lunedì 30 dicembre 2013

Anagrammi di rumeni - 30 dicembre 2013

Strano titolo per chiudere l’anno, che spiegherò in coda (al solito). Tanto più che invece (e come sbagliarsi) si parla di luoghi e di viaggi. Intanto Firenze e Pisa, per rendere anche omaggio al bel giro toscano appena concluso. E poi Parigi, che in parafrasi, val sempre un viaggio. Chiudendo un omaggio allo scomparso Tabucchi ed ai suoi appunti in giro per il mondo, sempre dolendosi che troppo presto ci ha lasciato. Ma sempre pensando agli insegnamenti, di vita, di scrittura, di viaggio che porteremo comunque con noi.
Vanni Santoni “Se fossi foco, arderei Firenze” Laterza euro 10
[A: 21/06/2013– I: 25/07/2013 – T: 28/07/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 148; anno 2011]
Un progetto riuscito a metà, anche se al solito con un discreto livello di interesse (mi ripeto? La collana ControMano è sempre da seguire, non sempre ai massimi livelli, ma piena di spunti interessanti). Non conosco Santoni (anche se ho visto in libreria un libro da lui spinto in pubblicazione come parto dell’autore collettivo SIC – Scrittura Industriale Collettiva; interessante), e mi si dice un promettente scriba tosco. Qui, nel rispetto del dettame massimo della collana che propugna la conoscenza di luoghi e gesta, più che una guida ragionata, o sentimentale, si è imbarcato nell’impresa di una guida-romanzo. Ha imbastito una storia “alla Schnitzler” per farci toccare con mano (e con altri sensi) tutta una geografia fiorentina. Che sebbene centrata nelle fauci fiorentine tra Piazza Strozzi, Piazza della Signoria e Piazza Santa Croce, si estende e si espande ad est verso San Miniato al Monte, a sud sino a Porta Romana, ad Ovest sino a Villa Strozzi e a nord, tra il nordovest di Porta a Prato ed il nordest del Cimitero degli Inglesi. Già quest’elenco fa venire l’acquolina in bocca a noi peripatetici viaggiatori. Ma su questo tessuto urbano Santoni mette in scena una serie di storie in apparenza autonome ma in realtà intrecciate, in cui personaggi più variegati si muovono sullo sfondo dei vicoli rinascimentali di Firenze. Dicevo a mo’ di girotondo austriaco, che cominciamo (è un classico) con l’arrivo di uno studente fuori sede su Piazzale Michelangelo. Il suo chiedere informazioni ad una ragazza, con relativo tentativo di abbordaggio. E da qui, i personaggi si intrecciano, Sylvie, Maddalena, Girolamo, Bekko, ed altri senza nome, e con tante facce. Fighetti, alternativi, studenti campagnoli e studenti urbanizzati, americane (ma quante sono quelle che vivono a Firenze?), sfigati e brillanti, artisti e aspiranti, scrittori bravi e falliti, nostalgici, viaggiatori veri e finti, immigrati, esteti, tamarri, coppie in crisi, genitori, ex-discotecari, matti, pusher, rinsaviti e mondane: nella Firenze ardente c’è di tutto, ci sono tutti. Ci sono clan che si conoscono e riconoscono, altri che s’ignorano. Come gli autori collettivi (anche loro?) di una rivista intitolata “il maniaco”. Amori che si intrecciano, personaggi improbabili, che seppur ad ogni passo ci narrano delle pietre (e Vanni sembra conoscerne ad una ad una), presentandoci il passato della città, l’interrogativo di fondo è piuttosto sul suo futuro. Vale la pena rimanere in questa città? Offre ancora spunti artistici, culturali, sociali, degni di nota? E' possibile produrre arte, cultura, civiltà in quella che sempre di più appare un museo a cielo aperto fatto su misura per il turistame? Le statue dei fiorentini famosi che adornano il corridoio degli Uffizi saranno mai sostituite da qualche nome più recente? Certo, si sente il peso della storia, vivendo in Firenze. Abitare in un museo a cielo aperto deve essere una sfida epocale. Ed oltre a girare (i ragazzi di Vanni) ed a leggere (noi, ardenti amanti di Firenze), tutti condiamo il nostro essere con i sapori forti: le leccornie dei trippai o i panini coi lampredotti, in giro per San Lorenzo, o tra le cantine in Piazza della Passera, districandosi tra San Frediano e Santa Trinita. Con quel passaggio in flashback che resuscita sul campo di calcio Roberto Baggio appena passato dalla Fiorentina alla Juve, e si sente la sua malinconia, quando si rifiuta di tirare il rigore contro la sua ex-squadra. Ma se è tutto così, non c’è niente per cui vale la pena restare. Anzi, magari ci si deve giustificare se si rimane e non si parte. Come si chiede Annabel. Come fa Diego che sperava di tornare cambiato dal Sudamerica, ma tutti lo legano all’immagine storica che hanno di lui. Avrei preferito qualcosa di più forte, sia sul fronte guida che sul fronte romanzo. Anche se mi è piaciuto. Anche se mi sono innamorato della copertina. E se l’ho letto durante un ritorno dal Portogallo, fianco a fianco con il mio amico Leo (fiorentino puro sangue). Anch’io, alla fine, brucerei Firenze. Purtroppo, però, ne sono innamorato (non come la mia Roma, ma …).
Marco Malvaldi “Scacco alla torre” Felici Editore euro 10 (in realtà, scontato a 8,50 euro)
[A: 07/03/2013– I: 10/08/2013 – T: 12/08/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 157; anno 2013]
Un libro che non avrebbe sfigurato nella collana di Laterza, ma che ben volentieri vediamo uscire in una casa editrice poco nota (di quella da “PLPL” di dicembre per chi mi capisce). Una cavalcata dentro Pisa (e qualche dintorno, visto che si parla anche di San Rossore), guidati dall’ottimo scrittore pisano Marco Malvaldi. Che parte dall’assunto che, purtroppo, non siano ancora molti a pensare che a Pisa non ci sia solo la Torre da visitare. Un libretto che racconta quindi un po’ di storia, bellezze, aneddoti, personaggi e contrasti intercalando ricordi di una città dal passato prestigioso. Con il piglio umoristico del Malvaldi migliore, tralasciando i vecchietti, quello di “Pioggia giapponese” ad esempio. Andiamo in giro con Marco, con la stessa amicalità con cui io porto i miei amici foresti per Roma. Con le mie spigolature da trivial di campagna. Il lampadario osservato nel Duomo da Galileo per studiare la legge del pendolo è ancora lì? No, è nel Camposanto. La dicitura Piazza dei Miracoli non è quella originale della piazza, ma è stata coniata da D’Annunzio. La guida parte descrivendo i lungarni e non si sottrae ad un’aspra critica alle piste ciclabili, una roulette russa per le due ruote. Poi ci spiega come arrivare alla Piazza ed alla Torre, quale strada sia meglio fare, per arrivarci da pisani e non da turisti. E quale altre non turistiche mete frequentare. Così notiamo sulla destra, di là dell’Arno,  la Chiesa di Santa Maria della Spina, una delle più belle chiese gotiche d’Europa, che fino al 1870 sorgeva direttamente sul greto del fiume. E guardiamo con ammirazione i palazzi dai colori sgargianti. Il più vistoso di questi, Palazzo Blu, è stato ultimato da pochissimi anni, e oltre ad essere piuttosto soddisfacente dal punto di vista cromatico ospita spesso delle mostre notevoli. Sulla riva sinistra il palazzo Agostini Veronesi Della Seta, uno dei pochi rimasti su questo lato dopo i bombardamenti del 1943 e 1944, si riconosce dall’elaborata facciata in cotto, ornata da bifore triforate. Potremo anche scoprire che la scritta “Alla Giornata” sopra l’arco dell’ingresso del palazzo Lanfreducci, che ospita gli uffici del Rettorato dell’Università di Pisa, deriva dal fatto che Lanfreducci reduce da una lunga prigionia ad Algeri, era aduso ad una vita poco incline alle lunghe programmazioni. E poi incontriamo le tante meraviglie: la Cittadella, il Giardino Scotto, l'Orto Botanico (l'orto universitario più antico al mondo) e l'Università (tra  cui la Scuola Normale Superiore ed il Sant’Anna; senza scordare, per la gioia delle matricole falcidiate dopo il primo anno, che la facoltà di Ingegneria si trova in via Diotisalvi), Piazza dei Cavalieri e la Torre della Fame. Per l’anima pisana, si ricorre poi alla squadra di calcio, ma non l’attuale, ma quella del mitico presidente Romeo Anconetani. Ed all’Arena Garibaldi, che ben si vede da in cima alla Torre. Romeo è il presidente del Pisa in serie A, dei grandi campioni sudamericani alla Dunga, anche se con qualche acquisto sballato, come il povero Jorge Francisco Caraballo, che veniva salutato allo stadio dal ritornello: “Caraballo, Caraballo, gioca bene nell’intervallo”. Non mancano poi i riferimenti agli eventi del Giugno Pisano: la Luminaria, le regate storiche ed il Gioco del Ponte. Un Gioco aspramente criticato da Malvaldi, e che si svolge sul Ponte di Mezzo, dove le squadre di qua e di lì dell’Arno si sfidano ad una specie di tiro alla fune, dove la fune è sostituita da un carrello da far rotolare nella parte avversa. Verso la fine abbiamo qualche ulteriore spigolatura. Triste, come la scritta “Grande Mauro” sulla spalletta dell’Arno, che ricorda Mauro Baccelli il campione di canottaggio morto in un incidente d’auto a 28 anni nel 2008. Ironiche, come la scritta al monumento ai caduti eretto in località Calci, che recita “Calci ai Caduti” (scritta ora tolta). E prima di entrare nei bar (ovvio pallino dell’autore), la grande musica che si ascolta alla Normale (dove il 12 settembre 2001, invece della Messa di Mozart, per l’ovvio non arrivo dei solisti, ovvio guardando la data, si ripiegò su un insolito, ma per me ed anche per Malvaldi, bellissimo Arvo Part). Finiamo quindi anche noi, sorseggiando un caffè al Bar di Enrico, che serve da modello per il nostro amato BarLume. A volte Malvaldi si dilunga un po’, divaga e non morde. Ma come non essere con lui, ad odiare i turisti americani in infradito, che arrivano, vedono la Torre, e se ne vanno a Firenze?
Francesco Forlani “Parigi, senza passare dal via” Laterza euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 07/03/2013– I: 06/09/2013 – T: 11/09/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 167; anno 2011]
Una solita buona prova di una delle mie collane preferite, la ControMano di Laterza. Anche se con degli alti e bassi, per cui ero indeciso su che livello di gradimento collocarlo. Perché la scrittura non sempre mi è piaciuta, anche se è sempre molto partecipativa. Soprattutto alcuni inserti in franco-italo-casertano che mi hanno lasciato freddino. Ed alcuni compiacimenti, quel modo di citare persone e situazioni, quasi en passant, quasi a farci partecipi di una grande famiglia che in realtà non siamo. Ma il gradimento è poi tirato su, di molto, dalle comunque intense vicende anche umane di questo espatriato in cerca di futuro (e quanta Luana leggo tra le righe). Ed ovviamente da Parigi. Sia in quanto città che in ogni caso amo, sia nell’aggirarsi in luogo ed angoli, anche nascosti, che ho visto, che ho nel cuore. Quando, come se fosse un caso, Forlani passa per le “Fer à Cheval”, a me si apre il cuore. Uno dei bar che ho amato dal primo giorno che sono stato a Parigi, che ho sempre ri-visitato ogni volta che ci torno. Certo, alcuni posti del bar sono cambiati, che non tutti sono ormai come le vecchie panchine del Metro (l’ultima volta ne rimanevano un paio). Ma rimarrà sempre la mitica toilette in ghisa auto-pulente. Per cui alla fine non posso che far lievitare il giudizio su questo “diario parigino”, dove il nostro autore, mescolando tempi e spazi, ci narra la vicenda del suo stare parigino, del suo lavoro, all’inizio molto precario, poi sempre più stabile, di insegnante di italiano per i locali, della nascita e dell’uscita di una rivista intorno alla quale si coagulano espatriati di ogni paese ed artisti locali. L’idea di base poi era quella di narrare la nascita di una rivista d’avanguardia: “La Bête étrangère”, per poi trasformare il quasi-diario in una sorta di monopoli francese. Dove si saltabecca da un arrondissement all’altro, senza una vera logica, solo per assonanze e situazioni. Usando Imprevisti e Probabilità, come nel vero Monopoli, per collegare capitoli e situazioni. Ma senza passare dal via, che gli espatriati sono sempre squattrinati e non riescono ad accumulare i 20 euro di ogni giro. Certo, mi domando e domando a Forlani perché abbia saltato il 2^, visto che dedica almeno un capitolo ad ogni arrondissement. Così seguiamo Francesco sia nei suoi giri ad insegnare italiano (e rimarcabile il paragrafo sui “falsi amici”, quelle parole che sembrano dire cose simili ma sono ben diverse, come “morbide” che in francese non significa morbido ma morboso). Con l’amico Massimo, con cui divide un minuscolo appartamento con un bagno improbabile. Con la presenza saltuaria del bandito Roger K. Ma soprattutto con la pletora di artisti di diverso genere ed estrazione. Il fisarmonicista, la bella greca, il libraio iraniano, e tutti gli altri che troppo lungo sarebbe elencarli, ma che riempiono le pagine del libro e la vita dell’autore. Una lunga cavalcata da Monopoli, quindi, con lo scopo forte di “non finire in prigione” (cioè di andare fuori gioco), e con il tentativo di farci vedere (e ci riesce) la voglia di vivere e di realizzare qualcosa quando si ha un sogno dentro. Ed anche quando incontriamo momenti duri e difficili (come il passaggio per l’oncologia pediatrica). E se tanti sono gli spunti, anche seri, altrettanti sono i momenti comici, ironici, e pieni di quei rimandi che citavo all’inizio. Perché non c’è solo il Fer à Cheval della rue Vielle-du-Temple, ma c’è il Louvre e le tele di Van Gogh (dove io rimando sempre al Jeu de Pomme prima e meglio che al Museo d’Orsay), c’è il Cafè Maure della Moschea, i grandi boulevards (dove io mi perdevo tra le Galeries Lafayette e Monoprix), la ricerca del primo bar che faceva caffè italiano espresso (negli anni ’80 con Segafredo), l’Ile Saint-Louis, la Shakespeare & Company sul Lungo Senna nel 5^ (ma io mi sposto un po’ oltre, prima verso Square Viviani, poi alla “Fourmie Ailée"), gli skate sul sagrato di Nôtre Dame. Per tacere del Père-Lachaise che porto sempre nel cuore. Mi verrebbe di citare tanto, e altro, ma mi rimane la voglia di due cenni soltanto, uno interno ed uno esterno. Forlani insegna come base in una scuola vicino alla Gare St. Lazare. Ed io lì, passai i primi tempi di studio, lì imparai il francese che so, lì sedicenne, comincia a capire la bellezza dell’altrove. Quello esterno, invece riguarda il momento comico del ricordo dei juke-box che a Scauri rimandavano, strofa dopo strofa, tutto il “Teorema” di Marco Ferradini. E la mia mente vola a quella stessa gag, ripresa da Aldo, Giovanni e Giacomo in “Chiedimi se sono felice”, con quel reiterato “fuori dal letto, nessuna pietà”. Forse mi sono fatto trasportare troppo dai ricordi, ma se un libro ne suscita, ben venga il libro e chi l’ha scritto.
Antonio Tabucchi “Viaggi e altri viaggi” Feltrinelli s.p. (regalo collettivo Almaviva)
[A: 07/05/2013– I: 03/12/2013 – T: 05/12/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 266; anno 2010]
Un libro che stava viaggiando su livelli di sicura eccellenza, ma che non mantiene il massimo dei voti per un’ultima parte leggermente inferiore. Oltre al fatto che non posso non rimproverare a Tabucchi di averci lasciato così presto, orfani di quel suo modo garbato di essere e di scrivere. Questo libro è in gran parte una collazione di scritti altrove pubblicati, in gran parte sul “Corriere della Sera” e sulla rivista “Grazia Casa”. Ma qui sono sapientemente incastrati secondo un gustoso filo logico, sia dall’autore, ma soprattutto dal curatore, Paolo Di Paolo, dei cui scritti ho ampiamente parlato recentemente, e che qui si rivela un sapiente solutore di rompicapi. A parte, forse, quell’ultimo capitolo, dove sono inzeppati un po’ di testi forse meno in linea con l’assunto generale. Quello di parlare di viaggi, ma non per scrivere di viaggi, ma prendendo spunti dal muoversi nello spazio dell’autore. Ed in molti dove, qua e là per il mondo, i suoi appunti ci portano a viaggiare con lui, avendo a mente quella bella frase di pagina 17  che riporto sotto. Il passo della scrittura di Tabucchi è sempre misurato: non corre, non si affretta, coglie il dettaglio minimo. Ed il suo occhio si posa sulle cose, sui paesaggi, sugli uomini, con la stessa delicatezza e curiosità con cui si poserebbe il mio, se ne fossi capace di scrivere. Coglie quelle minuzie delle grandi cose, che per assonanze, suoni e rimandi, lo collegano e ci collegano con tutto quanto vale la pena di vivere. Quando parla di luoghi che conosco, mi sembra di camminare con lui, mio alter ego importante. Quando parla di altro, mi viene voglio di andarci, di vedere subito quella cosa, quel posto, quell’angolo di mondo. Con quella capacità sorretta da un’onesta curiosità ed una grande cultura, di partire dal poco ed arrivare a comunicare molto. Ed eccomi allora passeggiare con Antonio, a Parigi, in quella bellissima e dimenticata place de Furstenberg. Pensavo di ricordarla solo io, girando dietro rue Jacob, ed affacciandosi sulla piazzetta, piccola, squadrata, con l’albero al centro. Ed invece, ecco che Tabucchi mi ci riporta. Anche a vedere i Delacroix, e mentre parla di Marianna, io vado con la testa a Géricault e alla Medusa. Già questo solo ricordo, mi avrebbe fatto amare lo scritto. Ma poi che dire della bellezza quando descrive Kyoto, dove riesce in due righe a rimandare tutta l’anima del rispetto giapponese verso le cose (il regalo dell’amico giapponese non è cosa c’è dentro la scatola, ma la scatola ed il suo incartamento, divino). O Madrid passeggiando verso il Prado. O a Barcellona, nei posti di Gaudì oltre Gaudì stesso (tralasciando la sopravvalutata Sagrada). Mirabile l’elenco delle tipologie di peperoncino messicano (chi mai si scorderà dell’Habanero). Da scandire parola dopo parola l’invettiva contro il turismo cialtrone nei resort di lusso. Ho gustato capitolo dopo capitolo, poi, le due parti maggiori. L’India, dove sono tornato a Mumbai, la “boa baia” portoghese, ho dormito una notte nell’ala nuova del Taj Mahal hotel, ho rivisto le pire di Varanasi ed i poveri dell’Ospedale di Madre Teresa a Kalkata. Ecco, la grandezza di uno scrittore mi coglie al volo, quando in un gesto, in una parola, riesce a dire cose che altri non riescono a spiegare in pagine e pagine. Il cadavere avvolto nel lenzuolo bianco e trasportato con una Vespa modificata a tuk-tuk verso la pira è capace di farci srotolare dentro un saggio su tutta l’India possibile. Ed ovviamente il Portogallo ed il mistero della saudade portoghese. Quell’allegria dalla faccia triste che ho sempre scorto nei volti lusitani, e che Antonio mi rimanda come memoria del futuro. Impagabile. Ed è quindi con moto rapito che allora da lui mi faccio trasportare in luoghi non ancora visti, dai Carpazi a Creta, da Goa (e chissà se un giorno riuscirò a portare avanti il progetto sull’abate Faria) ai deserti australiani, dalle pampas argentine fino alla ferita nella terra che è ancora il Brasile (dall’Amazzonia alle miniere di Minas Gerais). Sono contento che sia esistita una persona di tal fatta, e sono contento di aver avuto il piacere di leggerne. Spero di riuscire a vivere quello che non ho ancora visto. Aumentando di poco la piccola conoscenza che ho del mondo (magari aggiungendovi qualcosa sulla cucina, che se la lettura ed il viaggio sono forme di conoscenza, il mangiar del luogo è entrare in questa conoscenza e farla propria).
“Il viaggio trova senso solo in sé stesso, nell’essere viaggio (Kavafis).” (10)
“La letteratura … è la dimostrazione che la vita non basta … è una forma di conoscenza in più. È come il viaggio.” (14)
“Sono un viaggiatore che non ha mai fatto viaggi per scriverne, cosa che mi è sempre parsa stolta. Sarebbe come se uno volesse innamorarsi per poter scrivere un libro sull’amore.” (17)
“A ciascuno sarebbe piaciuto avere avuto un’altra vita da vivere. Peccato che la vita sia una sola.” (65)
“Secondo la filosofia del [Bard] College un biologo o un ingegnere che conoscono Tolstoj o Mozart … hanno un cervello che funziona meglio dei corrispettivi professionisti che non li conoscono.” (86)
“(Dice Pessoa) se dopo la mia morte qualcuno volesse scrivere la mia biografia, bastano due date, quella della mia nascita e quella della mia morte: fra l’una e l’altra tutti i giorni sono miei.” (172)
“Tutti i giorni la laidezza del mondo ci perseguita, è di casa nello schermo televisivo, e ad essa ci siamo assuefatti. Invece la bellezza può fare ammalare.” (234)
“Gerusalemme … è la città dove tutti ricordano di aver dimenticato qualcosa.” (236)
“Quale è lo spazio … di un attore? … [Heidegger dice] che il vuoto … è quel luogo in cui si fondano i luoghi … e in quello spazio gli attori ricreano il mondo e lo reinventano.” (217)
Riprendendo il titolo, ed omaggiando l’amico Ennio ed i suoi infiniti giochi, non son rumeni ma numeri (anagramma). Questo è la trama numero 42 (4+2=6) di questo 2013 (2+0+1+3=6), che è anche il sesto anno che utilizzo questa testata come messaggio da me a voi. Inoltre, no possiamo non pensare al giorno odierno, ultimo e per molto tempo anagramma di numeri 30/12/2013 (30/12 anagramma 2013, ed ovviamente 3+0+1+2=6). Quindi chiudiamo l’anno con questa trama che vi ricorda che io pur cambiando sono sempre lo stesso viaggiatore numerico. Buon anno a tutti

mercoledì 25 dicembre 2013

Natale viaggiatore - 25 dicembre 2013

Edizione speciale delle trame, per festeggiare un lieto Natale, con le letture degli ultimi viaggi. Come molti sanno, tendo sempre a cercare qualche libro “in loco” durante i miei viaggi. Possibilmente in lingua locale. Ovviamente, qui non è stato possibile. Ma abbiamo un decente giallo islandese (con qualche sguardo sui costumi isolani), un interessante e poliedrico romanzo portoghese, un dolente andare tra le dune marocchine ed un “action thriller” ovviamente nella caotica Bangkok.
Yrsa Sigurdardóttir “My Soul to Take” Hodder euro 12,75
[A: 13/07/2013– I: 22/08/2013 – T: 25/08/2013]
[tit. or.: Sèr grefur gröf; ling. or.: islandese; pagine: 456; anno 2006]
Comprato a Reykjavik l’ultimo giorno della bellissima vacanza islandese, perché l’ottima libreria del centro non aveva gli ultimi di Indriðason che cercavo. E siccome sapete la mia mania di avere qualcosa di scritto dei posti che frequento, e siccome anche potete immaginare che non sia proprio fluente in islandese, ho ripiegato su questo che veniva pubblicizzato come un interessante thriller delle nuove leve di scrittori dell’isola. Anzi, dato il cognome, possiamo subito dire, di una promettente scrittrice. Anche se la titolazione risente anche qui della voglia di attirare il lettore distratto. Infatti, l’originale sarebbe (se il translator non tradisce) qualcosa tipo “La fame scava la tomba”. Invece il titolo inglese (che riprende una preghiera citata nel prologo) indica appunto una preghiera presente nel primo libro di preghiere protestanti per fanciulli. Sfortunatamente, questo è il secondo con protagonista Thóra Gudmundsdóttir, per cui qualcosa si perde. Ma la trama è ben delineata (anche se impiega un po’ a decollare). Ma sopratutto mi ha attirato il fatto che si svolge principalmente in un hotel-spa situato nella penisola di Snæfellsnes, penisola che abbiamo visitato nel giro islandese. Thóra viene convocata lì dal proprietario, Jonas Juliusson, che vuole rinegoziare l’acquisto sostenendo che l’albergo è infestato da fantasmi. Thóra, molto pragmatica, comincia ad indagare e scopre che i venditori (fratello e sorella) hanno lasciato delle casse nel seminterrato dell'hotel. Ed in queste Thóra trova vecchi documenti sulla storia della famiglia, risalenti alla seconda guerra mondiale. Intanto viene assassinata Birna l’architetto dell’albergo e Thóra, incuriosita da possibili collegamenti, comincia anche ad indagare su questa morte. Aiutata dal ritrovamento del diario di Birna, che lei non comunica alla polizia, e che contiene spunti sia sul passato che su possibili moventi del reato. Da qui si sviluppa la parte “mistery” del romanzo, coinvolgendo anche alcuni ospiti dell’albergo, che non hanno atteggiamenti così lineari come sembra in un primo tempo. Ma anche la vita privata di Thóra viene coinvolta. Per una vacanza arriva Matthew, un tedesco che ha una relazione con Thóra e che rimane ad aiutarla nelle indagini. Hannes, l’ex-marito di Thóra dovrebbe intanto badare ai loro due figli. Cosa che non fa (come al solito, e forse la spiegazione sta nel primo romanzo). E i due scompaiono, impensierendo Thóra sia per la piccola che ha solo 6 anni, sia per il maggiore che, sebbene sedicenne, ha una fidanzata che sta per partorire. Questo crea ovviamente ulteriore ansia al nostro avvocato. Ulteriore trama, che parte dai documenti e dal diario, è la storia della regione e dei suoi abitanti. Alla fine Thóra riesce a collegare tutti i pezzi del romanzo. La storia che viene dalla seconda guerra mondiale (e che coinvolge anche una cellula nazista insediatasi nell’isola a quel tempo), la storia delle morti, nonché le sue storie personali, sia verso i figli che verso l’amato Matthew (anche se questo è un po’ passivo per quasi tutto il romanzo). La scrittrice usa sapientemente diversi registri, anche con toni umoristici che non sono male. Dandoci inoltre una bella visuale sullo stile di vita familiare di Thóra, quasi emblema del modo di vivere islandese, con i conflitti tra l’amore materno e l’esasperazione verso i modi di adolescenti e bambini che non fanno che complicare la pur non semplice vita degli adulti. Forse è un filo troppo lungo, motivo per cui (dati anche i molteplici personaggi presenti) a volte si perde la trama per andare a ritrovare chi è il personaggio di cui si parla, cosa ha fatto, e com’è collegato alla vicenda. Insomma, da salvare sicuramente per la parte in cui mi ha restituito il feeling con l’Islanda, meno per il resto. D’altra parte non sarà facile leggerne ancora, che niente è stato pubblicato in italiano.
“Even if people listen, they don’t necessarily hear.” [Anche se la gente ascolta, non necessariamente sente (cioè comprende)] (241)
Inês Pedrosa “Nas tuas mãos” Leya euro 5,95
[A: 27/07/2013– I: 26/08/2013 – T: 02/09/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: portoghese; pagine: 207; anno 1997]
Devo dire che questa volta, la lettura portoghese è stata più impegnativa delle precedenti. Ovvio che non sono un lusofono, ma nella scrittura normalmente narrativa, per assonanze e sovrapposizioni, si riesce a seguire discretamente bene uno scritto portoghese. Qui, l’autrice usa dei modi narrativi meno diretti, non solo, ma infarcisce soprattutto la prima parte di nomi e nomignoli, cosa che mi ha fatto perdere tempo per potermi muovere più a mio agio. La prossima volta che decido di seguire uno scrittore in lingua, mi sa che è meglio qualcosa di più avventuroso. Ma torniamo alla nostra scrittrice, qui al suo secondo romanzo, vincitore di premi in patria (non so se tradotto in Italia, se lo trovate vale la pena di leggerlo). Inês Pedrosa nasce giornalista, per poi dedicarsi una ventina di anni fa pienamente alla scrittura, senza dimenticare (e lo si sente negli scritti) l’impegno a favore dei diritti delle donne. Qui ci porta in una lunga carrellata attraverso molta storia del suo paese, ed attraverso soprattutto la figura di tre donne: Jenny, la nonna, Camila, la madre, e Natália, la figlia. Ed attraverso tre diversi modi di scrivere. Perché il romanzo è diviso appunto in tre parti: il diario dell’anziana Jenny, la descrizione di Camila delle sue fotografie, le lettere di Natália a Jenny. Sono tre diverse scritture, ma che rendono pienamente la vita di questo spaccato portoghese. Che comincia ai tempi dell’ascesa di Salazar, per poi proseguire durante la guerra mondiale, il periodo oscuro della repressione fascista, le lotte di liberazione nelle colonie africane, la rivoluzione dei garofani ed il tempo presente, libero ma ancora pieno di difficoltà. E di saudade. Quel sentimento che si legge in faccia ai portoghesi quando andiamo per le varie città. Quella triste allegria, di chi poi, dentro, ha comunque dei pesi di cui non si libera. È la tristezza del fado (e non a caso, mai qui si parla del portoghese allegro, per me simboleggiato dai brasiliani d’oltre oceano). Alla fine, depurata dalla sarabanda dei nomi di cui dicevo prima, la storia delle tre donne è comunque una storia di tentativi di emancipazione. Di tentativi di uscire fuori dai sentieri tracciati per vivere e viversi la propria vita. Come inizia Jenny, che porta un nome inglese che la madre era affascinante dalla cultura anglosassone e che sposa il bellissimo António, vivendo con lui un’intensissima storia d’amore. D’amore, ma non di sesso. Che António ama, riamato, l’intellettuale Pedro. E loro tre mettono su quella casa, che sarà il teatro di tutte le vicende. La Casa degli Scacchi. Con tante stanze, e con dei giardini curati in modo maniacale da António, fino alla sua morte (poi decadranno, anche se il nome rimarrà sempre). E questo strano menage a tre sopravviverà per 60 anni, sopravviverà alle maldicenze del popolo, sopravviverà a quando Pedro si innamora della francese Danielle. Un’attivista anti-fascista con cui Pedro fa una figlia, Camila. Che poi decide di tornare in Francia dove morirà, lasciando Camila a Jenny. E per lei sarà la figlia non avuta, non potuta avere. Solo leggendo il diario di Jenny, dopo la sua morte, Camila capirà tutta la storia. E si farà una ragione della sua difficoltà di manifestare sentimenti, tanto che si nasconderà sempre e comunque dietro una macchina fotografica, con la quale darà vita al suo mondo. Alle sue ribellioni, quando viene presa e torturata dalla polizia senza che gli aristocratici amici della presunta madre vogliano fare nulla. Tanto che fuggirà, in Mozambico, dove avrà una brevissima ed intensissima storia d’amore con Xavier. Da cui nasce Natália, che tutti accettano poi in patria come figlia e nipote, pur avendo un difficile color ambrato da portare sulla pelle. E Natália, unica veramente ad accettare tutto quello che succede, nel rapporto unidirezionale con la nonna Jenny, arriverà a comprendere il passato e farne la base per il futuro di tutti. Della morte serena di Jenny. Della distanza con Camila. Del suo difficile rapporto con gli altri, condizionato sempre dalla sua bellezza, laddove anche Leonor se ne innamora. Riuscirà a dire alla fine al suo amato Álvaro di non aver paura? Chissà. In tanto abbiamo seguito la storia di questa famiglia portoghese, e la storia del Portogallo di Pedrosa, a volte contraddittorio, ma sempre pieno di sentimenti. Un ultimo cenno personale, come riporto in basso. Come non voler bene ad una scrittrice che fa prendere un aperitivo alle sue donne al “Pavilhao Chines”? Perché chi lo ha visto, non può non ricordarsene e volergli ancora bene.
“Uma das vantagens do envelhecimento è conseguirmos esquecer aquilo que nao nos apetece recordar.” [Uno dei vantaggi dell’invecchiamento è che possiamo dimenticare quello che non ci piace ricordare.] (24)
“Tudo està escrito nos espaços brancos que ficam entra una palavra e a seguiente.” [Tutto sta scritto negli spazi bianchi tra due parole.] (131)
Mahi Binebine « Les funérailles du lait » Fennec euro 2
[A: 26/08/2013– I: 02/09/2013 – T: 03/09/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 117; anno 2012]
Passeggiando per la strada pedonale del centro di Casablanca, cerco rifugio dall’asfissiante umidità in una (almeno dall’esterno) simpatica libreria. Impressione confermata anche dentro, con buone selezioni di libri. Parlo con il gestore, sempre alla ricerca di un ricordo di carta dei luoghi visitati. E mi si consiglia questo autore non solo maghrebino, ma intensamente di Marrakech. Dove è nato 54 anni fa, e dove ora è tornato a vivere, per sfruttare al meglio le sue passioni (la pittura e la scrittura), dopo aver vissuto anni ed anni a Parigi. Lì si era laureato ed aveva insegnato per una decina d’anni la sua materia. Che guarda il caso strano (e già me lo ha reso subito simpatico) è la matematica. Ed anche in questo romanzo breve, le passioni escono tutte. Tanto per ribadire che non è mai un caso che siamo quello che siamo. Un ordine interno, quasi una geometrica descrizione ci fa seguire la storia di Mamaya, tra ricordi del presente e del passato. Non è un caso, ma gli anziani sembrano sempre ricordare, anche quando vivono e raccontano storie presenti. Una sensazione di luce e di spazi, che solo chi sa tenere in mano un pennello riesce a dare, nel descrivere. E non solo luoghi fisici, ma anche dell’anima. Mescolando il tutto nel calderone della vita. Attraverso poi una scrittura senza troppi voli aulici, con delle solide radici terrene. Libro poi scritto in francese e non tradotto dall’arabo. Binebine riesce con questa sua scrittura docile a portarci dentro il Marocco, non nelle grandi città, ma ai loro margini, forse anche in campagna. Ma soprattutto a farci fare un viaggio nel tempo (mentale e fisico) di Mamaya. Certo la vediamo per la maggior parte del tempo in una poltrona. Ma seguiamo i suoi pensieri, le voci del medico e della governante. In un’altalena nel tempo, cullata dal ritmo del caldo e della pioggia (poca), risaliamo indietro. Sino all’incontro di sua madre Maman-le-bled (la mamma del deserto – anche se bled in francese è usato più come indicazione di luogo sperduto generico) con il bel militare. Le avances della madre, e la sua determinazione. E poi la nascita della grande famiglia. Mamaya che va a scuola, con la sua intelligenza, la prontezza, la capacità di apprendere. Quando si innamora del bel francesino della classe accanto. La scoperta dei primi piaceri. L’impossibilità di un futuro in quella direzione (siamo pur sempre ancora prima della liberazione dal giogo francese). Ed allora lo sposarsi per convenienza con l’interprete locale, potente al momento, ma poi in disgrazia nell’ora dell’autonomia (non servono più gli interpreti arabo-francofoni). I figli che nascono. I figli che crescono. E, lui, il primo figlio, non a caso di nome Adam, cui Mamaya rivolge molte cure. Soprattutto quando, Adam militare, il figlio comincia a prendere coscienza della crudeltà del potere, anche se ora in mano ai potenti locali. La sua ribellione, il suo incarceramento. E la sua sparizione. Da quel momento, diventa l’assente. Ma è l’assente più presente per Mamaya. A lui ora vanno i suoi pensieri. E quando (come dolorosamente succede) viene colpita dal cancro al seno, che ne porterà l’ablazione (ahi quanti ricordi porta questa descrizione), è a questo seno mancante che si rivolgono i pensieri di Mamaya. Le sue cure, il conservarlo per poter celebrare, ora che si avvicina la fine, il funerale del titolo. Ed è andando alla tomba di famiglia, dove riposano Maman e il buon babbo, accanto ad un locale marabut, che si compie il cerchio della geometria di Binebine. Fino ad ora ha sperato in un ritorno. Ora non più. E seppellendo il seno nella tomba di famiglia, seppellisce anche Adam che ormai sa non rivedrà più. Guardando, con gli occhi che solo gi anziani riescono ad avere, il luogo dove presto anche lei andrà a riposare. La matita dell’autore, poi, ci lascia in copertina un fumetto della madre, con l’iqbal e con le rughe che si vanno accumulando intorno agli occhi. Da un certo punto di vista, nei pensieri che contornano ogni libro che vado leggendo, questa copertina, con il volto di Maman e con il titolo sarebbe già più che sufficiente a far capire le seguenti 117 pagine. Non ci sarebbe necessità quasi di leggerlo. Anche se, e con piacere, la sua lettura, mi ha riportato a quest’ultimo viaggio marocchino, ed agli altri fatti ed a quelli futuri. In un ricordo di viaggio come fossi anch’io un anziano seduto accanto a Mamaya.
“Qui pourra jamais lui dérober, à elle, sa mère, les premiers cris de son bébé, ou ses premiers sourires?” [Chi potrà mai rubarle, a lei, sua madre, i primi vagiti del suo bambino, o il suo primo sorriso?] (70)
John Burdett “Bangkok Tattoo” Corgi Books euro 10
[A: 28/03/2013– I: 04/10/2013 – T: 09/10/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 429; anno 2005]
L’avevo lasciato da parte, pur avendolo comperato in occasione di un viaggio, come molti libri in lingua. Si era alla fine del “Tutto Thai Breve”, ed aspettando la partenza all’aeroporto di Bangkok, ricordando la prima avventura del detective Sonchai, l’ho preso pensando di leggerlo presto. Poi, invece, vicende alterne di lettura hanno fatto sì che solo dopo sette mesi lo riprendessi in mano. Ma mi ha subito riportato in Asia e nella sua caotica città degli Angeli (che vi ricordo essere il vero nome di Bangkok).  Devo dire subito che, pur ripetendo l’interessante modo visuale sull’Asia ed avendo quindi una sua ragion d’essere, mi ha convinto meno del primo libro. Ricordo, infatti, che si tratta di una saga, le avventure che si estendono su cinque libri con al centro il detective filosofo buddista thailandese Sonchai Jitpleecheep e le sue meditazioni. Sonchai è un meticcio, figlio di una “moglie-in-affitto” (uno dei livelli della prostituzione Thai) e di un “farang” (straniero, da “foreigner”), un militare americano. I romanzi sono ambientati nel mondo dell’industria del sesso ed uno degli elementi costitutivi è proprio il conflitto tra le norme ed i costumi Thai e Occidentali. Sonchai è un devoto buddista, che i monaci forzano ad entrare nella polizia per farne un esempio (ha commesso un qualche peccato in gioventù). Durante la sua vita religiosa Sonchai diventa esperto nel camminare sul confine tra bene e male. Sentiero che persegue anche ora, da detective, anche se spesso si trova in conflitto con il suo capo, il colonnello Vikorn, da sempre coinvolto in una lunga guerriglia con un altro militare. Il romanzo prende le mosse all’interno del “The Old Man’s Club” un bordello gestito dalla madre di Sonchai e dal colonnello, e dove un farang viene ucciso, pare dalla più bella prostituta del Club, Chanya (di cui Sonchai è innamorato). Le cose si complicano quando si scopre che non solo il tizio è morto, ma è stato scuoiato ed è un membro della CIA. Per complicare il tutto, il colonnello inventa una messa in scena che coinvolge Al Qaeda e che si svolge nel sud della Thailandia al confine con la Malesia. Lì vola Sonchai, poi altri agenti della CIA che incasinano il tutto. Convergendo poi anche in un traffico di droga che li riporta tutti a Bangkok. Dove Sonchai ha le confidenze (finalmente) di Chanya, che ben conosceva il morto, tale Mitch Taylor. Il quale è un agente bipolare (soprattutto sotto effetti alcolici). Inoltre si scopre che tutti gli interessati hanno il corpo tatuato da un misterioso tatuatore giapponese, in fuga dalla mafia. Ed è, infatti, la mafia all’origine di tutte le morti con conseguenti scuoiamenti. Sarà Sonchai, con l’aiuto dei musulmani malesi, che riuscirà a sbrogliare le matasse, ed anche a salvare Chanya da morte sicura. Ma non è tanto la storia, ripeto, quello che più interessa. Vedete bene che è una storia non solo complessa, ma a volte talmente ingarbugliata che non riesco quasi a semplificarla in queste righe. È un libro per chi conosce o vuole conoscere la Thailandia. Questo, e gli altri di Sonchai, sono un ottimo punto di partenza, anche per i frequenti commenti di Burdett che aiuta noi lettori farang a capire come i modi di vita farang siano così lontani dal punto di vista asiatico considerato come “umano – centrico”. Ed anche le divagazioni sul diverso modo di essere delle donne, asiatiche ed occidentali, sono interessanti, pur dovendo scontare il fatto di essere scritti da un uomo. Insomma un po’ di interesse intellettuale, meno, purtroppo, sul piano narrativo. Non credo che penserò ad altre letture (ma se poi si ripartisse per l’Asia…).
“I would have preferred the age of sail [instead of e-mail] when letters took months to travel from one continent to another and one might easily have died of cholera or heart stroke before knowing how one’s heart had been treated by the special correspondent on the other side of the world.” [Preferisco l'età dei viaggi per nave (invece dell’età dell’e-mail) quando le lettere impiegavano mesi per viaggiare da un continente all'altro e uno potrebbe facilmente essere morto di colera o di un attacco di cuore prima di sapere come il proprio cuore venga trattato dal suo corrispondente dall'altra parte del mondo.] (94)
“[Now the Opium tour on the North of Thai is called] Adventure … You get elephant trek through the jungle, the bamboo raft on the river, all the ganja you can smoke – and a couple of very special nights in one of those flimsy bamboo shacks you see so much of in Vietnam movies.” [Adesso il tour dell’Oppio nel nord della Thailandia si chiama] Avventure ... Si comincia con un trekking su elefanti attraverso la giungla, poi la zattera di bambù sul fiume, e tutta la ‘maria’ che si può fumare – oltre ad un paio di notti molto speciali in una di quelle fragili baracche di bambù che si vedono tanto nei film ambientati in Vietnam.] (362)
Come i miei amici viaggiatori sanno, dovrei andare una settimana in Marocco a gennaio, tanto per cominciare anche il 2014 con qualche buon proposito viaggiante. Ho quasi finito lo studio preliminare sulla Transiberiana, ed ogni nuova proposta è ben accetta. 

domenica 22 dicembre 2013

Isole - 22 dicembre 2013

Dall’Islanda alla Sardegna, donne isolane che ci accompagnano con idee, storie ed altro ancora. Anche se, pur partendo ed arrivando su isole, poi passiamo per la Parigi della de Vigan (un’isola nella mia memoria d’adolescente) e per l’isolato posto mortifero della Seminara. Forse non amo la Sardegna come meriterebbe (anche se Fois mi fece recedere da alcuni luoghi comuni nel bellissimo “In Sardegna non c’è il mare”) ma amo Milena Agus; di converso sono più legato all’Islanda che alla Ólafsdóttir, ma forse se ne leggerà ancora. Comunque è l’isola l’immagine che mi è venuta in mente nella rilettura di queste trame. Ed avvicinandosi l’isola di felicità delle feste nataline, vi lascio la lettura.
Auður Ava Ólafsdóttir “Rosa candida” Einaudi euro 11,50 (in realtà, scontato a 8,63 euro)
[A: 01/07/2013– I: 15/07/2013 – T: 16/07/2013]
[tit. or.: Aflegjarinn; ling. or.: islandese; pagine: 206; anno 2007]
Un libro cui mi lega la sua curiosa storia di come l’ho preso, l’ho letto, l’ho perso, l’ho ripreso e l’ho riletto. A parte la selva di passati prossimi da far impallidire Gadda, avevo visto spesso questo libro con un neonato in copertina, e mi aveva sempre frenato l’idea che parlasse di bimbi e di terrore (chissà perché, poi). Dovendo andare in Islanda, forte del mio retroterra asfaltato dalle letture di Indriðason, ho deciso di comprarlo e portarlo. Leggendone in loco, ho cominciato ad apprezzarne come dire, l’islandesità. Poi una tremenda mattina nell’ostello di  Egilsstaðir, assillato dal tempo, l’ho lasciato sotto il piumone. Ma non avendolo finito, appena in Italia, l’ho ricomprato, riletto da capo, ed apprezzato pienamente. Prima di tutto perché, essendo narrato da un poco più che ventenne in prima persona, parla come se fosse un ventenne. Senza che l’autrice (che non solo non è ventenne, ma è anche una donna e, come dice il nome, figlia di Olaf) intervenga mettendogli in testa pensieri da persona più matura di quello che è. No, Lobbi (il protagonista) ha 22 anni, una madre morta da poca e fantastica nel curare le piante, un padre perso dietro al quaderno di ricette della moglie morta (e che lo chiama in ogni parte del mondo per sapere la sua interpretazione delle ricette), un fratello gemello autistico. Non sta bene in patria, con il freddo, la lava, e tutte quelle cose che noi viaggiatori in terra d’Islanda abbiamo imparato a conoscere (ma come si fa poi a non star bene se si mangia Kyr?). Decide quindi di accettare il posto di giardiniere in un roseto di un monastero del Nord Europa. E lascia tutti. E soprattutto lascia Flóra Sól, la figlia di sette mesi avuta dopo una sola notte d'amore (anzi, precisa lui, «un quinto di notte») con Anna. Mi piace molto la descrizione dell’imbranato viaggio verso il monastero, la malattia, gli incontri fuggevoli, e poi l’incontro con padre Thomas, un monaco cinefilo che ha un film-rimedio per ogni situazione. Il cuore triste di Lobbi tra la pace del luogo, il monaco e la cura del roseto riacquista un suo equilibrio. Ma sarà soprattutto l'arrivo di Anna e Flóra Sól in quell'angolo fatato di mondo a provocare i cambiamenti più profondi e imprevisti nell'animo del ragazzo. Perché, per la prima volta, Lobbi scopre in sé un desiderio nuovo, che non è solo amore per la figlia e attrazione per Anna: è il desiderio di una famiglia, quella che in realtà non aveva mai avuto. Ci saranno momenti delicati, momenti tristi, e risvolti allegri. Verso una fine per nulla consolatoria, ma in sintonia con quello che è successo nel libro. Ed in sintonia con il fatto che Lobbi sta diventando adulto. Alla fine, sono sicuro di aver avuto tra le mani un gioiellino, un libro minimo, ma che a volte comunica più di altri ben più acclamati e sbandierati. Mi ha conquistato la sua semplicità, che non diventa mai semplificazione. Anche quando le cose della vita portano Lobbi a riflettere, a porsi domande difficili sulla morte e sulla vita. E sebbene poco si svolga in Islanda, trasmette pienamente il senso dell’isola. Dei suoi modi di vivere, dei rapporti umani. Della facilità con cui lì si può nascere fuori dal matrimonio, e della possibilità di crescere anche senza congelarsi in vincoli esteriori. Parla anche molto di piante e giardini, argomento che non mi trova sempre in sintonia, io che faccio morire anche le piante grasse. Ma affascina il rapporto tra Lobbi ed il giardinaggio (già mi ricorda qualcosa). E soprattutto con la pianta cara alla madre, la varietà di rosa a otto petali chiamata “Rosa candida”. Quella del titolo, che però, più correttamente, avrebbe avuto senso lasciare nella traduzione originale. Che significa “bivio, svolta”. Un bivio, una svolta che è quella che Lobbi dà alla sua vita, e sulla quale ci fa piacevolmente riflettere per tutte le pagine. Da leggere assolutamente.
“- Tu le racconti le bugie? … - No, ma forse non dico tutto quello che penso.” (153)
Delphine de Vigan « No et Moi » Livre de Poche euro 6,80
[A: 21/06/2013– I: 01/08/2013 – T: 06/08/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 249; anno 2007]
Comprato a Roma alla Libreria Francese, perché facevano una promozione per i 60 anni delle edizioni “Livre de Poche” e non potevo esimermi, dato il co-genetliaco. Inoltre, andavo un po’ in controtendenza, dato che in genere i libri in lingua li compro all’estero, ma può essere utile non essere prevedibile. Quindi un po’ al buio, ed è tuttavia risultato un libro di interesse. Perché non conoscevo l’autrice e volevo leggerne. Perché mi ha intrigato la trama, anche se la fine l’ho trovata un po’ irrisolta. E non è un caso che abbia vinto un premio (il Prix des libraires nel 2008) esattamente l’anno dopo di quel libro per me ugualmente irrisolto che è “L’eleganza del riccio”. La storia è raccontata in soggettiva da una ragazza di 13 anni, Lou, molto intelligente (ha un quoziente intellettivo di 160 e per questo ha saltato delle classi), e proprio per questo (forse) non si sente felice. A casa la situazione è tesa (con una situazione che ha aumentato la mia empatia con Lou). La madre è depressa per la morte prematura della sorella di Lou di soli pochi mesi, si chiude in se senza mostrare affetto per la figlia. Il padre è inconsultamente felice per nascondere i suoi fallimenti. I compagni di classe la ignorano a causa della sua intelligenza. Tutti tranne uno, Lucas, il re del liceo, diciassettenne un po' difficile, l'antitesi di Lou (che per lui ha una cotta), ma che appunto per questo vuole conoscerla e che l'aiuterà nel momento in cui ne avrà più bisogno. A Lou piace vedere nei volti della gente la gioia e l'emozione: per questo passa la metà del suo tempo alla stazione per osservare la gente che si lascia o che si ritrova. Qui incontra Nolween, detta No, diciottenne che vive in strada, beve alcolici e fuma. Nella confusione scolastica, Lou si assegna il compito di scrivere una relazione sui SDF (Sans Demeure Fixé, cioè i senza tetto), decidendo di coinvolgere No in questa impresa. Con la scusa delle interviste per la relazione, tra le due nasce un rapporto strano, fatto di odio e di amicizia, di curiosità per il modo vivere dell'altra. Tanto che Lou ospita per un certo periodo No. Ma No non riesce ad uscire dalle sue dipendenze, e, di nuovo senza casa, trova posto da Lucas (anche lui con una situazione famigliare difficile, vive praticamente da solo). Ma la tregua è breve ed anche da lì deve andarsene. Lou decide allora di fuggire con lei. Va via di casa, passa due giorni in giro “da barbona” con No. Ma nel momento di prendere un treno e scomparire, è No che scompare abbandonando Lou, sola e infelice. Inizia allora, aiutata da Lucas, la ricerca di No, della sua storia non detta. Alla fine, ne sapremo di più, ma non sarà quello ad aiutare Lou. Sarà Lucas, con il suo affetto. Sarà il professore con la sua comprensione. Sarà una bellissima descrizione del primo bacio. Come detto, la scrittura è molto gradevole, anche se, come nel Riccio, ho sempre l’impressione che la proiezione di un adulto verso una ragazza al limitar di gioventù rischi sempre di passare le righe. Lou ha atteggiamenti “incompatibili” con una tredicenne, anche se compatibili con l’affetto che proviamo per lei. Verso tutte quelle prove (dalla difficile comprensione del rapporto con No all’altrettanto complessa vicenda dei suoi sentimenti verso Lucas). Ma nel complesso è una storia che lancia qualche messaggio e lascia qualche segnale (l’insoddisfazione dei giovani, il difficile rapporto con gli adulti, lo sguardo verso i treni in partenza). Per chi non volesse affaticarsi con l’originale, ne segnalo l’uscita anche in italiano con il titolo “L’effetto secondario dei sogni” (e qualcuno ce lo spiegherà, prima o poi). Come segnalo il primo libro dell’autrice, legato alla sua lotta (vinta) con l’anoressia (“Jours sans faim”).
“Si c’était ça le bonheur, pas même un rêve, pas même une promesse, juste l’instant.” [Se fosse questa la felicità, non un sogno, non una promessa, solo l’istante.] (72)
“C’est avec les gens qu’on aime le plus, en qui on a le plus confiance, qu’on peut se permettre d’être désagréable (parce qu’on sait due cela ne les empêchera pas de nous aimer). ” [è con le persone che amiamo di più, di cui abbiamo fiducia, che possiamo permetterci di essere scortesi (perché questo non impedirà loro di amarci).] (161)
Elvira Seminara “La penultima fine del mondo” Nottetempo euro 11 (in realtà, scontato a 9,35 euro)
[A: 18/06/2013– I: 13/08/2013 – T: 15/08/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 154; anno 2013]
Avendo già avuto modo di conoscere la scrittura della Seminara, mi aspettavo qualcosa, che poi in realtà c’è, anche se ho faticato a trovarlo. C’è la sua scrittura, che parte sempre dall’ironico, ma che non finisce lì, e confesso mi spiazza (come aveva fatto ne “I racconti del parrucchiere”). Perché il libro comincia come un noir, e il titolo ne rende benissimo lo spirito. Quello di un romanzo imprevedibile sino alla vera (e ultima) fine. In un piccolo paese dell’Isola, col suo fiume, il suo parroco, la brava farmacista e i bar coi tavoli all’aperto, improvvisamente un uomo, durante una festa, si lancia nel vuoto. Toccherà poi a una donna, a un altro uomo, e molti ancora, di ogni età – suicidi tutti senza ragione. Più che togliersi la vita, escono dalla vita. Sorridendo. Uno dopo l’altro. L’intero paese finisce sotto inchiesta dalla pista tossico-ambientale a quella satanica, e la stampa internazionale si precipita nel piccolo centro trasformandolo in un polo di attrazione dove tutto è reale ma inspiegabile. Si fanno convegni internazionali sulla “perdita di orizzonte”, dibattiti televisivi sui “diversamente vivi” (bellissima immagine), arrivano i pullman pieni di turisti per i “safari coi morti”. Sin quando, abbandonato a se stesso per paura di un “contagio”, o forse piuttosto perché il caso è invecchiato e privo di sviluppi, il paese sprofonderà nell’ombra, smemorato e solo, a tu per tu con gli spettri. In tutta questa trasformazione, il noir iniziale si è trasformato in un’accusa sul mondo di oggi ed il suo onnipresente cannibalismo. Ma ora, nella sua parte finale, si avvolge su di se, quasi a spirale (lontani ricordi di Asimov) e perde un po’ di mordente. In mezzo a tanto abbandono, solo una persona, l’Ospite Televisivo invitato all’inizio a commentare i fatti, cercherà di capire, trascrivendo tutto sul taccuino. E’ uno “scrittore da festival” ma qualcosa lo trattiene in questo lembo di mondo in dissoluzione. In un clima sempre più visionario i morti si confondono coi vivi, sotto lo sguardo dei soli testimoni coscienti, i cani. Sino all’unica, sorprendente spiegazione possibile che però mi lascia un po’ di amaro in bocca. Forse era meglio non spiegare, lasciare cadere o decadere il tutto. Leggendolo mi è subito venuto in mente che chi ama o conosce Saramago, se ne sentirà colpito. Sarà una parodia de “Le intermittenze della morte” o una parafrasi di “Cecità”? Siamo anche qui in una città normale, con persone normali, dove avvengono fatti straordinari. Ma seppur queste idee vengono in mente (con tutti i distinguo che possiamo immaginare) l’opera della scrittrice catanese è comunque altra e diversa. Perché l’atmosfera è più fiabesca, ma alla fine la Seminara non ci dà (vere) soluzioni, non ci dà chiavi di lettura, spiegazioni realmente ultime. Ad ogni episodio narrato, ad ogni morte annunciata, ci mettiamo a chiederci il perché. Ogni intervento esterno (la stampa, i media, il consumismo del suicidio) ci portano immediatamente all’oggi e al noi. E mentre scorriamo le pagine e simpatizziamo con le accuse a chi gestisce e manipola le notizie, ci domandiamo costantemente: ma noi, siamo vivi? E cosa significa essere vivi? Come viviamo? Un ultima piccola nota, visto che in genere parlo male di editor ed edizioni, devo invece spezzare una lancia in favore di “Nottetempo”. Bello il formato ridotto, che ne consente la fruizione ovunque, tanto da poter essere messo in tasca, e tirato fuori per leggere di una morte, e poi riporlo e pensarci su. Un libro realizzato con cura. E noi lettori non possiamo che apprezzarlo.
“L’ultima donna con cui aveva vissuto, le altre. … I vicini, i traslochi, i nemici, i tanti viaggi. Tutto si affastellava e mischiava con scarsa definizione. … Ecco, anche a sgranarli con attenzione, uno per uno, i ricordi scorrevano a fatica.” (91)
Milena Agus “Mentre dorme il pescecane” Nottetempo s.p. (regalo collettivo Almaviva)
[A: 07/05/2013– I: 28/09/2013 – T: 30/09/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 171; anno 2005]
Fortuna che c’è stato il grande compleanno, che mi ha permesso, grazie ad Almaviva, di colmare qualche buco di lettura. Ad esempio con questo, il primo romanzo scritto da Milena Agus, che ancora mancava in libreria. Ed ora che si leggesse. Bella (e per il momento della stesura del libro, anche nuova) la scrittura, con quel tono di amicizia con il lettore, di complicità (modo di scrivere che poi tornerà negli altri suoi romanzi, anche con qualche risultato più convincente). Scrittura che ti porta nella storia, tra realtà e fantasia, della diciottenne protagonista. Per tocchi, accenni e voli, riesci a seguire anche la realtà dietro alla fantasia. La tristezza della madre, la sua “non” esistenza, il suo “non” trovare un posto nello scorrere delle cose, fino a quel doloroso salto dalla terrazza. Il padre, forte delle sue certezze, ma quanto presente? Sì, è bravo, intelligente, ma alla difficoltà risponde solo fuggendo, dietro ai suoi improbabili sogni sudamericani. Tanto improbabili, che poi diventeranno reali. La zia sempre dietro ad un nuovo amore che (dopo il sesso) non durerà mai molto. Il fratello perso dietro al suo pianoforte, unico aggancio con il reale, e che gli permette di essere, di restare sulla terra, senza volar via come la madre. E lei! Diciottenne bruttina, grassina, autoinfliggentesi un rapporto senza futuro con un uomo sposato (da prendere a schiaffi ogni volta che apre bocca). Rapporto da cui non riesce ad uscire, che non riesce a troncare mai. Forse c’è quello spiraglio di luce quando compare il veterinario. Purtroppo finirà anche quello spiraglio, lasciandola indifesa contro gli eventi. Chi la può aiutare? La madre morta, il padre in fuga, la zia con la testa per aria, il fratello con il suo pianoforte? Neanche la saggia nonna, che l’unica cosa che fa è dire ad oltranza sagge sentenze, come quei libri che con tanta arguzia analizzano la realtà, e che poi non danno mai suggerimenti su come ci si deve comportare. E questo non la aiuta. Come non ci riesce l’amico Mario, con le sue strampalate fidanzate. E tanto meno Annunziata con la sua innocenza da mondo nuovo. Il mondo, quello vero, rimane brutto e cattivo. E noi, giovani verso la crescita (ovviamente noi giovani che stiamo leggendo il libro da giovani, o non-giovani che leggono il libro come fossero giovani), non vediamo le sue possibili bellezze. Il mondo ci mangia e ci rode dentro come il cattivo pescecane. Ma, e qui la Agus ci lascia un briciolo di speranza, forse riusciremo a fuggire, a volere e a vivere il bello della vita, se capiremo quando il pescecane dorme. E fuggiremo da lui, senza farci riprendere. Noi sì, ma ci riuscirà Milena? Insomma, alla fine, il libro mi è piaciuto, ma più come retrospettiva, che come libro in sé. Trovo ancora una volta irrisolti i problemi sessuali della protagonista (e Milena riesce spesso a mettere le sue eroine in situazioni a dir poco imbarazzanti), e forse troppo pieni di pensierini tutti i personaggi sopra descritti. Probabilmente, il più centrato (ed anche il più doloroso) è quello della madre, con la sua difficoltà di rapportarsi al mondo, con la possibilità (forse) di sfuggire al pescecane, ma con la decisione che no, non è possibile modificare quello che c’è. E purtroppo c’è anche poca Sardegna, o almeno c’è poco rimando che esista una Sardegna intorno. Sì, ci sono indicazioni, ci sono città, ma “Mal di pietre” o “La contessa di ricotta” mi facevano immergere dio più nei ritmi strani di quest’isola che usa il mare non per comunicare ma per restare isolata. Eppure, con tutti i distinguo del caso, è un libro che mi ha fatto piacere leggere, come quasi sempre mi fa piacere leggere i libri di Milena Agus (non è un caso che ho tutti e cinque i suoi libri pubblicati da Nottetempo).
Ohilà, ci son solo tre giorni per Natale. Ecco ci sono l’angioli con l’ale. E sotto l’albero un regale. Un pacco dono un po’ ficcanaso, lasciato lì, come fosse per caso. Un grande augurio al nostro Tommaso. Ah, dove fare Leopardi da grande. Invece son qui a scrivere rime stupidine (ma di cuore), ad imbastire tramine, e ad aspettar di partire (ma credo che no). A tutti ora do
un bacio

Giovanni

domenica 15 dicembre 2013

Ci salva la luna - 15 dicembre 2013

Ebbene sì, ci salva la luna della Mastrocola, in questa settimana di metà Dicembre. Forse un po’ il primo libro di Penelope Lively, di tutt’altro livello rispetto al secondo, veramente poco piacente. Certo, qualcosa c’è sempre da salvare (o quasi sempre), anche nella tela del ragno. E sicuramente gradevole, piacevole ed inconsueto il libro persiano. Ma poi c’è lei, la nostra scrittrice torinese, non ai livelli della barca, ma sempre con qualcosa. Quello che ci spinge, sempre, a cercare il meglio di noi, per noi e spesso in noi (anche quando non lo sappiamo ammettere).
Penelope Lively “Un posto perfetto” TEA euro 9
[A: 10/11/2012– I: 29/05/2013 – T: 31/05/2013]
[tit. or.: Family Album; ling. or.: inglese; pagine: 313; anno 2009]
Cominciamo subito a toglierci il sassolino dalla scarpa, che ritengo al solito fuorviante il cambiamento del titolo. L’album di famiglia ben più calzante avrebbe reso l’idea di questa cavalcata nei ricordi di una sana (sana?) famiglia inglese, cresciuta in un “posto perfetto” come Allersmead (la prateria di Allers, credo). Una casa, solida, di famiglia, dove nasce e cresce la famiglia Harper. Questa è la storia che ci racconta Penelope Lively, autrice che ho già incontrato (sempre per caso) in un suo scritto ambientato in Egitto (dove nacque, pur inglese) a suo tempo vincitore di un prestigioso premio (il Booker Prize). Ed è un’autrice che a me piace per il modo di scrivere, per i cambiamenti di prospettiva (i suoi romanzi sembrano spesso un’opera collettiva) dove cambiando soggettività aumenta il risalto a tutto tondo dell’opera in sé. Attenta ai cambiamenti sociali, ed alla società inglese in particolare, in questo album di famiglia ci porta su e giù nel tempo per farci conoscere una complessa vicenda familiare. Quella appunto della famiglia Harper. Il padre Charles, erede di una rendita che lo rende autonomo dalla necessità di lavorare quotidianamente, studioso eclettico e poliedrico, che passa il tempo a scrivere libri di divulgazione varia (quello che percorre la maggior parte del libro, è un testo sui riti di iniziazione dei giovani nelle varie tribù primitive). La madre Allison, vera matrona britannica, che decide di avere una grande famiglia (e farà una vagonata di figli), e di gestire in prima persona la tribù di Allersmead. Ingrid, la tata svedese, entrata nella famiglia quando il primogenito ha un anno e dove rimane tutta la vita, anche perché… E poi i figli. Paul, il primo, un po’ ribelle un po’ viziato da Allison, ma soprattutto senza mai un vero obiettivo, tanto che sarà l’ultimo a lasciare la casa. Gina, la più determinata a contrastare la sapienza paterna, che narra e racconta e che finisce reporter televisiva. Sandra, la bella, che legge Vanity Fair, farà la modella, l’arredatrice, indipendente e trasferitasi in Italia. I due “piccoli” Roger e Katie, che sono i più uniti tra loro, e che si trasferiscono lui in Canada a fare il pediatra e lei negli Stati Uniti. Ed ultima Clare, che per buona parte del romanzo ci chiediamo sia figlia di Allison o di Ingrid, che segue la sua vocazione di danzatrice in giro per l’Europa. È soprattutto con gli occhi indagatori di Gina (e spesso nelle sue conversazioni con l’amato Philip) che ricostruiamo le vicende della famiglia. Le feste di compleanno, le ricorrenze (natali e altro) dove Allison dà il meglio di sé, nell’organizzazione e nella preparazione del cibo. Le discussioni a tavola, dove Charles fa cadere dall’alto i suoi sarcasmi, ma dove altresì è sempre Charles che si astrae come se facesse parte di altro. I giochi dei sei fratelli Harper, soprattutto quelli in cantina, loro rifugio esclusivo, dove inscenano vive familiari che ripercorrono la vita come vorrebbero che si svolgesse. Ingrid che sembra ad un certo punto voler andar via, ma che non può far altro che tornare, troppo forti i legami con la famiglia. I primi amori di Sandra. Le sbandate di Paul con piccoli episodi di droghe leggere. Emblematica di tutta la storia l’immagine che mi salta agli occhi quando, dietro ad una duna Sandra si dà in effusioni con un suo amorazzo estivo, e Charles, camminando sulla cresta della stessa, immerso nei suoi pensieri, neanche li vede. O se li vede non li riconosce. È tutto qui il gioco di esserci e non esserci allo stesso punto. Di attraversare la vita concentrati sul proprio ombelico (alcuni degli Harper) o aperti al mondo (gli altri Harper). Ma questa tribù cresce con tutti i pregi ed i difetti di questa continua lotta. E non è un caso che quasi nessuno dei figli Harper metta al mondo altri figli. Troppo piena Allison della sua matronità, troppo pervasiva. Come se i genitori fossero esempi troppo alti (nella maternità o nella conoscenza) che i figli non possono arrivare. Quindi fanno altro. O non fanno nulla, come Paul. Filo colorato che unisce molta parte, è poi la domanda di chi sia figlia Clare. E la comprensione che, forse, non è importante. Ma come non rimanere io colpito dal bellissimo capitolo sulle vacanze al mare, che tanto mi ricorda le mie tribù estive, i traslochi da giugno a settembre. Con mia zia-generale ad organizzare la vita di ognuno. E mio padre che pensa ad inventare giochi che ci terranno occupati per settimane. Si arriverà anche alla fine di Allersmead, che dovrà, per una serie di avvenimenti, essere abbandonata. Chiudendosi nella mia mente con un’ultima visione della grande casa, da dove, finalmente tutti possono allontanarsi e seguire quello che sono diventati. Gina forse capirà che è stato tutto necessario per essere quello che siamo. Come lo riconosco io, per la buona scrittura della Lively, tutto serve a qualcosa. Bisogna farlo proprio, comprenderlo, ed andare avanti senza rinnegare, mai, se stessi. Un’altra buona lettura di questa fine di maggio.
“La vita interiore di ciascuno è abbastanza oscura, a modo suo; non c’è bisogno di esibirla agli altri.” (210)
“Tu hai l’impressione di conoscerli, i tuoi genitori?” (228)
Louise Soraya Black “Il cielo color melograno” 66th A 2nd s.p. (regalo di Alessandra)
[A: 07/05/2013– I: 09/06/2013 – T: 10/06/2013]
[tit. or.: Pomegranate Sky; ling. or.: inglese; pagine: 252; anno 2012]
Decisamente una buona lettura ed un buon regalo che mi ha consentito la scoperta di una giovane autrice interessante, e di entrare per la prima volta nella moderna realtà persiana. Un Iran da sempre amato-odiato e forse poco capito (da me). Dai racconti di Nino quando tornava da Teheran carico di caviale e notizie, alle parlate in arabo con i profughi farsi che (ovviamente) non capivano una parola. Un lungo viaggio questo mio da Khomeini ad Ahmadinejad, senza tuttavia (ad ora) essere riuscito ad organizzare un viaggio in loco. Ed allora immergiamoci pure in questo racconto che forse ci dà solo una scarsa visione politica della situazione iraniana, ma che lo fa con una grande partecipazione. E dalla parte delle donne, che (purtroppo) sono sempre state vittime. Prima, durante e dopo la rivoluzione. Intanto anche l’autrice è donna, ed anche mix (padre iraniano, madre inglese). E come alcune delle protagoniste, spesso va su e giù tra Occidente ed Iran. Quindi qualcosa sa, anche se, come detto sopra, non spinge molto né analisi né riflessioni sul piano politico. Ma già il piano emozionale è forte e, comunque, ne esce fuori discretamente (per chi ne sa leggere) un ritratto di un mondo quanto meno problematico. Per chi ne sa leggere dicevo, ed allora vediamo come la nostra scrittrice abbia come nome persiano Soraya, quello della seconda e più nota moglie dello Shah Reza Pahlavi, l’ultimo Shah di Persia. E come un ruolo centrale abbiano i pasdaran, i guardiani della rivoluzione khomeinista, una sorta di piccoli inquisitori emuli dei “familiares” di Torquemada. La Black usa sapientemente i flashback per narrare la storia in modo da seguire un suo filone “presente” che si svolge nel 2001, e riandando nel tempo quando la situazione richiede spiegazioni e rivelazioni. La storia è poi narrata dal punto di vista di Layla, una ragazza di ventiquattro anni (nata quindi lo stesso anno dell’autrice), che vive in un’interessante famiglia cosmopolita. E che lo è diventata negli anni, dal 1971 quando l’inglese Nelly viene ad insegnare inglese a Teheran e si innamora di Mammad, un giornalista indipendente sia nel periodo dello Shah ma, soprattutto, nel periodo post 1979. Mammad è lo zio di Layla, e padre di Roxanne, che si è trasferita a Londra. La terza sorella è Myriam, un tempo sposata al persiano Farazi, che però viene ucciso come spia dello Shah (ma se ne dubita fortemente) nei primi giorni della rivoluzione. Motivo per cui Myriam fugge in America e partorisce Sara, che non saprà mai di essere iraniana pura e non sangue misto. Layla cresce in questo mondo claustrofobico, dove però le donne, tra di loro, o dal parrucchiere, si tolgono i veli e sfoggiano le mise più alla moda. Certo il mondo di Layla è di quelli che erano protetti sotto lo Shah, e che si sono in qualche modo salvati dalle oppressioni più dure, anche se Mammad è stato a lungo in carcere, minandosi la salute. Ed è indipendente Layla, non vuole sottostare a matrimoni combinati come vorrebbe la madre. Vuole lavorare, in un mondo in cui questo non è ben visto per le donne. E si innamora del povero Keyvan, un pittore dalle scarse fortune e dal grande fascino. Il racconto precipita quando improvvisamente muore Mammad, e per i funerali tornano in patria Roxanne e Sara. Non sono abituate a queste restrizioni, per cui la donna non può uscire con un uomo se questo non è suo parente, deve restare vergine sino al matrimonio (ed i pasdaran possono chiedere i test di verginità), deve avere i capelli coperti, eccetera, eccetera, eccetera. Sara rimarrà intrappolata in questi meandri di oscurità, e Layla avrà modo di capire il sottile filo che separa verità e menzogna, amore e odio. Sara ne uscirà bene, Layla forse un po’ meno, ma certo molto più consapevole, e, disamorata della patria che pur ha amato tanto (e belle e toccanti sono le descrizioni dei monti innevati, della natura in fiore, e dei melograni, emblemi primi del mondo e della cucina iraniana), si avvia anche lei ad un probabile esilio in compagnia della cugina Roxanne. Ecco, tutte queste parti “dure” verso la donna sono descritte con mano ferma anche se, leggendone tra le righe, se ne intuisce una ferocità devastante. Meno bene altre parti, forse con qualche compiacimento di troppo verso l’ancien règime, anche se ne vengono sottolineate le stoltezze e le ruberie (questa l’ho già sentita…). Tuttavia un romanzo che chi non conosce l’Iran dovrebbe leggere come primo passo. Che poi si avrà tempo di discutere sul ruolo della donna nell’Islam. Ma ci vorrebbe più spazio e capacità, anche se prima o poi ci torneremo.
Paola Mastrocola “Più lontana della luna” Guanda s.p. (compreso nel pacco regalo Almaviva)
[A: 07/05/2013– I: 14/07/2013 – T: 15/07/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 296; anno 2007]
Non direi letto, ma veramente divorato. Al ritorno dalla fredda Islanda, in vista del caldo portoghese, avevo bisogno di parole che mi facessero sciogliere le ruggini del cervello. E Mastrocola c’è riuscita. Anche se meno convincente de “Una barca nel bosco”, è, come quello, un romanzo di formazione. Ed un po’ mi ha ricordato quel bellissimo testo del mio caro Maalouf “Un amour de loin”. Qui seguiamo venti anni nella vita di Lidia, che incontriamo quindicenne nel 1970, costretta ad abbandonare la scuola per problemi economici. Aiuta la madre al mercato, bada al cavallo Pino (abitano in un’ex-scuderia a Stupinigi). Ed ha il suo momento di “folgorazione” quando, nell’enciclopedia comprata per farla studiare (ma non servirà) incontra Bernart de Ventadorn, trovatore provenzale del sec. XII, figlio di una fornaia e cantore dell’amore da lontano. Quei versi (ed i versi delle poesie in genere, che parlano all’anima come se fossero scritti per te) si scolpiranno nella testa. “Aver la lingua e non poter parlare”, sarà da quel momento una specie di motto della sua vita. Prima nella frequentazione con gli ambienti sinistrosi della Torino dei primi anni ’70, che non capirà per le parole astruse ed i comportamenti altri (chi parla di rivoluzione, poi ha la casa in montagna, ed alla fine si sposerà e metterà su famiglia). Poi nella smania di voler far sposare. Un istante prima della caduta nel “baratro” del matrimonio, Lidia fugge con Pino. E da quel momento andrà in giro per l’Italia. Continuando ad incontrare gente, facendo mille mestieri, innamorandosi spesso delle persone sbagliate. Come Glauco, che però è sposato. Ma lì in Toscana incontra anche Ghitti, una donna che le dà i punti di riferimento che le mancavano. E che capisce quel suo cercare. E, per casualità, le fa conoscere Micael. Un illusionista tedesco-olandese, con cui ha subito (e per sempre) una comunità di ideali. Quel che si dice due menti che ruotano all’unisono. Anche se Micael è molto più grande (e forse le dà per questo della sicurezza che non trova in altro). Micael che non prende in giro la sua mania di modellare il pongo. E che parte per le sue tournée, riuscendo ad essere quell’amore lontano che cercava. Trovato un primo passo di pace, torna dopo quasi dieci anni a Torino. Rivede i genitori invecchiati, che di lì a poco, uno dopo l’altro, muoiono. Allora vende tutto, e con i pochi soldi si trasferisce nelle Alpi Apuane (ahi, ancora un po’ di Pietrasanta…). Dove il marmo le dà quelle sensazioni di comunicare con l’esterno che le parole non riuscivano a trovare incamminandosi verso la lingua. Alla fine, oramai sui trentacinque anni, diventa lei, quasi, un riferimento per i giovani. Ed alla morte, ed è ovvio che sia così, di Micael, riesce a superare le sue mancanze. E per una donna che non conosce, che le chiede un’opera funeraria, fa un busto di angelo in cui riesce a trasportare quello che lei sentiva per Micael. E così finisce la formazione della nostra Lidia. Sapremo forse nelle ultime pagine chi sia la donna. Penseremo forse che il giovane apprendista diventerà qualcosa in più anche per lei, ora che ha vissuto fino in fondo e superato, l’amore da lontano. Ha trovato la sua vocazione e la sua strada, anche se rimarrà sempre atipica ed estranea alle mode imperanti. Paola Mastrocola riesce comunque a comunicarci fino in fondo la necessità di guardare il mondo con i propri occhi, con il proprio stupore e con la propria ingenuità (così come nella barca). Usando e sfruttando quei talenti che comunque sono presenti in noi (fosse il giardinaggio come nel primo, la scultura in questo, o la cucina in altro che non ha scritto). Per diventare un “noi” che, in ogni caso, è e sarà unico.
“Saperti amante e non poterti avere / star lontano da te quando in cor m’ardi / aver la lingua e non poter parlare. … Quella poesia mi faceva pensare a cose cui non avrei mai pensato: ad esempio che voler parlare con una persona, che però è lontana, è come non aver la lingua.” (77)
“Pensai che non bisogna sempre chiarire tutto, che molto deve rimanere non detto, forse nemmeno pensato fino in fondo.” (169)
“Un amore fermo, che non aveva un tempo e dunque non nasceva e non moriva, da tenere soltanto nella mente, da coltivare intatto come un sempreverde”. (231)
“Facciamo tutti l’errore di chiedere che gli altri ci amino per quel che siamo, pensiamo di essere chissacché, e invece non siamo niente, vogliamo solo che gli altri perdonino i nostri difetti.” (225)
Penelope Lively “Appunti per uno studio del cuore umano” TEA euro 10 (in realtà, scontato a 7,50 euro)
[A: 03/08/2013– I: 09/12/2013 – T: 12/12/2013]
[tit. or.: Spiderweb; ling. or.: inglese; pagine: 244; anno 1998]
Sono rimasto decisamente deluso da questa nuova lettura della Lively, scrittrice che mi era piaciuta discretamente nella prova egiziana ed era decisamente sopra media nella poco tempo fa letta prova di “famiglia”. Qui c’è un romanzo di media lunghezza, che però non decolla mai. Solo alla fine, comunque, mi sono accorto che era precedente agli altri, uno scritto di 15 anni fa. E si sente. Come si sente, riprendendo quanto detto all’inizio del precedente, la poca cura del titolo italiano. La tela di ragno del titolo inglese rende a perfezione come si debba sentire l’antropologa in pensione Stella Brentwood nel suo buon ritiro della campagna inglese. E se pur è vero che nel corso della narrazione si parla di sentimenti e di rapporti, il titolo falsamente antropologico non rende giustizia. La Lively tenta, utilizzando molta narrazione ma anche altri elementi (giornali, citazioni, interventi esterni), di dar corpo ad una problematica non banale: un’antropologa va in pensione dopo aver girato il mondo in lungo ed in largo, aver dormito nelle capanne di fango africane, vissuto con aborigeni neo-zelandesi, ma anche discusso di legami familiari con maltesi o con originari delle isole Orcadi. Andando in pensione pensa di ritirarsi nella campagna inglese, di mettere radici, come dice lei. Ma uno non può dimenticarsi cosa ha fatto e come ha vissuto per quaranta o cinquanta anni. Così anche lì, comincia a guardare il mondo delle sue possibili radici con l’occhio della studiosa. Ed in questo modo, analogamente a quanto aveva fatto per il corso della sua vita, rimane esterna, non si mescola. Certo capisce forse meglio i meccanismi dei rapporti sociali, ma non potrà mai “mollare i freni”. Anche perché, nel piccolo mondo campagnolo, oltre alla tela di ragno che si intreccia nella vita quotidiana degli abitanti, si mescolano alcune vicende direi private o che vengono da lontano. Lì in campagna ritrova Richard, il marito della sua grande amica Nadine ormai defunta. E questo dà la stura ad un continuo flash-back di ricordi giovanili, delle speranze, delle diverse strade, del diverso modo di affrontare la vita delle due amiche. Nadine che vuole solo sposarsi e mettere su famiglia. Stella che vuole avere una chiave di lettura dei meccanismi sociali che governano il mondo. Nadine ottiene quello che vuole, ma muore presto di cancro. Stella si domanda se lei ha ottenuto quello che vuole. E lì in campagna la viene a trovare l’amica di maturità, Judith l’omosessuale. Conosciutesi a Malta, con Judith archeologa che scavava resti vari. Simpatia di pelle, continuata negli anni, con Stella che segue il susseguirsi degli amori di Judith, che però poi rimane sempre sola. Ma che con queste rivisitazioni, dà la stura ai ricordi di Stella verso i suoi amori, o presunti tali. Dan con cui ha avuto la più lunga relazione, ma che poi si trasferisce in America e lei no. Alan che vorrebbe lei si fermasse nelle isole al nord della Scozia, e vorrebbe anche sposarla. Ma lei no, e fugge via. Significativo è tutto il rimuginare che fa sul ruolo di un antropologo donna inserito nelle comunità che deve studiare, e le interazioni che ne possono seguire. Ma se tutto è facile nel Delta del Nilo, poco lo è in Cornovaglia. Poi c’è appunto la comunità campagnola in cui Stella vorrebbe entrare, ma che non riesce a scalfire. Fa una conferenza delle sue esperienze, ma si vede come, pur partecipata, lei ed i locali viaggiano su lunghezze d’onda diverse. Non riesce ad interagire con i tremendi vicini di casa, che hanno due figli quindicenni pestiferi e disadattati. Che non trovano di meglio, per sfogare il loro malessere verso una madre insopportabile ed un padre assente, di prendere a fucilate il cane di Stella. La morte del cane fa finalmente fermare Stella a pensare. E contemporaneamente, Richard le chiede di unire le loro solitudini e Judith, lasciato l’ultimo amore, le chiede di condividere le loro aspettative intellettuali. Cosa farà Stella? È forse ben chiaro, ma lo lascio scoprire a voi, se volete. Io ribadisco la scarsa fluidità del testo, e la poca presa emotiva verso di me. Anche se le tematiche potevano essere più interessanti. Forse nel precedente libro che ho descritto, pubblicato dieci anni dopo, questi pensieri sono più maturi, ed arrivano a quelle conclusioni che ho sopra riportato e continuo a condividere.
“Il loro era il legame precario di chi ha trascorso assieme la giovinezza per poi avviarsi su strade separate, pur rimanendo irrazionalmente uniti da quegli anni condivisi.” (49)
“Il futuro è implicito nel presente, se solo lo si sapesse leggere. I segnali ci sono già, ma non siamo capaci di leggerli.” (85)
“Il matrimonio … rende incapaci di vivere da soli. Io non ne avevo tenuto conto.” (193)
Come detto anche in altri contesti, una settimana bella e impegnativa, quella passata. E che prefigura un prossimo futuro pieno di scadenze. Forse poche per me, ma molte per l’appena giunto Tommaso, cui diamo il nostro caloroso benvenuto. E speriamo poche anche per chi si è ritrovato involontariamente all’ospedale. Ne usciremo tutti, e bene. 

domenica 8 dicembre 2013

St. Ambrose - 08 dicembre 13

Che c’entra il santo con le trame della settimana? Forse poco, ma, in questo giorno milano-festivo abbiamo un piccolo campionario di scrittori di lingua inglese. Da cui il titolo. E da cui cominciare, con il bellissimo libro di Barnes. Le trame centrali sono inglesi non inglesi, che una viene dalla lontana India (interessante, forse un po’ complicata) ed una dalla vicina Irlanda (semplice, godibile, lineare, forse troppo). E per finire si torna di là dell’Oceano, con un libro che poteva essere più efficace, anche se ben scritto e piacevolmente letto.
Julian Barnes “Il senso di una fine” Einaudi euro 10 (in realtà, scontato a 7,50 euro)
[A: 01/07/2013– I: 30/07/2013 – T: 01/08/2013]
[tit. or.: The Sense of an Ending; ling. or.: inglese; pagine: 150; anno 2011]
In genere i miei amici lettori sanno che io sono, fondamentalmente, ottimista. Penso sempre che ci sia del buono in qualsiasi scrittura. Anche quando stronco, cerco comunque di trovare possibili appigli di salvataggio. Ed invito sempre quanto meno ad ipotizzare di leggere anche i libri meno riusciti. Qui no. Qui non sarò possibilista, ma assolutamente categorico. DOVETE leggerlo. È un libro stupendo, scritto con capacità e bravura. Insomma, se fossi capace di iperboli, qui ne consumerei un sacco. E non entro nelle polemiche tra chi ne vede un capolavoro e chi (e ce ne sono di autorevoli) lo giudica un libro un po’ furbetto. Per me è un libro magistralmente scritto (e ben tradotto da Susanna Basso, con il che mi redimo da tutte le volte che parlo male dei traduttori). Che usa con maestria diversi registri (il ricordo, l’umoristico, la riflessione, il dialogo, l’incognito) dove pur raccontando una storia (che una storia ben c’è) è di altro che vuole parlare. O almeno parlarne a me. Del ricordo, delle cose che viviamo, di come le abbiamo vissute, di come le ricordiamo (e le riviviamo) ora, di quanto ne abbiamo capito. Il protagonista in soggettiva, narrandoci due spaccati della sua vita (non a caso, il libro si divide in due parti), ci fa toccare con mano come lui abbia vissuto quei momenti. E come lui, alla fine, non ne abbia capito molto. Nella prima Tony, il narratore, ci parla della sua adolescenza, dell’amicizia con Adrian, ragazzo che lui reputa più intelligente, e della nascita e fine della loro amicizia. Il primo punto di discussione forte lo hanno quando un loro coetaneo si impicca dopo aver messo incinta una ragazza, e loro si interrogano sulla difficoltà filosofica di sapere esattamente cosa sia successo. Poi Università diverse, Tony si mette con Veronica, e ci narra un difficile week-end trascorso con lei, che porta alla fine della loro storia. E prima della laurea, Adrian gli scrive che si è messo lui con Veronica. Ma Tony non risponde. Alcuni mesi dopo viene a sapere che Adrian si è suicidato. Nella seconda parte Tony, sessantenne e verso la fine dei suoi interessi vitali, divorziato e con una figlia poco presente, riceve una lettera della madre di Veronica che, morendo, gli lascia il diario di Adrian. Ciò lo porta a riprendere contatto con Veronica, e, parlando e scontrandosi con lei, comincia a riprendere in considerazione tutta la storia narrata nella prima parte. Questi incontri e la lettura del diario lo portano a comprendere fino in fondo quanto Veronica gli dice sin dal primo momento (“Tu non hai mai capito nulla di quello che succede”). Ed alla fine gli si parerà dinanzi non la verità, ma un’interpretazione dei fatti diversa, esplicativa, sorprendente. Come ci passa davanti tutta la vita pensando di aver compreso, e poi capiamo che abbiamo interpretato tutto in maniera errata. Non è un caso che il titolo del libro, Barnes lo riprende da un saggio del 1967 di Frank Kermode, dove il critico inglese attraverso la disamina di opere letterarie aveva l’obiettivo di scoprire come “dare un senso ai modi in cui cerchiamo di dare un senso alla nostra vita”. Barnes esemplifica questa frase con queste 150 pagine in cui abbiamo modo di leggere nel capitolo “Uno” (di 50 pagine) come Tony interpretasse il proprio mondo. E poi di capire nel capitolo “Due” (lungo il doppio) come tutto quello che aveva interpretato Tony era altro. Ma questo avrebbe cambiato la vita di Tony? O di Adrian? O di Veronica? Questo l’assillo che mi ha tormentato per tutto il libro. E che, con tutta sincerità, tormenta sempre i miei pensieri. Quanto quello che capiamo della nostra vita, ha un senso per sé. E come ci condiziona nella nostra vita e nei rapporti con gli altri. Un bel libro, che ti scatena la voglia di parlare. Ma forse è meglio fermarsi qui. Buona lettura.
“Era un cauto somaro non dotato dell’inventiva indispensabile alla vera ignoranza.” (7)
“Un’altra delle nostre paure: che la Vita potesse rivelarsi diversa dalla Letteratura. Prendi i nostri genitori, erano forse materiale letterario? Tutt’al più, potevano ambire al ruolo di astanti, di spettatori, far parte di un fondale umano contro il quale avvenivano le cose reali, quelle che contano davvero.” (16)
“La storia … è fatta dei ricordi dei sopravvissuti, la maggior parte dei quali non appartiene né alla schiera dei vincitori, né a quella dei vinti.” (58)
“Il ricordo è ciò che pensavamo di aver dimenticato.” (65)
“All’improvviso mi sembra che una delle differenze tra la gioventù e la vecchiaia potrebbe essere questa: da giovani, ci inventiamo un futuro diverso per noi stessi; da vecchi, un passato diverso per gli altri.” (82)
“[Dopo che sarò morto] non pensate male di me, ricordatemi con favore. Dite in giro che mi volevate bene, che vi piacevo, che non ero un bastardo. Anche se, magari, niente di tutto questo è vero.” (108)
Vikram Chandra “Giochi sacri” Mondadori s.p. (regalo di Silvia)
[A: 07/05/2013– I: 22/06/2013 – T: 07/08/2013]
[tit. or.: Sacred Games; ling. or.: inglese; pagine: 1162; anno 2006]
Se guardate il numero di pagine di questo che non può considerarsi un “agile volumetto”, e riflettete che durante la sua lettura ho passato due settimane in Islanda e due in Portogallo, non vi stupirete certo che, benché di veloce lettura nel contenuto, abbia impiegato un mese e mezzo a digerirlo. Anche perché, e lo dico subito, non mi ha conquistato come credevo. Certo, è affascinante, intrigante, intrecciato, ma di quell’intreccio che una volta sciolto, non mi ha lasciato un sapore deciso in bocca. Uno spaccato indiano, ben inserito nella realtà locale, ed in particolare nell’India dell’oggi. Mi ha tuttavia lasciato perplesso il senso generale di tutto ciò. Da un lato una storia quasi “all’americana”: un poliziotto che cerca di arrestare un capo della criminalità, per poi (essendo morto il secondo ma in maniera anomala), ripercorrere le loro storie (e quelle dei personaggi a loro legati) un po’ all’indietro. Andando su e giù, alternando i capitoli in flashback sulla storia della vita di Ganesh Gaitonde (il criminale) e quelli in presa diretta su Sartaj Singh (il poliziotto). Volendo riassumere il lato “occidentale” della vicenda, tutto si ridurrebbe alla storia del boss Gaitonde. Capo di una banda di criminalità organizzata con ramificazioni internazionali, collaboratore di un programma dell’antiterrorismo in funzione contraria al Pakistan, seguace di un guru che ha intenzione di destabilizzare la scena politica con una strategia della tensione fondata su un ordigno nucleare che se esplodesse risulterebbe un attentato della parte avversa. Gaitonde ha per tutta la vita inseguito il potere e la violenza: ha lanciato una diva del cinema  e ne ha assecondato i desideri per coltivare il proprio tornaconto; tratta con un’ex-stellina televisiva di nome Jojo, che gli procura amanti a pagamento; ha costruito un rifugio antiatomico e, per la disperazione di non ritrovare il suo guru entrato in clandestinità, dopo avere ucciso Jojo che gli denuda il suo vero io (e che noi abbiamo seguito per la sua parte di millanta pagine), si suicida. È il momento dove, a causa di una soffiata, il commissario Sartaj lo stana. Forse era impazzito, ma forse le trame oscure erano reali e verranno mese a tacere dai servizi segreti con cui Sartaj coadiuva: quest’ultimo, per ottenere informazioni, denuncia il suo capo che finirà anch’egli suicida. Ma la capacità di Chandra è quella di strutturare questa vicenda occidentale come fosse un mandala buddista. Perché se inizia seguendo i canoni sopra descritti come fosse una trita “crime novel”, ben presto, preso nei meandri delle descrizioni e delle narrazioni, biforcando come detto sempre più le storie tra l’ispettore ed il capomafia, comincia ad incastrare nella trama tante altre storie. Che diventano il punto di interesse del libro. Storie lontane nello spazio e nel tempo, ma sempre collegate a Bombay (anzi a Mumbai come si dice nell’India moderna, e dove sarebbe il caso di tornare). Ed è infatti Mumbai che alla fine diventa il punto centrale del libro. Città di una bellezza sfolgorante, quasi terrificante, continuamente rovinata dalle intemperie umane: inquinamento, aria fetida, povertà assoluta e diffusa, corruzione dilagante, criminalità spietata, intrecci perversi tra politici, imprenditori, mafiosi e star di Bollywood. Una città crivellata dal crimine, fino a marcire. Una metropoli moderna attraversata da frizioni religiose insanabili. Le persone che sono stanche di Bombay sono stanche della vita, e viceversa. E Mumbai non rappresenta altro che un paradigma dell’India di oggi. E come dicono quelli che parlano di economia, India significa “estremo occidente”: violenza, economia liberista, sviluppo, espansione ed involuzioni fondamentaliste. Le storie, ed è ovvio, partano sempre dai due fulcri narrativi, per poi biforcarsi quasi verso proprie vite. Così l’ispettore Sartaj cerca di ricomporre la sua vita relazionale distrutta dal divorzio, di trovare una composizione tra la sua malinconica solitudine ed il suo innato romanticismo, di non soccombere alla corruzione stritolante. Il boss Gaitonde cerca rimedi su Internet per aumentare i centimetri del suo pene, mentre gradualmente acquisisce la consapevolezza tragica ed epica della sua figura; criminali in grado di rivoltare intere città si costruiscono universi morali di dubbia consistenza per fronteggiare la morte che tutto recide; puttanelle sfrontate giungono a Bombay in cerca di gloria, pronte ad arrampicarsi sulla scala del successo bollywoodiano; spie fanno il doppio ed il triplo gioco; poveri istruiti si danno alla lotta armata, votandosi ad una rivoluzione impossibile, destinata ad essere tradita dai suoi adepti. Troviamo politici senza scrupoli (politici nazionalisti si accordano con la criminalità organizzata); poliziotti che ricevono bustarelle regolarmente; malviventi affondati nel lusso; gente di campagna; persone della borghesia medio - alta che agiscono per interesse personale; abitanti di quartieri-ghetto. Diversi personaggi sono divorziati; quasi tutti sono insoddisfatti. Sembra che le modalità tradizionali della vita associativa siano saltate in un’India che cambia con rapidità. Ci si trova in un mondo in cui il denaro crea la morale (e non parlo qui dell’Italia). Ma un libro post-2001, ambientato in un’India in continuo conflitto con il Pakistan vicino, non può scordare il fondamentalismo religioso (interno ed esterno). Qui poi messo in risalto dall’ambigua guida spirituale di Gaitonde che cerca di creare un subbuglio atomico. L’intimidazione della bomba (questione evidentemente sentita in un paese che possiede l’atomica ed è a sua volta circondato da paesi che la possiedono), lo smantellamento totale della civiltà costituita arriva a scuotere persino Gaitonde. Poi anche il libro finisce, cercando di chiudere i mille rivoli aperti nelle prime pagine. Non sempre ci riesce, ma Chandra, in ogni caso, dimostra di non scordarsi molto del suo narrato (anche dopo aver passato le mille pagine). Belle e forti le pagine sulla criminalità, basate su di un’inchiesta svolta in loco dallo stesso Chandra. Un po’ meno coinvolgenti le miriadi di citazioni in lingua locale (massimamente indù, ma anche altro), non sempre supportate dal glossario finale, che molti termini tralascia. Sempre a me care le parti dedicate alla cucina (un popolo è, anche, quello che mangia!). Un fiume fatto di mille ruscelli, che lottano tra loro, per poi ricomporsi nel placido Gange che tutti porterà verso la pace finale. Anche se i collanti tradizionali spariscono (religione, famiglia, istituzioni), qualcosa rimarrà nell’etica personale. Insomma, buone idee, fantasia sfrenata, ma la mole diluisce l’impatto.  Purtroppo Flaubert viene troppo spesso dimenticato. Così come lo dimentico io, non riuscendo a chiudere in meno parole un libro così po(n)deroso. Buona lettura a chi avrà il coraggio di porlo sul comodino (ma prima rinforzatelo, che il libro pesa…).
“Come proviamo piacere a volte nel pensare quanto male vanno le cose … e poi a immaginare come non potranno che andare peggio.” (122)
“Veniva affascinato da una cosa astrusa, da un oscuro procedimento che non interessava neppure a venti persone al mondo, e doveva scoprire tutto su di esso.” (455)
“Non sempre la persona di cui ci si innamora ci va a genio.” (674)
“La coppia di sposi venne spedita in luna di miele per una settimana in una villetta a Koh Samui.” (729) [ah, il mare tailandese…]
“A volte con gli scrittori bisogna fare così, bisogna chiudergli la bocca. Si lasciano conquistare dalla lingua, dalle storie e dalle regole tanto da non riuscire più a vedere la realtà dei fatti.” (851)
Brendan O’Carroll “Agnes Browne mamma” Beat euro 9 (in realtà, scontato a 7,20 euro)
[A: 23/05/2013– I: 16/08/2013 – T: 18/08/2013]
[tit. or.: The Mammy; ling. or.: inglese; pagine: 170; anno 1994]
È uno di quei libricini che stavano segnati nel mio quadernetto dei libri possibili. Lo avevo visto in libreria, insieme agli altri della saga (ne dovrebbero essere usciti tre o quattro), ma non mi risolvevo all’acquisto. Approfittando di una campagna primaverile di sconti, spinto anche dal nome (non a caso mia mamma si chiama Agnese) eccolo entrato e ben presto letto. E devo dire, discretamente piaciuto. Intanto mi sta simpatico l’autore, un attore irlandese, ben noto in patria ma non da noi, che ha fatto del suo retroterra giovanile l’humus su cui coltivare le proprie storie. Discretamente autodidatta, con famiglia numerosa intorno, industriatosi in mille mestieri, e poi approdato al teatro, utilizza (e con capacità) questo materiale per tirar fuori le sue storie “di vita”. Una vita trascorsa e descritta in una Dublino di periferia, di là dal fiume, tra case popolari e mercati rionali. Ben lontano dalle vetrine colorate di Grafton Street (che ben conosciamo). In questa terra dove si muoveva, ambienta i suoi racconti, facendoli cominciare nel marzo del 1967 (lui era dodicenne all’epoca, tanto che lo vedo bene immedesimarsi in uno dei figli), e facendoli ruotare intorno alla figura di Agnes Browne, la “Mummy” del titolo. Ogni mattina Agnes, popolana, sgrammaticata, ma di buon cuore, esce di casa alle cinque per incontrare l’amica Marion e iniziare insieme la giornata, in allegria, e il venerdì si gioca a bingo, per poi finire al pub di fronte a una pinta di birra e a un bicchiere di sidro. Non una gran vita, a parte le risate con Marion e le altre, al mercato. Finché, un bel giorno, il marito muore, lei rimane sola e comincia a godersi davvero l’esistenza, anche se deve gestire i suoi sette figli. E ben sappiamo, per esperienze famigliari, cosa vuol dire avere un esercito in casa. Ci vuole un generale (come mia nonna) o un maresciallo (come Agnes) che non scorda nessun elemento della vita, anche se spesso “non ce la fa”. È l’inizio di un carosello di vicende altalenanti, in genere alle prese con i figli che le propinano dilemmi adolescenziali, obbligandola a improvvisarsi consigliera (con grande spasso dei pargoli) o a vestire i panni dell’angelo vendicatore. Insomma, senza quella palla di marito attorno, la nostra Agnes pare tornata la ragazza dublinese che è stata, tanto che non le manca uno spasimante, un affascinante bell’imbusto francese ignaro degli equivoci della (e sulla) lingua. Certo è, come si dice, un libro “fresco” (anche se ormai ha quasi 20 anni), con un buon piglio nelle invenzioni dei dialoghi (d’altra parte l’autore attore si fa sentire molto qui). Utilizza anche una lingua bassa, “volgare” si direbbe (e con qualche volgarità qua e là) anche se la traduzione non riesce a rendere in pieno la travolgente “bassa lingua” gaelica a volte utilizzata. E questa modalità, è anche una delle cifre del successo del libro. Volendo cercare un po’ di critica costruttiva, probabilmente il libro manca un po’ di sospensione dell’attenzione, che dove ci sta qualche intoppo, l’autore-dio interviene e risolve le situazioni. Un figlio non vuole continuare a studiare e vuole andare a lavorare? Ecco che spunta un personaggio che gli offre una scuola di falegnameria dove coniugare le due cose. La protagonista vorrebbe tanto andare a sentire un concerto di Cliff Richard, cantante molto in voga all’epoca, ma non trova i biglietti? I figli casualmente lo incontrano, ci fanno amicizia e gli lasciano anche il loro indirizzo. E ne presagiamo un gustoso finale, che, guarda caso, si svolge nel Natale dello stesso anno. Non ha neanche introspezioni psicologiche sul decadimento delle condizioni urbane, sulla vita del proletariato dublinese, e via discorrendo. Ma è un libro di intrattenimento, forse un po’ lento da entrare in sintonia all’inizio. Alla fine, però, mi ha fatto tornare ancora una volta a Dublino, senza troppi pensieri intorno. E forse pensando di leggerne ancora (e di tornare in Irlanda).
Jamie Ford “Il gusto proibito dello zenzero” Garzanti euro 9,90
[A: 15/04/2013– I: 28/08/2013 – T: 29/08/2013]
[tit. or.: Hotel on the corner of Bitter and Sweet; ling. or.: inglese; pagine: 372; anno 2009]
Un libro che non pensavo di leggere, ma che ho preso dietro un molto antico suggerimento di Maria. Lettura gradita, anche se devo dire che alla fine, pur trovandolo agile e con spunti interessanti, non è esattamente il libro che mi aspettavo. Pensavo a qualcosa di più duro ed incisivo, dato l’argomento di cui si tratta. Invece, alla fine non dico sia sul versante Casati Modignani (cattiveria infinita) ma certo un po’ Cary Grant e Deborah Kerr nel finale di “Un amore splendido”. Intanto, però, diamo atto che l’ambientazione a Seattle mi è piaciuta, soprattutto come città che non conosco ancora, e che Ford ci descrive e ci fa vivere egregiamente. Come ci prende per mano, ed attraverso il racconto di Henry Lee, ci fa viaggiare tra la città degli anni ’40 e quella degli anni quasi ’90. Henry Lee è un cinese di seconda generazione, cioè nato in America da genitori cinesi. Quindi americano, ma con una forte contrapposizione (sia nel bene che nel male) con i genitori, che sono invece ancora e completamente cinesi. Andando nel passato Henry ci racconta della sua vita da tredicenne, dilaniato tra le due culture, inserito in una scuola tutta “all american”, e per questo oggetto di tutte le angherie possibili. Solo rifugio, il jazz del suo amico negro, sassofonista di strada. Fino a che, nella stessa scuola non entra Keiko, giapponese della seconda generazione. Subito, tra i due emarginati, si stabilisce una specie di mutuo soccorso, di ricerca di aiuto, anche se lei non gira per Chinatown e lui ha difficoltà a passeggiare sereno per Nihonmachi (la Nippon Town di Seattle). Il tutto aggravato dal fatto che il padre di Henry è un feroce anti-giapponese, avendo i nipponici invaso la Cina, dove infuria una feroce guerra civile (anche se il padre pende dalle parti di Chang-Kai Scheck piuttosto che di Mao). Pearl Harbour e la guerra nippo-americana fanno precipitare il tutto. I giapponesi (anche quelli di seconda generazione, anche quelli dediti allo studio) vengono visti come nemici, a poco a poco emarginati, nonché alla fine deportati in campi di concentramento ante-litteram. Ford ce li descrive, e ne capiamo la crudezza, anche se non sono né potranno essere mai Auschwitz o Guantanamo. Henry è combattuto allora tra il nascente amore per Keiko e la fedeltà al padre ed alle cineserie tradizionali. Ma l’amore è sempre più forte. E dà la forza ad Henry di sfidare il padre, con il quale non parlerà più per quasi dieci anni, di andare a trovare, insieme all’amico negro, Keiko nei campi di concentramento, di far nascere il primo forte sentimento. Poi i giapponesi vengono spostati qua e là per il paese, si scrivono, ma inevitabilmente si perderanno di vista. A questa parte d’antan, Ford controbilancia il (quasi) presente. Henry si avvia alla sessantina, l’amata moglie Esther è da poco morta di cancro, e lui ha un conflitto di crescita con il figlio, cinese di terza generazione (come un po’ ripercorrere le storie, generazione dopo generazione). L’elemento scatenante è il ritrovamento presso un Hotel chiuso da decenni di effetti personali di giapponesi coinvolti nella diaspora della guerra. Henry si intrufola, cerca, trova tracce di Keiko e del nero Sheldon (cui tra l’altro è rimasto sempre vicino). Le tracce del presente servono ad Henry per aprirsi con il figlio che ovviamente rimane basito dall’altro aspetto del padre, che lui aveva visto sempre “ligio al dovere ed alle istituzioni”. C’è un forte riavvicinamento, anche per merito della fidanzata americana del figlio (che sa cucinare piatti orientali come pochi). Ed è l’unione degli sforzi dei due giovani che permette il ritrovamento di tracce dell’altrettanto matura Keiko, anch’essa vedova, anche se da qualche anno in più. La morte di Sheldon farà da catarsi per arrivare ad un finale che non vi descrivo, ma che ricorda molto quando Cary toglie la coperta dalla poltrona su cui è seduta Deborah. Ecco, pur essendo ben descritti i moti dell’animo di questi neo-americani, sono vicende d’amore in minore, che non è che coinvolgano tantissimo. Come non riporta tutto l’orrore possibile la descrizione delle deportazioni nipponiche. Devo dire che una pagina di Fosco Maraini sul suo internamento quando era in Giappone dopo l’8 settembre 1943, descritta nel bellissimo “Ore Giapponesi” rende mille volte meglio e con più crudezza quanto posso essere accaduto al tempo. Per questo ripeto mi aspettavo qualcosa di più forte dal libro. Anche se, e qui lo ripeto e ribadisco, l’aver sollevato l’argomento dei rapporti inter-razziali è sempre e comunque un elemento di completa positività.
Ohibò, e già si avvicina il Natale, dove ricorda il mio amico Pietro, “tutti l’angiol metton l’ale”. Noi sarà un Natale di tranquillità (l’anacoluto è voluto). Qualcosa sulle note di Puccini, e molto sulle note familiari. Si aspetterà il nuovo anno per nuove e (speriamo) mirabolanti avventure.