempre vano di consolare la gente. L’altro elemento deriva dall’unione dei due cognomi: il commissario Berté e l’autore Martini (anche se pseudonimo), di libri scritti da due sorelle. Qualcuno subito pensa (ed io con lui) a Loredana e Mia. Ma veniamo al testo. Sempre su tre binari: l’inchiesta, la vita privata e la scrittura, anche se gli ultimi due qui si avvicinano pericolosamente. Che Marzia, per amore, cerca di trovare un editore per i racconti di Gigi. Ma lo scontro con l’editoria ufficiale sarà per il nostro duro e perdente. Tanto che il racconto che infioretta le pagine e le riflessioni del commissario durante l’inchiesta, con molta ironia espone alcuni aspetti legati al mondo dell’editoria, dei lettori e degli scrittori, anche se il risultato “letterario” non mi convince (quello del racconto, ovvio). Quindi del racconto ho poco interesse a narrare, tornando così ai binari che, come si addice alla realtà, risultano correttamente due. Tuttavia, la parte “sentimentale” risulta sempre più farraginosa. Gigi si fa un po’ avanti, poi si ferma, Marzia lo innervosisce con gli editori, con il marito in nave. Berté risponde pensando e non dicendo (errore sempre in amore e nella vita). Fino ad affittare una casa per ipotizzare un futuro a due. Ma Milano? Ma la vita errabonda? Bene che ci siano complicanze lungo la strada, che porteranno ad un finale semiaperto, di cui, c’è da scommettere, vedremo nuovi sviluppi nel sesto episodio. Veniamo allora al binario principale, l’omicidio. La morta è Luciana Saturno, commercialista, uccisa con un piede di porco, e lasciando sul luogo del delitto dei tarocchi (Morte, Torre e Diavolo) e la bocca riempita di monete. Come a voler significare che la morta era un’arpia che rubava soldi e che per questo viene uccisa. Ed in effetti, la bella commercialista pare non avesse tanta voglia di mettersi al servizio egli altri, quanto di accumulare soldi per sé. O per qualche sua storia. Procedendo nelle indagini, comunque, Berté mette in fila tutta una serie di personaggi come possibili autori del delitto: Enzo Carraro ex convivente della Saturno da lei mollato da poco e con qualche sassolino nelle scarpe, l’autista di Luciana Fred Donadei, che occasionalmente si prodigava anche nel ruolo di amante, la sua convivente Roberta, che sembra essere un poco gelosa, i fratelli Torre, Linda, l’amica più stretta e Folco fratello emigrato in Brasile, ma che ha fatto breccia nel cuore di Luciana, il pizzaiolo Sandrino, che Luciana ha rovinato, così come ha rovinato la signora Piccinelli moglie di un imprenditore, la domestica romane Irina Radu, che sa qualcosa ma che non parla ed il suo fidanzato Dimitri, che come tutti gli slavi è subito sospettato di essere violento e coinvolto. Diciamo subito anche che Linda Torre è anche cartomante, fornendo (sempre un po’ a caso, secondo il mio parere agnostico) numeri da giocare al lotto. E che, ricordo, c’era il tarocco della Torre sul delitto. Come c’era la Morte (e Luciana è morta) ed il Diavolo (come si stava comportando Luciana truffando i suoi clienti). Dopo un primo momento in cui sembra tutto molto misterioso, ben presto, per imbrogliare le carte, si scopre che tutti i sospettabili hanno incontrato Luciana la sera del delitto, e nessuno ha un vero alibi di ferro. Ad aiutare (cioè a non mettere i bastoni tra le ruote) Berté ora c’è anche il pubblico ministero, la graziosa Irene Graffiani, che riesce a far colmare i vuoti dell’indagine di cui Berté ha già intuito i contorni. Come pare chiara dalla descrizione della morte, Luciana veniva vista dai suoi frequentatori e clienti un po’ come rondine leggiadra che svolazza per portare cibo per i suoi rondinini, un po’ come gazza ladra (da cui il titolo) che come vede luccicare qualcosa lo prende per sé. Il nostro commissario alla fine riesce a separare il grano dal loglio e trovare il bandolo della matassa poliziesca. Come detto forse anche di quella sentimentale, ma “lo sapremo solo vivendo” (citazione Battisti-Mogol). Ebbene sì, penso che alla fin fine ne leggerò ancora.
“Tra gli uomini ci sono i vivi, i morti e quelli che vanno per mare.” (9) [vista anche a Porto Ercole, e da sempre dedicata al mio amico Renato]
Emanuele Bissattini “47 – L’oscurità del Golem” Round Robin euro 16 (in realtà, scontato a 12 euro)
[A: 07/12/2018 – I: 08/12/2018 – T: 13/12/2018] - && e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 316; anno 2018]
Come detto nel tramare il primo libro della trilogia, aspettavo il Bis. Che non si è fatto attendere molto. Ero andato, per pura curiosità, senza molte idee in testa, all’appuntamento annuale della piccola editoria, quel “Più libri, più liberi” che mi fece conoscere anni ed anni fa l’amica Cecilia, ed a cui sono tornato a volte. Trovando però sempre meno interesse e sempre più mercato. Tanta carne a fuoco per gli addetti al settore, ma poco interesse ai consumatori ultimi, a noi lettori senza cui tutto questo castello di foreste amazzoniche abbattute avrebbe poco senso. Prima di uscire però, discretamente deluso, ho voluto fare un salto al padiglione Round Robin dove ho avuto la piacevole sorpresa di trovare Emanuele, il suo nuovo libro, e due chiacchiere senza impegno e molto rilassate. Ecco allora che posseggo il secondo tassello della trilogia, impreziosito da una disgrafica dedica molto gradita. Meno gradito, purtroppo, è stato il libro, che trovo di sicuro inferiore al primo tassello. Non che sia di molto cambiata la scrittura, anche se sono aumentati i periodi come dire, per me, un po’ sospesi. Quelli in cui si sta per dire qualcosa, si sta per fare qualcosa, ma che rimangono nella testa del soggetto agente. Quindi, rinnovo il piacere di leggere un libro di una persona che sa in ogni caso usare la scrittura stessa. Ma la trama, ed il modo di porgerla, si è un po’ involuta. Anche perché, rispetto ad un libro tutto incentrato sulle vicende di Ercole Gatto, sul suo percorso di vita, sulla sua riscoperta delle vicende che hanno portato alla morte del padre, e sul tentativo di vendicarlo, anche con l’aiuto del suo alter-ego, Sigmund il Tedesco, qui si aggiunge questa figura inquietante, Tiberio detto il Golem. La scrittura e la trama si alternano tra i due personaggi, e nel passare al Golem la scrittura stessa diventa difficile, quasi si riuscisse con difficoltà a maneggiare il personaggio. La storia discende direttamente dalla fine precedente, dove il Gatto qui riesce a terminare la sua vendetta, trovando il modo di eliminare il malavitoso colpevole della morte del padre. Inoltre, riesce a far sparire la figlia dello stesso, insieme ad una donna di vita che a lui deve molto. Il cattivone, però, prima di tirare le cuoia, incarica il Golem di ritrovare la figlia, ed ucciderla. Assistiamo quindi ad una corsa contro il tempo, tra il Golem che cerca la giovane, ed il Gatto che cerca il Golem. Anche perché sembra che in un primo tempo Ercole non abbia capito la pericolosità del nuovo nemico. Che il Golem è furbo, oltre che psicopatico. Che il Golem è ammanicato, è forse un ex-poliziotto traviato, o un fuorilegge cui viene ucciso l’amico del cuore. Uno che si tinge la faccia un po’ come “Guy Fawkes” per chi ha in mente “V come Vendetta”. Uno che non esita a far fuori tutti quelli che incontra pur di riuscire nel suo intento. Così fa con i falsari che hanno procurato i documenti nuovi alle due ragazze. Una volta trovate cerca anche di ucciderle, ma riesce solo a tramortire l’ex-prostituta ed a ferire, seppur in modo molto serio, la giovane. Il Gatto, e Sigmund in sottordine, salvano la giovane, ma si trovano poi di fronte ad un problema. Teresa, la donna di vita, si sente in colpa di non aver protetto la giovane, il Gatto gliene fa colpa, e lei pensa bene di farci uccidere dal Golem per espiare. A questo punto, avendo il Gatto raggiunto lo scopo della sua vita, quello di vendicare il padre, si domanda se sia giusto vendicare anche Teresa. Sigmund ne è convinto, e la sua forza morale convince anche il Gatto. Così che si ingaggia una battaglia senza esclusione di colpi per trovare traccia dell’inafferrabile Golem. Riuscirà nel suo intento? Riuscirà ad uscire fuori dalle sue paranoie? Lucilla, la giovane in coma, riuscirà a salvarsi? E che fine farà il lungo inciso con Momo e le battaglie sul ring senza esclusione di colpi (un racconto nel racconto, che forse c’entra e forse no). Beh, questo ve lo dovrete leggere, sapendo che ci sarà anche un terzo tassello, almeno così ci assicura Emanuele. Forse sarà anche l’ultimo, che non bisogna fossilizzarsi in uno stile. Ed io sono d’accordo con lui. Bisogna intanto ritrovare un po’ di fluidità, ma non ne siamo molto lontani. E bisogna convincere l’editore a rivedere meglio il testo, visto che anche qui si trova un piccolo refuso. Un punto in cui un “non voglio” si trasforma in un “nono voglio”. Peccato, che invece i caratteri di stampa, come al solito per Round Robin, sono molto leggibili. Un appunto finale per l’autore. Nella quarta è riportato il dialogo sul numero “47”, che tuttavia non è, come viene detto, “morto che parla”. Nella smorfia originale “47” è “il morto” e “48” è “il morto che parla”.
“Lo so che lo fai per me … Anche io faccio qualcosa per te.” (296)
Ultima trama di marzo, ma anche un salto per le prossime settimane, che ci aspettano Granada e Siviglia e le altre meraviglie andaluse. Spero non soffriate troppo per questa piccola cesura.

domenica 17 marzo 2019

Giornalisit e scrittori - 17 marzo 2019


Maurizio De Giovanni “Buio per i bastardi di Pizzofalcone” Repubblica Italia Noir 4 euro 7,90
[A: 24/06/2016 – I: 25/09/2018 – T: 26/09/2018] - && ---
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 315; anno 2013]
Torniamo ancora ad un altro degli autori più presenti nella mia biblioteca, soprattutto perché me ne innamorai ai tempi del commissario Ricciardi e delle sue storie napoletane degli anni Trenta. Ma torniamo con la sua seconda serie, quella dei Bastardi, che tanto successo ha avuto ultimamente in TV, con l’interpretazione di Alessandro Gassman. Serie che, non avendo tubi catodici, ho bellamente saltato, ma che dicono essere di buon livello (anche se non a quelli insuperabili di Rocco Schiavone). Serie che come dicevo nella trama al primo episodio (o secondo se contiamo anche il Coccodrillo), che si inserisce nel “police procedural”, dove si prende una squadra di poliziotti, e se ne seguono le vicende. Come in quelle, inarrivabili, dell’87° distretto di New York (o come quelle delle serie di Fox Crime tipo CSI, Bones o Major Crimes, che seguo saltuariamente con l’aiuto di Alessandra). Ma qui, purtroppo, il nostro napoletano non riesce a risalire la china che avevo già scorto negli ultimi libri letti e tramati. Come penso i più attenti sanno, le caratteristiche peculiari che distinguono il “procedural” da altri sottogeneri e filoni del giallo sono: la presenza, come protagonista, non di un solo investigatore, ma di una vera e propria squadra di agenti che indaga e risolve i casi in modo corale, di modo che l'attenzione sia rivolta al gruppo di investigatori e non ad un solo ed unico protagonista; la frequente raffigurazione di indagini su più crimini in una singola storia, anche non collegati fra loro. In effetti, la squadra c’è, ci sono alcune storie di sicuro interesse (anche se probabilmente evolveranno soli nei prossimi romanzi), manca il pathos poliziesco. Certo c’è un rapimento, ben congeniato e non altrettanto ben decostruito dai nostri poliziotti. Tutto però immerso in una scrittura poco accattivante, che vaga e divaga, forse troppo. Come in tutti i romanzi di squadra, in questo terzo episodio si cominciano a delineare meglio i vari personaggio. A parte l’iniziatore della serie, il Cinese, di cui ora vediamo anche la figlia fuggita dalla madre oppressiva, ed il suo rapporto tira e molla con una procace procuratore. C’è la sua partner in una micro-indagine su di uno strano furto, la “pistolera” Alex, che ha un colpo di fulmine verso la dottoressa di medicina legale (abbastanza ricambiato, mi sembra). C’è Pizzottelli, l’anziano del gruppo, presente anche quando c’erano i veri Bastardi, quelli dediti alla droga. Memoria del quartiere ed in lotta con un cancro che lo sta portando via, ma dove vuole chiudere la sua ultima indagine, su dei suicidi che lui (e anche noi) non pensiamo lo siano. Ci saranno significativi passi avanti in questo ramo di indagine, ma per questo capitolo non si trova ancora l’omicida né il cancro vince la sua battaglia. C’è Romano, il manesco, quello che stende i sospettati a suon di sberle per farli cantare. Ma è manesco anche a casa, tanto che la moglie lo sta lasciando e lui sta andando fuori di testa. C’è Andreozzi, il bello, quello che vive in albergo per che non campa con lo stipendio, ma ha di suo. C’è Barbara, anche lei reduce dal gruppo precedente, maga del computer, con un figlio autistico, un marito poco presente, ed un tormento interiore, financo una piccola cotta per il capo. E quindi c’è Palma, il capo, vicino alla pensione, vedovo, con figlio lontano, che sta meglio in ufficio che solo in casa. E che la notte gira per vedere Barbara a passeggio con il cane. Vedremo cosa ne tirerà fuori il nostro Maurizio. Qui intanto tira fuori il rapimento di un bambino della Napoli bene, con una famiglia scoppiata alle spalle: nonno ricco e camorrista, madre rifatta e con giovane boy-friend, padre tornato al Nord, dove lavora nel mattone, ma che non campa senza i soldi del nonno. Ci sono i soliti (per me insopportabili) intermezzi in corsivo con i tormenti del piccolo Edoardo, con i rapporti con i suoi carcerieri, con il pupazzo che gli ha regalato il padre, con i pensieri che il padre lo verrà a salvare, con il buio (quello del titolo) che incombe, con i carcerieri slavi che si capisce subito essere etero-diretti. Insomma, una facile storia da tenere in sottofondo. Che si intreccia con la falsa rapina cui indaga il Cinese, che di rapina ha solo gli assegni a strozzo del padrone di casa. Per far quadrare il cerchio, il Cinese trova gli assegni, che sono intestati, guarda caso, a qualcuno coinvolto nella famiglia Bertelli. Chi, lo scoprirete se vi va di leggerlo. O lo capirete ben presto da accenni, e non vi dico quali, presenti già fin dall’inizio. Ma i Bastardi non sono di certo all’altezza del commissario Ricciardi, anche se infinitamente meglio dei Guardiani. Lascio il dubitativo sulla serie (potenziale) di Sara. Perché ormai De Giovanni si è imbarcato in una impresa alla “Cussler”. Dopo una storia di successo, altre storie, derivate direttamente o solo come tipologia, con episodi di lancio. Se vanno bene si prosegue. Se no, alle ortiche. Speriamo che i Bastardi migliorino. E che le altre serie, affondino.
Pietro Del Re “Giallo Umbro” Repubblica Italia Noir 30 euro 7,90
[A: 20/12/2016 – I: 30/11/2018 – T: 02/12/2018] &&& -
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 268; anno: 2012]
Sarà un caso, ma spesso i giornalisti di Repubblica hanno una loro vita (anche) come scrittori. Penso ovviamente al più famoso, Piero Colaprico (caporedattore a Milano), ma anche a Massimo Lugli (cronaca nera) o Valerio Varesi (della redazione di Bologna). Qui abbiamo l’esordio nel genere poliziesco di Pietro Del Re della redazione esteri, per la quale ha seguito per anni i conflitti intorno al mondo. Ma non ha dimenticato la laurea in biologia, ed il suo amore per gli animali (cui aveva già dedicato un libro). Benché romano, si senta nelle pagine la propensione verso i monti e le colline umbre, in special modo nei dintorni di Càmmoro, laddove molta parte del libro si svolge, in un triangolo di verde bellezza tra Foligno e Spoleto. Lì viene trovato da Peppe Brandi, un cacciatore locale, il cadavere di una ragazza, con accanto quello di un lupo. Da qui nasce il romanzo, visto che per analizzare il lupo ed i suoi comportamenti, viene coinvolto il professor Agostino Gatti, bioetologo di fama, profondo conoscitore di tutti i lemuri del Madagascar. Un simpatico signore di mezz’età, cui viene chiesto di capire se e come ci fosse stata interazione tra animali e cadaveri, visto che entrambi poi erano stati dilaniati post-mortem da cinghiali selvaggi. Mentre quindi da un lato procede l’indagine ufficiale della polizia, Gatti e Brandi decidono di intraprendere una loro indagine parallela, coinvolgendo il terzo elemento del loro trio di affiatati e scompaginati amici: Raniero Ranieri, nobile architetto gaudente e gay. I motivi che spingono i tre alla ventura, sono anche legati al fatto che la morta, Domitilla Rinaldi, figlia di un famoso notaio perugino ben noto a Gatti, era anche amica molto stretta di Beatrice, figlia non tanto frequentata dello stesso Gatti. Il professore, oltre ai lemuri, è anche un ottimo conoscitore della fauna e della flora locale, esperienza che utilizza per mettere su alcuni mattoncini dell’indagine. O meglio per eliminarne alcuni, che il comportamento degli animali non è come quello che vorrebbe la polizia, la quale spera che siano stati i lupi o i cinghiali a perpetrare il massacro. La pattuglia degli indagatori si completa al fine con Benedetta, la compagna di Peppe. Così tra un andar per boschi e pantagrueliche mangiate contadine (con Gatti che mi sta simpatico per il suo essere un po’ sovrappeso), i nostri investigatori dilettanti cominciano a scoprire piccole cose. Trovano lo zaino di Domitilla, trovano peli strani per il bosco, che non sono animali ma neanche della ragazza. Con il progredire delle notizie accumulate, parte delle indagini si trasferisce a Roma. Prima da Beatrice, che indirizza le indagini del padre verso l’ambiente delle foto osé che Domitilla aveva iniziato a fare posando per un quasi sessantenne guardone milanese, il dentista dottor Marco Narduzzi. Poi da Giulia, amica del cuore di Domi nonché fidanzata di Narduzzi, che abita in vicolo del Moro a Trastevere. Piccola parentesi personale, che ben conosco quella stradina, a soli 200 metri dalla casa natale di mio padre. Ma torniamo alla storia. Tutta una serie di indizi porterebbero ad indicare Narduzzi come autore del delitto. Ma il dentista ha un alibi, essendo in locali, seppur umbri, con la fidanzata Giulia. Le indagini ufficiali intanto si vanno concentrando su diversi possibili altri sospetti. Un marocchino (come tutte le persone di colore, peccato che l’inquisito sia invece egiziano) spacciatore di droga, che potrebbe averne fornito (o che lo ha fatto) delle dosi mal tagliate a Domi. Lo scemo del villaggio, che qualcosa ha visto ma, essendo scemo, è di difficile interrogatorio. O Paolo l’eremita, che non ha mai toccato una donna, ma che nel suo eremo contadino ha pareti tappezzate di foto porno. I nostri invece, ognuno utilizzando al meglio le proprie caratteristiche, puntano su Narduzzi ed il suo entourage galante porno. Raniero lo aggancia tramite i suoi contatti mondani, Beatrice si fa adescare per cercare di capire lo svolgersi della notte, Gatti e Brandi si mettono sulle tracce di Giulia per capire se l’alibi regge. Non tutto sarà come sembra, ma i nostri non potranno che arrivare alla soluzione dell’enigma. Fornendoci un racconto gradevole nei personaggi e nell’ambientazione. Spiace solo qualche tirata di troppo sul versante animale, non che guasti in sé, ma a volte per seguire le parole di Gatti si perde il filo del discorso ed il ritmo del racconto. Anche perché il buon Agostino riesce a coinvolgere nei suoi discorsi i lupi, gli orsi e i cinghiali degli Appennini, il dodo delle Mauritius e il lemure del Madagascar, il leone, il cavalluccio marino, il varano, l’aquila e la cinciallegra, le mosche dei tartufi, nonché il gatto del deserto cinese. Una storia, tuttavia, che alla fine riconcilia con gli ambienti centro-italici, che sono tra l’altro a poco più di un’ora di strada tortuosa dalla mia amata Soriano. Città su cui torneremo in altri contesti. Mentre torneremo a leggere gli articoli esteri di Del Re.
Flavio Santi “La primavera tarda ad arrivare” Repubblica Italia Noir 18 euro 7,90
[A: 28/09/2016 – I: 05/12/2018 – T: 06/12/2018] &&& --
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 301; anno: 2016]
Prima scrittura da me letta di Flavio Santi di cui conosco le doti di traduttore (mi è capitato di leggere una sua traduzione di Wilbur Smith) e so, ma non conosco, che è anche poeta. Ma soprattutto è un friulano doc. Che ama profondamente la sua terra, il territorio come direbbe uno dei suoi numi, Carlo Petrini di Slow Food, e qui ce ne ripropone due elementi fondamentali: il frico, un piatto a base di formaggio di varie stagionature, patate e cipolla, e il tajut, un bicchiere di vino rigidamente da un decilitro. L’altra passione è ovvio sia il calcio, l’Udinese in particolare, ed il suo grande nume Arthur Antunes Coimbra detto Zico. Detto questo per caratterizzare lo scrittore, veniamo ora al testo che, per l’appunto usa il giallo così come vorrebbe Umberto Eco: “Il giallo nasce da una profonda esigenza conoscitiva: vogliamo capire il perché delle cose … è un’immensa distilleria di scrittura: c’è la costruzione della storia, la suspense, i personaggi, l’ambientazione, la psicologia …”. Quindi impariamo a conoscere Drago Furlan, ispettore, non commissario (che non è Montalbano, come sottolinea: “Non sono commissario ma ispettore, la differenza è la stessa che c’è tra infermiere e medico, a pulir la merda ci mandano l’infermiere, a prendersi l’onorificenza di cavaliere del lavoro mandano il medico”. Con le identiche passioni dell’autore, ed il nome che deriva dalla passione del padre per un mitico calciatore jugoslavo, Dragan Džajić, quello che vidi segnare nella prima finale dell’Europeo del 1968 contro l’Italia (una delle tre partite che ho visto allo stadio in vita mia). Drago ed il suo aitante Orfeo Moroder vengono coinvolti in un caso di omicidio. Cosa ben rara in quel di Montefosca, dove appunto Furlan è più dedito ad elevare multe che risolvere omicidi. Anche perché del morto non si sa nulla. E faremo fatica a saperne, che tutta la prima parte serve più a caratterizzare l’ambiente e Furlan, aggiungendo ai caratteri di cui sopra la passione per la sua Moto Guzzi, l’amore (lento ed un po’ ondulante) con Perla e la mamma oppressiva come tutte le mamme furlane (e non solo). Tra visite in montagna, passaggi in osteria e giornate prese a pensare come sfuggire alla mamma, Drago comincia a fare qualche passo avanti. Collegamenti ed agnizioni vari il caso del morto ignoto lo porta dalla tranquilla Cividale, prima a Lignano, poi in Baviera, per terminare in un paesino friulano dell’entroterra su cui torneremo. Così, dall’inizio ironico e giocosa, la ricostruzione dell’identità del morto porta l’atmosfera ad incupirsi, porta il territorio a tirar fuori storie che sembrano sepolte e dimenticate. Si scopre che il morto è un tedesco, di nome Gottlieb von Petrus, per anni in vacanza a Lignano dove incontra tal Ermes Sberz, fascistone e sodale di Gottlieb durante la Guerra. I due cominciano a scambiarsi cartoline natalizie, ma quando Sberz ha un ictus le stesse vengono recapitate all’unico che se ne prendeva cura, il maestro Cesare Bujat. Ma Cesare era antifascista anche se non partigiano (classe 1936). Incuriosito dalla strana corrispondenza, scava nella memoria sua e dei luoghi, risalendo ad una strage dimenticata proprio in quel paesino suddetto: Avasinis. Il 2 maggio 1945, uno squadrone tedesco in ritirata, comandato da von Petrus, passando per Avasinis uccide 51 abitanti, compresi donne e bambini, pare senza motivo alcuno. Dalla ricostruzione dei fatti, si uniscono i puntini della vicenda, puntini che riaprono vicende che la memoria dei sopravvissuti (giustamente) non chiuderà mai. La parte finale riserva ancora qualche sorpresa che lascio ai lettori scoprire e gustare. Io torno a sottolineare la verve di Santi, il gusto dell’intreccio, la nascita di storie parallele (di cui neanche parlo che sarebbero dispersive). Per chi ha letto “Morte di una gazza ladra” di Emilio Martini troverà degli echi con il racconto nel racconto del vicequestore Berté. Altri acuti lettori, capiranno le parentele non tanto con Montalbano (anche se Livia e Perla si danno la mano) quanto con l’ambiente di Pineta di Malvaldi o con quello di Bellano uscito dalla penna di Vitali. Ma tutti noi sappiamo che scrivere è riscrivere, perché dopo la Bibbia, l’Iliade e l’Odissea tutto è una copia. Io, che non so scrivere, ma so leggere comunque ne sono moderatamente contento. Uscendo magari con un digestivo tipo una grappa monovitigno di Ribolla. Potremmo vedere di non lasciare andare Santi nel dimenticatoio (anche se quella partita dell’Udinese…).
“Pur non conoscendo l’opera di Claude Lévi-Strauss … mettevano in pratica la lezione dell’illustre antropologo: il cibo come massima espressione di cultura.” (196)
Gianfrancesco Turano “Contrada Armacà” Repubblica Italia Noir 17 euro 7,90
[A: 20/09/2016 – I: 14/12/2018 – T: 17/12/2018] && --
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 329; anno: 2016]
Non è che sia un brutto libro, né che sia scritto male o altro. Avrebbe senz’altro meritato più e meglio se fosse stato concepito e realizzato in altro contesto, credo. Turano è un ottimo giornalista d’inchiesta, cresciuto tra “Il Mondo” e “L’Espresso”, specializzato in vicende economiche e finanziarie, che però non dimentica né la sua terra calabra né il suo vissuto in quelle terre. In questo che dovrebbe essere un giallo, inserito nella generalmente interessante collana “Italia Noir” di Repubblica, ci porta proprio in Calabria. Anzi a Reggio Calabria. Anzi a Contrada Armacà, piccola strada tra la ferrovia e il mare, da dove si vede a occhio la Sicilia e Messina. Tuttavia, invece di un giallo classico (e poteva farlo, con la storia che imbastisce tra le righe) si lancia in un lungo pamphlet sulla malavita calabra, sulla ‘ndrangheta, e sulle sue ramificazioni locali, nazionali e internazionali. Non dico non siano interessanti, né che non siano documentate e piene di rimandi e riscontri. Ma se volevo un libro sulla ‘ndrangheta avrei comperato un libro sulla ‘ndrangheta. Se proprio Turano voleva inzeppare una storia “bassa” con un racconto “alto” di corruzione e malaffare, poteva ancora farlo. Ce n’erano i presupposti, si poteva seguire la storia e farne degli esempi o delle chiarificazioni in corso d’opera. Invece, pur cercando di portare avanti la piccola storia di bassa criminalità, infarcisce ogni capitolo di lunghe digressioni sulla ‘ndrangheta. Non solo, ma com’è ovvio per una persona documentata, su come la ‘ndrangheta abbia sfidato e vinto lo Stato, su come si sia infiltrata al Nord, su come si sia ramificata, differenziata, e diventata quasi una lobby finanziaria ed economica a tutti gli effetti, a partire dai famosi moti di Reggio del ’70, quelli di Ciccio Franco e del “Boia chi molla”, alleandosi, dividendosi, facendosi guerra. Le lunghe premesse di ogni capitolo permettono a Turano di afre questi excursus, sulla storia della ‘ndrangheta, sulle ‘ndrine, sugli omicidi eccellenti, a partire da quello del magistrato Antonio Scopelliti, che segnò agli inizi degli anni ’90 un’alleanza tra Cosa Nostra e la ‘ndrangheta. Ma dove, secondo Turano, fu proprio la ‘ndrangheta in seguito ad avere la meglio. Anche perché, mentre Cosa Nostra vantava legami esteri forti, ma datati (si risalirebbe alla liberazione del Sud italiano durante la Seconda Guerra mondiale, ed al ruolo di Lucky Luciano e Vito Genovese), mentre la ‘ndrangheta ha legami attuali, ad esempio, sempre secondo Turano, avendo favorito e/o permesso l’invio di armi tra USA e rivoltosi a vario titolo del mondo asiatico pre e post Bin Laden. Come vedete, ci sarebbe tutta da leggere la storia della “mafia” (uso le virgolette perché anche sulla parola stessa ci sarebbe da discettare a lungo) ed altro ancora. Dato che, seppur non provati giuridicamente, legami forti ci sono tra malavita organizzata e potere politico. Ma qui dovremmo parlare di altro, non di malaffare. Torniamo quindi ai piccoli spunti che permettono a Turano di parlare d’altro. La storia cioè del sessantenne Malara, ex-insegnante di Educazione Fisica, professore di molti ora malavitosi o quasi. Della morte, una ventina d’anni prima della storia attuale, del figlio, ucciso per uno sgarbo di centomila lire. Della morte attuale del nipote Rosario, ucciso in un agguato perché vicino ad una corrotta dirigente del comune, a sua volta giustiziata per qualche sgarbo poco chiaro. Malara, che sembra molto onesto, ma forse no, coinvolge un suo ex-studente nonché amico del figlio, tal Fortunato Amato detto Natino, nelle indagini. Natino, ex-praticante di studio ora fotografo e organizzatore di book per matrimoni e funerali, ha molti contatti, conosce molto della malavita. Ha anche un grosso pendant verso il lato femminile, dove vediamo prima circuire l’ex di Rosario, poi andare spavaldamente a letto con una o più “fimmine” di poco costume. Infine, prendersi anche di Natalia, una quarantina che ha un lungo rapporto proprio con Malara. Nel tentativo di chiarire le morti di Michele Malara e di Rosario, Natino si invischia in situazioni complesse, coinvolgendo poi anche Natalia e suo figlio Basilio. La fine, che fine non è, vedrà sparire, senza che si sappia come né perché, Malara, Natalia e Basilio. Scappati in Ucraina? Uccisi di malavitosi? Rimane Natino, con le sue ubbie ed i suoi dubbi e le sue finte rivolte. Ma non si comprende come vada a finire. Forse Natino fuggirà in Spagna con una nuova signorina. Forse morirà. Forse… Insomma, una storia senza mordente e soprattutto senza conclusioni. Ma forse era questo il tentativo finale della storia gialla. Che la ‘ndrangheta ancora c’è e governa. Che forse è meglio che Turano dedichi le sue ottime capacità al giornalismo d’inchiesta.
Ecco allora che anche in questo mese di marzo ci pregiamo di allegare altre informazioni librarie, questa volta dedicata anch’essa a libri di genere, da godere magari quando farà un po’ più caldo (e lo capirete dai titoli).
Invece l’Andalusia va, ed anche forte. Ora ci dedichiamo alla sua organizzazione, ad organizzare i viaggi che verranno e la campagna che c’è ed è sempre più attirante. 

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
MARZO 2019
Riprendiamo a parlare di libri “felici”, con una piccola anticipazione dell’estate che verrà.

CUBETTI DI GHIACCIO PER BRIVIDI ESTIVI

L’afa estiva non ti fa respirare? L’aria condizionata è rotta? Perfino il ghiaccio nel vostro drink si è sciolto prima di tintinnare nel bicchiere? Vi offro come rimedio naturale un paio di letture da brivido, due thriller al femminile ambientati d’estate che avranno l’effetto di altrettanti freschi cubetti di ghiaccio. Sono ideali per rinfrescare le idee, ammazzare la noia e risollevare l’umore, trovando riparo dal sole con un’immersione nelle zone d’ombra dell’animo umano.
Estate assassina è il primo romanzo pubblicato in Italia da Gilda Piersanti, scrittrice che da vent’anni vive in Francia dove la serie di libri dedicata alle indagini dell’ispettore Mariella De Luca ha riscosso molto successo. In un afoso agosto romano la protagonista si trova costretta a indagare su inquietanti omicidi collegati da una fitta trama di richiami artistici, mitologici e archeologici. Sullo sfondo di un’assolata Roma, è un incalzante noir che vi inchioderà alla sdraio. Il ghiaccio del vostro drink si scioglierà perché vi dimenticherete di bere.
Una lunga estate crudele di Alessia Gazzola è il quinto romanzo della fortunata serie con protagonista Alice Allevi, giovane specializzanda in medicina legale. Solare, pasticciona, sfortunata in amore, con la passione dello shopping e il pallino per l’investigazione, Alice è l’opposto della tradizionale figura ombrosa e tormentata dell’investigatore. Praticamente è Bridget Jones ma con le doti di Sherlock Holmes. Curiosa brava a risolvere enigmi, è chiacchierona, assillante e combina immancabilmente qualche guaio, ma senza di lei moli casi rimarrebbero irrisolti. Come l’omicidio su cui si trovai a investigare in questo romanzo: in una Roma immersa in un caldo atomico, il ritrovamento del cadavere di un attore morto ventiquattro anni prima mette in moto un’intricata indaghi nel mondo del teatro. Per Alessia Gazzola il giallo è solo un pretesto per raccontare le storie di Alice e il suo percorso di crescita tra lavoro, amore e un po’ di mistero. Una lunga esta crudele è una lettura fresca e divertente, gradevole come sorseggiare una limonata ghiacciata.

Commenti

Non ho ancora letto nulla di Gilda Piersanti, e si vedrà se e quando. Mentre di Alessia ho la librografia completa. Compresa questa estate lunga, forse un po’ troppo.
Alessia Gazzola “Una lunga estate crudele” TEA euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[pubblicato il 25 novembre 2018]
Mi incuriosisce capire perché l’esimia Giulia Fiore lo metta tra i libri che potrebbero renderci felici. Intanto, per me è solo un nuovo capitolo della saga dell’allieva anatomo-patologa Alice Allevi (ricordo che in un mio precedente scritto avevo sviscerato l’uso di mono-lettere per i suoi personaggi). Un serial che prosegue con una sua scrittura di facile presa, con un buon successo di vendite, anche sostenuto dalla serie televisiva, con la nostra Alice interpretata da Alessandra Mastronardi. Purtroppo, però, dopo le prime prove più interessanti, questo quinto libro si trascina un po’, certo mescolando al solito pubblico e privato. Ma Alice non ha più il piglio arrembante da allieva di Tempe Brennan (ricordo che, nel mio immaginario, niente mi toglie dalla testa fino ad ora, che questo sia un tentativo di fare un “Bones in salsa di pomodoro”). Tra l’altro, il lato pubblico, quello dell’indagine, è molto diluito, non ci vengono date più le notizie su come, su cosa, su ricerche che Alice (ma forse sarebbe meglio dire il suo capo Claudio) effettua sui morti. Con un prologo ed un epilogo che spiegano tutto quello che c’è da spiegare e capire 8tanto che forse li avrei eliminati; leggi questi e lasci perdere le restanti 300 pagine). In una stanza segreta di un teatro di periferia dedicato al teatro shakespeariano (un po’ come il Globe Theatre di Villa Borghese) viene trovato un corpo. Si tratta di Flavio, un attore scomparso una ventina di anni prima. Attore promettente, molto gay ed un poco etero. La compagnia del tempo si sfasciò, ma non Sebastian, l’altro attore promettente, che invece sfonda. Ed è da lui che l’ispettore Calligaris parte, portandosi a rimorchio la nostra Alice. Si scava nella vita familiare di Sebastian, con moglie Stella, figlio Matteo e tata Nicole. Flavio era gay ed innamorato di Sebastian, che stava un po’ qui ed un po’ lì. Nel cast c’era Diana, innamorata persa di Flavio, con cui andò a letto e generò una figlia. Poi anche Diana entra in depressione, cerca di risalire la china teatrale, ma l’ostruzionismo di Sebastian le sbarra la strada. E lei si uccide. Come si era uccise una giovane promettente attrice, anche lei sedotta e abbandonata da Sebastian. Poi qualcuno tenta di uccidere Stella, ma non porta a termine il lavoro. Poi Nicole sparisce. Ma da metà romanzo si poteva capire che Nicole era proprio la figlia di Flavio e Diana. Ma chi ha ucciso veramente Flavio con il cianuro? Sebastian spaventato dall’avventura gay o Diana imbestialita dall’essere abbandonata? Questo ve lo lascio scoprire se volete leggere quelle decine di pagine di cui sopra. Il resto, magari un po’ più polposo, anche perché così meglio si addice alla televisione, con quell’andatura tipo “Tutto può succedere”, è la storia delle persone. La solita Alice sempre presa dalla sua vita sentimentale. Un po’ circuita dal perfido (sentimentalmente parlando) Claudio, che vorrebbe con lei solo una storia di sesso. Allettata da un nuovo personaggio, il tossicologo Sergio (quello che scopre il cianuro), un quarantenne (almeno) divorziato con figlia ed una casa da sogno a Filicudi. Gentile, poco invadente, sicuro della sua età e dei suoi comportamenti signorili, ma senza quell’afflato di passione che potrebbe permettere ad Alice di lanciarsi in nuove avventure. Poi c’è sempre l’Innominabile, l’amore profondo di Alice, Arthur che l’ha miseramente lasciata in precedenti libri, per fare il corrispondente di guerra. E che qui ritorna, provato da un’esperienza a Gaza e con il compito di riportare la piccola Nur al padre emigrato a Spoleto. Arthur che sembra rientrare dalla finestra dopo essere uscito sbattendo la porta. Che chiede di tornare in Italia, e che ne vedremo delle belle (credo) nelle prossime puntate. Sesso, sicurezza o amore? Cosa sceglierà Alice? Per ora, attraversa tutta la storia sempre un po’ tirata qua e là dagli avvenimenti. Ci sono poi i “caratteristi” di contorno: la coinquilina Cordelia (sorellastra di Arthur), aspirante attrice, nonna Amelia, con le sue belle parole ed il suo spigliato carattere, l’ispettore Calligaris, sempre pronto a coinvolgere Alice nelle indagini, e la nuova entrata Erica, una dottoranda molto preparata che credo troverà più spazio nel futuro. Tuttavia, le due parti non sono bilanciate, come dicevo. E la confezione finale non porta i frutti che ci si poteva aspettare. Ultimo carattere distintivo degli scritti di Alessia sono le epigrafi posti a mo’ di titoli dei vari capitoli. Anche qui, con un tentativo di indirizzare la lettura “a chiave”, ma che non sono particolarmente significativi, a parte l’unico che riporto sotto come frase che rimane alla mente (anche se non è della penna di Alessia). Aspettiamo tempi migliori, anche se le parti teatrali, sia di Shakespeare, ma soprattutto le frasi di Yasmine Reza, sono apprezzabili.
“I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo (Fernando Pessoa)” (243)

Finalino

La buona Alessia continua a scrivere in modo “televisivo” e noi ci godiamo i suoi libri per aspettare il prossimo caldo.




domenica 10 marzo 2019

Gli ultimi PAS - 10 marzo 2019


Nel senso degli ultimi quattro libri dedicati dalla storica Danila a Publio Aurelio Stazio detto PAS (da me per ricordarmene nei miei appunti). Ho sentito che sia uscito un diciannovesimo volume, ma per ora ne facciamo a meno. Un livello di lettura interessante, con alcune idee per spunti storici non banali. Un quartetto di media intensità, il 15° volume un po’ sopra gli altri.
Danila Comastri Montanari “Nemesis” Mondadori euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 23/11/2016 – I: 30/10/2018 – T: 31/10/2018] && +
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 247; anno: 2007]
PAS 14
Dopo un anno e mezzo circa, eccoci di nuovo qua, ad occuparci della 14° avventura di Publio Aurelio Stazio, e della sua settantenne creatrice, la bolognese Danila Comastri Montanari. Come certo ricorderete, questo serial in questo format mi ha sempre affascinato. Per la buona resa delle descrizioni storiche dell’autrice e per un fondo di simpatia che lo scanzonato senatore romano porta con sé in tutte le sue avventure. Chi si fosse distratto avrà ora una buona occasione per rimettersi in riga. Il nostro senatore nasce a Roma il 4 novembre del 3 d.C., va soldato nelle legioni introno ai 23 anni (ed in questo episodio dirà ad un certo punto di aver prestato servizio sul Reno con la legione XIV Gemina). Intanto sui sedici anni aveva conosciuto il claudicante ed allora poco vistoso Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico, che fu suo maestro d’etrusco. Sfuggito alle congiure di Caligola, quando il suo amico assurge al rango di Imperatore nel 41, anche Aurelio fa la sua scalata nel cursus honorem. Il nostro Publio Aurelio Stazio poi ha due passioni: le donne e la soluzione dei misteri. Ad un certo punto sposa la bella Flaminia, ma la morte del figlio in fasce li allontana, divorziano nel 34, e non si incontrano più. Il senatore ha al suo servizio il greco Castore dal 31 d.C., ed è un sodalizio di mutua convenienza. Infine, c’è la simpatica non che “over size” Pomponia, la cui memoria ed ampia conoscenza dei fatti romani spesso aiuteranno il nostro senatore. Lo spunto del romanzo questa volta viene da lontano, e da ambienti militari, che non sempre sono consoni ad Aurelio. Intorno alla metà degli Anni Venti la Legio III Gallica dislocata in Asia compie massacri su civili inermi, che essi sospettano sostenere surrettiziamente i Parti, in lotta con Roma per la conquista dell’Armenia. In quella battaglia, tra l’altro muore l’erede di Gaio Ulio Papilione detto l’Asiatico, ragazzo debole che il padre militare e rude voleva fortificare con la vita militare. Tuttavia, la strage non fu completa, che c’è una ragazzina superstite, che ora, e siamo nel 47 d.C., cioè circa 22 anni dopo l’eccidio, compare in Roma, nascondendosi sotto il nome di “Nemesis”, un nome greco che etimologicamente significa “Giustizia Riparatrice”. Nemesis, comunque, in quel di Roma cerca i caporioni dell’eccidio di cui sopra, per vendicarsi. Ma, essendo straniera e donna, non ha facilità di manovra, così che, approfittando di momentanei sbandamenti religiosi di Pomponia, l’amica di Aurelio, la rapisce in modo che possa costringere Aurelio ad aiutarla nella ricerca, se non nella vendetta. Aurelio, che un rapido calcolo ci porta ad uno splendido 44enne, è ben presto coinvolto nella rete di Nemesis, anche dal punto di vista fisica, che non sia mai si sottragga ad una bella donna ed alle sue lusinghe. Tanto che ne capisce il punto di vista vendicativo, pur non approvandolo. Si mette allora, e questa volta in solitaria, a cercare le persone, i caporioni dell’eccidio. Tuttavia, li trova sempre che sono appena morti. Aurelio comprende quindi che “c’è del marcio nel Caucaso”. È vero Nemesis cerca gli autori dell’eccidio, ma forse l’eccidio serviva a nascondere qualcosa altro. Una morte? Un altro assassinio? Di certo bisognerà andare a fondo tra i reduci di quella legione. Cosa che farà, anche con l’aiuto di Castore, per portare a termine un’indagine abbastanza ben congeniata. Al solito, l’abilità della brava scrittrice è nel riportarci senza sbavature negli usi e nei costumi di quella Roma. Con i fasti gladiatorii, con i banchetti, financo con le minuzie del quotidiano: le domus dei patrizi, gli schiavi, le ancelle, le terme. Queste sono poi le qualità che fanno di una saga già abbastanza lunga, il piacere di continuarne la lettura. Che ogni volta c’è uno spunto, un nuovo rimando a temi da approfondire. L’impero di Claudio e della sua dissoluta moglie Messalina. Oppure i divorzi, che erano molto più sviluppati di quanto sembri ora. Insomma, si legge con piacere, anche se talvolta scivola via in punti poco coinvolgenti. Come le digressioni sulle paturnie dell’amministratore di Aurelio, il pavido Paride. Ma una quasi sufficienza la merita. Come merita che se ne legga ancora.
Danila Comastri Montanari “Dura Lex” Mondadori euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 23/11/2016 – I: 22/11/2018 – T: 23/11/2018] &&& +
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 247; anno: 2009]
PAS 15
Eccoci allora, a poca distanza dal precedente, ad intraprendere un nuovo viaggio nell’antica Roma, con il senatore Publio Aurelio Stazio sempre in primo piano e guidati dal nostro mentore, la “storica” Danila. Questa volta il nocciolo della storia sembra porre l’accento sulle credenze e sui riti legati alle morti infantili nell’antica Roma. Certo non doveva essere facile riuscire a superare i primi anni di vita in ambienti non particolarmente salubri, e con delle cure neanche proprio pediatricamente efficaci. Inoltre, come spesso accadeva nell’antichità, a questo si sovrapponeva l’ignoranza e la superstizione. Ma prima di entrare nel vivo della trama, bisogna rilevare una piccola incongruenza tra la datazione interna di questo libro e del precedente. Entrambi si scrive si svolgano nel 47 d.C. (e questo ci può stare che se fossimo nell’anno seguente saremmo nel pieno della crisi tra l’imperatore Claudio e la dissoluta moglie Messalina), ma viene detto nel precedente di essere nell’anno 802 a.u.c. (cioè ab Urbe Condita, pari al 753 a.C. nella tradizione storiografica). Mentre in questo, correttamente, ci si riposizione all’800 a.u.c. Piccole curiosità da ricercatore. Venendo al testo, il motore primo della vicenda, nonché delle indagini del nostro amico senatore Publio Aurelio Stazio, sono le misteriose morti che avvengono in culla per piccoli eredi dell’aristocrazia romana. Muore Sempronino Floriano figlio di Flavia Flora appartenente alla gens Bulba. Muore Postumo figlio di Dalmatica, cognata di Gaio Glabro della gens dei Gavilii Barbati. Flora accusa subito della morte del figlio il figliastro Bulbo Sempronino Gratiano detto Bulbillo, giovane di poco nerbo, che viene difeso solo dalla nonna, Urania Primigenia. La quale, benché ancora piacente pur se non più giovanissima, fu in gioventù di Aurelio una sua fiamma. Proprio nella villa dei Servili, i grandi amici di Aurelio, che si scatenano le diverse trame. Urania chiede ad Aurelio di difendere Bulbillo e Dalmatica scopre la morte di Postumo (chiamato così perché il padre fu costretto al suicidio dal nonno poco tempo la nascita del figlio, in quanto fuggito dal campo di battaglia, ed accusato quindi di codardia). Mentre si affanna nella ricerca di comprendere la morte del figlio di Flora, e viene di striscio coinvolto anche nell’indagine su Postumo, c’è un terzo delitto che scuote Roma. La nutrice Isaura è accusata della morte del picco Appio Accio. Si sta già inscenando il processo, dove Isaura dovrebbe essere difesa da Statilia Vespilla, avvocatessa idealista e piacente, che però non può esercitare nel Foro in quanto donna. Sarà il nostro Aurelio che l’aiuterà, riuscendo a discolpare Isaura, ma scoprendo allo stesso tempo un filo, logico se non fattuale, che comincia ad illuminargli la strada per la risoluzione dei diversi casi. Ovvio che la nostra brava scrittrice non perde occasione di complicare una trama già di per sé complessa, inscenando alcune vicende laterali, che servono a mettere sempre più in difficoltà Aurelio. Lui e la sua amica Pomponia hanno un fiero diverbio, che costringe Aurelio a non poter chiedere aiuto alla sua più grande amica. Inoltre, gli schiavi della sua casa, istigati dal segretario Castore entrano in sciopero per rivendicazioni di minor entità, ma che sconvolgono la domus Aurelia. Infine, il perfido collega senatore Lentulo (che probabilmente Aurelio aveva pesantemente cornificato) è deciso a fare di tutto per espellerlo dalla Curia. Perché, tornando a quanto sopra, il filo delle morti è la parentela, più o meno lasca, dei vari attori della commedia. Ma se Isaura, da brava madre, non avrebbe mai potuto uccidere Accio Junior, che si scopre in effetti essere figlio del suo seno, forse non si può aspettare altrettanto da Dalmatica, che odia profondamente il figlio avuto da gente che non ama, che non la rispetta e da cui è trattata solo come una serva? Il mistero rimane, e sarà un bellissimo “orologio ad acqua” (come quello presente a Villa Borghese, che vi prego di andare a vedere) a portare Aurelio sulle tracce delle modalità dell’uccisione di Postumo. E sempre seguendo i fili dei suoi ragionamenti, sempre indagando andando a vedere i luoghi delle morti, troverà il bandolo della matassa anche della morte di Sempronino. Le vicende, in realtà, sono ben complicate, che coinvolgono anche problemi ereditari, l’impossibilità delle donne di entrare in possesso dei beni di famiglia, ed altre belle e complicate usanze, cui la nostra brava scrittrice ci porta a conoscenza e ce ne fa decifrare pregi e difetti. Non vi dirò come anche gli altri punti andranno alo loro posto. Né se la bella Statilia avrà modo di avere qualche incontro ravvicinato con il nostro galante Aurelio. Un’ultima cosa da citare prima di chiudere anche questa storia. Lasciando Urania, che rimane scottata dalla soluzione del mistero legato a Bulbillo, e che gli chiede cosa sarà di lei, Stazio risponde con la mitica frase di Rhett Butler in “Via col Vento”: “Francamente, me ne infischio”. Una citazione degna del contesto e del nostro Senatore. Insomma, al fine, una trama ed uno svolgimento decisamente superiore al precedente, e non a caso premiato con maggior voti.
“Il falso è uno che quando incontra i suoi nemici si mette a parlare con loro e non mostra il suo odio; loda in faccia chi ha fatto a pezzi alle spalle” (141)
Danila Comastri Montanari “Pallida Mors” Mondadori euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 23/11/2016 – I: 26/11/2018 – T: 27/11/2018] &&& -
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 321; anno: 2013]
PAS 17
Dicevamo dei grappoli di storia, ed ecco allora, subito legato al precedente, un nuovo episodio della saga del senatore Publio Aurelio Stazio. In realtà, c’è un episodio in mezzo, il sedicesimo, che tuttavia è stato il primo che ho letto nella lunga frequentazione con la scrittrice bolognese, e ci cui parlai circa cinque anni fa. Quel libro era un intermezzo, essendo Stazio in trasferta nella regione dei Parti. Qui, invece, siamo di nuovo nella mia amata Roma, anche se i misteri che vengono alla luce sembrano addirittura provenire da ben più lontano, quando ancora nell’alto Lazio governano indisturbati gli Etruschi. Come al solito nelle trame costruite intorno a Stazio ci sono diversi ruscelli che scorrono nel letto di una lenta pianura. Alcuni affluiscono, altri vanno per proprio conto, tesi a formare il corpo del romanzo. La parte corposa del testo prende avvio dal ritrovamento, in seguito al crollo di una tomba molto antica dalle parti del colle Esquilino, dello scheletro di una donna inchiodata al sepolcro. La tomba era diventata la casa di un becchino, il triste Cicurio, che, salvato da Aurelio, entra nel novero dei suoi protetti. La morta era stata seviziata in seguito ad un rito barbaro, proveniente dalle lontane propaggini dell’Impero, relativo a creature leggendarie e malefiche, chiamate “Empuse”. Demoni femminili che seducono ed uccidono giovani maschi. Un po’ vampiri, un po’ mantidi. Non basta poi ucciderle ma vanno crocifisse, e controllate che non ritornino a molestare i vivi. Indagando sui misteri della tomba, Stazio scopre che è di origine etrusca, riuscendo a decifrare iscrizioni varie in seguito alle lezioni di etrusco che ebbe in gioventù proprio dall’allora studioso Claudio, ora divenuto imperatore. Scopre così che la proprietaria della tomba è Festia Velthinia, la capostipite in vita di una famiglia etrusca di antica nobiltà, e di grande ricchezza. Quella che avrebbe accumulato il fratello di Festia, Velthur, detto l’Avvoltoio. Ma quando va ad interrogarla, Stazio trova Festia morta con l’addolorata famiglia intorno: il figlio Quinto con la bellissima moglie Sofia Sofiana, i nipoti Furillo lo scavezzacollo e Quinto il Giovane, studioso ed impacciato, l’altro figlio Lucio ed una lontana cugina, Lavinia, una molto poco attenta alle convenienze pubbliche (cosa che potrebbe essere di grande interesse per il nostro galante Stazio). Cercando di comprendere meglio gli avvenimenti, Stazio si accorge, tramite indizi vari, che anche Festia è stata uccisa. Pensa allora che ci sia un legame tra le due morti, e questo allungherà di molto il brodo del racconto. Perché, al contrario, sono avvenimenti coincidenti ma disgiunti. E mentre il rebus della tomba sarà sciolto in un sottofinale di poca importanza, e di piccolo effetto, la gran parte dell’inchiesta si concentra sulla morte di Festia, su come avesse raggiunto la ricchezza attuale, sul suo testamento. Su di una cella frigidaria con strane frequentazioni, su Furillo che ha visto qualcosa e rischia anche la vita, su di una morte avvenuta forse prima di quanto ci si aspettasse. Con la sua solita perizia, e rischiando anche di suo rispetto ad altre avventure, Stazio metterà in fila tutti gli avvenimenti, magari non punendo tutti i colpevoli, ma dando a tutti, buoni e cattivi, una via d’uscita. Quasi un Maigret d’altri tempi. Tra i tanti ruscelli di contorno, uno prende molto spazio, facendo quasi da contraltare al corpo del racconto dove la superstizione porta alla violenza. Perché troviamo Pomponia ammalata di depressione e quasi incurabile, poiché però non ha fiducia nel medico di Aurelio, l’ottimo Ipparco, questi le fa somministrare un antidepressivo, l’infuso di iperico, facendole credere che sia un filtro magico. La credulità, quindi, utilizzata qui a fin di bene. Che Pomponia guarisce, ed Aurelio per gratitudine, finanzierà la costruzione di un ospedale buono per tutti gli usi, sia curativi che di bellezza e di estetica. Il termine usato nella Roma del tempo è “Valetudinarium”, il cui significato derivava dal termine latino “valetudo”, ovvero "buona salute". Nelle note finali, sempre molto ben documentate, Danila ci spiega che il termine è solitamente riferito al locale adibito ad infermeria negli accampamenti militari, come avveniva fin dai tempi di Augusto nel 14 a.C. (data in cui se ne trova per primo un resoconto storico). Mentre non si è mai trovata traccia di un edificio simile nell'Urbe. Un’ipotesi verosimile, ma completamente frutto della fantasia dell’autrice. Il tratto intrigante, è quando si parla non tanto delle cure, ma dei trattamenti a cui le fanciulle nobili e le matrone si sottoponevano. Si vedono allora citati (e documentati ci dice Danila) creme di bellezza, filtri e pozioni per poter mangiare senza prendere peso, l’uso del fucus, cioè del rossetto, ed una particolare tecnica di ricostruzione nasale “operazione di Celso”, assimilabile ad un lifting ante-litteram. Mi ripeto un po’, ma al solito buon bilanciamento tra ricostruzione storica ed indagini, piacevoli intermezzi, qualche lentezza nella parte propriamente “gialla”, ed un risultato finale poco sotto la sufficienza.
Danila Comastri Montanari “Saxa Rubra” Mondadori euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 23/11/2016 – I: 28/11/2018 – T: 29/11/2018] && ½
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 257; anno: 2015]
PAS 18
Come le ciliegie! Come gli acini d’uva a settembre! Ecco di gran corsa anche il diciottesimo volume dedicato a Publio Aurelio Stazio. Doveva essere l’ultimo, ma mi giunge notizia che ne sia uscito un altro. Vedremo. Intanto questo nuovo episodio non è che soddisfi in modo particolare. Siamo ancora miseramente nel 44° anno del nostro Senatore, come non si riuscisse a passare al dolente 48 d.C., quello in cui l’imperatore Claudio, non potendo più sopportare i tradimenti di Messalina, la condanna a morte, sposa quindi la cugina, Agrippina minore, e ne adotta il figlio Lucio Domizio Enobarbo, che diverrà imperatore con il nome di … Nerone. Ma Stazio non è ancora in grado di affrontare tutta questa buriana, anche perché, dopo tutte le vicende narrate sembra finalmente intenzionato a seguire uno stile di vita più sobrio, lontano dagli eccessi e dai vizi che hanno contraddistinto il suo passato. Ma anche se l’uomo sembra aver fatto finalmente i conti con il passato è lo stesso passato a non aver ancora chiuso con lui: una serie di omicidi provoca scalpore e preoccupazione a Roma e proprio lui sembra essere l’elemento che collega fra loro tutti i cadaveri. Una dopo l’altra muoiono, sono minacciate di morte o simili disavventure, una serie di donne e matrone romane. La prima è la nobile Pulla Trigemina, matrona disinvolta abituata a giocare con i suoi amanti. Poi è toccato a Sabellia, la dolce e morbida poetessa che trascorreva il tempo nel suo circolo ad ascoltare e comporre versi. Quindi è stata la volta della bella schiava Tabitha, l’agile gazzella dagli occhi di ambra. Poi Lelia Soave, umile ma appassionata lettrice di romantici romanzi alessandrini (ma lei è l’unica che si salva), e infine lei, la Flaminica, Cecilia Calvisia, nobilissima e inavvicinabile moglie del Flamen Dialis, il sacerdote preposto al culto di Giove Capitolino, la più sacra delle donne di Roma. Morte di morte violenta. Ma benché siano diverse tra loro per cultura, estrazione, personalità, hanno un grave tratto in comune. Hanno tutte avuto una relazione con Stazio. Se anche non si sapesse, ogni donna ha sul corpo un biglietto che lo accusa, inclusi alcuni versi dell’Odissea, che alludono a fatti che dovrebbero essere noti solo al nostro senatore. La situazione si aggrava perché Claudio, come sappiamo da quello che succederà, non sta benissimo né in salute né in morale. Ed i tanti nemici di Stazio sembrano prendere vigore da queste disgrazie, tanto che vorrebbero un pronunciamento del Senato che lo dichiari nemico di Roma, per poterlo bandire dai territori dell’Impero. A Stazio rimangono solo i suoi veri amici, Pomponia e consorte, nonché l’aiuto sempre prezioso dello scaltro Castore. Sempre pronto ad aiutare in cambio di regali, o del sigillo per firmare cambiali, o altre regalie di natura diversa (anche qualche bella donzella, che non fa mai male). Ma le complicazioni sono all’ordine del giorno, nelle indagini e nella vita dell’Antica Roma. Se andiamo a guardare meglio il susseguirsi di posizioni di potere ed altro, troviamo una congerie di intrecci tra sposalizi parentali, adozioni strane, congiure e morti sospette. Anche qui, sebbene non voglia entrare poi nel merito, è ovvio che Stazio non è né può essere il colpevole. Ma c’è qualcuno che si vuole vendicare di lui, a torto o a ragione, qualcuno che pensa il nostro senatore implicato in un non sostegno di congiurati che volevano prendere il potere forse alla morte di Caligola, o forse in qualche altra congiura più o meno coeva. Qualcuno ne soffrì, fu esiliato, morì in quei frangenti. Ed in qualche modo ora ceca vendetta, tra l’altro intrufolandosi proprio nell’entourage del senatore, onde carpirne i più nascosti segreti. La storia però è anche piena di lotte gladiatorie, di discorsi senatoriali, ed altre romanità che, in genere fanno la fortuna dei romanzi della scrittrice bolognese. C’è anche la rivolta di Pomponia verso l’uso indiscriminato dell’acqua, con le difficoltà di potersi lavare o utilizzare le terme da parte dei nostri eroi. Tuttavia, i contorni della storia principale qui sono un po’ laschi. Dopo aver pensato di mettere in difficoltà Stazio, tutto il resto viene un po’ trascinato, rendendo il romanzo, alla fine, un buon passatempo da leggere prima di andare a dormire, dopo una giornata pesante. Non certo un libro che ti tiene sveglio ed attento al suo svolgimento. Chissà se il prossimo entrerà nella nostra biblioteca …
Dopo aver saltato, e sono felice di averlo fatto visto che si stava in un’ottima India del Sud, il mese di febbraio, ecco che in questo marzo pazzarello tornano anche i libri curativi, per ovviare al raffreddore di stagione che tutti, più o meno, attanaglia.
La Spagna va e viene, sperando sia più stabile. Gli amici girano. I giorni passano e la campagna comincia a fiorire. Se son rose… 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
MARZO  2019
Con il tempo che fa, mi sembra corretto dedicarvi un rimedio contro un male di stagione.

RAFFREDDORE COMUNE

Non esiste una cura per il raffreddore comune. Ma è un’ottima scusa per avvolgersi in una coperta insieme alla borsa dell’acqua calda e a un romanzo che possa darci un po’ di sollievo.

I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER QUANDO SI HA IL RAFFREDDORE

John Barth               “L'opera galleggiante”
Heinrich Boll            “E non disse nemmeno una parola”
Nikolaj Gogol           “Il cappotto”
Francesco Jovine       “Le terre del sacramento”
Sue Monk Kidd         “La vita segreta delle api”
John Le Carré           “La spia che viene dal freddo”
Nancy Mitford           “Amore in climi freddi”
Zadie Smith             “Denti bianchi”
Kurt Vonnegut             “Ghiaccio nove
Edith Wharton          “L’età dell’innocenza”

Bugiardino

Vonnegut ne lessi l’opera omnia quando avevo vent’anni, e qui non ci torno (a parte sottolineare che se non ne avete letto, ne dovete leggere). Invece, Boll, Barth e Gogol fanno parte di un piccolo bagaglio degli anni ’90. Il solo Jovine manca all’appello: né letto, né memorizzato in qualche recesso bibliografico. Gli altri cinque libri li riporto in ordine di anzianità (di lettura)
Zadie Smith “Denti bianchi” Mondadori euro 8,40
[tramato il 3 agosto 2007]
Anche questo (come altri libri in precedenza) un gran bel polpettone. Forse, un po’ troppo lungo. E quando si allunga, il brodo perde un po’ di sapore. Fin quando si mantiene a livello narrativo sugli incontri-scontri interrazziali in una lunga Londra (lunga nel tempo, dalla seconda guerra mondiale al 2000) si riesce a seguire. Poi deve finire e non avendo le idee chiarissime ingarbuglia un po’. Si ritrova la sua atmosfera di casa (questo misto di culture, un po’ di Giamaica e l’immancabile India), si perde alla fine un po’ di magia.
“Sono le lettere, più ancora dei baci, ad unire le anime.”
“Se fossi un indù, penserei che ci siamo incontrati in una vita precedente.”
Edith Wharton “L'età dell'innocenza” Repubblica Novecento euro 4,90
[tramato il 31 luglio 2011]
Una classica ed interessante lettura, ed un bel confronto con l’ottimo film di Scorsese. L’americana Wharton, lei stessa discendente dell’aristocrazia newyorchese che tanta parte avrà nei suoi libri migliori, rifugiatasi nel buon ritiro francese, dopo il non facile matrimonio, da lì un po’ da lontano, scrive e tratteggia il mondo d’oltre oceano. Figura intellettuale, amica di Henry James e Jean Cocteau, ma anche crocerossina durante la Guerra, è in Francia che sul doppiar la boa dei cinquanta, scrive questo puro saggio sull’adolescenza della sua nazione. Sulle difficoltà di crescere e di lasciare i vecchi cliché, quelli bene o male imposti dall’essere una nazione popolata da emigrati europei, che si portano appresso, decennio dopo decennio, tutta la rigidità europea. Certo, è un romanzo, ma ben le valse, prima donna ad ottenerlo, il Premio Pulitzer nel 1921. Ovvio, che io, innamorato perso di Michelle Pfeiffer, ne rivedo ad ogni pagina il risvolto del film. E non solo con la bella Michelle nel ruolo della contessa Olenska, ma anche di Winona Ryder in quello di May, nonché Daniel Day-Lewis nelle vesti, dubbiose ed indecise, di Newland Archer. Newland che nel libro è il fulcro della vicenda (che invece Scorsese tende a spostare sul versante Pfeiffer). Cresciuto nella rigidità delle forme, dove si va a teatro per vedere chi c’è, chi indossa cosa, ed altre superficialità. E che vede la sua vita tracciata nel solco della sua classicità: il fidanzamento ed il matrimonio con la giovane May, anche lei “di buona famiglia”, il lavoro (abbastanza superfluo) nello studio di un avvocato perché “qualcosa si deve pur fare”, l’inverno a Newport e l’estate in Florida, inframmezzata da un lungo viaggio di nozze in Europa (“un gran tour”). Ma un viaggio, ad esempio, dove non si parla con nessuno, non si vede nessuno, che noi “gli aristocratici americani” siamo gente superiore. Tutto questo bel disco, girato ormai da anni ed anni, si vede interrotto dall’arrivo della variabile impazzita, la bella contessa Ellen Olenska, in realtà cugina di May, ma prima fuggita in Europa per sposare il conte Olenski, e poi fuggita dall’Europa per sfuggire allo stesso conte. Qui la Wharton gioca sui due registri: la rigidità di Newland e la morbidezza anticonvenzionale di Ellen. Ma il mondo di New York non è ancora pronto a tutto ciò. E sarà proprio Newland a riportare nei ranghi Ellen, convincendola a non divorziare “per non fare scandalo”. Ma Ellen è comunque una ventata di aria pulita, che Newland però non saprà (non vorrà, non riuscirà) a cogliere. Così Michelle ritorna in Europa, e Daniel rimane lì, con la moglie che subito si adegua alla piatteria del mondo americano degli anni ’70 (certo quelli del 1800), che crescerà i tre – quattro figli, per poi morire ancor giovane. Lasciando il non ancora sessantenne Newland a riflettere sul cambiamento del mondo. Senza uscirne. Certo, si vede che il libro ha novanta anni, e che descrive un mondo di centocinquanta anni fa. Ma ha la forza di farci capire la difficoltà di affrontare il nuovo. E di essere sinceri con sé stessi. Qui c’è la contrapposizione tra ragione (stare accanto ad una donna gentile, affettuosa ma noiosa) e sentimento (stare accanto ad una donna autonoma e anticonvenzionale). Fino a che punto si possono sfidare le convenzioni per seguire sé stessi? Newland non ce la fa. E noi? Alla fine, non è eccelso, è una buona lettura. Ma soprattutto un buon rimando al film, che avrebbe meritato maggior successo.
“Quando uno aveva vissuto facendo il proprio dovere c’era un guaio: che non riusciva più a vivere diversamente” (340)
“D’un tratto, davanti a uno splendido Tiziano, disse dentro di sé: ‘Ma ho soltanto cinquantasette anni…’ e poi si volse per andare via.” (345)
John le Carré “La spia che venne dal freddo” Repubblica Giallo euro 5,90
[tramato il 1° luglio 2012]
Dopo anni (forse decenni) di resistenza finalmente mi decido a leggere qualcosa di David John Moore Cornwell. Mi ero sempre bloccato per un senso di repulsione (parola forse un po’ forte) che mi ispiravano le storie di spie ed affini. Certo, vi domanderete come mai un appassionato di intrecci, di gialli ed altro, abbia questa sensazione di non vicinanza. Ma la risposta, in un certo senso, è banale. Un giallo, prendiamo a caso un libro di Maigret, è ben più di un intreccio. È una piccola lampada accesa sul passaggio di qualche persona in questa che chiamiamo vita. Una sensazione che le storie di spie non mi hanno mai dato. E continuano a non darmi anche dopo questa, che, per altro, è una degna lettura ed un libro meritevole di essere letto. Si sentono i sessanta anni trascorsi, ma più per le atmosfere generali che per la scrittura (come invece succede ad altri libri coevi e tardi). Quanta acqua è passata sotto i ponti della storia. Lì eravamo a pochi momenti dalla nascita del Muro di Berlino. Or son passati più di venti anni e tutto il panorama mondiale è mutato. Ma John le Carré ha avuto il merito di fare una fotografia talmente efficace del mondo della guerra fredda, che il suo libro diventa quasi un libro di storia più che un libro di finzione. Ed i suoi personaggi assurgono paradossalmente un ruolo eponimo, diventano dei simboli di posizioni e ragionamenti. Comunque, vincendo la resistenza di cui sopra, mi sono immerso nelle atmosfere brumose dell’ex - Germania Est. Rivivendo quasi in sogno momenti passati tra Lipsia e la Polonia or son quasi quaranta anni. La vicenda è lineare nella sua complessità, e magistralmente orchestrata dall’autore. Si è nel tempo delle grandi reti spionistiche, dell’Intelligence di Bondiana memoria. E dei tentativi di creare reti di informatori nel cuore degli apparati “nemici”. Prendiamo conoscenza quindi di Leamas, e della sua sconfitta quando l’intera rete che ha messo su a Berlino Est viene debellata e (quasi) tutti gli esponenti uccisi. Per colpa (o merito) del controspionaggio tedesco guidato dal truce Mundt e dal suo accolito Fiedler. Tornato in patria, Leamas viene convinto dal suo capo ad organizzare una complicata trama per far fuori Mundt. Comincia così una finta deriva dell’ex-spia. Che si finge sbandato, ubriacone, deluso, tanto per farsi abbordare dalle spie dell’Est. Cosa che ben presto avviene, e tra un’ammissione ed una fuga, il nostro si ritrova ben presto di nuovo a Berlino, ma dall’altra parte del muro. Intanto il suo capo ha messo in piedi il resto degli intrecci per far cadere i tedescacci nel trappolone. Che riesce talmente bene da porre l’un contro l’altro armati Mundt e Fiedler. In un lungo momento di svelamenti e riconoscimenti, si arriva alla catarsi finale. Chi era la spia che faceva il doppio gioco? Era Mundt realmente come sostiene Fiedler o era una trappola per far cadere lo stesso Mundt cui Fiedler casca in pieno? Non vi svelerò il finale, benché sia ormai arcinoto. Né vi dirò della storia d’amore di Leamas con la bella Liz, quella che rimane nella testa per chi, non avendo letto il libro, si ricorda però del bel film con Richard Burton e Claire Bloom (ma perché nel film, Liz viene rinominata Nancy? Forse per evitare imbarazzi a Burton, rispetto alla sua più volte moglie?). La parte meno sostenibile del libro risiede in tutta una serie di affermazioni e sparate sulle spie, sulle motivazioni, e su altri ragionamenti similari, molto, troppo legati allo spirito del tempo. Per questo, benché piacevolmente letto, il mio rimane un giudizio mediano sulla bellezza e consistenza del libro stesso. Una trama esemplare sorretta da una scrittura decente, che sottolinea la quotidianità di certi comportamenti spionistici (per fare da contraltare alle rutilanti missioni alla Bond), ma che non mi invoglia particolarmente a leggere altro del nostro. Come un buon bicchiere di gin olandese, molto profumato, ma alla fine ne basta un bicchiere. E non ci si torna su.
Nancy Mitford “L’amore in un clima freddo” Adelphi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[tramato il 23 settembre 2018]
Certo è consigliato dalle mie libropeute come coadiuvante per il raffreddore, ma se non avessi letto “Inseguendo l’amore” non credo che avrei avuto voglia di affrontare questo secondo libro di Nancy Mitford, né tanto meno il raffreddore (che poi sarebbe un po’ duro usarlo come fazzolettino…). Infatti, questo libro ha un senso proprio perché lei ha scritto e noi abbiamo letto “Inseguendo l’amore”. Questo infatti è il volume centrale di una ipotetica trilogia che verrà conclusa con “Non dirlo ad Alfred” (che tuttavia non è al momento tra i miei piani di lettura). Qui, la nostra signorina di buona famiglia (anche se all’epoca della scrittura già quarantacinquenne) continua a mostrarci il lato fatuo del mondo snobissimo inglese tra le due guerre. Ma se nel primo c’era afflato, c’era pathos sia umano che politico, qui si va tutto molto più sul leggero. C’è, ed è ovvio nella storia della Mitford, la feroce critica al mondo fatuo e senza prospettive della nobiltà inglese. Con tutta la grande famiglia che viene rappresentata, cugini, zii, cognati, suoceri, perfino vicini di casa o di castello. Tutti belli, tutti pieni di gioielli in cassaforte, tutti senza una sterlina da spendere per la casa. La narratrice qui diventa Fanny, che dal suo punto di incontro con i parenti (più o meno tali) ci narra le gesta della famiglia Montdore. Una famiglia da poco tornata dall’India, dove il Lord signor padre aveva pur un incarico di prestigio, ma dove c’è la figlia Polly, che ormai è in odore di matrimonio. E non si può farla sposare con un meticcio indiano. La madre, volenterosa e senza un briciolo di cervello, continua ad organizzare balli e ricevimenti affinché Polly metta la testa a posto e faccia girare la testa ai giovani di buon partito che ronzano intorno a tutto ciò. Tuttavia, Polly non metterà proprio la testa a posto. Anzi, con un colpo di testa decide di sposare il vecchio e super sciocco zio. Un altro essere che gravita in quel mondo fatiscente, che aveva l'unico pregio di essere stato per anni l’amante della madre. Nancy ci descrive allora tutta una sequela di avvenimenti, che ci lasciano non dico freddi, come l’amore del titolo, ma addirittura gelati per lo scarso coinvolgimento. Feste, scenate, cacce, abiti da giorno ed abiti da sera, chiacchiere e pettegolezzi (sembra quasi di assistere al matrimonio di Harry e Megan …), adulteri a ripetizione. Nonché lunghe pagine dedicate alla pesca delle trote, che è una delle attività che a me hanno sempre fatto una repulsione fisica (a meno di non parlare del libro di Richard Brautigan, ma quella è tutta un’altra cosa). La nostra riesce a riempire pagine e pagine con i dialoghi tra questi nobili carichi di una geniale stupidità. Ma alla fine, Polly non viene perdonata per il suo colpo di testa. Anzi viene diseredata ed allontanata da casa. Così, il bel patrimonio cui avrebbe avuto diritto, unica figlia di Lord Montdore, viene a cadere sulla testa di un lontano cugino, unico erede maschio, che vive in Nuova Scozia (che per i non informati non è in Inghilterra ma in Australia). Rintracciato e convinto a venire, l’erede sarà la sorpresa finale della vicenda: bello, frivolo, allegro. Ma soprattutto, molto, ma molto gay. Proprio questa sua non coinvolgibilità, fa in modo di dare nuova linfa a Lady Montdore, che al suo braccio riprende la vita mondana ripudiata per la vergogna di Polly. Vi lascio, se vi interessa, gustare gli ultimi intrecci e la fine della fiaba. A me, ripeto, il primo libro era sembrato interessante ed esemplificativo. Questo invece solo ripetitivo. Ma come detto c’è un legame forte tra i due, pur nel mutare dei nomi. O anche nel non cambiarli, laddove vediamo ad esempio Fabrice de Sauveterre (che nel primo ha un suo ruolo ma che non ripetiamo qui) a colloquio con Fanny, dove, esemplificando la leggerezza mondana del libro, la Mitford gli fa descrivere come le donne francesi sappiano meglio tenersi i loro amanti vicino, rispetto all’insipienza delle donne inglesi. Lettura fuori di metafora, che Fabrice è nient’altro che la trasposizione di Gaston, amante per anni entrato e uscito dalla vita di Nancy, e ultimo uomo cui la nostra diede la mano stringendola mentre moriva del linfoma di Hodgkin. Grazie per le lezioni di snobismo, cara sorella Mitford, ma penso che la nostra frequentazione finisca qui.
“Ti ho preparato per il matrimonio, che a mio parere … è di gran lunga il lavoro migliore per una donna.” (115)
“I cani e gli esseri umani non sono la stessa cosa … ma per … invece lo erano, anzi, per loro i cani erano tutto sommato più reali delle persone.” (127)
“Passare il tempo a leggere libri va bene per gentucola come voi.” (194)
Sue Monk Kidd “La vita segreta delle api” Mondadori euro 6,90 (in realtà, scontato a 5,18 euro)
[tramato il 23 dicembre 2018]
Dovrò capire perché questo libro veniva consigliato dalle libroterapuete di “Curare con i libri”, perché, seppur non esaltante, ha comunque qualche punto a suo favore. Leggendolo in modo trasversale sembra quasi un fratello minore de “Il buio oltre la siepe” o un lontano cugino de “Il colore viola”. Eppur tuttavia, ha anche una serie di piccole frecce rivolte alla cristianità con qualche risvolto verso una “teologia femminile”, di cui conosco poco, ma che è, da come leggo, uno dei pallini dell’autrice. Sue Monk Kidd, iniziatasi come infermiera, svolge tutto il suo percorso di vita, ora che tra una settimana compirà settanta anni, seguendo una sua luce di misticismo cristiano. Sui trenta anni comincia a scrivere di percorsi cristiani, verso i quaranta si volge alla teologia femminile, e quindi, svoltati i cinquanta produce questo libro, che qualche freccia al suo arco ce l’ha. Ha però un andamento forse troppo “juvenilia”, quasi fosse quella la platea maggiore cui si rivolge. Dicevo molte frecce perché affronta i problemi della crescita di una circa quindicenne con padre violento e segnata dal fatto di aver, involontariamente, all’età di quattro anni, ucciso con un colpo di pistola la madre. Affronta i problemi dell’emancipazione negra, dato anche che l’azione si svolge nel 1964, quando il presidente Johnson firma il decreto sui diritti civili della gente di colore. Si impelaga nei rapporti bianchi – neri quando la protagonista Lily, scappando di casa con la tata negra Rosaleen, si trova a vivere le sue crisi presso la famiglia delle sorelle di colore August, June e May. Ed ancora di più quando Lily scopre la dolcezza e l’intelligenza dell’amico Zach, ovviamente anche lui di colore. E poi la devozione, cui viene dedicato forse troppo spazio, delle sorelle e delle loro amiche verso una Madonna Nera. Certo, ce ne sono molte in giro per il mondo, e questa, in particolare, è la Madonna Nera di Breznichar in Boemia, che è inventato come posto, ma che riflette l’iconicità delle Madonne di colore (vedi Chestokova, ma questo esula dal libro e dalle mie capacità). Per poi non tacere l’uso della metafora delle api come contraltare della vicenda (o forse della vita stessa): la regina triste, solitaria, ma indispensabile; le operaie, alacri e servizievoli; i fuchi; l’alveare senza regina muore; la dolcezza del miele; la sensitività delle api al mondo esterno, funerali compresi. Ma facendo un passo indietro, o ricominciando da capo, vediamo, o meglio seguiamo, la storia di Lily, con la madre scomparsa tragicamente come sopra detto, la tata nera, il padre manesco e meglio quando assente. Per salvare la tata da pestaggi bianchi stile KKK (ricordo che siamo nel 1964), e sé stessa dal padre, Lily fugge da casa con lei. Per andare a cercare un certo posto nella Carolina, trovato sul retro dell’unico ricordo lasciatole dalla madre: una scatola di miele con la faccia della Madonna Nera. Non facilmente, arriva lì, trova la famiglia delle api, dove lei e Rosaleen si installano. Da lì comincia tutto il percorso di crescita / maturazione di Lily. Inframezzato dagli inserti femministi, teologici e mariani che tralascio perché, per me, appesantiscono senza costrutto il racconto. Seguiamo ancora Lily che apprende a curare le api, che, dopo una dura lotta, apre una breccia nel cuore di June, che ha un’empatia immediata per May che soffre “tutti i dolori del mondo”, che vede la bellezza negli occhi di Zach. E come motivo di fondo, il “duello” metaforico (forse avrei detto meglio, “ballo”?) tra lei ed August. Dove alla fine, ma noi lo si pensava dall’inizio, August rivela tutto quanto sa della madre alla sconcertata Lily. Cominciando dal fatto che August fu per alcuni anni proprio la tata della madre. Non entro nei particolari, né in quelli melensi né in quelli dolorosi. Non possiamo non aspettarci che, attraverso un percorso pur difficile, Lily comprenda il bene ed il male della propria vita. Coltivi il primo ed accetti che esista il secondo. Con un finale da impossibile happy end (cioè, l’autrice si ferma qualche passo prima del finale suggerendoci un lieto fine che noi, smaliziati lettori, sappiamo impossibile). Alcuni passi del romanzo possono essere utili a qualche “salviniano” per ripensare a prese di posizione che già erano da censurare 50 anni fa. Ma la confezione finale non mi lascia gran che soddisfatto.
“Le storie devono essere raccontate, altrimenti muoiono, e quando muoiono, noi non ricordiamo più chi siamo o perché siamo qui.” (109)
“Tutti … siamo umani. … Non c’è niente di perfetto … C’è solo la vita.” (248)

Conclusioni

Devo dire che non so se serviranno a curare il raffreddore, sicuramente hanno qualche possibilità di tenerci al caldo, sotto le coperte. Anche se non sono di certo tra i miei preferiti. A parte forse il buon vecchio Le Carré e la Michelle della mia memoria.