domenica 29 maggio 2022

I miei seriali - 29 maggio 2022

Ecco una settimana dedicata ad alcuni degli scrittori seriali a me più cari. C’è Maurizio de Giovanni, imparato ad amare con il commissario Ricciardi, e poi seguito in tutte le sue trame, anche se non sempre all’altezza. C’è Antonio Manzini con Rocco Schiavone e le trame aostane. C’è Alessandro Robecchi, con il suo Carlo Monterossi reduce dalla celebrazione televisiva su Netflix. Di contorno due autori degni, anche se Carlotto è sempre gradevole, mentre De Cataldo non sempre mi convince. comunque, tra tutti, si erge il racconto lungo di de Giovanni, e non è un caso che poi se ne sviluppi una serie.

Maurizio de Giovanni “Fiori per i bastardi di Pizzofalcone” Einaudi s.p. (Regalo di Natale della sig.ra Laura)

[A: 25/12/2020 – I: 01/08/2021 – T: 02/08/2021] &&  e ½

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 262; anno: 2018]

Grazie alle solite indicazioni alessandrine di Natalizio impulso, ecco che con questo completo il ciclo dei (per ora) usciti libri dedicati al Commissariato Napoletano ed ai suoi agenti. Di certo non scopriamo oggi la facilità di scrittura e la duttilità di de Giovanni. Ne abbiamo una discreta riprova, anche se, al solito, manca un po’ di scintilla per tornare ai fasti del primo Ricciardi.

In particolare, sono due gli elementi che a me hanno disturbato nella trama. I tre capitoli in corsivo, che servono per inquadrare alcuni elementi della storia, magari avendo l’illusione di fornire qualche elemento di pensata al lettore che forse si pensa distratto. Nonché i continui intarsi, che rimandano ai fiori del titolo, quasi a volerne sottolineare un’importanza (che di sicuro c’è) ed altre sottigliezze (che per ora non vedo).

A me robusto lettore della prima ora (che possiede il Ricciardi della Fandango Libri, tanto per intenderci) sarebbe più congeniale un ricorso all’inserimento delle stesse notizie, spigolature e sospensioni del racconto, come elementi scorrevoli della trama stessa. Perché non pensare che Bastijan possa ripetere le storie di Flora o di Anemone, così come le ha sentite da Nicola, senza così interrompere lo scorrere temporale. E senza indicarci, quasi a forza, che lì vengono dette parole importanti.

Come in un classico “procedural thriller”, invece, prosegue la riscrittura metaforica dell’87° distretto in chiave napoletana. Quindi, come ci aspettiamo, abbiamo i due binari che solcano il romanzo: il thriller in senso stretto, dove cerchiamo di capire chi e perché ha ucciso il buon Nicola Savio, fioraio e floriculture di settantacinque anni vissuto nel vicolo dove ha il negozio e dove, per l’appunto, viene barbaramente assassinato; e le storie dei nostri eroi di Pizzofalcone, sia presi in solitaria, sia in coppia.

Classico ormai del genere “degiovannesco” è appunto il far girare, come si deve, i nostri in coppia, così da mettere in risalto i vizi e le virtù ora dell’uno ed ora dell’altro. Con i soliti scambi di suggerimenti e di aiuti nel momento del bisogno. Peccato non ci sia Marinella, la figlia del Cinese. Ma il Cinese c’è (e darà il solito contributo fondamentale alla svolta delle indagini), e c’è il difficile rapporto con il magistrato Laura Piras. Con la voglia di stare insieme unita alla difficoltà dovuta ai rispettivi ruoli istituzionali. Entra marginalmente Romano, il gigante ora diventato buono, ma a parte un fugace incontro con la bella infermiera, non si approfondisce il discorso del rapporto con la moglie e la figlia adottiva. C’è ancora, ma quanto andrà avanti, il rapporto tra Ottavia ed il capo Palma, che non si sa, appunto, se e come si possa evolvere. Infine, rimangono “Serpico” Aragona, con le sue insicurezze e le sue intuizioni, che ormai vive con il pensionato Pisanelli, il quale, oltre ad essere l’unico con il polso del quartiere, riesce a dare un suggerimento vincente per la soluzione del caso.

Quindi, questa volta il nostro si concentra sulle due storie rimanenti: Alex e il suo rapporto-scontro con Rosaria, ed il vice Martini, single con figlia, ma forse con il ritrovato, seppur non amato, altro genitore. Perché Alex, seppur innamorata di Rosy, non riesce ad uscire allo scoperto come lei vorrebbe, portando così il rapporto ad un’impasse. Poi alla rottura, quasi inevitabile. Ci vorrà un solito incidente con la moto a rimescolare le carte.

Dall’altra parte Elsa Martini è venuta a Napoli anche per incontrare casualmente il padre biologico di Vittoria. Dove vediamo il procuratore un po’ in difficoltà, ma soprattutto ammiriamo la spigliatezza e le capacità deduttive di Vicky, che, per ora, mi sta assai simpatica. Speriamo riesca a portare a termine i suoi piani di convergenza.

Poiché quindi nessuna delle storie ha la sua conclusione, non ci meraviglieremo che a breve esca una nuova puntata dei bastardi.

Il thriller in sé è comunque ben costruito, con quel tanto di incasinamento iniziale per un delitto apparentemente senza motivo. Potrebbe essere stato il racket, contro cui Nicola si era scagliato pubblicamente. Ma i boss della mala negano convincentemente. Potrebbe essere stato l’albanese Basti, come subodora Aragona nel suo poco velato razzismo interiore. Ma il contorno della vita di Basti, pur non limpido, poca acqua porta a questo mulino. Certo, la presenza della famiglia Durante, sodale da anni con Nicola, ci mette delle pulci nell’orecchio. Ci vorrebbe però una costruzione ben fatta, per coinvolgerla nell’accaduto.

De Giovanni riesce a portare a termine un bell’edificio probatorio, ben costruito, anche se forse abbastanza palese da qualche battuta sparsa qua e là tra le pagine. Alla fine, se riavvolgiamo il nastro è la parte più facile da indovinare. Ma è alla fine una costruzione che si regge. Che permette una lettura veloce ma non svogliata. Forse, se non fosse abusata, direi una lettura intrigante, per quello che lascia intravedere anche per il futuro.

Massimo Carlotto, Giancarlo De Cataldo, Maurizio de Giovanni “Sbirre” Rizzoli euro 13 (in realtà, scontato a 10,40 euro)

[A: 07/05/2021 – I: 29/12/2021 – T: 30/12/2021] &&& --  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 220; anno: 2018]

Pur ribadendo la mia scarsa passione per racconti o romanzi brevi, non ho potuto fare a meno, quando per il mio compleanno ho avuto in regalo una serie quasi completa della “Sara” di de Giovanni, di comperare questo che contiene in un certo senso il motivo scatenante della presenza di Sara nella scrittura del bravo napoletano.

Certo, ho dovuto leggere anche gli altri due autori, che tuttavia non sono mai sgradevoli. Anche se De Cataldo a me convince sempre un po’ meno, mentre Carlotto, per una serie innumerevoli di trascorsi, lo trovo sempre di buona leggibilità.

L’assunto da cui parte questa raccolta è facile e sintetico: “sono donne e sono poliziotti”. Anche se poi, la loro strada come donne e come poliziotti non è sempre la stessa. Sono tre racconti (o meglio romanzi brevi), di tre autori distinti, quindi, non è un “libro a sei mani”, che ognuno è responsabile solo della propria parte.

La prima che ci viene incontro è Anna, una poliziotta che, per sfuggire alla routine banale e quotidiana, si dedica a una serata di sesso con Zeno, un collega, lasciando il marito a faccende domestiche. I due amanti periodici poi sfruttano le reciproche informazioni per far passare grandi camion di droga fregando piccoli pesci senza protezione. Peccato che Zeno venga ucciso dalla mafia bulgara. E si apre allora un grande dilemma: Zeno era corrotto o faceva il doppio gioco? Anna è confusa, ma non ha più dubbi quando i bulgari la rapiscono, la violentano, e la vogliono al loro servizio. Si apre allora anche un conflitto con i suoi. Anna si deve fidare dei Servizi, o anche loro la vogliono fregare? E poi, lo stupro è una ferita bruciante.

Carlotto, al solito a suo agio con le trame oscure, ci fa ondeggiare tra varie possibilità, per poi portarci verso la soluzione dei problemi posti, con un finale che ricorda un’aria di Dürrenmatt.

La seconda è invece Alba, che invece è una poliziotta più nei ranghi, anche se si fida troppo delle sue intuizioni, a scapito di lavoro di gruppo come ci si aspetta in polizia, e come si aspetta il suo odioso capo Paolo. La vicenda gialla gira intorno a ragazzi che uccidono genitori e si suicidano, lasciando messaggi oscuri. De Cataldo prova ad incuriosirci con accenni alla rete, alla sua pericolosità, ma troppo superficiale è l’analisi e la descrizione del deep e del dark web.

Alba, visto che il capo le mette solo bastoni tra le ruote, si butta lei a capofitto nel web, dove riesce a risalire una catena di siti nascosti, per arrivare a quello dedicato all’Odio. Gestito cripticamente da un Maestro definito “furbissimo”, ma che a me sembra un torsolo da web. Fatto sta che Alba si scopre anche lei piena di cattivi propositi, soprattutto verso il già menzionato Paolo. Riesce anche a combinare un accordo criptico con il Maestro, per cui capiamo che lui cercherà di uccidere Paolo, mentre lei, sapendolo, lo catturerà. La domanda è se la cattura avviene prima o dopo il possibile omicidio. Comunque, con poca credibilità, si intuisce anche presto dove possa essere il Maestro. Insomma, il meno riuscito dei racconti.

Per ultimo veniamo a Sara, il motivo che mi ha portato a questa lettura. Anche se le cronologie ufficiali collocano questo dopo “Sara al tramonto”, in realtà è precedente, perché seguiamo la nascita del personaggio “Sara”. Qui la poliziotta è in pensione, ma torna sul campo in seguito alla morte del figlio. Certo, non era un rapporto facile, anzi c’era un’assenza di rapporti. Che Sara, conosciuto sul lavoro Massimiliano, per lui lascia casa, famiglia e figlio. Cose che nessuno le perdona. Vive un’intensa vita d’amore con Massi, fino alla sua morte. Poi si ritira, aspettando. E mentre aspetta, ha il figlio travolto da una macchina. Incidente? Omicidio?

Sara non sviluppa ancora tutte le capacità che abbiamo visto nel primo romanzo, ma mette in moto tutte le sue conoscenze e troverà il bandolo. In cambio, assumerà il ruolo che gli conosciamo e che vedremo, forse, negli altri romanzi.

Se avevo detto all’inizio “donne e poliziotte”, i tre autori sviluppano il tema in modo diverso. Carlotto usa sempre i fuori linea, che però hanno una dirittura. De Cataldo insiste sulle capacità, anche se non sempre usate correttamente. Solo de Giovanni mi ha fatto balenare una personalità più umana, e più allineata ai modi che in tutte le sue opere (a parte l’illeggibile “Guardiani”) porta avanti. Una lettura veloce, agile, poco impegnativa. Ma tuttavia gradevole.

“Certe passioni, se si ha la fortuna di provarle, si riconoscono. E che si può scegliere se essere sinceri e seguirle alla luce del sole, o vigliacchi e consumarle in segreto. Ma a quelle passioni è impossibile rinunciare.” (204)

Antonio Manzini “Le ossa parlano” Sellerio s.p. (Regalo di Mario&Ines)

[A: 17/01/2022 – I: 18/01/2022 – T: 21/01/2022] && + 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 397; anno: 2022]

Questa volta non ho dovuto aspettare nessun suggerimento, che mi è arrivata la segnalazione da Feltrinelli, e l’ho comperato in prima italiana (due giorni dopo l’uscita) usufruendo del regalo natalizio dei miei cognati. Non solo, ma l’ho anche subito letto, che Schiavone merita una pronta attenzione.

Purtroppo, o per fortuna, ci siamo un po’ staccati dalla trama ossessiva della ricerca degli assassini della signora Schiavone, del morto nel cemento e delle altre trame oscure, che hanno impegnato buona parte di tutti i precedenti romanzi. Ci sono rimasti accenni, ma c’è anche un giallo discretamente robusto nell’impianto, ma non nella riuscita complessiva.

Per la prima parte, finalmente sembra chiarito il ruolo di Caterina, dedita a smascherare trame oscure, anche se compare uno strano personaggio, che vediamo nel primo capitolo e di cui si accenna all’ultimo. Forse comparirà in futuro, che si sa che gli scrittori seriali mettono qualche zona d’ombra, perché non si sa mai. Così come sembra chiarito il ruolo di Seba, amico cattivo ma forse chi sa. Rimane sempre quel su e giù con Marina, che non mi ha mai convinto e che continua a lasciarmi freddo. Caro Rocco, quand’è che riusciamo a sciogliere questo nodo?

Un nodo che sembrava potersi indirizzare verso Caterina nelle prime puntate, poi verso Sandra la giornalista nelle ultime, e che ora si incasina di brutto, che Sandra prende d’aceto al comportamento di Rocco, e Rocco capisce che con Caterina potrebbe essere sesso ma non amore.

Quindi, sgomberato il campo dei contorni, che fortunatamente non occupano tantissimo dello scritto, si può passare al giallo come ai tempi dei primi scritti aostani.

Il morto trovato in un campo è lo scheletro di un ragazzo, probabilmente morto cinque o sei anni prima. Lasciato in un campo, poco sotterrato, gli agenti della terra, forse qualche animale tipo talpa, o altre cose, lasciano poco per decifrare prima chi sia poi come, quando e dove sia morto.

La squadra al completo si mette al lavoro, con tutte le diversificazioni del caso. L’agente gay Deruta si occupa di video, tabulati ed altro. L’agente Casella degli aspetti informatici, coadiuvato da Carlo, il figlio della sua compagna. Il vice di Rocco, Antonio coordina in seconda le indagini. Il vice precedente Italo è invece invischiato nella sua ludopatia, e sappiamo fina dal secondo capitolo che non finirà molto bene. Il povero molisano D’Intino c’è ma sempre in secondo piano, che non è stato ancora perdonato di aver quasi ucciso Rocco qualche puntata fa. Poi c’è il medico legale, Michela, con le sue ossessioni complottistica, aiutata da una pletora di suoi amici ed accoliti. Tra i quali spicca una simpatica archeologa, Sara, che meriterebbe più spazio in future puntate.

Per farla breve, comunque, l’indagine rivela ben presto che siamo sul versante della pedofilia. Il piccolo, che si chiamava Mirko, è stato brutalmente ucciso e forse altro. Per questo, tutta la squadra si butta sul versante dei pedofili, e dei pedofili online in particolare. Si fanno ipotesi, si scandagliano videosorveglianze varie, ma soprattutto sarà il giovane Carlo che avrà il compito di calarsi nel “deep web” alla ricerca di tracce che il cattivo ha lasciato (o i cattivi?).

Non è mai facile trattare questa materia, tuttavia Manzini riesce a districarsi abbastanza bene, senza cadere in derive splatter, ma procedendo con un’indagine finalmente degna di questo nome. Sorgono possibili colpevoli, vanno e vengono ipotesi, smontate e poi riprese. Come in tutti i gialli di buon nome, si arriva all’ultimo capitolo con un colpevole sottomano. La cui colpevolezza viene sventata in poco tempo, quando, con un ultimo guizzo, si arriva alla ricostruzione definitiva di chi ha fatto cosa e come. Con il solo rimpianto, giallisticamente parlando, che, dato si tratta di un’indagine circoscrivibile in un ambito certo, si suppone la soluzione già molto tempo prima che Rocco ed i suoi ci arrivino definitivamente.

Ma lasciamo a voi insaziabili lettori, la voglia di leggere e di seguire la vicenda nei suoi complicati meandri. Io vorrei soffermarmi su di un gioco di rimandi e di verità nascoste legate al profondo web dei pedofili, ai tre nomi che saltano fuori dalle indagini, ed al gioco che Manzini fa con loro. Gioco intellettuale e di citazioni da un lato, e gioco per confondere il lettore dall’altro.

I tre pedofili che si rincorrono in rete hanno, come ovvio, nickname criptici. Uno si fa chiamare Felibro 50, in onore del poeta valdostano Jean-Baptiste Cerlogne, seguace eponimo della corrente, francese, del felibrismo, che scriveva poesie in patois valdostano. Poeta, ma anche uomo di chiesa. Un altro adotta il nome di Cerbiatto, dove si arriva con facilità a collegarlo a Bambi, ma con difficoltà a risalire (citazione dotta) all’autore del libro da cui Disney ha tratto il lacrimevole film. Cioè, l’austriaco Felix Salten. Serve ragionarci sopra, ma anche questo si collegherà presto al reale. Il terzo infine uso il nome di Wedderburn. Qui si gioca sporco, che a lungo si associa il nome al matematico scozzese Joseph, autore di pregevoli teoremi che aprirono campi algebrici interessanti, anche se poi si isola dal mondo, in una depressione schizofrenica. Ma potrebbe anche essere collegato al personaggio Winter-Wedderburn, protagonista del racconto di H.G. Wells “Fioritura di una strana orchidea”.

Io ho delle idee su come siano nati alcuni di questi giochi (che risolti portano anche alla risoluzione del caso), ma non li svelo, che sarebbe quasi un portarvi a braccio la soluzione senza leggere il libro. Che invece, pur nel suo standard medio, merita di essere letto. Sempre guardando le pagine di Rocco con gli occhi di Marco Giallini.

Aspettiamo il prossimo, Antonio.

“Quando era Natale, dotto’, non era una cena, sembrava un matrimonio. Faccia il conto: 13 nipoti, più … quattro zii e quattro zie andiamo a 21, nonno e nonna e fa 23, 24 con zia Italia…” (131) [una cena spartana rispetto ai nostri Natali; negli anni 2000 eravamo sulla sessantina tra zii, cugini, nipoti ed altre amenità]

“La responsabilità delle azioni tornano sempre, magari non subito, col tempo, ma tornano.” (261)

Maurizio de Giovanni “Angeli per i bastardi di Pizzofalcone” Einaudi s.p. (Regalo di Raul&Vivi)

[A: 02/11/2021 – I: 24/02/2022 – T: 26/02/2022] &&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 246; anno: 2021]

Purtroppo, la pur interessante serie, episodio dopo episodio, mi sembra stia in un continuo calando. Credo, inoltre, che risenta troppo dell’esposizione televisiva, per cui, più che far evolvere i personaggi secondo delle direttrici da lui scelte, de Giovanni si sta adeguando a far seguire loro percorsi televisivamente accettabili (o perseguibili). Come ad esempio ci si aspetta, visto che Alessandro Gassman vuole uscire dalla serie, che trovi il modo, prima o poi, di mettere fuorigioco il commissario Lojacono.

Che intanto, anche qui, già comincia ad essere pensoso ed un po’ rompipalle.

Visto che inoltre si segue molto il procedere televisivo, l’autore continua ed amplifica il filo della trama tipico delle serie su “squadre di poliziotti”. Si segue un’indagine principale, poi c’è una piccola indagine collaterale, e sullo sfondo il procedere delle vicende dei componenti della squadra.

La prima quindi si concentra sull’uccisione di un meccanico di moto e auto di lusso, maniaco dell’ordine, della pulizia, e dall’intreccio della sua vita con quella di uno dei maggiorenti della città. Nessun motivo apparente per farlo fuori. Dopo aver facilmente eliminato le cause più facili di contorno, tipo usurai che avevano prestato soldi ed altre malavitosaggini di bassa lega, le indagini si concentrano sulla storia di Nando. Meccanico della famiglia Cortese, con figlia piccola, che cresce, studia, diventa manager, e si fidanza con il rampollo della famiglia. Il tutto sotto gli occhi svampiti della mamma del rampollo, con Alzheimer sì, ma con decisi sprazzi di buona sanità mentale.

È lì che verrà risolta l’indagine, che poteva mettere in difficoltà, al solito, la credibilità e l’esistenza dei Bastardi, ma per ora si risolve al meglio.

La seconda, in minore, cerca di risolvere il problema e/o la malattia della piccola Marida. Che tutti capiscono subito non essere affetta da otite, bensì vittima di maltrattamenti familiari. Con una trama che riprende, anche se con minore crudeltà, quella del libro della norvegese Holt “Il presagio”. Se lo avete letto, capite; se non lo avete letto, è pur tuttavia discretamente semplice arrivare alla soluzione.

Il tutto, dicevo, condito dalle vicende dei personaggi.

Lojacono che non capisce l’allontanamento che avverta in Laura, ma che, avendo visto la TV, sappiamo legato alla richiesta del magistrato di essere trasferita, ed alle incomprensioni che ne susseguono. Anche se, in parte, capovolte. Che in Tv era Gassmann che non voleva seguire Laura, mentre qui è la stessa che si domanda come gestire la situazione.

Alex e la bella dottoressa continuano la loro storia, e sappiamo che presto sarà alla luce di tutti.

“Serpico” Aragona, lasciatosi alle spalle la storia con l’ucraina, cerca di fare colpo sulla bella infermierina che aveva scoperto le problematiche di soprusi sulla minore, con uscite improbabili per far colpo, ma consone al personaggio. Coinvolgendo la dottoressa che aveva avuto una piccola ma intensa storia con “Hulk” Romano, quando questi decise di adottare una bambina.

Qui si apre una storia nella storia, dove vediamo avvicinamenti e allontanamenti tra Romano e la moglie avendo con chaperon la piccola. Ed i tormenti sia di Romano che della dottoressa che sarebbe presi di affetto, ma bloccati dalle conseguenze che una loro storia potrebbe avere sui destini della piccola.

Poi c’è la storia della nuova entrata, Elsa, con la figlia super intelligente, ed il genitore biologico che non sa di esserlo, e tutte le manovre per uscire dalla complicata situazione.

Finendo con la storia anch’essa profonda ma ben complicata, tra il commissario Palma e la bella Ottavia. Anche qui, complicata dalle vicende familiari di lei. Che non ha più un buon rapporto con il marito, ma di mezzo c’è il figlio autistico.

L’altra cifra delle storie di de Giovanni è l’idea che scatena la storia e le storie. In quelle del commissario Ricciardi era cominciata con le stagioni e poi proseguita con le feste comandate. Qui, i Bastardi vengono invece avviati alle loro avventure da un singolo nome. C’erano stati, cito a memoria, il pane, i fiori, il gelo, i cuccioli, ed altro. Nello specifico, parliamo in questo romanzo di “angeli”. Intesi per la maggior parte, come persone “buone” che si occupano di uno o più altri. L’angelo Palma che veglia su Ottavia. L’angelo Alex che accudisce Rosaria. L’angelo Vicky che cerca di incollare le vite altrui. L’angelo Susy per tutti i bambini.

Non facendoci mancare però qualche gustoso intermezzo, quasi dei microracconti nella storia generale. Qui, esempio eponimo, la diatriba verbale (anche se diatriba la farebbe sembrare una disputa forte), tra suor Giovanna che, inopportunamente, cerca di spiegare gli angeli ai suoi piccoli alunni paragonandoli ai supereroi dei fumetti, ed il piccolo Arturo, che dei supereroi sa tutto, che facilmente ne smonta il costrutto. Forse non serve a niente nell’economia della trama, ma è un siparietto ben costruito e ben raccontato.

Però, la verve di de Giovanni sta sempre più in calando. Si sente, oramai, un po’ troppo il mestiere dietro le sue storie. Forse dovrebbe cercare di scrivere meno e di scrivere meglio. Vedremo cosa ci riserveranno le future letture.

Alessandro Robecchi “Una piccola questione di cuore” Sellerio euro 15 (in realtà, scontato a 14,25 euro)

[A: 14/03/2022 – I: 21/03/2022 – T: 22/03/2022] && +  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 368; anno: 2022]

Se hai visto “Monterossi” su Netflix, ed esce un nuovo libro di Robecchi, si fanno due cose: si compra ed appena possibile si legge (magari, mettendo sul CD visto che non ho tanto Bob Dylan, direi un Guccini d’annata).

Mentre Carlo Monterossi si aggira per Milano con la faccia di Fabrizio Bentivoglio, ci si addentra nella storia, dove, purtroppo, questa volta non ci si solleva troppo. È una storia abbastanza scontata, pur ben scritta. Ma non scattano i soliti meccanismi “robecchiani”. Poca ironia, solite tirate contro le televisioni commerciali, rapporti “statici” tra i personaggi storici della serie. E quasi nullo l’interesse per la parte gialla della storia. Rimane il rovello che il nostro Carlo continua a ripetere ogni due pagine. Che cos’è l’amore? Come si declina? Come si interpreta nelle figure che compaiono nel romanzo?

C’è amore fra il vicecommissario Ghezzi e sua moglie Rosa, dopo tutti gli anni di vita in comune? C’è amore tra il poliziotto Carella e la sua nuova fiamma, comparsa solo di sfuggita alla fine, l’insegnante Stefania? E quale amore, se c’è, è presente nel rapporto tra Carlo e la sua amante ormai d’annata, Bianca Ballesi?

Gli unici che sembrano sfuggire alle domande sull’amore, forse, sono i factotum della “Sistemi Integrati”, l’agenzia investigativa finanziata da Carlo. Là dove si aggirano, pensosi e fattivi, Oscar Falcone e Agatina Cirielli. Né c’è amore, perché è mostrato davanti a tutti, ostentato, nelle esibizioni televisive di Flora De Pisis. Che sembra non aver imparato nulla dalla lezione del precedente romanzo, dal suo rapimento, e da tutto quello che ne seguì.

Mentre c’è da chiederlo, ancora ed ancora, se c’è, l’amore, tra i protagonisti del romanzo. Tra il gangster Mino Sanfilippo e la bella avvocatessa londinese. Ma soprattutto tra coloro che daranno il via a tutta la storia. Il giovane Stefano, ricco poco più ventenne, e la ultratrentenne Ana, con tutti i suoi misteri e le sue storie, di certo poco chiare.

Ma tutti i discorsi di Carlo, le sue domande sull’amore, su cosa sia l’amore, su perché si ama, su chi si ama, servono a poco. E soprattutto non servono a demonizzare, come Robecchi vorrebbe, il mostro mediatico di “Crazy Love”. Che ha come sigla, “anche questo fa fare l’amore”, ma in questo contesto rimane sterile e poco attrattivo.

Se lasciamo da parte l’amore, cosa rimane della storia?

Stefano incontra Ana, escort ed altro, inserita in giri malavitosi grandi e grossi. Nasce l’amore, inopinatamente, e nasce quindi la necessità per Ana, di tirarsi fuori, di escogitare qualcosa affinché i due piccioncini possano volare lontano ed essere felici. Ecco quindi nascere il grande castello del complottone.

C’è un gangster tradizionale, Mino, che lavora su escort ed usura. Ha avuto un cedimento “sentimentale” ma di poca durata, seppur di grande ferita. Che lascia sul tappetto un bel gioiello di oro e diamanti. Gioiello concupito dal gangster rampante Bastiani, per la sua fiamma-modella Dana. Ovvio che Ana è incastrata da tutti, che per loro ha lavorato, che di loro sa i segreti, e quindi deve inventare qualcosa.

Ed ecco l’ideona: Mino le chiede di recuperare il gioiello, lei finge di farselo rubare, sparisce, coinvolge Stefano a chiedere a Carlo ed i suoi di ritrovarla, ma solo perché così riesce a fare un patto di ferro con Mino per vendergli Bastiani, ed incastrarlo.

Questo si capisce dalle prime battute. Poi tutto il resto è un po’ noioso, seppur sequenziale. Oscar e Agatina fanno il loro lavoro, e trovano fili nascosti nella vita di Ana. Ghezzi e Carella fanno la loro parte, a valle dell’omicidio di Bastiani. Ovvio che i fili si congiungono (inciso: ormai è un classico di queste tipologie di noir, dove ci sono due filoni di indagini cui si presta attenzione, dove noi lettori ne vediamo subito la convergenza, aspettando che la vedano anche i protagonisti). Come ovvio che il nostro Carlo-Fabrizio farà la figura dell’omino pensante, e del “musicalizador” con i suoi Bob Dylan (improprio, che il termine argentino si riferisce alla milonga, ma io faccio voli pindarici), utili a sottolineare i momenti topici del dramma.

Però tutto è assai debole, e se non fosse per l’affetto verso Robecchi ed i suoi trascorsi, direi quasi che non apporta molte novità e piacere alla lettura. Speriamo in un futuro migliore!

“L’amore è una che ti fa il culo perché quando fai il caffè incrosti la cucina come un imbianchino pazzo.” (94)

Questo mese, come a volte capita, ha cinque domeniche, così vi prendete una trama in più. E come altri recuperi, anche un recupero sull’adolescenza.

Che tra l’altro mi dà agio di andare a ricordare una frase di David Grossman, un autore sempre a me caro, che in “A un cerbiatto somiglia il mio amore”, fa questo ritratto di un adolescente in cui molti ci si possono ritrovare: “Sognatore, malato d’amore, di sesso. Si prendeva una cotta per qualunque ragazza gli passasse nelle vicinanze, non importava chi fosse, bastava che fosse femmina e lui come minimo avrebbe fatto di lei Brigitte Bardot.” (68)

Inoltre, è bene approfittare di queste trame in più, che nei prossimi mesi ce ne saranno di meno. Sia per la difficoltà qui di scrivere nel riposo toscano con qualche appiglio storico-bibliografico in meno. Sia, e forse con maggior ragione, che a fine giugno si partirà per una settimana portoghese.

Che speriamo sia preludio ad altre e più intense vacanze. Per ora, sempre per gli auguri a posteriori (cioè passato il compleanno), mi piace ricordare nonna Anto e mio fratello nonno Paolo, uniti dal mormorio del Piave. Per gli altri non mancano pensieri, abbracci (anche a tutti quelli che ogni tanto si scordano di leggermi).

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

MAGGIO dell’Ascensione 2022

Nel frattempo, se ne recupera un’altra, e si occupa lo spazio della quinta trama.

ADOLESCENTI, ESSERE

Gli ormoni impazzano. Peli spuntano dove prima era tutto liscio …

Ecco allora una cura omeopatica

I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER ADOLESCENTI

Italo Calvino                     “Il sentiero dei nidi di ragno”

Paolo Giordano                 “La solitudine dei numeri primi”

Elsa Morante                    “L'isola di Arturo”

Robert Musil                     “I turbamenti del giovane Törless”

Raymond Queneau            “Il diario intimo di Sally Mara”

Joào Guimaraes Rosa         “Miguilim”

J. D. Salinger                    “Il giovane Holden”

Robert Louis Stevenson      “L'isola del tesoro”

Boris Vian                        “La schiuma dei giorni”

Alice Walker                      “Il colore viola”

Bugiardino

Ne avevo parlato qualche anno fa, e poi ripreso dopo un paio d’anni. Ripeto, come allora, di aver letto in gioventù come somma gioia Salinger e Vian. E sempre in gioventù, con gioia moderata, Queneau e Stevenson. Verso la prima adolescenza passai senza troppa gioia a Morante e Musil. Poi, con queste trame, lessi con piacere Walker e con un po’ meno Giordano. Nella biblioteca di mio padre c’è Guimaraes, ma non riesco ad aprirlo. Così, posso solo passare a Calvino, che leggo sempre con un giusto piacere.

Italo Calvino “Il sentiero dei nidi di ragno” Repubblica Calvino 4 euro 9,90

[tramato il 15 aprile 2022]

Era molto tempo che non leggevo qualcosa di Calvino, e devo dire che leggere un libro sulla Resistenza, in tempi in cui abbiamo una guerra alle porte è stato un esercizio utile, per capire e per riflettere. Tra l’altro, come scrivo sopra, non sono soltanto le 150 pagine del libro, ma c’è anche una suntuosa introduzione (nonché una ben articolata cronologia biografica).

Della seconda, di cui parliamo qui e non ci torneremo più sulle altre letture calviniana, ritengo nell’animo alcuni punti fondanti. La nascita, casuale certo, ma a Santiago de Cuba. Il liceo, dove per un anno ebbe compagno di classe Eugenio Scalfari. La moglie, l’argentina Esther Judith ma da sempre soprannominata Chichita. E poi i tempi della letteratura, su cui si tornerà in altre scritture.

Dalla prima, scritta per la riedizione del libro nel ’64, porta a ragionare con lo scrittore sulla genesi della scrittura, sulle modifiche anche ideologiche che avvengono nel tempo. Perché, magari, dopo anni di altro, si trona sulle proprie parole, e si scopre che non tutte sono sempre in accordo con il sé stesso di ora. Noi siamo sempre noi stessi, ma la nostra evoluzione può essere variegata. Calvino non rinnega una virgola di quanto scritto allora, ma, dopo quasi venti anni, forse avrebbe messo accenti in posti diversi.

Ma noi abbiamo di fronte il suo testo, scritto sull’onda della fine della guerra, dall’autore che all’epoca ha solo 25 anni, essendo per inciso nato solo pochi mesi dopo mio padre.

Da un certo punto di vista è un testo semplice, lineare, che ci mostra la difficoltà di essere bambini in un mondo adulto, la difficoltà di crescere, di trovare un proprio posto nella vita, un proprio modo di essere. Seguiamo infatti le vicende del piccolo Pin, dodicenne orfano dei genitori, allevato dalla sorella dedita a quello che viene definito il mestiere più antico del mondo.

Pin è più avanti dei suoi coetanei, con cui si trova male, ma si trova male anche con i grandi, che, ovviamente, non lo accettano. Oltre alle difficoltà di crescita e di vita, il tutto è complicato dal fatto che siamo in guerra. Ci sono i tedeschi che occupano le città, ci sono i partigiani che si ribellano sulle colline poco distanti.

Pin, in questo mondo in cui è sempre fuori posto, si trova coinvolto in una serie di avvenimenti che si concatenano casualmente, ma che potrebbero (hanno) conseguenze possibilmente devastanti. Mentre la sorella si accompagna con un tedesco, Pin gli ruba una pistola, che andrà a nascondere nel suo luogo segreto, il sentiero dopo i ragni fanno le loro tane.

Subito scoperto, viene malmenato ed interrogato dai fascisti, rinchiuso in carcere, dove conosce il giovane partigiano Lupo Rosso. Con lui, organizza e realizza la fuga, ma Lupo lo abbandona, e lui, vagando per i boschi, si ritrova in una brigata partigiana.

Una brigata atipica, fatta da gente che più scompaginata non si potrebbe. Accettato come aiuto cuoco, rallegra tutti con le sue canzoni. Ma tutti, in quella strana compagine, hanno problemi di comportamento e di socialità. C’è Pelle, dedito all’accumulo di tutte le armi possibili, che ad un certo punto li tradisce, si arruola in una brigata Nera, ma morirà in un agguato organizzato da Lupo Rosso. C’è Mancino il cuoco, che per salvarla porta con sé la moglie. Ma le donne non sono ben viste in montagna. E lei non è da meno, tanto che farà perdere la testa a Dritto, il comandante della Brigata, che prima, sbadatamente, farà bruciare l’accampamento, poi si rifiuterà di andare in battaglia, per concedersi una notte d’amore prima di finire sotto processo e forse giustiziato.

Pin cerca di barcamenarsi tra le varie posizioni, trovando conforto solo nel rapporto con Cugino, un ex-alpino solitario, l’unico che parla poco ed agisce molto. Pin che ha sempre la sua pistola vicino ai ragni. Pin che vorrebbe confidarne il segreto ma non si fida di nessuno. Così che si allontana dai partigiani e dalle loro diatribe, recupera la pistola, e cerca di tornare dalla sorella. Che nel frattempo ha fatto anche lei il grande salto, cominciando a denunciare i partigiani ed i loro fiancheggiatori.

Sulla strada di casa, però incontra Cugino, ed avrà un colloquio quasi da adulto con lui, e con lui, dopo altri avvenimenti che non vi dico, si avvierà verso un'altra notte.

Come detto sopra, è un romanzo di iniziazione, un romanzo che ci fa riflettere sui progressi mentali di un giovane che vuole diventare adulto. Ma anche un romanzo politico, anche se il solo e vero capitolo politico è l’ottavo dove seguiamo il commissario Kim, uno che controlla l’andamento delle varie formazioni, che ragiona quasi a voce alta sui partigiani, sulla lotta, su come è e come sarà (forse) il mondo che verrà. La forza di Calvino, che qui già si mostra, è sia nella caratterizzazione dei personaggi, che riesce a fare con poche e mirate parole, sia l’uso del dialogo, che serve a tirar fuori situazioni e sentimenti, senza star lì a fare tanti discorsi. Perché una parola diretta, spesso, è meglio di cento descrizioni esterne.

Infine, ed è questo che mi ha colpito nel profondo, leggerne ora, in questi giorni di guerra, in questi momenti in cui ci si solleva l’un contro l’altro, fratello contro fratello, è di una forza incredibile. La guerra rende tutto brutto ed invivibile, anche la crescita di un giovane verso l’età adulta. Rende insopportabili anche i più piccoli risentimenti. Insomma, come dice papa Francesco, “fermatevi, per pietà”.

“Un giorno troverà un amico, un vero amico, che capisca e che si possa capire, e allora a quello, solo a quello, mostrerà il posto dei ragni.” (21)

“A fare i reati politici si va in galera come a fare i reati comuni … ma se non altro c’è la speranza che un giorno ci sia un mondo migliore, senza più prigioni.” (38)

Conclusioni

Non torno più sull’adolescenza e sui suoi romanzi, sperando che l’esortazione finale sopra riportata sia di monito a tutti.


domenica 22 maggio 2022

La psicologia non si addice al thriller - 22 maggio 2022

Mi rendo conto di due cose: ultimamente riempio trame di libri che non mi sono piaciuto molto e vengono anche privilegiati libri cosiddetti “di genere”. Nel secondo caso, sarebbe interessante aprire un dibattito tra genere e letteratura, ma forse in altra sede. Nel primo caso rispondo che leggo, e, come dice un critico che non amo ma di cui condivido questo pensiero, dico quello che penso. Cioè dico anche che un libro mi ha convinto poco.

Come i primi tre thriller cella collana del Corriere, che ritengo siano stati sopravvalutati. Si risale un po’ con uno dei meno riusciti libri di Dürrenmatt, per finire con un discreto libro del romano emigrato Chirovici.

Comunque, non so se sia una tara della collana, o un problema intrinseco, ma l’accostamento tra thriller e psicologia, ad ora, mi convince poco.

Sebastian Fitzek “Il ladro di anime” Corriere Thriller Psicologici 3 euro 7,90

[A: 10/08/2018 – I: 01/11/2021 – T: 03/11/2021] - & +

[tit. or.: Der Seelenbrecher; ling. or.: tedesco; pagine: 298; anno 2008]

Seconda lettura di questa collana a suo tempo molto sbandierata dal Corriere, anche se risale alla metà del 2018. Purtroppo, costatiamo che siamo già in discesa. Se il primo titolo letto mi aveva lasciato qualche perplessa positività, questo mi è rimasto lontano e freddamente sorbito.

Pare (ma non ho controprove al momento) che Fitzek sia un autore ben quotato in patria, soprattutto per il suo primo romanzo (“La terapia” pubblicato in italiano da Elliot). Di certo un po’ di fame la ottiene, visto che dopo alcuni anni oscuri, passa da Elliot a Einaudi, segno di sciuro gradimento di pubblico. Ripeto comunque, essendo il primo libro che leggo del tedesco di Berlino, rimando altri giudizi ad eventuali (anche se improbabili) future letture.

Prima però un piccolo commento sulla collana che ad ora mi sembra offrire sì immagini del momento interiore delle persone (“psicologici” dice il sottotitolo) ma il thriller è di poca cosa. Qui, tra l’altro, è annegato in una scrittura volutamente ricercata, che cerca di riprodurre tormenti e pensieri di una persona disturbata. Ma il gioco è così scoperto che ci si domanda come i due studenti universitari che si prestano alla bisogna non capiscano tutto sin dalle prime battute. Non solo è ovvio come sia possibile collegare inizio e fine, dato che c’è un discreto, anche se non continuo, salto tra il tempo dell’azione ed il tempo della narrazione. Ma gli altri due “fantomatici misteri” sono palesi fin da pagina 7 (dell’inserto): quale siano le modalità del “distruttore” di anime (non ladro, che “Brecher” è colui che distrugge non colui che ruba) per annientare le sue vittime e chi possa essere il distruttore stesso. Questa seconda parte a fronte di un indovinello, che punta molto sull’indecidibilità di alcuni termini in tedesco, e che non è detto sia la stessa in italiano.

Tra l’altro, Fitzek gioca con i lettori, sia fingendo che il dossier che stiamo leggendo sia stato scritto da tal dottore Viktor Larenz (il protagonista del primo libro di Fitzek) sia che Larenz scrive la cartella clinica a fronte di sedute con una paziente schizofrenica che si fa chiamare Anna Spiegel, esattamente come nel primo libro. Mi sembrano autoreferenzialità inutili.

Il tutto ha inizio con un esperimento condotto da uno psicologo che propone ai suoi alunni di leggere il dossier relativo ad un certo Casper, colpito da amnesia e ricoverato presso la clinica del dottor Rassfeld. Il dossier racconta avvenimenti che si svolgono nella clinica una lontana Vigilia di Natale. Fitzek mette in campo tutti gli elementi di un thriller. Oltre a Casper, che recupera lentamente i ricordi, c’è una tempesta che isola la clinica. C’è un’ambulanza guidata da uno strano infermiere, che porta Bruck, un paziente con un coltello piantato in gola. C’è un’infermiera paurosa, un custode che legge libri di retorica, c’è Grace, una paziente anziana che risolve enigmi e sciarade. Nonché il dottor Rassfeld, molto autoritario, e la strana dottoressa Sophia, che sa qualcosa che però nasconde abilmente.

Il tutto in un momento in cui la cittadina è colpita da strane morti, di persone che, senza ferite apparenti, muoiono in preda ad indicibili angosce. Le tre vittime sono tutte donne, ed hanno in mano foglietti di carta con misteriosi rompicapi (in seguito brillantemente risolti da Grace). Le cose precipitano quando si scopre Sophia in apparente stato catatonico, e Bruck stranamente aggirantesi per la clinica. Poi ci saranno morti a grappolo, risvegli, agnizioni, nonché tutta una serie di rivelazioni. Fino alla fine del dossier, che lascia comunque punti aperti.

Punti che il professore discuterà con gli allievi in una lunga sequenza finale, che porta altri elementi alla confusione della trama, elementi che ruotano all’idea che si possa sottoporre ad ipnosi una persona anche contro la sua volontà. Il tutto verso una fine da un lato scontata, che abbiamo da centinaia di pagine gli elementi per decodificarla. Dall’altra assolutamente sospesa, che di una certa Lydia, che non vi dico che sia né perché, non si capisce come e cosa vada a finire alla fine.

Insomma, un romanzo da vorrei ma non posso, con tante idee, ma una scrittura che non le sorregge. Anzi che fa perdere il filo. Con una poco riuscita impaginazione, che il dossier ha una sua numerazione, il romanzo una diversa, così che mentre leggi passi da pagina 167 (del dossier) a pagina 183 (del libro) e ti domandi se per caso hai saltato qualcosa. Forse, sarebbe bene che ne saltaste la lettura, a meno di non essere interessati alla genesi di libri inutili.

Pierre Lemaitre “L’abito da sposo” Corriere Thriller Psicologici 2 euro 7,90

[A: 10/08/2018 – I: 22/11/2021 – T: 23/11/2021] - && --

[tit. or.: Robe de marié; ling. or.: francese; pagine: 331; anno 2009]

Secondo libro di uno dei “maestri emergenti” del polar francese. Che non mi ha convinto nel primo. Forse ancor meno in questo. Non che non abbia dei punti di merito, soprattutto nell’idea della costruzione della trama e del suo sviluppo, almeno iniziale. Poi però si perde in uno sviluppo sin troppo scontato. Se a questo aggiungiamo alcune sviste dell’autore ed alcuni errori del traduttore Giacomo Cuva, non ci si meraviglia del basso gradimento generale.

Cominciamo allora con alcuni errori marchiani dell’autore. A pagina 156 si dice che Sophie ha trent’anni, mentre due pagine prima viene indicato l’anno di nascita nel 1974. Essendo al momento dell’azione descritta l’anno 2000, Sophie ha 26 anni. Poi c’è il riferimento al titolo di un articolo giornalistico, indicato a pagina 71 con “Dov’è finita Sophie Duguet?” ed a pagina 231 come “Che fine ha fatto Sophie Duguet?”. Infine, c’è un refuso all’interno di un pamphlet che deve portare su false strade, che potrebbe essere voluto. Ma se così fosse, il lettore si accorgerebbe della falsità della costruzione. Si dice infatti a pagina 311 “Cogliendo le opportunità offerte dai gloriosi anni Trenta, nel 1959 crea la prima catena di supermercati in Francia”. Vent’anni di opportunità sono un bell’investimento.

Ci sono poi dei refusi di scrittura, che non vado a riportare per intero (ma ce ne sono). Infine, due traduzioni meravigliose. A pagina 41 la protagonista “si schernisce con un sorriso contratto”, cioè si prende in giro da sola? Ed a pagina 278 un “elle est sortie” rimane “quando sortiva”, ma invece se fosse uscita?

Passiamo allora alla trama vera e propria, che, giustamente, si inserisce in un filone di “angosce psicologiche”. Abbiamo la protagonista, Sophie, che incontriamo come baby-sitter di Leo, e vediamo subito che non sta benissimo. Sembra dimenticarsi cose, addormentarsi quando non deve, ed altre piccole turbe. Dopo uno di questi sonni, scopre che Leo è morto. Non ricorda nulla, ma subito scappa. L’autore cerca di farci salire l’adrenalina nella fuga, con alcuni cambi di rotta repentini. Poi viene aiutata da una certa Veronique, presso cui si addormenta per la fatica. Scoprendo al risveglio che anche Veronique è stata uccisa.

Fuga repentina, in modo rocambolesco, che non si capisce come una persona disturbata riesca a fare tutto ciò. Ma ci riesce, fa perdere le sue tracce per quasi un anno, laddove scopriamo alcuni retroscena (l’improvvisa morte della suocera, l’incidente stradale dell’amato marito, che, ridotto sulla sedia a rotelle, precipita, forse volontariamente, dall’ospedale e muore) che fanno aumentare il senso di disagio di Sophie. Trova però una via d’uscita: un falso certificato anagrafico ed un matrimonio che la portano ad un nuovo cognome e ad una nuova vita.

A questo punto, l’autore fa un balzo indietro di quattro anni, e ci fa vedere tutto dall’ottica di Frantz. Che per qualche motivo (che si scoprirà alla fine), prende di mira Sophie, le fa tutta una serie di inganni (furto di carta d’identità, furto delle chiavi di casa, spostamento di oggetto, scambio di pillole da innocue ad ansiolitiche). Capiamo allora perché Sophie sia strana, alterata ed alienata. Scopriamo anche che è Frantz che organizza ed esegue tutti gli assassinii. Da quello della suocera fino a Leo e Veronique. L’angoscia che ci vuol far nascere Lemaitre sale al suo massimo quando scopriamo che il marito che Sophie trova per rifarsi una vita, è proprio Frantz.

Qui comincia la parte finale, con Frantz che progressivamente cerca di portare alla morte Sophie e lei che, ad un certo punto, si accorge che è proprio Frantz il suo persecutore. Si ingaggia una lotta sotterranea e senza quartiere, dove si ribaltano le parti. Frantz, che fino ad allora era stato insuperabile viene a poco a poco messo all’angolo da Sophie. Che era invece sembrata farlocca ed incapace, mentre ora si rivela astuta e programmatrice.

L’unica domanda è: chi dei due vincerà? Frantz riuscirà al fine ad uccidere Sophie, per cui scopriremo anche i motivi che hanno innescato tutta la vicenda. Oppure, sempre scoprendo le occulte verità, sarà Sophie ad avere la meglio e costringere Frantz alla resa.

Questo certo non ve lo dico, anche se potete chiedermelo in separata sede, visto che sconsiglio abbastanza vivamente una lettura del libro. A meno che non siate appassionati di polizieschi, come il sottoscritto, o dei puri lettori masochistici, che vanno avanti nella lettura, pur a fronte di recensioni negative. D’altra parte, forse, a qualcuno è piaciuto, ed io ne rispetto le considerazioni.

Lars Kepler “L’ipnotista” Corriere Thriller Psicologici 4 euro 7,90

[A: 03/09/2018 – I: 06/12/2021 – T: 09/12/2021] - & e ½

[tit. or.: Hypnotisören; ling. or.: norvegese; pagine: 583; anno 2009]

Continuiamo a leggere questa collana del Corriere, ma ancora non c’è stato uno scatto di qualità. Anzi, più se ne legge, meno si apprezza. Anche qui, che avremmo dovuto incontrare una delle firme emergenti del panorama giallistico internazionale. Dove, invece, non solo la trama mi convince poco, ma anche la scrittura la trovo di una difficoltà esasperante.

Dicevo firma, che in realtà, questo è uno pseudonimo, adottato da una coppia di giallista che già altro scrivevano. Sono Alexander e Alexandra Coelho Ahndoril, che hanno deciso di unire i loro sforzi letterari, rendendo, con questo nome un doppio omaggio. Infatti, Lars è un tributo al capostipite della nuova scrittura svedese in fatto di gialli, cioè Stieg Larsson. Mentre Kepler è un sentito omaggio a Johannes Kepler (nome corretto del tedesco Giovanni Keplero, matematico e astronomo), precursore dei tempi, con i suoi calcoli che portarono alla misurazione delle orbite dei pianeti.

Detto che tutti gli scrittori svedesi degli ultimi trent’anni sono stati etichettati come eredi (o epigoni) di Larsson, e sottolineate che la campagna pubblicitaria, all’epoca dell’uscita, ed in successive ondate, ne parla come uno dei capolavori del thriller moderno, direi invece che siamo abbondantemente sotto media.

Ho trovato faticoso seguire l’andamento temporale, dove bisogna stare attenti ad ogni nuovo capitolo a quanto sottolineato in corsivo inziale (mattina, sera, ecc.), con l’aggravante che, spesso, dopo due o tre capitoli in sequenza, si fa un salto indietro di tre giorni, perdendo un po’ il filo. Inoltre, ad un certo punto, in modo quasi anodino, si fa un salto indietro di dieci anni, lungo più di cento pagine, che spezza il non già veloce ritmo dello scritto. Poi c’è un profluvio di medicine ed altre “ospedalerie”, di cui si perde bellamente nomi e funzioni (un po’ di accuratezza in più non guastava). Abbiamo anche uno dei protagonisti, l’emofiliaco Benjamin, che dovrebbe morire se non fa una puntura a settimana, mentre passano 9 giorni prima di avere la nuova dose. Infine, un altro dei protagonisti, Josef, ad un certo punto esce di scena, dove era stato al centro per giorno e giorni, quasi in sordina, esaurendo un filone di trama che per quattrocento pagine sembrava (o era) il nucleo della trama. Insomma, scrittura poco attraente, e qualche sciatteria, portano la confezione verso il basso, anche se alcune idee della trama, nonché alcune giravolte sono gradevoli ed innovative.

Infine, la cosa che più mi ha sorpreso è che questo viene considerato il primo capitolo delle storie di Joona Linna, il poliziotto incaricato delle indagini. Che certo ha un suo ruolo, ma non centrale, a parte il fatto di ripetere, ad ogni piè sospinto: “avevo ragione io”.

L’elemento centrale del racconto dovrebbe essere Erik Maria Bark, l’ipnotista del titolo. Uno psichiatra che usa l’ipnosi su pazienti traumatizzati. Non sono un medico, ma mi sembra un po’ forzato. Nell’inserto sapremo che in una cura di gruppo, viene accusato (ingiustamente) di aver indotto ricordi falsi nella paziente Lydia, anche se tutta la terapia gira intorno ad una certa Eva Blau. Comunque, viene sospeso e giura di non usare più l’ipnosi.

Tuttavia, quando si trova di fronte ad un efferato delitto, con un unico superstite in coma, viene indotto ad usare i suoi metodi per salvare una ragazza in pericolo. Questo scatena una serie di grossi problemi in una situazione già complessa. Il comatoso rivela di essere stato lui a commettere il massacro. Ma non può essere incriminato che la confessione sotto ipnosi non è giuridicamente valida.

Joona, a valle dell’intervento di Erik, riesce a salvare la ragazza, ma il paziente fugge dall’ospedale.

Intanto Erik a casa ha una situazione complessa. Convive con la moglie Simone che però non gli perdona un tradimento di anni e anni prima. Inoltre, il loro figlio Benjamin è emofiliaco e deve fare punture settimanali per tenere sotto controllo la malattia. In tutto ciò, qualcuno rapisce Benjamin, e Simone intreccia una storia con uno scultore.

Chi ha rapito Ben? C’entra forse la sua ragazza, Aida, ex-naziskin tenebrosa? O è stato il comatoso per vendicarsi della confessione estorta? O la famigerata Eva Blau di dieci anni prima? O Lydia, quella che lo aveva fatto sospendere?

Andiamo avanti per pagine e pagine su questo dilemma, aiutati più che da Joona, da Kenneth, il padre di Simone ed ex-poliziotto. Che, mettendo sul piatto due più due, sembra trovare la quadra. Anche se ad un certo punto, viene investito e sembra sul punto di morte, ma dieci pagine dopo è pimpante sulla scena.

Tutti i possibili colpevoli vengono eliminati ad uno ad uno, sia dalla colpevolezza, sia fisicamente, che muoiono quasi tutti. Sarà Erik che incastrando brandelli vari, anche grazie a Kenneth, ha l’idea vincente. Che non riuscirà a concretizzarsi se non con l’aiuto fondamentale di Joona, e con l’intervento di Ben che, rocambolescamente, era riuscito a fuggire ai rapitori.

Insomma, quanta carne al fuoco. Che alla fine risulta un po’ bruciaticcia e mal digeribile. Ringrazio gli autori del libro, perché scrivere è sempre una fatica, un lavoro improbo, ma non sono convinto del modo di porre le problematiche sul tappeto.

Friedrich Dürrenmatt “Giustizia” Corriere Thriller Psicologici 6 euro 7,90

[A: 10/09/2018 – I: 13/12/2021 – T: 16/12/2021] - && +

[tit. or.: Justiz; ling. or.: tedesco; pagine: 233; anno 1985]

Sinceramente, mi aspettavo di più e di meglio da parte dell’esimio scrittore svizzero tedesco, autore di opere che sono rimaste nel mio immaginario come pietre miliari di uno scrivere sempre teso a smontare il luogo comune. Sempre portato a farci vedere l’immane fatica di essere uomini senzienti in un mondo che non capiamo e che, probabilmente, abbiamo contribuito a costruire in modo a essere inconoscibile.

Qui, purtroppo, pur nella limpidezza di un teorema scientifico, siamo ben lontani da caposaldi come “La visita della vecchia signora”, “La panne”, “Greco cerca greca” o “La morte della Pizia”. Per non parlare di quello che ritengo un capolavoro assoluto: “La promessa. Un requiem per il romanzo giallo”. Qui siamo ancora nel campo delle riflessioni sulle istituzioni umane, ma anche per il modo in cui l’autore è arrivato alla stesura del testo, c’è qualche ruggine di troppo.

La genesi del romanzo, infatti, è complessa: Dürrenmatt inizia a lavorarci nel 1957, ma ad un certo punto si blocca, altri lavori gli prendono la teta e la mano. Il romanzo rimane lì, a volte ripreso, spesso ignorato. Prova a completarlo nel 1980, senza riuscire a entrare mentalmente nella trama. Solo nel 1985 riprende i frammenti del discorso, e completa il romanzo, forse con un senso diverso da quello originario. Ma questo è quello che ora leggiamo, ed apprezziamo, capendone, data la sua genesi, alcuni salti, alcune apparenti mancanze.

Il romanzo è scritto sotto due diverse prospettive soggettive. Nelle prime due sezioni parla l'avvocato Felix Spät che ci narra del caso più assurdo della sua carriera, che lo ha rovinato e condotto quasi fuori di testa. Nella terza sezione, che si svolge anni ed anni dopo, uno scrittore riceve le memorie di Spät, e per completarle effettua ricerche e finalmente chiarisce il caso al lettore.

Nella prima parte Spät ci narra i fatti. Il consigliere cantonale zurighese Isaak Kohler entra nel ristorante “Du  Theâtre”, saluta il professor Winter, quindi gli spara alla testa. Esce indisturbato dal ristorante, accompagna un ministro inglese all’aeroporto, dove viene arrestato. Non sembra esserci dubbi sull’accaduto, e benché con solo prove indiziarie e molte mancanti, Kohler viene condannato a 20 anni di carcere. Kohler accetta serenamente il carcere, dove si fa ben volere. E da lì chiama il giovane avvocato Spät e lo incarica di riesaminare il caso partendo dall’assunto che sia stato un altro a sparare. Spät è povero in canna, e accetta.

Nella seconda vediamo la discesa all’inferno dell’avvocato. Spät si muove abilmente, all’inizio. Incarica un detective di trovare prove. Lui imbastisce una memoria difensiva basandosi sull’insostenibilità legale del verdetto: nessuna arma del delitto trovata, nessuna  confessione palese, nessun movente, nessuna chiara registrazione delle testimonianze dei presenti al fatto. Si riapre il processo, e Kohler viene assolto, anche se Spät, per motivi di coscienza, rifiuta di patrocinarlo in aula. Da quel momento assistiamo alla discesa verso l’abisso di Spät, che sa di aver fatto assolvere un assassino anche se non ne ha le prove. Altri avvenimenti si succedono intorno: Benno, un ex-campione svizzero di tiro alla pistola, anche lui presente al ristorante, ed anche lui amico di Winter, si sucida. Una donna dai rapporti ambigui, amante di Benno ma anche della figlia di Kohler, muore. Spät capisce che la pistola sparì nella tasca del ministro inglese, che non venne mai perquisito all’aeroporto. Tormentato dai rimorsi, Spät decide che l’unico modo di ripristinare la giustizia è uccidere Kohler e suicidarsi.

La terza ci porta alla soluzione. Anni dopo, uno scrittore prende in mano il manoscritto di Spät, e indagando scopre che l'omicidio e il suicidio erano falliti, che Spät si ritira tra i monti e morirà alcolizzato. E sarà lo scrittore che arriverà a completare il quadro: il consigliere cantonale Kohler ha messo in scena un omicidio che era solo un pezzo del puzzle in una complessa e ben congegnata campagna di vendetta personale sfruttando abilmente le debolezze umane e i limiti del moderno apparato giudiziario. Quale sia il motivo della vendetta lascio ai volenterosi lettori di trovarlo.

Quindi siamo di fronte ad un’amara riflessione sul senso e sull’applicazione della giustizia. Perché, come fa notare Dürrenmatt, non è data giustizia umana se il mondo è governato dal caso. La mancanza, l’assenza di una possibile giustizia diventa al fine un elemento costitutivo del vivere degli uomini, non più un accidente della vita. Considerazioni che concluderei con una fondante domanda, a valle dei rapporti di Kohler con Spät e con gli altri burattini del testo: chi è il colpevole, chi dà l’incarico o chi lo accetta?

E. O. Chirovici “Il libro degli specchi” Corriere Thriller Psicologici 17 euro 7,90

[A: 19/11/2018 – I: 11/03/2022 – T: 13/03/2022] &&& --

[titolo: The Book of Mirrors; lingua: inglese; pagine: 268; anno: 2017]

In realtà il suo nome completo è Eugen Ovidiu Chirovici, ed è rumeno. Per una serie di motivi poi emigrato in Occidente, e questo è il primo libro scritto direttamente non nella lingua natia. Da cui, anche, la decisione di nascondere quei nomi propri un po’ troppo riconoscibili.

Uomo dalla vita interessante e poliedrica, Chirovici, all’improvviso a 48 anni, decide di lasciare la Romania, e di trasferirsi in Inghilterra, per seguire la sua passione per la scrittura. Impiegherà cinque anni per farsi conoscere con questo libro, e cominciare una carriera di discreta successo. Dove, casi della vita, dall’inizio della pandemia si stabilisce a Firenze.

Questo libro, che lo ha lanciato sul mercato, pur non eccelso, è di certo intrigante, ben congeniato. Ho faticato un po’ a collocarlo nel filone della sua uscita, tra i thriller psicologici, che, giustamente, è anche un thriller a pieno titolo. Ragionandoci sopra a libro chiuso, però, mi accorgo che il punto centrale non era “chi ha ucciso”, ma “perché”, e soprattutto è un romanzo sull’inattendibilità dei ricordi. Mi ha fatto al solito venire in mente “Il senso della fine” di Barnes, ma questa sarebbe tutta un’altra storia.

Intanto, Chirovici utilizza un buon impianto di scrittura, utilizzando tre voci, nelle tre parti del libro, portano avanti la storia. Ognuno diverso, ma conseguenti di modo che alla fine, il quadro risulta ben disegnato, e ben si segue nell’accidentato percorso della storia.

Il primo che incontriamo è Peter Katz, agente letterario alla ricerca di nuovi autori. Si trova nella posta uno strano manoscritto, dotato di una scrittura affascinante. Scritto da tal Richard Flynn, che narra di un famoso omicidio avvenuto trent’anni prima, e di cui, ora, lui svelerà la verità. Il manoscritto narra la storia di Richard, del suo amore per Laura e dei loro rapporti con il professor Wieder e con il suo tuttofare Derek. Manoscritto che però si interrompe, volutamente poco prima di rivelare chi ha ucciso, poco prima del Natale del 1987, il professor Wieder. Katz si mette alla ricerca di Richard, ma scopre che è morto da poco di tumore e nessuno conosce l’esistenza dello scritto.

Katz allora affida al giornalista John Keller di ricostruire la verità. Keller, abile cronista, racconta la sua ricerca in prima persona nella seconda parte. Scopre così che Wieder stava lavorando ad una rivoluzionaria ricerca sulla memoria, che però non venne mai pubblicata. Trova tutti i protagonisti della vicenda: Laura, che cambiato il cognome ora è lei stessa docente di psicologia; Derek, accusato a suo tempo di aver ucciso la moglie, finito in manicomio, e preso in cura da Wieder; Sarah, l’amica di Laura che gli fornì un alibi per la sera dell’omicidio; Roy Freeman, il detective in pensione che si occupò del caso. E qui gli specchi si deformano: Richard e Laura era solo amici, Richard era ossessionato dalla scrittura, il manoscritto di Wieder sparito.

Keller non riesce però a concludere, ma ha risvegliato l’interesse di Roy. Che riprende in mano il caso, e nell’ultima parte ci narra la sua ricerca finale. Smonta gli alibi di tutti, che Richard, Laura e Derek erano tutti presenti a casa Wieder la sera della morte. C’è anche una confessione estemporanea, che permette a Roy di chiudere finalmente il caso.

L’intrigante bellezza dello scritto, anche se non eccelso, è nel presentare le tre parti come incastrate in un gioco di specchi. Dove ognuno dice la sua verità, ritenendola assoluta, ma che alla fine non è altro che un gioco della memoria, in cui ricordi veri e falsi si mescolano a desideri di realtà.

Esemplare, per capire il romanzo, è il racconto della genesi interiore dell’autore che lui ci narra in post-fazione. L’idea gli venne parlando con la madre di un suo ricordo d’infanzia: il funerale di un giovane calciatore, di cui ricordava la bara con il pallone dentro. Ma la madre gli dimostra che lui era troppo piccolo all’epoca e quel ricordo non poteva essere suo, ma forse di qualcuno che glielo aveva narrato. Con tanta realtà che il racconto, da esterno, era diventato parte dei ricordi personali dello scrittore.

La memoria è un luogo affascinante, e tutti sappiamo quanto possa essere di una limpidezza cristallina, ma anche quanto possa diventare uno stagno torbido. Noi speriamo, con l’autore ed i suoi personaggi migliori, di poterla conservare sino alla fine. Che la lezione che traiamo, anche, da questo libro è che nulla è come sembra, tutto è da scoprire, forse dobbiamo anche scoprire chi siamo.

Quarte trama del mese, quindi riposano allegati ed altro, ed emerge dalla memoria una frase di un premio Nobel a me caro, l’egiziano Nagib Mahfuz che nel suo “Karnak Café” ci esortava al seguente pensiero: “è sempre inutile parlare delle storie d’amore con le persone direttamente interessate”. (31)

Scrivo queste righe al ritorno di un veloce ed interessante fine settimana parmense, per una visita al labirinto di Franco Maria Ricci in onore di Borges, ed alla bella mostra sull’aeropittura futurista. Nonché cullando il pensiero alla “palindromia corta” di oggi ed alla ripetitività numerica della trama. Ricordo infatti che, in notazione corta, oggi sarebbe il 22/5/22. E questa trama, come vedete dal titolo, è numerata come “2022 20”.

Se volete parliamo di numeri, altrimenti continuo, come immaginate, a lavorare alla programmazione estiva, con molti e quasi insormontabili problemi sugli alloggi islandesi. Finisco con un grande abbraccio per gli altri compleanni appena passati.