domenica 28 marzo 2021

Raccontini in giallo 2 - 28 marzo 2021

Eccoci ad una nuova tornata dei raccontini in omaggio con Repubblica, sulle cui scelte editoriali non torno, avendone già ampiamente disquisito. Vengo quindi direttamente nel merito, dove abbiamo due buoni racconti, uno del sempre migliore Savatteri con il suo Lamanna, e l’altro con Simi, di una fattura onesta. Mi aspettavo di più dalle avventure di Carlo Monterossi descritte da Robecchi. In fondo, anche se poteva essere meglio, due scritture che sono molto lontane dal giallo del titolo o dal prendere per qualche motivazione. Una, e dispiace, dell’altrove interessante Fois, l’altra di una coppia di autori (Fantini & Pariani) di cui nulla conosco e penso che nulla conoscerò in futuro.

Alessandro Robecchi “Il tavolo” Repubblica “Italia in giallo” 10 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 15/11/2020 – I: 24/11/2020 – T: 24/11/2020] && e ½ 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 47; anno: 2014]

Tratto da “Vacanze in giallo” di Sellerio del 2014, tradisce entrambi i presupposti: sia vacanze sia giallo. Anche se la scrittura è la classica del primo Robecchi. Non a caso è un racconto di sei anni fa. Quindi, largo al personaggio principale ed iniziale del nostro, il buon Carlo Monterossi, autore televisivo di programmi trash che mentalmente rifiuta ma che gli danno da vivere.

La scrittura datata (per quanto conosciamo ora del “mondo Monterossi”) ci lascia soltanto la presenza dell’amico Oscar, quello che sa un po’ di tutto, conosce un po’ tutti, quindi (alla Tarantino) risolve i problemi, e quella di Katia, la manager di Carlo, al tempo ancora ossequioso di chi le consente un tenore di vita adeguato alle sue aspettative.

Dicevo che non rispetta gli assunti della raccolta in cui fu inserito, che di vacanze se ne parla soltanto. Certo siamo in una Milano agostana, per cui molta gente è via, tanto che si trova anche parcheggio. Ma le vacanze finiscono lì, che certo Carlo pensava di andarci, se non avesse ricevuto la notizia bomba: il suo farlocco promotore finanziario era appena fuggito con i suoi (di Carlo) 350.000 euro. Quindi si tratta di capire dove, come, ed in base a quali oscure manovre, si possa ritrovare il fuggiasco e soprattutto il malloppo.

In diagonale (cioè non ancora con tutti i piedi e le scarpe) vediamo entrare nell’agone il buon sovraintendente Ghezzi, sempre alle prese con la macchietta dei primi tempi: travestimenti assurdi con velocità “alla Fregoli”. Darà anche una mano finale alla riuscita del piano di Oscar, ma non è ancora il personaggio pensoso ed irrisolto degli ultimi tempi. C’entra, ma non ha un ruolo di primo piano.

Dicevo anche, quindi, che mancava il giallo. Perché sappiamo chi ha rubato i soldi, e sappiamo che (grazie ai buoni uffici di Oscar) il furfantello è ludopatico (tanto che molti casinò l’hanno bandito dalle loro sale) e vuole giocarsi il tutto in una mano di poker. Quindi, ci si domanda, dove potrà mai essere il giallo? La serata verrà organizzata, e si troverà il modo di fregare il promotore truffaldino.

Tutta la suspense (se così si può dire) si concentra quindi su alcuni aspetti di contorno: riuscirà Carlo a convincere Katia a sedersi al tavolo da gioco? Riuscirà Oscar ad organizzare l’incontro in un terreno possibile, in cui poter inventare qualche stratagemma risolutivo? Sarà una partita di poker leale o sarà truccata? Visto che il ladro, oltre che ludopatico sembra essere anche un piccolo baro, mi aspetto che ci sia la partita, che Katia, convinta a giocare, aiutata come secondo dal buon Oscar, scopra come il tizio bari, e da lì ci sia una “discesa agli inferi” con relativo recupero del malloppo.

Tutto si complica che la sala pensata da Oscar non è disponibile, devono andare in trasferta, ed allora capisco che il mio piano (che quello descritto era il mio piano e non quello di Robecchi) era destinato a fallire in partenza.

Tuttavia, le risorse di Oscar sono notevoli, e, una volta i pokeristi al tavolo verde, trova una soluzione al problema che porta tutto dove deve andare. Soluzione che non vi anticipo, ma che porta a quello che tutti sappiamo dovesse essere la conclusione naturale del racconto.

Che poi si intitoli “Il tavolo”, quando il nodo centrale è sì un tavolo ma di un ben preciso colore, tanto che io lo avrei chiamato “Il tavolo verde”.

Ma io non sono un editor, sono solo (e con mia gioia) un lettore che accumula pagine su pagine. E che ha letto tutto il pubblicato romanzesco di Robecchi. Quindi posso fare collegamenti e paragoni. Con il risultato che trovo sicuramente più gradevole la tipologia dei personaggi dei primi romanzi di Carlo Monterossi e compagnia. Ma trovo anche che questi non sono adatti al racconto. Mentre le loro tipologie tarde ed attuali potrebbero anche sopravvivere bene nel numero di pagine limitate di tali espressioni letterarie.

Devo anche sottolineare che ci sono pochi giochi metaletterari e di rimando, poche o nulle citazioni musicali. Insomma, un racconto di fattura industriale e non artigianale. Con un gradimento di simpatia verso l’autore e poco altro.

Gaetano Savatteri “La città perfetta” Repubblica “Italia in giallo” 12 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 15/11/2020 – I: 29/11/2020 – T: 29/11/2020] &&&--

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 47; anno: 2018]

Savatteri con il suo scrittore detective improvvisato nonché filosofo a tempo perso, si sta imponendo nelle mie memorie di personaggi che ha un senso seguire nella loro evoluzione attraverso i libri. Ho letto già qualcosa, specialmente racconti, ed un romanzo lungo (e vedo la serie in tv, che non è affatto male). In tutti mi sono sempre trovato empatico con il mondo che ne viene descritto. Non a caso ricordo che nell’unico romanzo lungo c’era una citazione di Triscina che mi ha fatto fare un salto indietro davvero con commozione.

Anche qui, l’ambiente è forse la cosa migliore. Che tutto si svolge a Gibellina, sia vecchia che nuova. E soprattutto nella valle (terremotata) del Belìce. Inciso: ebbene sì, questa è la pronuncia corretta, derivante dal fiume che gli arabi chiamavano “U-Bilìk”. E da sempre, i locali mettono l’accento sulla “i”. Fu colpa della RAI, nel ’68, ai tempi del terremoto, che mandando incolti giornalisti sul posto, questi cominciarono a pronunciare il nome all’italiana, con l’accento sulla “e”. Potenza dei media, ora quasi nessuno chiama i posti con il nome corretto.

Questa disquisizione, e tutte le parole che Savatteri spende per la città, per gli artisti, per le sculture ed i quadri, per il terremoto, per il “cretto” di Burri, portano in alto il gradimento del breve e veloce scritto. Che altrimenti avrebbe invece poco seguito e poca considerazione.

Perché se d’Italia ce n’è, di giallo, di suspense, non si vede nulla, neanche cercandolo tra le pieghe non dette delle righe. Il motore della storia è la visita ai luoghi che fanno i nostri tre protagonisti principali delle storie sicule di Savatteri: lo scrittore Saverio Lamanna, la sua forse fidanzata ma di certo architetto Suleima, e l’amico nonché alter-ego ruspante Peppe Piccionello. Visita propiziata da una presentazione libresca cui deve partecipare Saverio. E che Suleima sfrutta per parlare della ricostruzione di Gibellina, dell’architettura all’avanguardia di alcuni luoghi siciliani (tipo lo ZEN di Palermo), che vengono poi degradati dal cattivo uso strutturale che ne viene fatto.

Anche al convegno si parla, com’è ovvio, di Gibellina. Suscitando l’ira di locali che vedono anche lì parole su parole, ma nulla di concreto. Il “giallo” tra molte virgolette, è la scoperta poco dopo della scomparsa dal museo cittadino di uno dei pezzi pregiati: un arazzo di Boetti. Non entro nella descrizione né delle opere di Alighiero e Boetti (così si firmava l’autore), né nella bellissima presentazione del “Cretto” di Burri che ci fa Suleima. Altri esperti d’arte migliori di me ne possono e ne devono parlare.

Qui torniamo al filo del discorso: furto, indagini di Saverio, qualche evento collaterale, ma questa parte, che serve a giustificare la “giallosità” del racconto, è inessenziale. Mentre è più coinvolgente tuta la discussione sulla ricostruzione, sullo spostamento della città nel nuovo sito, sulla tristezza delle vie vuote di vita della nuova Gibellina, sulle possibilità, purtroppo non sfruttate, dei regali artistici presenti. I Burri, i Boetti ma anche Fausto Pirandello, De Pisis, Rosai, Guttuso, Carla Accardi, Mario Schifano. Un patrimonio di arte contemporanea di assoluto valore. Ma il Museo è spesso chiuso, tanto che anche nella mia ultima visita non sono riuscito a visitarlo.

Sono completamente solidale con le posizioni che Savatteri mette in bocca ai suoi protagonisti, specialmente Suleima, sull’occasione mancata che tutto ciò ha portato con sé. Si dovrebbero organizzare, e con frequenza, visite ed altre iniziative, che il posto, le opere, le idee sono bellissime. Peccato.

Ma qui si parla di libri, e se “la città perfetta” è un buono spunto di discussione sociale, il testo rimane a livelli poco coinvolgenti in tutta la parte non artistica. Comunque, andate a Gibellina, andate e visitate il Belìce, e tutta la Sicilia. È sempre meravigliosa.

Marcello Fois “Ti ho fatto male” Repubblica “Italia in giallo” 13 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 28/11/2020 – I: 05/12/2020 – T: 05/12/2020] & e ½ 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 47; anno: 2016]

Erano quattro anni che non leggevo romanzi di Fois, e un paio che dribblavo i suoi racconti. Devo dire che, come ho scritto nelle ultime recensioni sui racconti, non riesco a seguire bene l’evoluzione di Fois. I romanzi sardi, le storie tra lo storico ed il reale, mi avevano discretamente coinvolto la testa. Ora c’è invece poco. E qui quel poco scende ancora di mezzo gradino.

C’è un po’ di atmosfera. C’è un po’ di suspense per cercare di dipanare la nebbia che Fois solleva intorno agli avvenimenti. Ma non c’è una vera presa sul lettore, non mi sono mai sentito coinvolto dalla trama. Si vede, si svolge il film delle azioni, si capisce dalle prime pagine che sotto c’è qualche strano rivolgimento. Comprensione accentuata dall’uso attento dei tempi verbali. Ma se li si coniuga attentamente, poco rimane.

Alla fine, veniamo a conoscenza, rimettendo a posto i pezzi del puzzle, della storia del commissario Cosimo Spano. Sposato da anni, senza figli, un rapporto con la moglie che si sta deteriorando a poco a poco. Tanto che, un po’ per noia, un po’ per gigioneria (è sempre bello sentirsi piacenti e desiderati) comincia una storia senza particolare futuro con una collega ispettrice.

Sappiamo che Spano sul lavoro ha delle egregie capacità deduttive, tanto che aveva risolto, brillantemente, l’intricata vicenda di un certo Alter, che, in maniera rocambolesca, aveva ucciso delle persone, ingarbugliandone le vicende, tanto da sembrare lui vittima piuttosto che carnefice.

Sappiamo poi che la moglie viene trovata barbaramente uccisa, e che lui ne rimane particolarmente sconvolto. Tanto che si allontana dalla questura, prende un tempo, anche lungo, per riattaccare i suoi cocci personali. Ed in questa “vacanza mentale”, ne seguiamo voli e ricordi.

Questi intarsi sono, nelle descrizioni, nelle pitture mentali, nel modo che ha Fois di proporceli, forse la parte migliore. Il viaggio in treno, con gli alberi (betulle) che corrono ai lati dei vagoni, e che nella mente e nel ricordo si trasformano nelle nervature gotiche di una cattedrale. Il senso di vergogna di assistere alla lite tra i genitori, la rabbia interna che però non viene mai fuori. Ed i silenzi stessi della cattedrale, dove Cosimo si siede nelle ultime file, dove mulinano i suoi pensieri, dai quali si ricompone il quadro che ho invece cercato di descrivere in maniera lineare.

Tuttavia, tutti i personaggi non riescono mai a prendere un loro corpo pieno, una loro dimensione. Seppur innegabile che Fois dietro le parole mette pensieri e modi di scrittura che sono necessariamente di buon livello, ripeto che il testo non prende, non si innalza, non ci porta nelle volute mentali dei personaggi. Di Cosimo, della moglie, del questore, dell’ispettrice amante, insomma di tutte le non molte persone che riempiono le poche pagine. Peccato.

Nella lettura, mi ha solo rimandato ad un film in bianco e nero che vide allora sui dieci-undici anni, quando, malato per una qualche influenza, rimasi a casa a vedere le trasmissioni sperimentali per l’avvio di Rai 2 (mi sa che sono un po’ anziano, eh). Un film che, come tutti i giovanetti, mi aveva coinvolto perché era un giallo ben fatto. Poi mi aveva deluso e devo dire spaventato per il finale cui arrivava. Dico rimandato, ma solo nel ricordo, che qui paura e thrilling tendono decisamente allo zero.

Giampaolo Simi “Il comandante Oberdan” Repubblica “Italia in giallo” 14 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 21/11/2020 – I: 07/12/2020 – T: 07/12/2020] &&&--

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 46; anno: 2019]

Un altro racconto dalla scuderia Sellerio, proveniente dalla raccolta “Cinquanta in blu” uscita nel 2019. Intanto, di Simi ho letto qualcosa un paio di anni fa, e non ne sono rimasto particolarmente attratto. Buona scrittura, ma abbastanza debole sul fronte del giallo.

Qui, la storia si ripete. Buona l’idea, lo sviluppo, insomma tutta la scrittura. Ma di giallo nemmeno una traccia, un’ombra. Dice la quarta: “un’indagine di Dario Corbo”. Ovvio che Dario c’è, ma dell’indagine poche tracce.

Di certo Simi non poteva cominciare in modo a me più congeniale il suo racconto, visto che dedica un sentito, doveroso omaggio a MVM (Manuel Vazquez Montalban) ed al grande Pepe Carvalho. Un autore che ho sempre amato, un investigatore che mi ha sempre lasciato soddisfatto in tutte le opere. Anche se confesso il vezzo di accendere il camino con i libri mi ha sempre un po’ spiazzato.

Tra l’altro, il secondo omaggio a MVM nel corso del racconto, mi ha fatto sentire anche più vicino. Qui Corbo ritrova una copia di un mitico Sellerio “Assassinio al Comitato Centrale” autografato da MVM. Io ricordo ancora quando, durante un antico festiva della Letteratura a Massenzio, portai con me “Yo maté Kennedy”, e MVM lo firmò con un sorriso sulle labbra, da non dimenticare.

Nel racconto, la memoria di MVM, si collega ad altre memorie, in particolare a quella dell’amico di Dario, il comandante Oberdan del titolo. Amico di infanzie e di liceo, sodale di passeggiate notturne, ma anche di un viaggio a Barcellona, molto simile a quello che facemmo io ed Andrea. Amicizie che poi si stemperano nel tempo, ma di cui rimane sempre traccia nella memoria. Così, quando Dario ricerca Oberdan per restituirgli il libro autografato, si innescano una serie di avventure e di situazioni che poi costituiscono l’ossatura del testo.

Dario, infatti, è diventato responsabile di una Fondazione, ha soldi da investire, ed un capo, Nora, con cui forse ha del tenero (reciproco?). Oberdan ha poi fatto il suo corso di studi, maturato al Nautico, poi imbarcatosi in navi pubbliche poi private, diventando realmente “un comandante”.

L’atmosfera si immerge nella realtà (odierna, italica), che abbiamo elezioni con candidati improbabili, ma velatamente pentastellati. Ed abbiamo migranti lasciati in mezzo al mare da governi compiacentemente ostili. Oberdan, da duro e puro, e soprattutto, da uomo di mare, non può assistere impotente alla morte in mare di migranti, qualunque essi siano. E tenta un gesto forte, un sequestro, per spingere il governo a prendersi le responsabilità del caso.

Si scambiano messaggio, Dario e Oberdan, e Dario convergerà sulla nave sequestrata. Di certo la fine è già immaginabile, e non si comprende se, nei tumulti delle azioni veloci (che non sono nelle corde di scrittura di Simi e risultano assai confuse) ognuno agirà in modo corretto e coerente. Noi, osservatori esterni, sappiamo di sì. Non si sa mai, quando si è interni all’azione se la prospettiva sia la stessa.

Come si intuisce, una trama decentemente solida ed italica. Amicizie, qualche amore, gioventù e maturità, elezioni e immigrazione. Ma decisamente lontana dal giallo che più non si può. Avrebbe infatti meritato anche di più, ma qualche pecca del responsabile della collana ci porta a qualche linea negativa.

Nicola Fantini & Laura Pariani “Il rasoio di Asimov” Repubblica “Italia in giallo” 16 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 28/11/2020 – I: 09/12/2020 – T: 09/12/2020] & + 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 47; anno: 2014]

Un racconto veramente deludente, abbastanza sconclusionato, se preso in sé. Mi dicono ricerche in rete che altrove, in altri libri, in altri romanzi, la coppia di scrittore si esprime meglio e con più coinvolgimento. Qui, data la brevità del testo ed il continuo rimando ad informazioni contenute altrove e qui non decrittate, molte cose rimangono oscure ed immotivate.

Non avendo letto nulla dei due autori, né singolarmente né in coppia, prendo quanto in rete con il beneficio d’inventario, e mi riferisco a questo testo come unica mia pietra di paragone.

Intanto, premetto che di giallo c’è quasi un’ombra, e poco di più. Dopo una serie di avvenimenti poco chiari, c’è un tentato suicidio che porta allo smascheramento di una fantomatica setta, di bulli ed altro, che si rifà a Rimbaud, utilizzando per motto una sua frase (“Questo è il tempo degli Assassini”). Anche se la poesia “Matinée d'ivresse” termina con la frase “Ecco il tempo degli Assassini”. E qui di giallo c’è poco.

I protagonisti del racconto sono Mirella Cossati, sessantenne insegnante d’italiano, ed il marito Beppe Isnaghi, pensionato. Da quello che si capisce tra le righe (ed è qui che saltano i rimandi ai testi più estesi dei due), Beppe fa parte di qualche collettivo duro e puro, con il mito dell’Unione Sovietica, di cui ne esalta le grandezze sportive (tendenzialmente verso uno sport che in Italia è praticato da uno dei più ristretti numeri di appassionati: l’hockey su ghiaccio), e con la tendenza a produrre documenti criptici sulla situazione italiana e mondiale. Questo collettivo viene indicato con l’acronimo “CSOVIA”, di cui non viene data spiegazione e che non sono riuscito a identificare.

Mirella è molto presa dalla sua missione di insegnare la lingua a classi sempre più eterogenee, direi multietniche. Laddove a volte, gli extra milanesi sono più ferrati che i bamba locali (vedi la ragazza di origini rumene). Correggendo il tema di una sua prima, dedicato alle persone che mi stanno antipatiche, Mirella tira fuori un puzzle di informazioni che convergono sulla personalità e sulle gesta di due ragazzi di terza, Leo e William. Descritti come violenti, approfittatori, tendenzialmente maschilisti e razzisti. Uno spunto, per indagare nel mondo giovanile, senza però né capirne i motivi, né farceli capire a noi.

Certo, i due hanno il mito del pazzo norvegese autore di una strage alcune anni fa. Si riuniscono in quel collettivo di marca “Rimbaud” sopra citato, fanno incetta di CD pornografici, ma anche di soldi di dubbia provenienza. Soldi che Mirella inavvertitamente requisisce, scatenando la catena di eventi che, se ne avete voglia, potete seguire leggendolo. Anche se, personalmente, non ve lo consiglio.

Rimane il mistero del titolo. Quando, sommersa da tutte le informazioni derivanti dai temi, a Mirella viene la sensazione che ci sia qualcosa di losco, Beppe tira fuori la citazione del “rasoio di Occam”, esprimendolo come “le ipotesi più semplici sono le più sensate”. Anche se la citazione originale di Occam sarebbe: “è futile fare con più mezzi ciò che si può fare con meno”. Ma questo è il meno, perché Beppe è un forte lettore di fantascienza, letture che il CSOVIA non approva molto (ricordo che il titolo del suo intervento al comitato è “Ecosostenibilità del piano quinquennale in quattro anni”). E da lì tira fuori il mio amato Asimov, dove, per pareggiare il conto con Occam, utilizza come rasoio, cioè come elemento che ronca le discussioni, il libro “Neanche gli dèi”.

Beh, forse non molti conoscono Asimov, e non molti conoscono il romanzo citato, pur uno dei più belli, secondo me. Ma quello che ancor meno gente sa, è da dove viene il titolo del romanzo. Che non è altro che una citazione di Nietzsche, che dà il titolo ai tre capitoli del libro: “Contro la stupidità, neanche gli dèi, possono nulla.”

Il minimo punto in più lo do per questa citazione, che dovrebbe spiegare qualcosa, nell’intento degli autori, ma che, rimanendo oscura, spiega forse qualcosa a me. Che è meglio tornare a leggere Asimov ed evitare i libri dei nostri autori.

Come ben sanno i miei lettori abituali, la quarta domenica del mese scivola via, senza allegati e senza troppo numeri. Ma come si sa, è timo di ricordi e pensieri. Così, e se non lo avete letto leggetene, penso a Richard Brautigan che nel suo “American Dust – Prima che il vento si porti via tutto” così esprimeva un mio pensiero: “sono ancora alla ricerca … di una risposta anche solo parziale alla mia vita e, man mano che mi avvicino alla morte, questa risposta si fa sempre più lontana”.

Per ora si avvicina solo la Pasqua, ed un altro mese di coprifuoco duro e puro. Non so se resisterò ancora per molto, ma di certo mi fa conforto e compagnia la vostra amicizia.

domenica 21 marzo 2021

Boreali 4 - 21 marzo 2021

Nuova immersione nel panorama delle letture del nord. Tre scritti provenienti dalla Norvegia, con una resa dal molto buono all’ottimo (nella scoperta di Erlend Loe). Un’autrice finlandese, anch’essa di ottimo livello (così che sappiamo non esiste solo Paasilinna). Resta indietro il primo Nobel femminile, la purtroppo molto datata Lagerlöf. Ma la sua scrittura non regge l’urto degli anni.

Selma Lagerlöf “La saga di Gösta Berling” Corriere della Sera Boreali 16 euro 8,90

[A: 12/06/2018 – I: 03/11/2020 – T: 07/11/2020] - && 

[tit. or.: Gösta Berlings saga; ling. or.: svedese; pagine: 452; anno 1891]

Già si intuisce, dall’anno di scrittura, che si tratta di un libro impegnativo. Che si aggiunge al fatto che l’autrice, Selma Ottilia Lovisa Lagerlöf, pochi anni dopo diverrà la prima donna ad essere insignita del Nobel per la Letteratura. Ma è tuttavia un libro “storico”, cioè non impegna molto l’animo a seguirne le righe, non coinvolge la passione per accompagnare i personaggi nella loro vita. Rimane, ed in questo è di certo ben fatto, un libro pietra miliare della letteratura, che sena una svolta nel modo di scrivere scandinavo, e che ci restituisce, anche se sono passati 130 anni, la scrittura descrittiva di un mondo che non c’è più.

Ma la scrittura della Lagerlöf, pur se a me non piace, è capace di suscitare mondi. Descrive luoghi con mirabile capacità, e ce li fa visitare. Descrive personaggi che si comportano in modo “fiabesco”, ma non ce ne fa sentire l’assurdità, ma solo, realmente, l’umanità. Ed in effetti, Selma prende in prestito saghe, leggende e fiabe ancestrali, le rielabora e le ricuce, creando alla fine una narrazione coerente, che ha un suo filo complessivo coerente e seguibile. Anche se in realtà, ogni capitolo è un racconto che potrebbe avere vita propria.

Mentre la scrittura, come detto, è della fine dell’Ottocento, la storia si svolge negli anni Venti di quel secolo, ed è ambientata nel Värmland, non a caso la regione natia della scrittrice. L’eroe eponimo della saga è ovviamente Gösta Berling, che anche qui, per causa di scrittura, è un eroe pieno di contraddizioni. Prete spretato perché troppo dedito all’alcool, sin dalle prime righe è ambiguo. Ubriacone, imbastisce un sermone magistrale che commuove tutti. Poi, pieno di rimorsi, fugge cercando la morte. Viene salvato dalla maggiorente della tenuta di Ekeby, convinto alla vita ed incorporato nei cavalieri del posto. Qui, sobillato dal diavolo in forma del cattivo Sintram, insieme ai cavalieri, si rivolta a Margarita Samzelius, la maggioressa, la scaccia, ed inaugura un anno di baldoria, che porta la rovina al territorio di Ekeby.

Da qui, come detto, si partono tutte le storie dei vari personaggi, sempre collegati all’ambiguo Gösta, talvolta eroe, talvolta infingardo e cattivo. Ma sempre bello, e capace di far innamorare tutte le donne benestanti della zona come Anna Stjärnhök, Marianne Sinclaire e la contessa Elisabeth Dohna. Fino all’ultimo capitolo, dove Margarita torna, mette in riga i cavalieri, Gösta mette la testa a posto, si sposa, i cavalieri si disperdono e la maggioressa muore.

Per i “filologi”, diamo qualche altra informazione sui personaggi. Detto di Gösta, e di Margarita Samzelius, la maggioressa (intesa come moglie del Maggiore) responsabile di Ekeby, della sua crescita, della sua rovina e della sua rinascita, abbiamo già citato Sintram, il cattivo, che finirà giustamente male. Abbiamo allora, la figlia di uno dei più ricchi del posto, Marianne Sinclaire, prima cacciata di casa per aver baciato Gösta, poi riconquistatasi il suo posto (e perdonerà anche il baciatore a tradimento). C’è la famiglia del conte Dohna, composta dal conte Henrik, notoriamente stupido, dalla contessa Marta, madre di Henrik, ricca e altera, che finirà cacciata da Ekeby con il conte, dalla figliastra di Marta, Ebba, il primo amore di Gösta, estremamente religiosa, tanto che non si riprende dallo shock dell’abbandono e si lascia morire. Infine, c’è la contessa Elisabetta, che si innamora di Gösta, prima di lasciare il conte, passa infiniti tormenti, punizioni e patimenti, ma alla fine coronerà il suo sogno d’amore.

Citando di passaggio anche Anna Stjärnhök, fidanzata con un personaggio minore, un tempo innamorata di Gösta, ma poi rinsavita e sposa con amore e decoro. E per finire ci sono i 12 Cavalieri (dodici come gli apostoli?): il molto citato Gösta Berling, il Colonnello Beerencreutz, il Maggiore Anders Fuchs, il piccolo Ruster, Rutger von Orneclou, Kristian Bergh, lo scudiero Julius, Kevenhuller, il cugino Kristoffer, lo zio Eberhard, Lovenborg, Lilliecrona. E li cito, perché di ognuno Selma narrerà una storia ed un intreccio con gli altri e con Ekeby. Anche se, con la maestria della sua scrittura, Selma riporterà tutto nell’ordine del filo logico del suo racconto.

Devo dire che alla fine, quello che più mi rimane del libro è la capacità di descrizione dei luoghi scandinavi. L’ambiguità del libro, invece, sta anche nel messaggio contraddittorio che manda: un omaggio alla gioia di vivere di un tempo passato, ma allo stesso tempo una condanna di una vita senza lavoro.

Però, alla fine, è veramente una lettura filologica, che forse ci fa entrare in un mondo di fiabe e leggende, che di sicuro adombrano aspetti umani tuttora rilevanti: avarizia, invidia, odio, amore. Storia di intenzioni tradite, cadute, seconde occasioni e (probabilmente) redenzioni. È piena di intensità, ed ha un ritmo epico che trascina verso la fine, pur nella difficoltà di una scrittura centenaria. Ma il mondo di Selma è ormai molto lontano, e ci vuole fatica per farlo tornare all’oggi. Domandandoci, ad ogni pagina, se lo sforzo è realmente utile. Rimango nei miei dubbi.

“Non è una cosa facile … fare felice una donna.” (131)

“Aveva su molte cose le sue opinioni personali, come facilmente accade a chi vive solo ripensando di continuo a tutto quello che un tempo i suoi occhi hanno veduto.” (206)

“Ora ha il volto ingiallito, è avvizzita e vecchia. Forse non la riconoscerà nemmeno, sessantenne com’è, ma lei non viene per essere veduta, bensì per vedere … l’uomo amato in gioventù.” (283)

“Una donna non si vergogna mai di un uomo che ha amato.” (414)

“Sarebbe per me un onore sufficiente che … si ricordassero ancora del mio nome un paio di anni dopo la mia morte.” (429)

Rosa Liksom “Scompartimento n.6” Corriere della Sera Boreali 20 euro 8,90

[A: 01/11/2018– I: 06/11/2020 – T: 09/11/2020] - &&& e ½

[tit. or.: Hytti nro 6; ling. or.: finlandese; pagine: 218; anno 2011]

Se la memoria non mi inganna, credo che Rosa sia la terza persona che scrive in finlandese presente nella mia libreria. Per sgomberare il campo, poi, sulla nazionalità (e su alcune concezioni ben condivisibili) della scrittrice diciamo subito che il suo vero nome è Anni Ylävaara. Che in realtà è lappone di nascita, ed adotta lo pseudonimo sopra citato composto da Rosa in onore di Rosa Luxemburg (e non della mia amica Rosa come poteva anche essere) e da Liksom derivante dallo svedese con il significato più accreditato di “così come”.

Rosa (per evitare sbagli la chiamiamo con il nome d’arte) è una persona poliedrica, dalla Lapponia scende ad Helsinki per laurearsi in antropologia, saltabeccando nel Nord Europa fino ai trenta anni, ma avendo sempre nel cuore Mosca e la Russia. Fa anche un lungo viaggio in Transiberiana a 25 anni (e noi, quando?), per poi tornare in patria e cominciare la sua vita artistica. Che comprende, oltre la scrittura, fumetti, “graphic novel”, sceneggiature e regie di film, pezzi teatrali, nonché opere multimediali.

Pur essendo ben nota nel panorama locale (letta nei licei e studiata all’Università) è questo romanzo, scritto da cinquantenne ormai, che, benché uscito in sordina, le dà notorietà e fama anche al di fuori della Finlandia. Un romanzo che (ma qui devo fidarmi) continua ad essere scritto nello stile asciutto che contraddistingue le sue opere (nessuna concessione), e che soprattutto, partendo dalla sua esperienza di viaggio attraverso la Russia sopra citata, ci porta appunto in Unione Sovietica, e per l’esattezza nel 1986. Anno terribile, già in piena crisi, e non ancora riportato ai fati corrotti dell’era Putin.

Certo, è strano leggere da un’autrice finlandese un libro completamente immerso nella realtà e nel mondo russo. Ma Rosa mostra di conoscerlo veramente bene, e di riportarcelo alla memoria, sia nel presente del libro, sia nell’atmosfera di “russità” generale che lo pervade. Intanto, sin dal titolo, che allude senza troppe velature con il racconto di Cechov “Reparto n. 6”, la seconda opera letteraria che parla di alienati nella letteratura russa (leggetelo). La prima essendo “Il Fiore Rosso” di Vsevolod Michajlovič Garšin, che ovviamente è ampiamente citato da Rosa nella prima parte del romanzo. Ed oltre a numerose citazioni intermedie, si ritorna (o si arriva) a Cechov nell’invocazione finale “A Mosca! A Mosca!”, come nelle sue “Tre sorelle”.

D’altra parte, ci si chiede cosa ci sia di finlandese in questo russofilo romanzo. Personalmente vi ho ritrovato quella sensazione da ingombrante vicino, quella stessa che mi aveva colpito la prima volta che sono stato ad Helsinki. Con quei palazzi, quelle aree, quelle stazioni che mi facevano sentire immediatamente trasportato di là del golfo, a parte sentir parlare una lunga sinceramente incomprensibile.

Venendo al testo, rimanendo nelle metafore ferroviarie, mi sembra che vi siano tre binari che segue la narrazione. Uno, di ampio respiro, e che mi trasportava lì con le parole, è quello delle descrizioni: la steppa, i fiumi, gli Urali, i laghi, il fiume Amur (che mi riporta alle parole di Terzani), le città desolate siberiane e mongole, la mitica Ulan Bator di mio padre.

Poi ci sono i due relativi ai personaggi. C’è Vadim, quarantacinquenne stakanovista (dedito solo al lavoro), che tra una bevuta e l’altra (certo i russi non si risparmiano) racconta a noi ed alla protagonista brandelli della sua vita. Imperniata su bevute, risse e scopate. Sempre alla ricerca di un soldo da spendere, senza averne mai da parte. Una specie di carosello di microracconti che ci dipingono con puntillistica esattezza la Russia dell’86.

E c’è la ragazza, la finlandese innamorata della Russia, decisa ad arrivare sino in Mongolia alla ricerca di rare scritte rupestri. Ma anche per fuggire da Mosca, da una situazione che scopriamo a poco a poco. L’intimità, anche forte, con il giovane Mitka. Fino al suo ricovero in psichiatria (ecco che ritorna Cechov) per non partire militare in Afghanistan. Da lì nasce invece l’amore, con Irina, che, per sfortuna, è anche la giovane madre di Mitka. Certo, situazione complicata, trattata comunque con sfumature che adombrano ma non chiariscono.

Ma si arriverà in Mongolia, servirà l’aiuto di Vadim (che per tutto il viaggio lei aveva schizzato) per risolvere situazioni complicate. Serviranno i paesaggi, e magari le yurte mongole per pacificare l’animo. E per decidere se utilizzare quel biglietto aereo di ritorno (così come avrei fatto io se fossi riuscito ad organizzare il nostro mitico viaggio) e tornare, cosciente, a Mosca.

Pur con qualche riserva, non mi è dispiaciuto affatto. Una sola domanda mi è sorta spontanea, leggendone ora in tempi di lockdown. A pagina 74 Vadim afferma: “le nostre risorse umane sono inesauribili”. Forse allora, purtroppo non ora.

“Le ragioni della nostra angoscia sono due: o vogliamo ma non possiamo, o possiamo ma non vogliamo.” (31)

“Non mi sono mai sposata perché sto bene in compagnia dei miei simili.” (149)

“Come era possibile che un popolo con un passato così glorioso vivesse in una tale decadenza?” (176) [si parla dei Mongoli, ma che dire degli Egiziani…]

“Metà della nostra vita la passiamo a fare cazzate, il resto a capire perché e a cercare di rimediare il rimediabile.” (198)

Erlend Loe “Naif.Super” Corriere Boreali 15 euro 8,90

[A: 05/06/2018 – I: 30/11/2020 – T: 02/12/2020] - &&&& ---

[tit. or.: Naiv.Super; ling. or.: norvegese; pagine: 247; anno 1996]

Eccoci alla scoperta di un nuovo autore scandinavo, così com’era negli intenti primari della collana. Erlend Loe è l’ottavo autore norvegese di cui leggo qualcosa. Preceduto dal Nobel Knut Hamsen, dai giallisti Dahl (Arne e Kjell Ola), Holt e Nesbø, e dai romanzieri Solstad e Harstad. Una nutrita ed agguerrita compagnia, dove il buon Erlend si ritaglia un posto di tutto rilievo.

Benché abbia quasi venticinque anni, il libro è ancora fresco, discretamente spumeggiante, ben scritto e mediamente simpatico. Certo, qualcosa lascai per strada sull’onda dei grattacieli (non entrerei nel dibattito Sears di Chicago, Empire di New York o Petronas Tower malaysiane, per non incorrere in ricordi di torri gemelle, fuori contesto qui). Ma va bene anche così.

Il romanzo è un lungo monologo, a volte un po’ involuto, a volte ripetitivo, a volte sul limite di un autismo non confessato, di una specie di alter-ego dell’autore (l’innominato protagonista dice di avere venticinque anni, Erlend lo scrive quando ne ha ventisei). Oltre all’autore, nel romanzo compaiono: il fratello, uomo di successo e pieno di soldi, Kim, l’amico buono che fa il meteorologo su al Nord, Kent, l’amico cattivo che parla solo di donne, Børre, il ragazzino dell’asilo di cui diventa amico, e Liza, che forse sì o forse no diventerà la sua ragazza.

Il lungo monologo prende avvio quando il narratore comincia ad essere disilluso dal mondo e dal modo in cui vive. Lascia l’università, vive a casa del fratello (temporaneamente in America), e si domanda quale sia il senso della vita. Poi, leggendo un libro divulgativo dell’inglese Paul Davies (libro ed autore reali, essendo il primo “About time”), comincia ad interrogarsi sulla natura del tempo, sulle teorie di Einstein, non riuscendo a decidersi di uscire dalla giovinezza per entrare nell’età adulta.

La tensione lo rende instabile, così che prima comincia a tirare palle contro il muro, poi ad usare un banco da falegname della BRIO che martella da mattina a sera. Inciso: la BRIO è una delle più antiche fabbriche di oggettistica in legno fondata dal signor Ivar nel 1884, insediatasi a Osby ai primi del ‘900 e denominata, dai tre figli di Ivar come “BRIO = BRöderna Ivarsson (at) Osby”, cioè i tre fratelli figli di Ivar che stanno a Osby.

Oltre alle letture si scambia fax con l’amico Kim, spesso cominciando lunghi elenchi di cose. Quello che mi piaceva quando ero piccolo. Quello che odio in televisione. Quello che vorrei avere e non ho. Quello che ho. Quello che so ma che non è necessario. Va spesso in bicicletta, ma senza casco. Conosce nel cortile di casa il piccolo Børre, diventando suo amico (magistrale il passo, e si capisce che Loe sia anche un buon scrittore per ragazzi: il narratore si pone sullo stesso piano del ragazzo, così che possa avvenire uno scambio, e non una imposizione di ruoli). Conosce poi Liza, la sorella di Børre, e con ogni probabilità dopo la fine del libro nascerà una storia.

La svolta avviene con l’invito del fratello a raggiungerlo a New York, alla vita “americana” che il nostro conduce per qualche giorno, all’affacciarsi dall’ultimo piano dell’Empire State Building (con una divertente digressione sul tempo tra la terra in basso e lui in cima). Messo fuori dal suo ambiente e dalla sua cuccia, il narratore capisce che “c’è vita fuori di qui”, che si può guardare il mondo con una prospettiva diversa, che ci si possono fare domande, dove a volte c’è una risposta ed a volte no.

Di sicuro capisce che gli piace Liza. Capisce il suo impulso ad essere bambino, decidendo poi di “tenersi il bambino dentro”. Muovendosi per fare le cose che vuole realmente fare (se riesce a comprenderle) e non quelle che “dovrebbe fare un adulto”. Ricorda molto il Battiato della “Canzone dei vecchi amanti” (“com’è difficile invecchiare senza diventare adulti”).

Loe ci descrive uno spaccato molto scandinavo, è vero, ma in un certo qual modo universale, della generazione degli anni ’70, ed alla fine delle certezze che avevano caratterizzato il mondo dei loro genitori. Come detto, a volte datato (ad esempio anche sugli strumenti tecnologici come il fax), ma gradevole.

Un mistero finale: i recensori inglesi dicono che il romanzo è diviso in 45 capitoli; qui, nella versione italiana, i capitoli sono 46. Come direbbe Ruggeri: Mistero!

“Anybody who rides a bike is a friend of mine (Gary Fisher)” (9) [Chiunque vada in bici è mio amico (G.F. l’inventore della Mountain Bike)]

“Perché io non ho la ragazza? Non trovo nessun valido motivo. Gente molto meno simpatica di me ha la ragazza. Gli idioti hanno la ragazza. … C’è molta ingiustizia e idiozia al mondo.” (106)

“Secondo me la rete è sopravvalutata. Tutto sommato consiste di informazioni di cui potrei benissimo fare a meno.” (112)

“Io credo che nessuno dovrebbe essere solo. Che si dovrebbe stare insieme a qualcuno. Agli amici. A chi si ama. Io credo che sia importante amare.” (165)

“Fitte, kuk, pikk, suging, basj, pule, rumpehull, runke, pupp, slikke, fis.” (170-193) [elenco delle parole cercate su Internet come nomi di autori inglesi; le parole sono “tabù” in Norvegia, descrivendo gli organi sessuali, alcune posizioni del rapporto amoroso, nonché vere e proprie parolacce; potete usare Google per tradurle]

“Ho l’aria di star bene … I soldi non importano. Vanno e vengono. Ma i fratelli sono importanti. I fratelli sono più importanti dei soldi, dice mio fratello.” (234)

Morten A. Strøksnes “Il libro del mare” Corriere Boreali 12 euro 8,90

[A: 14/05/2018 – I: 22/12/2020 – T: 24/12/2020] - &&& e ¾

[tit. or.: Havboka; ling. or.: norvegese; pagine: 317; anno 2015]

Morten A. Strøksnes, dove A. sta per Andreas, è un giornalista norvegese cinquantino (come direbbe Camilleri) fino alla lettura di questo libro illustremente a me ignoto. Devo dire che mi ha subito preso, ed ho letto con gusto questo giustamente premiato libro che non è un romanzo, ma non è neanche un saggio. Direi una passeggiata nella memoria, con approfondimenti casuali, scaturiti da momenti di pensiero che ogni tanto vengono in mente mentre si vive.

Intanto, dopo averne cercato in giro, dispiace sia che non ne venga riportato nel risvolto editoriale di seconda il titolo completo, che recita: “Havboka - eller Kunsten å catch en kjempehai fra en gummibåt på et stort hav gjennom fire årstider”. Sia che lo stesso non venga utilizzato per intero nella traduzione italiana, che dovrebbe suonare come: “Il libro del mare o l'arte di catturare uno squalo gigante da una barca gonfiabile su un grande mare attraverso quattro stagioni”.

Visto che ci siamo, darei anche una piccola tirata d’orecchi al traduttore, il pur bravo Francesco Felici, dove, quando si va a parlare di pesci o di venti o di onde, a volte lascia il termine norvegese, senza cercare o una traduzione, o una nota editoriale che ne spieghi meglio il senso. Un esempio su tutti: nella parte finale di parla molto di “skrei”, che non è altro che il merluzzo norvegese artico. Io ne avrei parlato meglio, o con più enfasi, o con un po’ di espansione nelle descrizioni.

Ciò detto, lasciamoci invece trasportare da Strøksnes nelle sue scorribande marine nelle isole Lofoten ed in particolare nel Vestfjorden (il fiordo dell’ovest) dove sulla barca del titolo esteso, insieme all’amico Hugo, passa quattro diversi anni nel tentativo di catturare uno squalo gigante. O meglio uno “squalo della Groenlandia”. È uno dei più grandi, se non il più grande, squalo marino, arrivando ad una lunghezza di 7 metri e ad un peso di una tonnellata. Sicuramente, è il vertebrato più longevo al mondo. Raggiunge la sua maturità intorno ai 150 anni ed è stato trovato un esemplare che ha raggiunto l’età di 512 anni.

Ma non è tanto o solo la caccia allo squalo quella di cui ci parla Strøksnes nel suo libro, quanto di tutto quello che si aggira intorno allo squalo, alla pesca ed alla vita prendendo ad epicentro l’isola di Engeløya (l’isola degli Angeli), che proprio il fiordo di cui sopra collega alle Lofoten. Non c’è bisogno che dica come le Lofoten siano uno dei miei sogni neanche tanto proibiti di tornare verso il Nord, magari per vedere l’aurora boreale.

Sull’isola vive appunto Hugo Aasjord, l’alter ego protagonista di queste pagine. Un artista, pittore astrattista più che altro, di cui in rete potete trovare una bella galleria di immagini delle sue opere. Ed è proprio Hugo che spinge l’amico Morten all’uscita alla ricerca dello squalo. Hugo tornato sull’isola per riprendere le tradizioni familiari (quelle della lavorazione del merluzzo in particolare) e dedicarsi a questa pesca para oceanica utilizzando le tecniche di una volta: gettare in mare carcasse e cascami maleodoranti, con grossi ami e catene robuste, al fine di catturare questi “mostri marini”.

E mentre si va, o si aspetta di andare, Strøksnes riesce a riempire le pagine di notizie, di rimandi, di spunti su mille cose che intorno alla pesca, al mare ed alla navigazione prendono vita. Ci fa immergere nelle atmosfere del nord norvegese, nelle sue tradizioni. Ma si vola un po’ ovunque: dal battello ubriaco di Rimbaud alla balena di Giona, dalle bevute epiche nelle feste norrene alla descrizione delle mille ed una vita che ci aspetta in mare.

Di un interesse unico, per me, è stato immergermi con la fantasia nelle profonde acque oceaniche, insieme agli squali e ad altri animali che vivono a più di 600 metri di profondità. Animali che raramente vedono la luce del sole, che vivono di bioluminescenze, che sono a loro volta giganti e mostruosi. Che non si sono estinti nelle grandi morie epocali (come l’ultima che ci portò via i dinosauri).

Poi si torna alla pesca, al merluzzo, allo squalo, ed alla scoperta (che vi lascio seguire) della battaglia per la cattura (che avverrà o forse no?).

Io sono rimasto affascinato dal farmi cullare dalle divagazioni di Strøksnes, che, cosa non sempre accaduta, stimolano sinapsi di curiosità. Una su tutte: il naufragio su Røst di una barca veneta, e come da lì sia nato lo scambio di stoccafissi tra Veneto e Norvegia, che a noi lascia in bocca l’indimenticato sapore del baccalà mantecato.

Un’ottima scrittura, ed una bella lettura. Di quelle che ci fanno subito dire: ma dov’è quell’aereo per Tromsø?

“I marinai a terra … magari non si imbarcheranno mai più, ma continueranno comunque a parlare e a muoversi come se fossero lì soltanto in visita.! (8)

“Le storie che raccontiamo sono sempre quelle che finiscono bene.” (184)

“Tra di noi non è quasi mai opprimente, il silenzio., e questa è una buona definizione di amicizia.” (226)

“La storia è un bambino che costruisce un castello di sabbia in riva al mare.” (252)

Monica Kristensen “La leggenda del sesto uomo” Corriere Boreali 22 euro 8,90

[A: 01/11/2018 – I: 25/12/2020 – T: 26/12/2020] - &&& e ½ 

[tit. or.: Kullunge; ling. or.: norvegese; pagine: 260; anno 2007]

Il nome completo sarebbe Monica Kristensen Solås, ma l’ultimo pezzo in genere viene omesso. Sarebbe anche svedese di nascita, ma ha vissuto, lavorato e scritto sempre in Norvegia, di cui ha la nazionalità per parte genitoriale. Non nasce scrittrice, ma, come dice la sua biografia è meteorologa, fisica, glaciologa ed esploratrice polare norvegese. Tra l’altro, girando spesso anche al Polo Sud, sulle tracce di Amundsen.

Trasferitasi, in un certo momento della vita, quando le spedizioni diventavano un po’ pesanti (Monica è del 1950), nelle Svalbard, ad un certo punto, una quindicina di anni fa, comincia a scrivere, soprattutto romanzi polizieschi. Tutti (almeno per quanto ho capito) ambientati proprio in quelle isole sperdute, e di certo particolari. Tanto che sono anni che chiedo ai miei referenti di viaggio di poterci portare dei gruppi, ma non ci sono ancora riuscito.

Un sogno, che prima o poi…

Ma venendo al testo, di certo molto nel mio immaginario è dipeso proprio dall’ambientazione: la città (unico insediamento veramente abitato delle isole) di Longyearbyen, le miniere di carbone (Kull in norvegese, da cui una parte del titolo), le postazioni artiche, le motoslitte, e soprattutto gli orsi polari. Inciso: unico posto al mondo dove ti forniscono di fucili, che andare in giro ed incontrare orsi non è di certo salutare.

Purtroppo, invece, la storia in sé si annoda intorno ad una tematica abbastanza scontata, seppur immersa nelle tradizioni locali. Scompare una bambina dall’asilo locale (il Kullungen da dove si diparte la trama). Figlia di una coppia in crisi, soprattutto per colpa del marito, discretamente alcolista, ed ingegnere minerario di scarsa reputazione. Tanto che si ipotizza subito che sia stato Steinar a rapire (o allontanarsi senza avvertire) la figlia Ella. Anche se si mescolano le carte facendo vedere una strana figura che si aggira vicino ai bambini, offrendo loro caramelle e cioccolatini.

Da qui in poi si intrecciano varie storie all’interno della spasmodica ricerca della piccola. Storie con due complicazioni, un numero discreto di personaggio i cui nomi si intrecciano spesso nella mente, ed una narrazione che va su e giù per il tempo. Che il rapimento avviene un 23 febbraio, e le storie partono da gennaio. Mescolando tempi, ed ingarbugliando nella mia mente le sequenze temporali.

C’è un poliziotto che intreccia una storia clandestina con una signora, sposata con un pilota locale (la maggior parte degli spostamenti nelle Svalbard avvengono per aria e per mare, essendoci solo strade sterrate, e neve quasi tutto l’anno, per cui si utilizzano solo motoslitte). C’è la moglie del poliziotto, da poco nelle isole, che non si integra mai con i locali, covando nel tempo rancori giganti verso il marito e l’amante di lui. C’è lo Steinar di cui sopra, che si accompagna con due loschi minatori, dediti al contrabbando di liquori e carne di renna, essendo la seconda altamente proibita, dove le renne sarebbero protette.

Ma soprattutto ci sono le miniere di carbone, che hanno fatto nascere le isole (un tempo disabitate) con tutte le problematiche legate all’estrazione ed ai relativi pericoli (se leggete la storia delle Svalbard, è funestata da diversi incidenti, spesso mortali, che avvengono nelle miniere). E come in tutte le miniere, nascono leggende, come quella che dà il titolo italiano. Un sesto uomo che compare misteriosamente, sia aiutando i minatori a salvarsi, sia segnalando pericoli e morti imminenti.

Poi ci sono tutti i “buoni”: la polizia locale, la Sezione Criminale che viene dalle terre ferme norvegesi, le signore che organizzano l’annuale festa del sole (ai primi di marzo, dopo mesi di buio, il sole si affaccia nuovamente all’orizzonte). Monica è decisamente edotta della vita locale per riuscire a darne una descrizione efficace, nelle sfaccettature quotidiane. A me rimane impresso il tentativo (riuscito) di distogliere una mamma orso che sta per assalire una comunità locale. Come anche i pericoli che le barche in mare sostengono quando vengono in rotta di collisione con gli iceberg.

Alla fine, molto si ricompone, sia per l’abnegazione del matto del villaggio, un ex-minatore rimasto sfasato nella testa dopo una brutta avventura in miniera, sia per l’acume del poliziotto Knut, personaggio all’inizio marginale, che acquista spazio nella seconda parte del romanzo.

Non mi dilungo sul resto della complicata trama, ma vi assicuro che tutti i pezzi, prima o poi andranno al loro posto. Il bello del romanzo ripeto, sono proprio le Svalbard e l’occhio partecipe ma non indulgente che ne disamina la vita.

La scrittrice, che di sicuro ha una bella penna, dovrebbe aver scritto altri libri con analoga ambientazione, dove mi domando se si ripresentano gli stessi personaggi, acquisendo un’andatura seriale che ne farebbe meglio ricordare i tratti. In ogni caso, a me rimane la sensazione di scoperta dei luoghi del nord, che, nonostante il freddo, continuano ad attirarmi.

Avendo finito, per ora, la disamina dei “libri felici”, per consolarvi in questa domenica benedetta di primavera (che calembour!) vi porto una bella dose di citazioni rimaste nella penna e nella mia memoria.

Quindi, è primavera (ma solo per il calendario) ed è coprifuoco (per tutti). Non si viaggia e non si riesce (ancora) a prenotarsi un vaccino. Ma la Pasqua è vicina, e cercherò, come spero tutti voi, di trovare un po’ di riposo e ristoro. Per cui non so, sinceramente, se nelle prossime domenica riuscirò a comporre delle trame passabili. Spero tuttavia nella vostra clemenza sia nella riuscita che nella mancanza.

Citazioni dagli appunti di Giovanni

Citazioni di marzo

Come detto ho terminato la disamina dei libri letti che sono descritti e citati nell’ottimo “I libri che ci aiutano a vivere felici” di Giulia Fiore Coltellacci.

Per darvi un po’ di righe che aiutano a pensare, passo allora alla disamina di alcune citazioni che, come bolle di memoria, sono affiorate nel corso degli anni dalle mie letture.

Ci posizioniamo agli inizi dell’anno 2007.

Iniziamo con un libro che tanto piacque a mio padre, e che lessi con interesse, anche se non con trasporto. Mi riferisco a Fritjof Capra che nel suo “Il Tao della fisica” ci fornisce questo suggerimento sul cammino da seguire nel nostro affrontare il mondo: “Qualsiasi via è solo una via, e non c’è nessun affronto, a sé stessi o agli altri, nell’abbandonarla, se questo è ciò che il tuo cuore ti dice di fare… Esamina ogni via con accuratezza e ponderazione. Provala tutte le volte che lo ritieni necessario. Quindi poni a te stesso, e a te stesso soltanto, una domanda … Questa via ha un cuore? Se lo ha, la via è buona. Se non lo ha, non serve a niente.”

A ruota, visto che siamo in ambito saggistico, mi dedicai agli “Aforismi sulla saggezza del vivere” di Arthur Schopenhauer. Che proprio in quanto florilegio di aforismi, non potevo che farmi sommergere dai suoi suggerimenti.

Il grande tedesco inizia quasi subito con una massima di estrema consolazione per le nostre debolezze: “quando avrai perso non aggravare la situazione rimproverandoti e punendoti per aver fallito”. Subito dopo, tolstojanamente ma forse anche catalanamente, ci suggerisce che “chi ride molto è felice, chi piange molto è infelice”.

Pensando ad Epicuro, ed alla condizione di ognuno di noi quando impara, finalmente, che solitario non è solo, sottolinea: “la felicità appartiene a coloro che bastano a sé stessi”. Ribadendo poco dopo: “la nostra condizione reale e personale … è cento volte più importante per la nostra felicità di quello che agli altri piace pensare di noi”.

Certo, è quello era un periodo di grandi riflessioni personali, mi attaccai a quest’altra sentenza: “All’uomo di spiccate doti intellettuali la solitudine offre un duplice vantaggio: primo stare con sé stesso e secondo non stare con gli altri … che in grande maggioranza sono moralmente cattivi e intellettualmente ottusi”.

Ce n’era poi una che ora, in questo coprifuoco malvagio, mi suona vicina, anche se farei volentieri un ammenda per poter tornare ad avere una nuova nostalgia: “a volte crediamo di sentire nostalgia per un luogo lontano, mentre in realtà la nostra nostalgia è solo per il tempo che abbiamo trascorso in quel luogo quando eravamo giovani”.

Ed ora che siamo cresciuti e si avvicina, o meglio si pensa che si avvicini, ma i spero che non lo sia (così vicino), chiudo la schopenaurata con uno dei suoi aforismi finali: “solo verso la fine della vita si riconosce e si intende veramente quello che si è, gli obiettivi e i fini che uno si è posto”.

Ma non si leggeva solo saggi, ma anche romanzoni storici. Uno dei preferiti allora era Giulio Leoni che nei suoi “I delitti della luce” cominciò una fortunata serie utilizzando come investigatore Dante Alighieri. Ed in quella lettura rimase sul bordo della memoria: “Tu vuoi essere solo perché hai paura di essere abbandonato”.

In effetti, ci furono stagioni in cui fui abbandonato, ma non per questo cercavo la solitudine, perché lo scrittore di un solo libro che rimane alla mia memoria, Dai Sijie nel suo “Balzac e la Piccola Sarta cinese”, quando spiega il suo attaccamento per lo scrittore francese, ci dice: “Balzac mi ha fatto capire che la bellezza di una donna è un tesoro inestimabile”.

Ancora in quel gennaio di quasi quindici anni fa, vi porto una frase di Luis Sepulveda tratta da “Il potere dei sogni”. Retrospettivamente è con un brivido che l’ho riletta, pensando al grande cileno morto per covid: “brindiamo agli uomini ed alle donne che hanno dato tutto ed hanno pensato che non era ancora abbastanza”.

Finisco con il solito tocco un po’ ameno e leggero. Erano anni che leggevo tutti gli scritti di Lorenzo Licalzi. Ma sempre e soltanto mi rimase in testa questa frase presa dal suo “Io no”: “Come pretendi che ti dia una risposta se l’unico tatuaggio che ho è un punto interrogativo?”