domenica 30 luglio 2023

Tra brividi ed emozioni - 30 luglio 2023

Mi fa piacere accogliere nuovi lettori con queste trame dal simpatico numero, lettori cui in separata sede ho spiegato i meccanismi di queste trame.

Questa settimana chiudiamo il mese di luglio (dopo avervi lasciati soli per un po’) con alcuni libri delle collane Noir di Repubblica. In particolare, Emozioni e Brividi Noir. Con pretto spirito maschilista (dove posso ironizzare, che è proprio lontano da me), il migliore del lotto risulta l’unico uomo. Le quattro donne stanno lì sulla soglia, pronte a scattare, in particolare la canadese Penny, che aspetto in altre sue pubblicazioni.

Jean Failler “Il respiro della marea” Repubblica Emozione Noir 40 euro 7,90

[A: 06/05/2020 – I: 18/12/2022 – T: 20/12/2022] - &&&

[tit. or.: Les bruines de Lanester; ling. or.: francese; pagine: 140; anno 1992]

Jean Failler è, ora, un ottantenne bretone dall’aria tranquilla (almeno in foto). Dopo una vita anche avventurosa, tornato nella Bretagna natia, lavora per l’azienda familiare nel settore della pesca, senza mai dimenticare di avere una passione, anche forte, per la scrittura. A 40 anni vince un concorso di scrittura creativa, che lo spinge a proseguire il cammino impervio delle belle lettere.

Ma la svolta avverrà solo nel 1992, quando scrive, pubblica ed ottiene un discreto successo con questo libro. L’eroina del romanzo, all’epoca ispettrice apprendista Mary Lester, è subito gradita dal pubblico. Tanto che Failler decide di scrivere a ruota altri libri. L’idea, che è risultata vincente nella scommessa letteraria, non è solo di seguire le indagini di Mary, ma di ambientare le vicende gialle in diverse cittadine della Bretagna, tendenzialmente sempre diverse, a parte una predilezione per Quimper (due o tre episodi) e Finisterre (cinque episodi).

Pur rimanendo di basso profilo, senza avere successi internazionali stravolgenti, in questi trent’anni, Failler ha comunque prodotto 60 romanzi intorno alla sua eroina. Praticamente al ritmo di due romanzi all’anno. In Italia, ha avuto un momento di piccola notorietà, quando Robin editore pubblicò una quindicina dei suoi romanzi. Poi la piccola casa editrice non avendo ritorni, abbandonò il progetto e Failler rimase lassù in Bretagna. Solo negli ultimi tre-quattro anni c’è stato un ritorno di fiamma, attraverso la meritoria opera delle edizioni TEA. Ma senza un piano di investimenti organico.

Intanto, mi preme sottolineare che entrambe le edizioni italiane di questo libro (questa è la terza, ma riprende in pieno il volume TEA) non è che avessero fatto un buon lavoro sul titolo, come spesso accade. L’originale si potrebbe tradurre “La pioggerellina di Lanester”, dove infatti il termine francese “bruine” indica quel tipo di precipitazione con gocce di piccole dimensioni, che sovente si verificano vicino al mare. Ora, Robin propose come titolo “Omicidi a Lorient”, stravolgendo anche geograficamente il testo, che, seppur vero Lanester è praticamente attaccata a Lorient, sono due cittadine ben distinte. TEA poi si avventura nel poetico respiro della marea, fenomeno, quest’ultimo, che dà una mano a Mary nella soluzione, ma anche qui cambiando il senso delle indicazioni dell’autore.

Il giallo in sé, invece, pur di breve durata (ma talvolta è anche un pregio), è ben confezionato, seguendo l’entrata in scena di Mery-Prunelle Lester, chiamata sempre Mary. Uscita dalla Scuola di Polizia, viene inviata di sede a Lorient, dove deve sottostare a Marc Amedéo, un corso che comanda la stazione di polizia, con un discreto acume poliziesco, ma di un’acidità enorme verso la malcapitata Mary.

Insediata da poco, si vede piombare addosso i primi problemi. Un barbone viene trovato morto affogato, alla base di un ponte, sotto le cui arcate aveva costruito un suo piccolo rifugio. Una bella signora viene a denunciare la scomparsa del marito. Una banda di teppistelli viene sorpresa a rubare utilizzando il pulmino dello scomparso.

Anche se il capo, ogni volta ridicolizza le sue iniziative, Mary continua ad indagare. Scopre che lo scomparso aveva affittato una casetta nei boschi, l’aveva sistemata perbene, e vi trascorreva pomeriggi piacevoli con qualcuno che non era sua moglie, ma la moglie di qualcun’altro. Poi nota del cemento fresco sul pianale del pulmino. Indagando per una scomparsa di una barchetta (portata via forse dalla marea del secondo titolo) si accorge dell’esistenza di bidoni sul fondale delle insenature usati come corpo morto per piccole imbarcazioni. Inciso: sull’uso del corpo morto direi che potete chiedere al mio amico Renato, super esperto di cose marinaresche.

Ripescato il bidone, Mary vi trova, ed è ovvio, il corpo dello scomparso. Così tutto si lega, basta trovare il colpevole. Il cornuto? La moglie del fedifrago? L’amante dell’amante dello scomparso (che ben presto sappiamo la moglie del cornuto essere una discreta ricercatrice di piacere fuori dal matrimonio)?

Mary ci porta alla soluzione, poi, ma non è uno sforzo vano, Failler imbastisce una quarantina di pagine che servono di spiegone delle varie posizioni ed azioni di tutti i personaggi coinvolti, avendo sempre al centro la nostra Mary Lester.

Devo dire che il testo scorre bene, i personaggi hanno una loro discreta caratterizzazione, e l’intreccio, pur abbastanza semplice, non è banalissimo.

Inciso finale. Mi incuriosiva il nome della cittadina dove ha sede il comando di polizia, Lorient, cittadina marinaresca sulla foce del fiume Blavet. Cercando un po’ ho scoperto che lo strano nome fu dato al luogo nel 1670. Era infatti un posto sperduto, che venne affittato come cantiere navale alla Compagnia Francese delle Indie, che lo usò per costruire l’ammiraglia della sua flotta, battezzata “Soleil d’Orient”. Nome che gli operai diedero al luogo, che divenne rapidamente, per brevità, “L’Orient”, finendo poi per perdere l’apostrofo ed unirsi nel termine attuale con il quale è conosciuta.

M. C. Beaton “La quiche letale” Repubblica Brivido Noir 39 euro 8,90

[A: 25/02/2021 – I: 02/01/2023 – T: 04/01/2023] - &&  

[tit. or.: Agatha Raisin and the Quiche of Death; ling. or.: inglese; pagine: 249; anno 1992]

Erano svariati lustri che mi arrovellavo sulla necessità o meno di leggere una serie di libri, che quando cominciavo a chiedermelo erano editi da Astoria, ed avevano nel titolo questo nome femminile “Agatha Raisin”. Dalle immagini di copertina, e da immaginari personali che a volte nascono senza un perché, ne avevo pensato come libri dedicati ad una qualche giovinetta in vena di investigazioni, quasi a confonderla con la più tarda (di pubblicazione) e questa sì giovinetta, Flavia De Luce.

Spinto ora dalle collane relative ai gialli pubblicate negli anni da Repubblica, ne ho letto questo, che è il primo libro della serie, trovandomi di fronte ad una sorpresa e ad una conferma. La prima che la signora del titolo è per l’appunto una signora, e quindi ci si immerge in un giallo in piena regola. La seconda ribadisce, pur nel tentativo di infilarsi nel genere giallo-umoristico, che la resa generale è un filo sotto le aspettative. Così che al fine ci troviamo di fronte ad una Miss Marple, più giovane, meno signora, ma sempre pronta a dedicarsi alla risoluzione dei misteri. Tant’è che mi domanda se il nome di miss Raisin non rende volutamente omaggio alla grande scrittrice.

Intanto, ho anche scoperto questa, pur non molto nota in Italia, scrittrice scozzese. Marion Chesney, nata nel ’36, di mille ed uno mestieri, ma sempre legati alla penna (giornalista teatrale, libraia poi anche editor in una casa editrice). A 33 anni sposa il fotoreporter Harry Scott Gibbons, con lui si trasferisce stabilmente a Moreton-in-Marsh nelle Cotswolds (citazione che ha un suo senso). Vivono a lungo in America, per poi tornare stabilmente in patria, dove muore a 83 anni, l’ultimo dell’anno del 2019.

Leggendo in giro poi ho scoperto che la suddetta signora nonché scrittrice, comincia la sua carriera nel 1979, usa un numero imprecisato di pseudonimi, pubblica, in 40 anni di carriera più di cento libri. Scrive anche altre serie, ma qui noi ci concentriamo su quella per cui è maggiormente nota in Italia, e di cui questa quiche è il primo volume uscito, nel 1992. Nei successivi 28 anni, pubblica trenta romanzi con la nostra eroina. Anche se poi ne sono usciti altri tre postumi, dove probabilmente gli eredi di Marion hanno ingaggiato un ghostwriter per continuare.

Qui, come spesso accade nello start di una (possibile) serie (la scrittrice, sette anni prima aveva già iniziato una serie di successo poco nota in Italia con protagonista un poliziotto, Hamish Macbeth, di cui sono usciti 35 volumi), ci sono momenti difficili, che non tutto è ancora al suo giusto posto, non tutti i caratteri sono definiti, non è detto che la strada intrapresa sia buona, ed altri momenti di difficoltà.

Comunque, qui cominciamo a conoscere Agatha, 53 anni, da sempre nel campo delle “public relations” con una sua agenzia di pubblicità che vende nelle prime pagine del libro, per ritirarsi in campagna, nelle Cotswolds (come la scrittrice, vedi sopra) e dedicarsi alla sua vita privata. È sempre stata un’abile manipolatrice di eventi, ma non ha mai cucinato (adora scaldare i pasti al microonde) e non ha mai gestito una casa.

Cerca subito di farsi benvolere, di diventare un membro della comunità di Carsely (località fittizia), intraprendendo una serie di inutili e controproducenti attività. Sentendosi respinta, pensa bene di partecipare ad un concorso di cucina, ma, incapace come cuoca, compra una quiche da un suo amico londinese. Peccato che il giudice del concorso muoia avvelenato proprio dalla sua quiche. La polizia sembra voglia archiviare il caso come morte accidentale, ma la nostra eroina è poco convinta.

Anche senza voler investigare realmente la sua curiosità la porta a cercare frammenti vari degli scheletri campagnoli. In particolare, che il giudice era un impenitente donnaiolo, che la moglie accettava la situazione ma non ne era contenta, che le varie donne sempre più assillavano il poveretto, cominciando anche (ma non apertamente) a minacciare azioni estreme.

Agatha, anche a rischio della propria incolumità, riuscirà a risolvere il caso, cominciando quindi, nel finale del libro, a convincersi che, forse, potrebbe non essere stata una brutta idea quella di vivere in campagna.

Nel corso del libro conosciamo anche alcuni che diventeranno punti fissi della narrazione (mie ricerche in rete): Roy, suo ex-agente che diventa suo amico dopo la vendita dell’agenzia, Bill Wong, un poliziotto anglo-cinese che sarà la prima persona a diventare suo amico, la signora Bloxby, moglie del vicario e prima ammiratrice di Agatha, nonché Doris, domestica tuttofare nonché amica di Agatha. Altri personaggi nasceranno nel corso delle successive narrazioni, dove, piccola anticipazione, nel quindicesimo romanzo (dopo che nei precedenti ha sempre risolto i gialli che vi compaiono) decide di fondare una sua agenzia investigativa, che diverrà la protagonista dei successivi diciassette romanzi.

Non so se e quali ne leggerò, intanto ne ho tracciato un quadro d’insieme.

Per concludere, la scrittura è discretamente leggera, con alcuni tocchi umoristici prettamente inglesi, che non sempre muovono al riso anche noi. La trama poliziesca è anche sufficientemente elaborata, anche se priva realmente dei misteri che ci si aspetta, con una resa complessiva leggermente inferiore alle aspettative, e conseguentemente anche un po’ sotto la piena sufficienza di lettura e gradimento.

Melba Escobar “La casa della bellezza” Repubblica Emozione Noir 31 euro 7,90

[A: 22/01/2020 – I: 11/01/2023 – T: 13/01/2023] - &&     

[tit. or.: La Casa de la Belleza; ling. or.: spagnolo; pagine: 236; anno 2015]

La letteratura colombiana non ha una grande presenza nella mia biblioteca, a parte alcuni autori interessanti ma non notissimi, come Santiago Gamboa o Laura Restrepo. Ovviamente non cito autori colombiani ben presto fuggiti dalla Colombia e presto naturalizzati messicani come Álvaro Mutis o il Nobel Gabriel García Márquez. Di sicuro, praticamente assente il lato “noir”, di cui questo libro credo sia il primo.

Scritto dalla meglio nota come giornalista Melba Escobar (per l’anagrafe Melba Escobar de Nogales), un ariete del ’76, che mi si dice, cercando nelle pieghe della rete, molto attenta al sociale, al mondo in cui vive, alle problematiche dure della Colombia. Un’immagine che, in mancanza d’altre notizie, è ben facile ritrovare in questo scritto.

Uno scritto molto considerato in patria, foriero di premi e notorietà, ma che, letto nella nostra (quasi) calma Europa non ha sul lettore lo stesso impatto. Si parla di corruzione, a molti livelli, ma soprattutto nei piani alti della vita sociale. Si parla del gigantesco divario tra ricchi e normali cittadini, laddove, come in altre situazioni in giro per il mondo, non sembra esistere una classe intermedia, una borghesia che equilibri la situazione sociale. Andando in giro per il mondo, e per molte e svariate letture, questo mi sembra un dato interessante da analizzare: dove non c’è una borghesia-cuscinetto le contraddizioni sono molto forti e spesso sfociano in rivolte e sanguinosi momenti sociopolitici.

Ma torniamo a Melba (che ogni volta che ne leggo il nome, più che alla pesca penso alla parente acquisita dell’ex-regina del Belgio, Melba Ruffo di Calabria) ed alla sua scrittura. Infatti, più che della trama, su cui se ne parlerà più avanti, è la scrittura il punto debole del libro. Sembra strano per una giornalista, ma la narrazione è spezzettata da diversi punti di vista, tutti di donne appartenenti alla trama. Ogni volta, tuttavia, si salta dall’una all’altra, avendo bisogno di qualche passo di lettura prima di capire chi sta parlando.

Difficoltà acuita dall’elevato numero di personaggi, certo ognuno identificato da un nome e spesso anche da un cognome, laddove però, come sopra detto, non si capisce subito che stia parlando, è altrettanto difficile seguire le sorti di Claire, di Karen, di Lucía, di Rosario, di Susana e via elencando.

L’altro punto debole è l’assunto generale. Ora, da tutte le parti conosciute si sa che la Colombia non è un posto tranquillo, secondo l’Economist, Bogotà si colloca al ventesimo posto tra le città più pericolose al mondo (classifica guidata dalla capitale della Birmania), ed è, secondo Il Sole-24 Ore, la città più congestionata, in cui si perdono 190 ore all’anno nel traffico. Quindi è abbastanza facile imbastire un racconto in cui si intrecciano corruzione, traffici vari, politici corrotti e violenti, situazione femminile deprecabile. Insomma, un impianto in cui, messo in questi termini, sembra ci sia poco di nuovo da dire. Ed è così, poco di nuovo, solo un tentativo di ingarbugliare un racconto, mettendo diversa carne al fuoco, ma nessun piatto originale.

Dalle varie voci femminili narranti esce quindi il seguente quadro. C’è la donna bene un po’ alternativa, Claire, psicologa rientrata in patria dopo anni francesi, che entra nella casa del titolo ed entra in confidenza con l’estetista, a cui tirerà fuori la storia che stiamo seguendo. C’è la donna borghese, Lucía, ghost-writer del marito Edoardo i cui libri sono diventati cult alla Coelho, che si accorge della pochezza di Edoardo, lo lascia, frequenta l’amica Claire e sarà la mano scrivente della storia.

Infine, centrale, c’è l’estetista Karen, donna-madre, con evidenti problemi di rapporti. Dalla natia Cartagena viene a Bogotà per fare fortuna, e dopo un periodo nella Casa, diventa, sotto la spinta di Susana, una escort di buon livello. Tanto da fare coppia quasi fissa con l’Edoardo di cui sopra. Il problema è che una giovane, Sabrina, si fa fare una ceretta, le comunica cose che non dovrebbe sapere, e poi viene stuprata ed uccisa.

I cattivi sono ovviamente gli uomini. Edoardo che diventa l’uomo di paglia in una truffa sanitaria per conto del potente Aníbal, il cui figlio, Luis Armando, è il responsabile della morte di Sabrina. Tuttavia, quando i buoni si avvicinano alla verità e viene fuori lo scandalo sanitario, anche Edoardo muore. E tutto complotta per incastrare Karen.

Riusciranno le nostre eroine a salvare la povera Karen? O saranno travolte da un potere maschile sempre più forte e cinico? Questo è l’unico interrogativo che rimane alla fine.

Ripeto, una scrittura che da giornalista non poteva esprimersi meno bene, ma una storia in cui le voci narranti non riescono ad amalgamarsi per dar vita ad un racconto corale sostenibile. Tutto è prevedibile, tutto non è nuovo. Aspettiamo solo di sapere se il finale sarà dolce, agro o amaro.

Louise Penny “La via di casa” Repubblica Emozione Noir 11 euro 7,90

[A: 19/09/2019 – I: 27/01/2023 – T: 29/01/2023] - && ---  

[tit. or.: The Long Way Home; ling. or.: inglese; pagine: 459; anno 2014]

Dopo quasi un anno torno a frequentare le pagine della scrittrice canadese e del suo ispettore francofono Armand Gamache, inserito, come avevo detto nel primo libro letto, in un ambiente anglofono.

Prima di entrare nel merito dello scritto e della storia, è bene rilevare la poca accuratezza delle scelte editoriali italiane. Il primo libro di Louise Penny pubblicato in Italia (ed il primo da me letto) era il settimo volume della serie. Con questo, seconda pubblicazione, si salta al volume 11. Poi verranno pubblicati, a scadenza annuale, i volumi 14, 15 e 16. Dopo di che, lo scorso anno, esce in Italia il primo volume. Ora, è vero che gli affezionati del genere hanno grosse capacità di sopportazione, ma questo apodittico stampare mi sembra di difficile gestione.

Intanto, per l’appunto, passando dal settimo all’undicesimo romanzo, si salta tutta una parte della vita di Gamache, che in qualche modo si ricostruisce da cenni vari durante il testo, ma che rimane a volte oscura nelle more dello svolgimento dell’avventura.

Per rendere più agevole seguire queta nota, facciamo allora un piccolo sunto del plot principale. Il personaggio centrale è Armand Gamache, ispettore capo della “Sûreté du Québec”, tra i cinquanta ed i sessanta anno d’età, con un forte senso dell’etica e del dovere. Sposato con Reine-Marie ha due figli, Daniel e Annie. Suo braccio destro è Jean-Guy Beauvoir. Sebbene le indagini a volte si spostino per tutto il Canada, il centro dell’azione è la località di “Three Pines”, posta quasi al confine con il Vermont. Dove vive la comunità di riferimento di Gamache, i cui elementi principali sono Clara e Peter Morrow, due pittori, Oliver e Gabri, due omosessuali che gestiscono il locale bistrot, Myrna, una psichiatra in pensione, e Ruth, un’anziana poetessa con forti accenni di demenza sensile accompagnati da lucidi interventi verbali e poetici.

Credo che l’idea di pubblicare questo come secondo volume italiano sia in parte dovuta al filo che unisce il precedente “L’inganno della luce” con questo. Infatti, in entrambi un ruolo importante svolgono i coniugi Morrow. Rimandando a quanto già detto nel precedente, il filo centrale del libro è la scomparsa di Peter. Lui era il pittore di punta, ma con la genialità in forte calo, mentre Clara era rimasta sempre nell’ombra, ma che sta emergendo con le sue nuove realizzazioni. Fatto sta che Clara, pur amandolo, chiede a Peter di allontanarsi per un anno, al fine di dare ad entrambi lo spazio creativo che hanno bisogno. Purtroppo, allo scadere dell’anno, Peter non torna. E Clara confessa i suoi timori a Gamache.

Il nostro ispettore si è trasferito in convalescenza a Three Pines in seguito ad avvenimenti che lo hanno portato quasi alla morte (nei libri precedenti non usciti in Italia). Inoltre, Jean-Guy è anche diventato suo genero, avendo sposato sua figlia Annie.

Da questo incipit nasce la lunga storia narrata, alla ricerca delle tracce di Peter. I nostri, tra tracce con i pagamenti e agnizioni varie, riescono a seguire le tracce di Peter attraverso il vecchio continente (Parigi, Firenze, Venezia) sino alla strana sosta in Scozia a Dumfries, dove comincia a dipingere in maniera non tradizionale, come scopriranno i nostri in varie tele disseminate in Canada. Poi torna in patria, visita la sua vecchia scuola d’arte a Toronto, per poi eclissarsi, probabilmente, secondo la teoria di Gamache, in un posto indicato come Baie-Saint-Paul.

In tutta la ricerca vediamo emergere i vari personaggi centrali: Peter e Clara, ovvio, ma anche i due professori di arte, il professor Massey, ottuagenario ancora alla docenza, ed il professor Norman, licenziato a suo tempo per le sue idee eretiche sull’esistenza di una Musa della pittura. Norman che si era rifugiato a Baie-Saint-Paul fondando una comune a sostegno delle sue tesi, ma poi anche da lì scomparso.

Il lento scritto della Penny ci avvicina al punto cruciale, dove tutti gli attori del dramma convergono. È un noir, ma di omicidi si parla e si risolve nelle ultime cinquanta pagine, con qualche colpo di scena che ci sta bene come ciliegina in una torta che stava diventando un po’ poco saporita.

A parte alcuni rivoli pur interessanti, il punto centrale del libro si concentra sulla gelosia ed il risentimento verso il talento altrui, un sentimento forte, che agita gli animi dei principali protagonisti della storia. I due professori, i due pittori, nonché i pittori verso i professori.  Se ne capiscono i motivi e le storie relative, anche se rimane monca una descrizione della pittura attraverso le parole. Si capiscono le varie diversità, ma non vedendo i quadri, la comprensione è solo nella testa e non negli occhi.

Veniamo agli altri rivoli che mi hanno intrigato. Il primo riguarda il libro che porta sempre con sé Gamache. Che sapremo alla fine essere “Il balsamo di Gilead” un libricino evangelico che riprende una citazione della Genesi, ma che, più propriamente per la storia di Gamache potrebbe riferirsi al libro “Gilead” di Marilynne Robinson. Una lunga lettera di un padre morente al figlio di sette anni con ampi consigli per guidarlo quando lui non ci sarà più. Un accenno al fatto che Gamache perse i genitori in un incidente automobilistico quando lui aveva sette anni.

Il secondo riguarda proprio Baie-Saint-Paul che non solo è nota come rifugio di pittori, dove infatti produsse le sue migliori opere il pittore canadese Clarence Gagnon, il più famoso pittore paesaggista québécois. Ma è anche il luogo natale della compagnia di danza e circo “Le Cirque du Soleil”.

L’ultimo intrigante spunto è poi legato ad una storia citata nel testo. La storia è ben nota, potremmo riassumerla così: “Un uomo vede la Morte che lo osserva con occhi cattivi e chiede un cavallo veloce per sfuggirle. Cavalca tutta la notte per arrivare in un’altra città, solo per scoprire che la Nera Signora era proprio lì che lo aspettava.” La storia originale deriva dal Talmud babilonese, e viene ripresa per la prima volta da Jean Cocteau nel 1923, nel suo “La spaccata” indicando come città d’arrivo della morte l’irachena Samarra. Dieci anni dopo, sarà Somerset W. Maugham a citarla nel suo lavoro teatrale “Sheppey”, e sarà presa l’anno dopo dall’americano John O’Hara nel suo libro “Appuntamento a Samarra”.

Ma noi la conosciamo bene come testo della canzone “Samarcanda” di Vecchioni, dove appunto viene cambiato il luogo finale, sia per una difficile musicalità di Samarra, sia perché pochi anni prima, confondendo Samarra con Samarcanda viene ripresa e citata da Oriana Fallaci nel libro “Se il sole muore”. Una bella storia nella storia, ma che è anche funzionale al libro stesso.

Per tirare le fila, quindi, un testo forse troppo lungo e lento, dove per la maggior parte del tempo il filo noir si perde mentre seguiamo amori e gelosie, che viene per me riscattato da un facile oblio proprio perché la bravura della scrittrice ci riempie di altri rimandi che danno modo di sviluppare curiosità e rimando colti.

Vedremo altro della canadese Penny, e ne tireremo ulteriori somme.

Brigitte Glaser “Assassinio à la carte” Repubblica Emozione Noir 16 euro 7,90

[A: 30/09/2019 – I: 25/03/2023 – T: 27/03/2023] - &&

[tit. or.: Mordstafel; ling. or.: tedesco; pagine: 364; anno 2005]

Questa volta, nella lentezza delle letture seriali, sono passati solo nove mesi dalla lettura del secondo episodio delle avventure della cuoca Katharina Schweitzer. Eccoci, quindi, al terzo libro della serie, che se non vado errato, in patria è arrivato all’episodio numero 8.

Brigitte Glaser, avviata verso la settantina, scrittrice di medio successo, ha avuto un buon interesse internazionale con questi romanzi che mescolano giallo, vita locale ed un po’ di cucina. Che credo sia una passione dell’autrice, tanto che il libro si chiude con un piccolo ricettario che presenta tre menù completi: uno per principianti, uno per esperti ed uno per veri chef, firmato Susanne Vössing, chef pluristellato che all’epoca del libro aveva aperto un suo ristorante a Düsseldorf. Ovvio che gli editor avrebbero dovuto fare una nota dicendo che, all’epoca della pubblicazione, Susanne si era principalmente dedicata alla divulgazione culinaria ed ai libri. Solo l’anno scorso risulta essere tornata ai fornelli inaugurando in Renania un nuovo ristorante, il Weisses Rößl (più o meno, “La Locanda del Cavallo Bianco”).

Ma torniamo al libro ed alla discretamente gradevole scrittura di Brigitte. Cominciando ancora una volta con una ramanzina agli editor italiani ed alla loro voglia di “catturare” i lettori con piccoli trucchi. Intanto, il titolo originale suonerebbe, alla meno peggio, come “La tavola degli omicidi”. Con poco a che vedere con “à la carte”, visto che nel ristorante di Katharina il menù è fisso e, per l’appunto, non “à la carte”. Come se non bastasse, ci viene anche propinato un sottotitolo, così che il lettore sia invogliato all’acquista, quando si parla dei conflitti tra la nostra eroina e la mafia turca. Che volendo è uno degli elementi della trama. Non certo l’unico, e per molti tratti, non il più rilevante.

Volendo fare un piccolo passo indietro riassuntivo, abbiamo seguito la nostra Katharina nei primi due episodi, cominciare come pasticcera nella cucina dello stellato “Bue d’Oro”, andato in rovina con la morte dello chef principale. Poi si è presa un periodo “sabbatico”, tornando nella natia Foresta Nera, in un continuo conflitto con i genitori, anche loro nel ramo dell’offerta di ristorazione (con aggiunte locandieristiche). Il tutto complicato dalla delusione amorosa verso l’altro cuoco, Ecki, sul quale aveva puntato, che però ha deciso di approfondire la sua cultura culinaria in oriente, anche se, periodicamente, torna mettendo in crisi la nostra.

In questo episodio, grazie ai soldi avuti in prestito da un altro capo cuoco, ha finalmente aperto un suo ristorante, a Colonia, nel quartiere turco di Mülheim, il Giglio Bianco. Caratteristica del locale il lungo tavolo dove tutti i commensali mangiano assieme, così che nascono colloqui ed eventuali amicizie.

Il problema sorge quando un uomo, in costume carnevalizio visto che siamo al Giovedì Grasso, viene trovato morto davanti al locale. Da qui parte l’intreccio delle trame. Sparisce Scarlett, una delle cameriere del locale. Katharina trova una busta con un’enorme somma di euro in contanti. Il locale viene bersagliato da attentati vari, piccoli e meno piccoli. Tanto che, sia per sostituire Scarlett che per piccole riparazioni, la nostra si rivolge a Özal, un turco che sembra avere il polso del quartiere. Ma Katharina si trova invischiata con Tayfun, un bel giovane turco che ben presto le fa dimenticare Ecki (che puntualmente si ripresenta mettendola in crisi).

Ma ad aiutare la nostra cuoca sono soprattutto Kuno, il polizotto in pensione divenuto compagno fisso di Adela, l’amica del cuore di Katharina. Nonché altri due ex, Adalbert Von Stumpf detto il “conte” e Walter Neuroth detto il “cowboy”. E vi lascio scoprire il perché.

La trama prosegue con alti e bassi, complicati dalla richiesta di avere indietro i soldi prestati di cui sopra, accompagnata da intimidazioni che non si capisce da dove provengano. Inoltre, Özal viene visto in compagnie poco rassicuranti, Tayfun è misterioso. Ma alla fine Katharina ha alcuni colpi, di fortuna e di genio, sia per trovare responsabili vari, sia per tenersi senza sensi di colpa il malloppone. Una parte, questa, forse la sola degna di sorrisi.

Per il resto, certo, la presenza del locale in una zona turca solleva qualche problematica sui rapporti etnici. La misteriosa Scarlett solleva altri dubbi sui giovani, sulle loro libertà e sugli animali domestici (lei si tiene stretta un topo, cosa che io interdirei per legge). Gli ex-poliziotti potrebbero dar vita ad un dibattito sulla vita dei pensionati. Infine, il triangolo Katharina-Ecki-Tayfun non può non lasciarci pensare ai guasti delle cose non dette in amore.

Vedremo di certo altre puntate, per cui ad ora vi lascio gustare questa, dall’andamento di un giallo inglese alla Christie, scritto da una tedesca che cerca di trasportarne le leggerezze nelle pesanti strutture teutoniche.

Alla fine, tuttavia, una lettura di non alto profilo, da consigliare sempre ai patiti del giallo sotto l’ombrellone, nonché ai patiti della cucina, cui consiglio i dolcetti lievitati alla marmellata, uno dei punti forti della nostra cuoca, insieme ad una mousse al cioccolato bianco e nero che, a mio parere, è una delle cose più disgustose che si possa abbinare al cioccolato.

“A colazione ho preso solo un tè verde … disgustoso!” (99) [vogliamo aprire un dibattito?]

Parliamo soprattutto di donne che scrivono, quindi ci sta bene una citazione di noir femminile, che viene dalla Scandinavia. Cioè da “Non deve accadere” di Anne Holt, che si interroga sul suo ruolo di madre e di figlia: “Perché le madri sono così? … Diventerò uguale a lei? Diventerò impossibile, testarda e provocatoria e capace di leggere sul volto delle mie figlie? … [Mia madre] Mi trasforma nuovamente in bambina. E io, almeno di tanto in tanto, sento l’esigenza di non avere responsabilità, né domande. Non voglio diventare come lei. Ho bisogno di lei.”

Ebbene sì, abbiamo fatto (anche) un bel giro turco, in particolare nei siti archeologici di Pergamo ed Efeso (con una bella compagnia, ed anche con un sole ed un caldo che non avevano nulla da invidiare all’Italia cui siamo tornati).

Ora ci aspetta il meritato fresco campagnolo, anche se continuerò a tempestarvi di scritti e di notizie, nonché di abbracci.

domenica 9 luglio 2023

La prima tornata dei duri di Simenon - 09 luglio 2023

Con questa trama vado a completare la prima tornata dei cosiddetti “romanzi duri” di Georges Simenon, nome che serve per lo più a differenziare questi dalle scritture imperniate su Maigret. Ovviamente sapete della mia passione verso lo scrittore belga, dove, dei 193 romanzi ad oggi ne posseggo “solo” 125. Ma chissà…

In questa tornata, segnalo come si stacchino dal gruppo sia “La Camera azzurra” che “Le campane di Bicêtre”, dove si va sempre più mostrando come, quando impegna testa e cuore, Simenon riesca a tirar fuori romanzi interessanti.

Georges Simenon “Il presidente” Repubblica Simenon 28 euro 9,90

[A: 06/05/2020 – I: 03/12/2022 – T: 04/12/2022] - && e ½   

[tit. or.: Le Président; ling. or.: francese; pagine: 156; anno 1958]

Gli ultimi romanzi duri della collana di Repubblica si vanno rarefacendo, tanto che passa diverso tempo tra l’uno e l’altro. Abbiamo così un bel buco temporale da riempire. Un lasso di tempo che, se da una parte sembra portare ad assestamenti familiari, dall’altra ci si accorge che è solo una calma di facciata.

Nelle colline sopra Cannes, continua a scrivere, tiene a Nizza una conferenza sul futuro del romanzo e tra il febbraio ’56 ed il giugno ’57 scrive sei romanzi. Ma non è a suo agio nella Francia che tanto l’ha deluso dalla fine della guerra. E nella primavera del ’57, a bordo della sua Mercedes Cabrio, gira in lungo e largo per la Svizzera, dove nel luglio del ’57 trova una nuova sistemazione, il castello di Échandens chiamato “Noland” nel cantone di Vaud a pochi chilometri da Losanna. Sarà lì che soggiornerà per sei anni, producendo 25 romanzi.

Come si diceva, però, la calma è apparente. Simenon è sempre più dipendente da alcool e sesso, e Denyse non solo lo segue in questa china, ma il bere accentua le sue turbe psicologiche. Che di certo non vengono placate dal fatto che lo scrittore dedica le sue risorse sessuali a qualsiasi gonnellina si presenti all’orizzonte.

Qui, a Noland, dall’8 al 14 ottobre del ’57 produce questo che sarà uno dei suoi pochi romanzi politici. Perché si parla, anche se non indicandone i nomi, di atmosfere e situazioni che coinvolgono personaggi della scena politica, mostrandone i limiti, le miserie, e, su questo ci torneremo, la solitudine della vecchiaia.

L’azione, se così si può dire, visto che ci si muove veramente poco, si svolge in una villa, “Les Ebergues”, situata su una falesia i Normandia, pochi chilometri a nord di Le Havre. Già il nome è significante sia nella sua accezione comunemente nota agli abitanti locali, dove, in normanno, il nome sta per "alcuni pezzi di merluzzo preparati in modo da servire da esca per la pesca". Ma anche nel suo significato primario, quando l’abitante della villa scopre che il vero nome della villa è "Les Ebernes", nome che indica le popolane predisposte a pulire gli escrementi dei bambini. Entrambi i significati, traslati, hanno un senso nel romanzo.

Il protagonista della storia viene indicato solo con il nome, Augustine. E subito noi si va con la mente ad un Maigret di pochi anni prima, anche quello “politico”, con al centro il Ministro dei Lavori Pubblici, Auguste Point. Uomo onesto quello, ed in fondo, anche discretamente onesto il vecchio Augustine. Ormai raggiunti gli 82 anni, è da tempo lontano dalla politica, e tra ricordi e piccoli e grandi acciacchi, si avvia verso la fine della sua vita.

Nella villa è accudito da una segretaria, la signorina Milleran (con un nome vicino al futuro presidente della Repubblica), da Blanche, l’infermiera e da Emile, l’autista. Ha sempre un orecchio verso Parigi, verso la politica attiva che per tanto tempo l’ha visto protagonista. In fondo, è stato Presidente del Consiglio, anche se, per una serie di motivi, pur provandoci, non è mai riuscito a diventare Presidente della Repubblica.

È ovviamente un uomo solo, vedovo, con figlia persa chissà dove, con il personale della casa che si ingegna a fargli seguire il più possibile una routine di minimo sforzo. Anche perché è in realtà nullatenente, ed è la politica nazionale che paga tutto per lui, come fosse un pensionato di lusso.

La zeppa, l’inciampo che Simenon pone sulla strada di Augustine è la notizia che il suo ex-segretario, Philippe Chaumont, potrebbe essere incaricato come prossimo Presidente del Consiglio. Il fatto scatena l’onda dei ricordi di Augustine. Un filone è legato proprio a Philippe, che lui considerava suo delfino, ma che, durante una crisi economica, approfitta delle informazioni confidenziali che giungono ad Augustine, per effettuare una speculazione in borsa. Che lo rende discretamente agiato, ma che lo fa licenziare da Augustine, che gli fa anche firmare un documento di confessione delle malefatte.

Documento che, insieme ad altre carte “sensibili”, Augustine ha disseminato all’interno della sua vasta libreria, minacciando Philippe, ed altri, di renderli pubblici. In questo modo, Augustine si illude di poter avere ancora un peso nella politica francese.

L’altro filone è più privato. Ci riporta all’infanzia del nostro ad Evreux (un centinaio di chilometri a sud dell’attuale villa). Dove lui aveva studiato, e da dove sbuca un suo vecchio compagno di classe, Xavier. Insieme avevano fatto una burla feroce, che aveva portato all’espulsione di Xavier dalla scuola. Ma non di Augustine, che Xavier aveva taciuto il nome del complice. Quando Augustine diventa un personaggio in vista, Xavier tenta svariate volte di avere il suo appoggio in affari più o meno leciti. Pur riconoscente, l’onesto Augustine non si piega, rimanendo ai due un gioco crudele, in cui si sfidano l’un l’altro a partecipare al funerale del sodale.

Questa vicenda riporta alla mente, invece, l’unico momento di cedimento verso il “poco onesto”, quando, giovane avvocato senza esperienza politica, si faceva mantenere dalla bella e colta Marthe de Créveaux. Fino a che questa non lo scopre a fr sesso con la sua dama di compagnia e lo caccia.

I due filoni si intrecciano nel lungo giorno dell’incarico a Philippe. Augustine pensa che il suo vecchio segretario venga a Canossa. Ma non sarà così, e lui scoprirà che è rimasto veramente solo, e che anche il personale della casa è al servizio di qualche d’un altro.

In fondo, quindi, il tema centrale, più che politico, è la vecchiaia, la solitudine, la rassegnazione ad essere messo in disparte. È una storia che Simenon tratta con la consueta abilità, e con i consueti agganci al reale. Le dipendenze sessuali di Augustine non possono che rimandare a Simenon stesso. Mentre i giochi politici e la corruzione presente, era di allora ma anche di oggi. Un romanzo in cui si sente che anche lo scrittore, non ancora sessantenne, sente avanzare il peso dell’età. E si domanda se anche lui dovrà soccombere alla tristezza ed all’isolamento. Se tutto il mondo che dice di “volergli bene” è solo una chimera esteriore.

Il libro, rispetto ad altri, ci mise un po’ per uscire, quasi un anno, cosa insolita per le stampe della “Presses de la Cité”. Poi però, tre anni dopo, ebbe un gran balzo di interesse, quando Henry Verneuil ne trasse un film, interpretato in maniera sublime da Jean Gabin nel ruolo di Augustine e da Bernard Blier in quello di Philippe. 

Dove

Protagonista

Altri interpreti

Durata

Tempo

Les Ebergues (fattoria in Bénouville nella Normandia)

Augustin, (mai indicato il cognome), ex-presidente del Consiglio dei ministri, vedovo, 82 anni

Philippe Chalamont, un tempo segretario e stretto collaboratore del Presidente, deputato, capogruppo degli Indipendenti di Sinistra, Presidente del Consiglio incaricato

Il personale della casa:

Mme Milleran, segretaria, Émile, l’autista; Mlle Blanche, l'infermiera; le docteur Gaffé, il medico; Gabrielle, la cuoca; Marie, la cameriera

Xavier Malate, vecchio compagno di classe

Marthe de Créveaux, la sua “pigmaliona”

Poco più di 24 ore

Epoca contemporanea

Georges Simenon “Betty” Repubblica Simenon 28 euro 9,90

[A: 08/09/2019 – I: 06/12/2022 – T: 08/12/2022] - &&&   

[tit. or.: Betty; ling. or.: francese; pagine: 141; anno 1961]

Devo ripetermi, costando come i libri di questa collana sono sempre più distanziati. Anche se la vita della famiglia Simenon procede inalterata nella villa “Noland” a Échandens nel cantone francofono di Vaud in Svizzera, dove prosegue a pieno ritmo la sua opera di scrittore, alternando “romanzi duri” a Maigret (che gli consentono i maggiori incassi).

Il 1958 sembra tuttavia un anno di quiete. Fa due visite ufficiali a Bruxelles, una per presiedere il locale festival del cinema, l’altra per l’inaugurazione dell’Expo, quella che ricordiamo ancora per la presenza del suo simbolo, l’Atomium. Ma anche di svago, una crociera estiva per i canali olandesi a bordo di un tjalk (la barca a fondo curvo, molto in voga per le crociere fluviali) ed una vacanza in dicembre a Venezia con Denyse. 

Anche il ’59 scorre abbastanza tranquillo, punteggiato dalla nascita in maggio di Pierre, suo terzo figlio con Denyse, e da un soggiorno forzato a Lione per tre mesi, quando Pierre è in cure ospedaliere per problemi ematologici. Continua l’assidua frequentazione con l’amico editore Sven, con il quale progetta una edizione completa delle sue opere, progetto però che finirà presto nel dimenticatoio.

Tuttavia, il fuoco cova sotto la cenere, ed i suoi rapporti con la moglie si fanno sempre più burrascosi, anche per le crisi depressive di quest’ultima. Non è un caso che Simenon dedichi molto tempo a leggere trattati psicoanalitici (che influenzeranno diverse opere di questo periodo). Ma è anche un uomo molto corteggiato dai media, in particolare per l’uscita di diversi film tratti dalle sue opere (tra cui ricordiamo “La ragazza del peccato” con Jean Gabin e Brigitte Bardot).

Anche il 1960 è denso di attività extra-letterarie. Ad inizio anno segue, giornalisticamente, le vicende del processo Jaccoud, un avvocato accusato di omicidio, condannato ma forse innocente. Poi in maggio presiede il festival di Cannes, contribuendo alla vittoria della Palma d’Oro del film di Fellini “La dolce vita”. Sul fronte familiare in aprile si sposa il figlio Marc, in estate torna a Venezia, soggiornando all’Hotel Excelsior del Lido con la famiglia. Da settembre, invece, comincia ad avere problemi di salute. Prima un’appendicectomia, con convalescente di un mese a Versailles, poi consulti a Parigi per curare la sindrome di Ménière di cui è affetto.

Sarà proprio la convalescenza a Versailles che gli fornisce alcuni spunti che subito dopo, tornato a Noland, lo portano dal 5 al 12 ottobre alla redazione di “Betty”, uno dei migliori ritratti femminili usciti dalla sua penna. Libro che vedrà le stampe nel primo trimestre dell’anno dopo.

Il libro è incentrato sulla figura di Élisabeth Étamble nota come Betty, una donna di 28 anni che cominciamo a conoscere pagina dopo pagina, scoprendone un vissuto che sembra contrastare la prima immagine che abbiamo di lei.

Intanto, è un romanzo molto alcolico (ed anche Simenon beve molto), dove i personaggi bevono whisky a go-go, e sono per due terzi del libro, ubriachi e sull’orlo dell’ubriachezza. Betty la vediamo entrata nel locale “La Buca” di proprietà di Mario, già ebbra, pensando alle smagliature del collant, all’uomo che l’ha portata lì, strano tipo che vede vermi e lepri ovunque, ed agli storditi che frequentano lo strano locale. Andrà fuori di testa, e troverà conforto nella quasi cinquantenne Laure, che la porta nel suo albergo, e l’accudisce.

Nello sbilanciato rapporto tra le due, si sviluppa tutto il pathos del romanzo. Che Laure è accudente (vedova di un medico, sa prendersi cura degli altri) e Betty da sempre non ha mai avuto nessuno che le sia vicino per sé stessa.

Veniamo così scoprendo che Betty viene da una famiglia umile, con grossi problemi giovanili alle spalle. Padre ucciso dai tedeschi, madre che si arrabatta, ma soprattutto ambiente promiscuo, in cui scopre lo zio adescare e “trastullarsi” con la quindicenne cugina. Una ferita che le si apre nell’animo, e che l’accompagnerà per tutta la vita.

Anche quando di lei si innamora il ricco Guy Étamble, rampollo di una ricca famiglia. Ma Guy vede in lei solo una bella donna e la madre dei suoi figli (nasceranno due femmine, ma non il maschio). E non vede oltre. Betty invece cerca altro, non si ritrova nei riti borghesi degli Étamble, nell’algidità della suocera, nella passività della cognata. Continua a “ferirsi”, cercando un riscatto, ma solo verso l’abisso, nell’alcool e nel sesso. Sarà scoperta, e cacciata dalla famiglia, ed è per questo che la vediamo ora trascinarsi di bar in bar, cercare un piccolo spiraglio di serenità con Laure.

Il dolore di Betty è lì, anche con Laure. Si, viene accudita, sì rifiuta i compromessi con il marito, ma è di fronte ad un bivio: riuscirà a trovare le forze per uscire? Sarà la dolce vicinanza del barista Mario che le dà una spinta, anche perché riesce a strappare Mario a Laure. Perché è quello il dilemma finale: una delle due uscirà sconfitta. Vincerà Betty o vincerà Laure?

È forte il personaggio di Betty, è per Simenon una figura emblematica di donna, i cui dolori e problemi vengono dal passato ed influenzano il presente. Certo frutto delle letture junghiane, ma anche della dolorosa storia con Denyse, di cui forse non c’è traccia fisica nel libro, ma c’è una forte traccia morale. Anche perché, e lo sappiamo, i demoni del nostro sono sesso ed alcool, e sesso ed alcool imbevono di sé tutto il romanzo.

La scrittura, se vogliamo, si fa anche più rarefatta, con piccoli “flussi di coscienza” che ci permettono di scavare nel passato dei protagonisti. Anche se, alla fine, non mi prende come altri romanzi in cui vediamo, e con più cognizione, il protagonista attraversare la sua conradiana linea d’ombra.

Ricordiamo in finale che trent’anni dopo l’uscita del libro (e quindi anche trent’anni fa), Claude Chabrol ne trasse un dolente film interpretato dalla bravissima Marie Trintignant, un’altra donna con un passato ed un futuro dolente e doloroso, fino all’assurda morte. Ma questo è materia di altri scritti. 

Dove

Protagonista

Altri interpreti

Durata

Tempo

Parigi (Champs-Elysées)

Élisabeth Étamble, nata Fayet, conosciuta come Betty, 28 anni, due figlie

Laure Lavancher, vedova di un professore di medicina di Lione, 48 anni, amante di Mario

Mario, proprietario del bar “La Buca”

Guy Étamble, marito di Betty, ingegnere, 35 anni

Madame Étamble, suocera di Betty, vedova del generale Étamble

Alcuni giorni

Epoca contemporanea

Georges Simenon “Le campane di Bicêtre” Repubblica Simenon 31 euro 9,90

[A: 06/05/2020 – I: 20/12/2022 – T: 22/12/2022] - &&&&   

[tit. or.: Les anneaux de Bicêtre; ling. or.: francese; pagine: 267; anno 1963]

Anni densi questi per Simenon, ed anni lunghi tra un romanzo e l’altro della collana che stiamo seguendo. Il nostro sta ancora a Échandens nel Cantone di Vaud, dove nel novembre del ’60 a trovare Henry Miller e la famiglia Chaplin. Ma la famiglia non disdegna di muoversi. Nelle due estati del ’61 e del ’62, passano il luglio a Bürgenstock, sul Lago dei Quattro Cantoni (detto anche Lago di Lucerna).

L’economia familiare va a gonfie vele, tanto che a marzo, al Salone di Ginevra, regala a Denyse una Chrysler-Ghia, e lui si concede l’auto dei suoi sogni, una Rolls-Royce “Blue Mist”. L’anno dopo, il 27 marzo (giorno eponimo anche nella mia cerchia amicale) nasce il figlio di Marc, così che Simenon diventa nonno.

Sono però tre gli elementi forti di questo biennio. Stanno costruendo un’autostrada vicino a Noland, così che, per la prima volta, Simenon decide di farsi costruire una casa, che verrà messa in cantiere a Épalinges, simmetricamente posta alla stessa distanza da Losanna.

Il secondo è il progressivo aggravarsi della depressione di Denyse, nonostante un controllo effettuato ad inizio anno a Cannes. Ma Denyse comincia anche a bere sempre più, tanto che per curarsi, nel giugno del ’62, si ricovera nella clinica “Rives de Prangines” a Nyon, nei sobborghi di Ginevra.

Il terzo, e più importante, avvenimento si verifica nell’autunno del ’61, quando Simenon chiede alla segretaria di Arnoldo Mondadori di procurargli un’aiutante casalinga per Denyse. Così, il 14 dicembre, entrerà nella casa familiare e nella vita di Simenon, Teresa Sburelin, la donna che diventerà la sua amante ombra e che starà con lui fino alla sua morte.

Ma il ’62 è l’anno cui il nostro dedica lunghi pensieri e preparazione per quello che nelle sue intenzioni è “IL” libro che vuole scrivere, il libro che gli darà i riconoscimenti cui ambisce da sempre. Tanto che in settembre fa un lungo soggiorno a Parigi per raccogliere informazioni per la stesura del libro. Intervista ben tre diversi neurologi. Ad uno di questi invia un questionario con lunghe domande sulle diverse fasi della malattia, dalla fase acuta al successivo, ed eventuale, recupero. Visita anche l’ospedale di Bicêtre, prendendo appunti sulla vita quotidiana dei malati, sull’organizzazione dell’ospedale, sulle modalità permanenza nella struttura dei lungodegenti. Arrivando anche a passare alcune ore in un letto dell’ospedale, ascoltando i rumori che ritmano la vita dei malati.

Alla fine, ne esce questo libro, che ha anche una lunga scrittura, per i suoi standard, visto che invece della solita settimana, impiega ben 23 giorni a scrivere il manoscritto, passarlo alla macchina da scrivere, poi altri giorni per rivederlo. Uno sforzo veramente inusuale.

Ed è uno sforzo coronato dal successo, un libro che segue le vicende di René Maugras, eminente direttore di un grande giornale, colpito da un ictus e ricoverato a Bicêtre, dove lo segue nelle cure il neurologo professor Audoire ed è assistito dal suo amico nonché medico di successo Pierre Besson d’Argoulet.

Pur essendo scritto in terza persona, è tuttavia un lungo flusso di coscienza, lungo anche per gli standard di Simenon, visto che si superano le 250 pagine. Così nella malattia di Renè, seguiamo in realtà la ricapitolazione di tutta una vita. Un ripasso che, neanche tanto velatamente, ripercorre anche le tappe dell’autore, ne riporta i dubbi e le domande, ne analizza le decisioni, portando anche alla luce il rapporto tra René e la moglie Lina, che sa molto della relazione tra Georges e Denyse.

Simenon usa anche, oltre quanto sopra accennato, i suoi stati d’animo vissuti all’inizio degli anni ’40, quando, sbagliando, gli diagnosticarono una fine imminente.

Quindi leggiamo la vita di René un po’ come quella di Simenon. Un’infanzia povera, vissuta in provincia (qui a Fécamp, sopra Le Havre), per poi gettarsi, senza arte né parte, nella bolgia parigina, sperando di diventare giornalista. Percorso analogo a Georges, con uguale successo. René, che sostiene di non saper scrivere ma di aver talento nelle relazioni per scovare fatti che diventano articoli di successo, percorre tutta la gavetta, si unisce ad un gruppo variegato di persone che avranno successo. Scrittori, giornalisti, politici, nonché Pierre un medico che diventerà il suo maggior sodale. Gruppo che decide di riunirsi periodicamente, prima in birrerie poi sempre più su, fino ad approdare ad un ristorante di lusso, “Le Grand Véfour” (tenete a mente il nome). Dove, in un malcapitato mercoledì 3 febbraio viene colto da un ictus.

Qui comincia il romanzo, con René che si sveglia in un letto di ospedale, emiplegico. E da lì ripercorre la vita precedente, il matrimonio con un’attrice (al contrario di Tigy, la prima moglie di Simenon, aspirante pittrice), che finirà con una separazione senza traumi, anche dopo la nascita di Colette, una figlia nata con una malformazione al piede sinistro. La scalata al successo, e l’incontro con Lina, una donna che colpisce René, anche se non ha nessuna virtù specifica, né capacità particolari. Vedete bene quanto si ricalchi con Denyse, visto che entrambe poi, per star vicino al loro grande uomo, non avranno altra soluzione che darsi all’alcool.

Tanti sarebbero gli ulteriori accenni del parallelismo tra scrittore e protagonista, basti uno, la passione per l’isola di Porquerolles sotto Marsiglia. Ma a noi interessa maggiormente il percorso interiore. René si domanda non tanto se riprenderà tutte le funzioni corporee, ma se la vita che ha vissuto fino ad ora abbia un senso. Se il successo, la frequentazione di ambiente altolocati, la ricchezza, insomma tutto l’insieme di quello che, a 60 anni Simenon è diventato, sia qualcosa che segni positivamente la vita del protagonista.

Tutti, gli amici, la moglie, i collaboratori al giornale, vorrebbero spingerlo a tornare nel mondo che anche lui ha contribuito a costruire. Ma René si domanda il motivo per cui farlo, ora che da un letto d’ospedale a quel mondo non crede più. Crede forse meglio alle piccole cose, a Blanche, la giovane infermiera che lo accudisce, ai malati che vede muoversi per l’ospedale, ai rumori che sente. In special modo, al rituale mattutino, quando si pone in ascolto delle campane di una chiesa vicina. Le onde sonore, concentriche, arrivano alla sua mente come anelli sonori, che lo riportano all’infanzia, agli anelli che immaginava sentendo le campane nella natia Fécamp. Tant’è che anelli si riporta nel titolo, e come una curva si completa in un anello, anche la crisi di coscienza di René completa il suo ciclo meditativo con la fine della malattia.

Proprio perché ha investito tanto di personale nella storia di René, anche il percorso editoriale, dopo l’uscita del libro, fu diverso dal solito. Non solo interviste sui giornali, apparizioni in televisione, nonché una conferenza stampa, guarda caso, nel “Le Grand Véfour”. Ma anche l’invio in anteprima ad un centinaio di medici, di cui molti neurologi. Tanto che alcuni di essi inserirono il testo tra i libri da leggere degli studenti dei loro corsi, al fine di farsi un’idea della vita ospedaliera dal punto di vista di un degente. Un battage pubblicitario che portò a recensioni di alto livello su molti giornali, da “Le Monde” al “Times Literary Supplement” fino al “New York Times”, che lo include nella lista dei libri che vanno assolutamente letti. Con interventi di rilievo, non ultimo quello di François Mauriac. Per inciso, una volta, nella mia vita lavorativa, fui invitato a mangiare in questo ristorante, che trovai decente, ma non superlativo.

Finisco con un piccolo accenno al titolo. Solo in Francia, il libro esce con il titolo che riporto in alto (“Les anneaux de Bicêtre”) dovuto a quel ricordo delle campane dell’infanzia mescolate alle campane di Bicêtre. Nei fogli manoscritti che lo accompagnano, tuttavia, Simenon indica e cambia diversi titoli. Sul frontespizio riporta “Les cloches de Bicêtre”, mentre nelle note preparatorie lo modifica in “Le Grand Véfour ou Les cloches de Bicêtre” (capite perché vi ho detto di ricordarvi del ristorante). Poi altri appunti via via cancellati: “La cloche de Bicêtre” (al singolare), “Les voix de Bicêtre”, “Les bruits de Bicêtre”. Per poi fermarsi agli anelli. Questo perché i titoli legati alle campane avevano due controindicazioni in francese. La prima è che cloche è molto vicino a clochard, e poteva ingenerare confusione. La seconda viene dal linguaggio colloquiale, dove dire ad una persona “T’es une cloche” significa, detto eufemisticamente, dargli dello stupido. Comunque, in tutte le lingue in cui poi venne tradotto, si tornò a parlare di campane.

Alla fine, per me, è stato un bel libro, pieno anche di risvolti personali, pensando all’emiplegia di mio padre. ma, a prescindere, un libro scritto di alto livello.

“Si può essere ammalati senza saperlo, covare per anni un malanno grave continuando a restare un uomo come gli altri … poi, per un’inezia … si va dal dottore … e si diventa un malato che non vedrà mai più la vita sotto la stessa luce.” (117) 

Dove

Protagonista

Altri interpreti

Durata

Tempo

Parigi (ospedale di Bicêtre)

René Maugras, direttore di un grande giornale parigino, divorziato, risposato, 54 anni

Mlle Blanche, infermiera

Lina, seconda moglie di Maugras da circa 8 anni

Pierre Besson d'Argoulet, medico e amico di Maugras

Le professeur Audoire, neurologo a Bicêtre

Joséfa, infermiera di notte

Colette, figlia di primo letto di Maugras, 30 anni

Parte principale 8 giorni, poi alcuni mesi

Epoca contemporanea

Georges Simenon “La camera azzurra” Repubblica Simenon 4 euro 9,90

[A: 18/10/2019 – I: 07/01/2023 – T: 08/01/2023] - &&&& e ½   

[tit. or.: La chambre bleue; ling. or.: francese; pagine: 155; anno 1964]

Dopo una serie di romanzi intervallati da lunghe pause (ma solo per la loro presenza nella mia libreria), ecco che passano pochi mesi tra l’elaborazione di questo e del precedente romanzo. Un periodo di tempo, in cui, dal punto di vista extra-letterario accade ben poco. Praticamente, l’unica cosa che Simenon fa, oltre a scrivere, è seguire il cantiere della sua nuova casa a Épalinges, dove si trasferirà a fine del ‘64. L’altro elemento che occupa la mente di Simenon è il progressivo peggioramento della salute di Denyse. Non siamo ancora ai livelli finali ed irreparabili, ma la situazione sta degradandosi notevolmente.

Questo dà anche modo allo scrittore di riflettere sui rapporti umani, sul rovello che sin da giovane lo attanaglia, riguardo ai rapporti tra uomo e donna, ed in particolare, ai rapporti extra-coniugali. Rimanendo poi sempre presente quel libro di Conrad che segna gran parte della sua produzione. L’attraversamento di quella “linea d’ombra” che separa due stati della persona, cercando di interpretare i motivi del passaggio, e le modifiche che portano all’animo umano.

Così è ancora a Noland, nel cantone di Vaud, che redige il manoscritto del romanzo. Come spesso accade, è un romanzo che girava nella sua testa da un po’ e che poi si riversa sulla pagina in poco tempo. Anche se, rispetto all’usuale settimana di lavoro, qui impiega ben 12 giorni per portare a termine l’opera, dal 24 maggio al 5 giugno del ’63. Sarà poi pubblicata solo nel gennaio seguente, non tanto per essere rivista, ma per darle una veste editoriale ed una collocazione tra le uscite letterarie consone al risultato raggiunto. Che anche l’amico Sven aveva capito come questo fosse uno dei punti più alti della produzione dello scrittore.   

È senza dubbio, personalmente, una delle opere più riuscite. Per la costruzione della trama, per la caratterizzazione dei personaggi, in poche battute, ma in maniera precisa e puntuale, per il modo di raccontare la storia, sempre da un osservatore esterno, ma utilizzando una duplice prospettiva: il discorso diretto e le risposte di Tony agli interrogatori. Dall’intreccio dei vari piani, ricostruiamo la storia, sia quella del presente, sia tutto quanto ha portato al momento attuale.

La trama in sé è discretamente semplice. Abbiamo due amanti, Tony e Andrée, entrambi sposati. Lui, un po’ macchietta di un immigrato italiano, che tiene alla famiglia, ma non sa tenere i suoi attributi dentro i pantaloni. Lei, quasi una novella Bovary, ma più focosamente determinata. Dopo alcuni mesi di scorribande amorose, Tony, timoroso di essere scoperto e di mettere nei guai moglie e figlia, si tira indietro. Andrée probabilmente no.

Nicolas, il marito di Andrée, è cagionevole di salute, e quando muore, lei, cui Tony aveva sopra pensiero detto di amarla, gli butta lì il pallino. “Io sono libera. E tu?”. Tony continua a nascondersi, ma un giorno, recatosi obtorto collo nella drogheria di lei, Andrée gli dà una marmellata di prugne che Gisèle, la moglie di Tony, aveva ordinato. Marmellata avvelenata, che porta alla morte di Gisèle ed all’arresto di Tony, una volta scoperta la moglie morta per avvelenamento.

Arresto che porta all’esumazione di Nicolas, che si scopre anche lui avvelenato, con conseguente arresto anche di Andrée.

Interrogatori (ben congeniati, che trent’anni di Maigret sono serviti di certo), reticenze, omissioni, debolezze. Tutto un campionario di bravura nella scrittura e nell’emergere dei lati deboli di Tony. Ma anche di quelli forti di Andrée.

Simenon mostra la costruzione di un caso tutto attraverso prove indiziarie, senza nessun reale riscontro, anzi con un incastro inestricabile anche per false testimonianze scientemente perpetrate. Tony non esce mai dall’apatia, è una figura debole, non fa mai quello scatto per uscire dall’ombra in cui è entrato. Quasi si sentisse comunque colpevole della relazione con Andrée (e questo ci sta), e che per questo dovesse pagare anche il fio di azioni non commesse.

Noi, smaliziati lettori, possiamo ipotizzare come sono andati realmente i fatti. Ma non è quello che interessa lo scrittore. Che vuole solo entrare a fondo nel “personaggio Tony”, mostrandoci attraverso le sue riflessioni, la nascita della furia d’amore nell’amante. 

Alla fine a me Tony non dico risulti simpatico, ma quanto meno ho provato pena per la sua ignavia. Avrei voluto prenderlo a pizzichi e dirgli di svegliarsi. Mentre Andrée non mi è mai stata simpatica. Capisco che Simenon abbia voluto ritrarre una passione cieca e totalizzante (ricordo delle sue pulsioni verso Denyse? Verso Teresa? ormai mitigate dall’età e dall’esperienza), ma, con la lettura del poi, mi fa venire in mente la sdrammatizzazione di Alessandro Robecchi e del suo “Cosa fa fare l’amore?”.

Un intreccio perfetto che non cala mai di tensione. Anche quando ripete scene già narrate, il sorgere di nuovo delle immagini serve a dare una visione a tutto tondo dei personaggi. Soprattutto Tony, che ogni tanto ripercorre la scena dell’ultimo incontro, delle domande di Andrée, senza riflettere che lui ha sempre pensato a sé, senza la cognizione di dove lo portavano le sue parole.

Per finire, non è un caso che inizialmente, Simenon avesse pensato come titolo a “Les Amants frénétiques”, e solo dopo un’attenta riflessione e revisione del testo, avesse capito che l’elemento caratterizzante, quella che indirizza tutta la narrazione, è proprio l’inizio. Quelle poche descrizioni dell’ultimo incontro tra Tony e Andrée, avvenuto nell’Hotel del fratello, sempre nella loro “camera azzurra”. 

Dove

Protagonista

Altri interpreti

Durata

Tempo

Saint-Justin-du-Loup (paese fittizio vicino Poitiers)

Antoine “Tony” Falcone, venditore di macchine agricole, sposato con Gisèle

Andrée Despierre, moglie di Nicolas e amante di Tony

Gisèle Falcone, moglie di Tony

Nicolas Despierre, marito di Andrée

Vincent Falcone, fratello di Tony, proprietario dell’albergo con la “camera azzurra”

Un anno

Epoca contemporanea

Georges Simenon “Il gatto” Repubblica Simenon 24 euro 9,90

[A: 08/03/2020 – I: 18/06/2023 – T: 20/06/2023] - &&&   

[tit. or.: Le chat; ling. or.: francese; pagine: 166; anno 1967]

E con questo abbiamo finito la prima tornata dei capolavori di Simenon, in attesa di passare alla seconda, pubblicata solo quest’anno, sempre da Repubblica. Prima di passare al libro, ricordo, ai meno attenti alla scrittura di Simenon, che a lui, scritti con la sua firma, sono assegnati 75 romanzi con protagonista Maigret (tutti presenti nella mia biblioteca) e 118 romanzi cosiddetti “duri” (di cui ne possiedo 50).

Come detto, è l’ultimo della prima serie, anche perché è uno degli ultimi che scrive il nostro scrittore belga. Sappiamo che da anni vive in Svizzera, ed in questi anni, tra “La camera azzurra” e questo gatto, ci saranno alcune svolte grandi per lui. Diventa due volte nonno con i figli di Marc, nel ’64 Denyse viene di nuovo ricoverata in clinica e non tornerà più a casa, e lui continuerà ad avere la sua “storia segreta” con Teresa. Altro elemento che lo colpisce è finalmente il trasloco nella sua trentunesima ed ultima casa, quella che lui si è fatto costruire a Èpalinges, e dove vivrà sino alla morte. Ed è proprio lì che nel novembre del ’65 lo viene a trovare la madre Henriette.

Sappiamo, da sempre, che i suoi rapporti con lei non furono mai sereni. Georges la accusava di aver sempre voluto più bene al fratello Christian (anche se ormai morto da venti anni). Non solo, ma di aver sempre osteggiato la sua carriera di scrittore, che Henriette avrebbe voluto che diventasse pasticciere, e che insieme gestissero un locale a Liegi. Inoltre, non aveva mai digerito fino in fondo il secondo matrimonio della madre con il ferroviere Joseph André. Non ne aveva mai capito i motivi, le dinamiche, i percorsi.

Come tutti i grandi, pensando e ripensando, alla fine trova che il modo migliore di esorcizzare i suoi dolori personali, sia di scriverne. Nasce così l’impianto di questo cupo romanzo, non certo, per me, tra quelli che più mi hanno coinvolto, anche se non nego, che alla fine, leggendolo in controluce con le sue vicende personali, assume aspetti non dico migliori ma più interessanti.

Facendo le debite proporzioni, qui si narra della cupa vecchiaia di Émile Bouin, tutta in sua soggettiva, ma anche per questo ben riuscita dal punto della resa dei temi e delle situazioni.

Émile era un uomo che si era fatto da sé, che lavora, studia per migliorarsi, anche se rimane sempre a livelli basici di cultura. Ma, dopo aver sposato Angèle, riesce a diventare supervisore ai lavori di commesse pubbliche. Angèle è anche lei del popolo, cassiera fino ad incontrare Émile. Insieme costruiscono una vita non sempre felice, ma in cui si ritrovano, ridono, condividono. Poi Angèle viene investita da un bus, sta due anni su di una sedia a rotelle prima di morire, ed il nostro si ritrova, solo, pensionato, e decisamente triste. Non foss’altro per un gatto, che chiama Joseph, che gli tiene compagnia, seguendolo ovunque.

Va a vivere in una strada, l’impasse Sèbastien-Doise, dedicata ad un grande industriale di dolci, andato in rovina, di cui rimangono solo le case dell’impasse, gestite dalla figlia Marguerite. Lei è di buona cultura, di buoni natali, sposati per anni e anni con un violinista dell’Opera. Anche lui da qualche anno, morto. I due sono dirimpettai, e Marguerite, dipinta anche un po’ avara, oltre che donna di poca manualità, non riesce a trovare il modo di gestire la sua solitudine. Pensa, di sicuro erroneamente, che da due solitudini, possa avere da Émile l’aiuto per andare avanti nella loro vecchiaia. Così, le di 63 e lui di 65, si sposano e vanno a vivere nella casa di lei.

Ma due solitudini, senza interessi convergenti, non fanno un’unione felice. Con Marguerite che osteggia Joseph e ne provoca la morte, e con Émile che si vendica sul pappagallo della signora. Da quel punto in poi, i due comunicheranno solo con bigliettini, senza rivolgersi più la parola. Quando li incontriamo, sono ormai quattro anni che vanno avanti così, con piccole cattiverie quotidiane, con lei che invita signore antipatiche per dargli noia, con lui che frequenta per un po’ una signora compiacente. Ma il “gioco”, come lo chiamano, è comunque il modo di sentirsi vivi, di proseguire il cammino verso la morte, facendo finta di odiarsi, ma, in fondo, avendo bisogno l’uno dell’altra. Ma la morte prima o poi arriva, e chi rimane sente che non ha più motivi di continuare ancora.

C’è tanto del personale di Simenon in tutto ciò. Non tanto per alcuni accenni (come quello dei dolci), quanto perché anche Henriette e Joseph (il marito non il gatto) dopo un’iniziale convergenza, arrivarono all’insopportazione reciproca. Ed anche loro, da un certo anno in poi, cominciarono a parlarsi tramite biglietti.

Se poi vogliamo estrapolarci dal contesto per tornare al testo, molti sono i momenti di riflessione che ci propone Simenon. Le differenze sociali tra i due protagonisti, il rimpianto per i rispettivi coniugi, idealizzati dopo morti in contrapposizione con il deludente presente. Inoltre, Simenon si avvia anche lui all’età avanzata (ha voltato la boa dei sessantaquattro anni, grazie Beatles), ai doloretti (anche forti, come le coste che si è rotto l’anno prima della scrittura cadendo nel bagno). Ed è in questa riflessione che riesce a comunicarci i sentimenti di una persona di età adulta che si avvia alla vecchiaia, anche se, distratto dalle cose della vita, non si è nemmeno accorto di invecchiare. Come molti dei suoi romanzi “duri” c’è quindi anche qui un passaggio oltre la linea d’ombra. Anche se non più dalla giovinezza alla maturità, ma da un’età indefinita alla consapevolezza che esiste una fine.

E non a caso, l’azione centrale del romanzo si svolge in un triste novembre.

Come molti romanzi, anche questo divenne ben presto (solo tre anni dopo) un film, anche se cambiando molto il retroterra dei due personaggi. Non la sostanza, che alla fine, risulta uno dei film più fedeli tra quelli realizzati. Ovvio che molto dipende dai due grandi interpreti del grande schermo: Jean Gabin e Simone Signoret.

Ora, ma forse tra qualche anno, dati i miei tempi, ci aspetta la seconda tornata dei suoi romanzi in uscita con Repubblica. 

Dove

Protagonista

Altri interpreti

Durata

Tempo

Paris, impasse Sébastien-Doise (si affaccia su rue de la Santé)

Émile Bouin, supervisore di lavori urbani in pensione, vedovo e risposato, 73 anni

Marguerite Doise, vedova e risposta con Émile Bouin, 71 anni

Alcuni anni

Epoca contemporanea

Visto che siamo sul bordo tra noir e colori diversi, anche qui andrò diritto con una sola citazione del giornalista-scrittore di Repubblica Massimo Lugli, che, in un libro non particolarmente riuscito, “L’istinto del Lupo”, ci dà un ammonimento quasi evangelico: “Avevo imparato l’unica regola … che si era dimenticato di insegnarmi: un favore non si rifiuta mai, un aiuto non si contraccambia e non si paga. Si accetta” (251).

Siamo già alla seconda domenica di luglio, e, come molti sanno, le prossime mi vedranno lontano da Roma e dal mio computer. Onde speriamo di tornare a frequentare consone scritture sia alla fine del mese di Cesare sia, e con dovizia, nel mese di Augusto.

Altro dire non vo’, ma non tutti coglieranno, quindi, per non farvi sentire soli, vi abbraccio.